ANTROPOLOGIA della VIOLENZA
Recensione di Paolo Fortugno su immagine

Il tema della violenza di massa - dalle forme sistematiche di utilizzo del terrore, alle pratiche di pulizia etnica, connesse con l'esercizio del potere e le politiche di demarcazione identitarie - sembra essere diventato uno degli oggetti privilegiati della ricerca antropologica, non solo perché guerre, genocidi e violenze sono ancora drammaticamente all'ordine del giorno, ma anche perché questo spazio si offre più di ogni altro come il terreno ideale su cui misurare, verificare e mettere in discussione le categorie, gli impianti teorici ed epistemologici della disciplina.

Il confronto etnografico con una realtà così emotivamente toccante, fatta di ricordi insopportabili e laceranti, di lutti e memorie ferite, si fa denso d'implicazioni etiche, di prese di posizione e di forme di compartecipazione emotiva, e pone all'antropologo, in modo più pressante che altrove, interrogativi circa quale sia il ruolo della disciplina di fronte a questi drammi dell'esistenza, quali siano le più corrette modalità di relazione da utilizzare con gli informatori, e quali le retoriche della rappresentazione da adottare nella scrittura etnografica.

È possibile separare l'oggettivazione distanziante, come richiede un corretto approccio scientifico, da un impegno pratico e solidale, di carattere etico, che rispetti e difenda la condizione di chi ha subito una forma di violenza? Gli studiosi nei diversi saggi del libro, danno risposte diversificate, ma tutti sono impegnati - ricorda Fabio Dei - in una costante "ricerca di forme di scrittura adeguate a restituire la particolare tensione fra aspetti epistemologici, emozionali ed etici della propria esperienza di ricerca".

Nell'opinione pubblica occidentale e nell'informazione mediatica è diffuso il luogo comune che associa le pratiche della violenza a forme d'ignoranza e arretratezza, e a tutte quelle realtà emarginate dalle correnti principali del progresso.

Così come prevale la convinzione che la maggior parte dei conflitti contemporanei nascano sulla base di ataviche contrapposizioni razziali ed etniche, su primordialistiche opposizioni identitarie.

Gli autori dei saggi raccolti nel testo dimostrano invece che i prodromi degli scontri si situano proprio nelle politiche moderne che utilizzano l'appartenenza etnica e le differenze culturali come strumenti ideologici per giustificare pratiche aggressive e violente, volte ad acquisire o a mantenere privilegi, potere e controllo delle risorse.

Il volume, curato da Fabio Dei, con un'ampia e approfondita introduzione critica, raccoglie gli interventi di alcuni autorevoli specialisti nell'attuale dibattito relativo al rapporto tra violenza, politiche identitarie e costruzioni culturali, e offre una convincente e sfaccettata lettura delle problematiche connesse alle pratiche del terrore, affrontando il tema da differenti punti di vista teorici ed etnografici.

Michael Taussing si è occupato dell' uso della tortura e di come
possa nascere e divenire credibile una cultura del terrore, una cultura dove domina "l'atmosfera irreale dell'ordinario, l'ordinarietà dello straordinario", trattando criticamente il caso delle atroci violenze compiute all'inizio del Novecento, nel Putumayo, una zona al confine tra
Perù e Colombia, da parte dei dipendenti di una compagnia della raccolta della gomma, ai danni della popolazione indigena.

Il concetto moderno di crudeltà, a partire dalla definizione che ne dà l'articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti umani con riferimento all'uso della tortura, è il tema del contributo di Talal Asad,
che ha sottolineato "la natura instabile di una categoria centrale della moderna società occidentale".

Condannato nel linguaggio universalizzante del diritto, l'uso della violenza, viene tollerato in guerra, in alcune attività sportive e nell'ambito delle pratiche sadomasochistiche.

Attento a evidenziare le contraddizioni di significato nella nozione di dolore all'interno della cultura contemporanea, la sua ricerca si svolge tuttavia su
un astratto e intellettualistico piano teorico, finendo così - dice Dei -
"per perdere di vista il tema della tortura come strumento di potere che
(...) si esercita per mezzo della violenza e del terrore".

John R. Bowen ha focalizzato l'attenzione sui casi di pulizia etnica e
sui genocidi perpetrati in Ruanda e nella regione della ex Jugoslavia, descritti come il risultato di politiche nazionaliste imposte dall'alto.

Anche Robert M. Hayden ha visto nelle violenze compiute nei Balcani durante gli anni novanta uno scontro fra culture reificate, "immaginate"
sulla base di modelli ideologici e prescrittivi e una "cultura vivente",
formata da comunità storicamente esistenti.

Entrambi gli autori sottolineano a ragione il ruolo chiave delle politiche di propaganda nazionalista nella nascita dei conflitti.
Ma non tutte le ideologie identitarie conducono necessariamente a scontri etnici. Occorre chiedersi dove e perché queste ideologie possono trovare consensi tali da trasformare repentinamente le normali relazioni di convivenza del tempo di pace nel segno opposto, nella distruzione di un ordine sociale attraverso operazioni di violenza radicale.

In altre parole, occorre cercare di capire in che modo si costruisce, si consolida e agisce - in una collettività e nelle scelte dei singoli - il sentimento di appartenenza e di esclusione etnica.

In questa direzione si muovono i contributi di Veena Das e
Nancy Scheper-Hughes, a mio parere, i più interessanti del volume.

La prima ha indirizzato la sua ricerca sul versante della valorizzazione del racconto etnografico, inteso come il luogo dove poter cogliere il lavoro di riadattamento culturale che un soggetto colpito da violenze deve compiere per poter "abitare di nuovo il mondo". Analizzando la testimonianza di vita di una donna indiana, l'autrice ci mostra come fatti pubblici traumatici, in questo caso la spartizione dell'India del 1947, incidano sulle soggettività colpite e di come possano modificare profondamente l'assetto delle relazioni quotidiane e familiari.

Nancy Scheper-Hughes, fornendo una serie di esempi, mostra come l'antropologia in passato abbia avallato, con il suo silenzio, situazioni di sterminio di massa.
Oggi - sostiene la studiosa - non ci si può sottrarre da una ferma presa di posizione politica e militante di fronte alle pratiche di violenza sistematica e occorre schierarsi "apertamente dalla parte delle vittime e dei sopravvissuti". Si concentra poi sulla genesi delle stragi di massa, introducendo la nozione di "continuum" genocida, indicando nei casi
di violenza commessi nello spazio del quotidiano in tempo di pace - varie forme d'indifferenza e di emarginazione a cui sono sottoposte alcune categorie di persone - uno degli elementi che rendono possibili i crimini
di guerra.

Ma, nonostante il mondo contemporaneo raccolga in nuce tutte le condizioni potenziali per l'innesco della violenza di massa, questo stesso mondo - dice ancora Dei - "pone al contempo le basi per pratiche sociali completamente diverse, guidate ad esempio dalla pace, dal rispetto e dal riconoscimento dell'altro. Le stesse istituzioni di cui si denuncia la complicità nel trasmettere
i sentimenti sociali che preparano gli stermini (...) contengono anche le potenzialità della pace e della giustizia sociale. In quale direzione esse vengano spinte è un problema che riguarda la nostra responsabilità e le nostre scelte etico-politiche".
(Paolo Fortugno)