INTERVISTA all’ autore FABIO DEI * :
Testo estratto da un’intervista pubblicata nel 2005, su un Giornale Studentesco della Sapienza
( giovedì 08 dicembre 2005 in rete su www.icorvi.net )

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il Prof. Fabio Dei, docente di antropologia a Pisa, fino al 2004 ha insegnato alla Sapienza per il corso di laurea in Antropologia, avendo tra i suoi molti campi d’indagine l’antropologia della violenza.
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Email: fabiodei@interfree.it )
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D. : - Parlando del libro “Antropologia della violenza” da lei curato, trattandosi di un argomento di schiacciante attualità e che nel Novecento è parso prendere sempre maggior importanza, come vede lei la lettura di questo libro da parte di studenti, o persone in generale, che non si occupano necessariamente di antropologia ? Ritiene che opere come questa possano o vadano pensate per uscire dall’ambito accademico? Il Suo libro, com’è stato pensato?

R. :
- Il libro è stato pensato prevalentemente come un libro di antropologia, con aspetti “specialistici”, cioè rivolti al dibattito interno alle discipline che in Italia si chiamano DEA (demo-etno-antropologiche).
In particolare, è la prima presentazione ai lettori italiani di una tematica che ha invece avuto ampio spazio nel dibattito internazionale degli ultimi 10-15 anni.
Ciò non significa che le tematiche affrontate siano settoriali e specialistiche, e che i contributi del libro non siano accessibili al di fuori della disciplina. In fondo, il grande problema che viene affrontato è quello della natura della violenza di massa che ha insanguinato il Novecento e che continua a caratterizzare i nostri giorni – un problema che evidentemente non è specialistico e che anzi non può essere eluso da nessuno. Passando a un altro aspetto della sua domanda, ritengo che in effetti l’antropologia (come del resto altre discipline accademiche) faccia troppo poco per uscire da un suo guscio e proporsi come interlocutrice di un più ampio dibattito politico-culturale.
Se è possibile, come io credo, un “uso pubblico” dell’antropologia, gli antropologi devono allora imparare a scrivere per un pubblico meno settoriale, a intervenire di più sui media, insomma a far sentire la propria voce. E di cose da dire ne avrebbero, in un mondo che è dibattuto dalle questioni della differenza culturale e da scontri che si autodefiniscono come etnici o religiosi.

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D.: - Il termine “violenza” cosa evoca nella sua mente in quanto antropologo, ed in quanto persona?
Pensa si possa dare una definizione antropologica della violenza?
E questo tipo di definizione in cosa si distinguerebbe dalle altre?

R.: - Non credo si possa dare una “definizione” della violenza.
Quando ci troviamo di fronte alla violenza, noi la riconosciamo subito, senza bisogno di definizioni.
La peculiarità di un approccio antropologico consiste nel tentativo di capirne alcuni aspetti.
Ad esempio, per noi la violenza non è mai esplosione di cieco furore, o espressione di “istinti bestiali”,
come vorrebbe un certo senso comune: invece, è sempre un fenomeno culturale, che segue codici e regole precisi.
Occorre arrivare a considerare anche i più efferati assassini, dalle SS naziste ai ragazzi che gettano pietre sulle autostrade, come agenti culturali, che agiscono secondo norme socialmente costituite.
Nei massacri come nelle piccole sopraffazioni quotidiane si manifesta spesso una “qualità rituale” dei comportamenti violenti che occorre mettere in luce – non per giustificarli, ovviamente, ma per capirne la natura e le radici.
Dall’altra parte, un’antropologia della violenza cerca di comprendere l’esperienza estrema delle vittime. Nelle guerre contemporanee, ad esempio, le vittime sono quasi sempre civili, comunità e persone il cui mondo culturale viene sconvolto e sovvertito, e che si trovano a dover affrontare terribili memorie traumatiche e una vera e propria ricostruzione del loro mondo.

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D.: - Dal suo punto di vista, il mondo e la società in cui noi viviamo, che sguardo pone sul tema della violenza?
- Le molte voci presenti nel testo riconoscono l’esistenza di molte forme di violenza ma alcuni concetti dell’antropologia non sono così immediati. Cosa intendiamo quando parliamo di “violenza simbolica” ?

R.: - Per violenza simbolica si intende di solito una violenza che non passa attraverso la diretta coercizione fisica, ma attraverso l’imposizione di un ruolo o di uno stigma sociale, o la chiusura in forme di relazione nelle quali viene meno la dignità, il rispetto, l’autonomia individuale.
Molti studiosi hanno analizzato in questi termini, ad esempio, la violenza sulle donne, oppure quella
sugli anziani, o le forme di esclusione razzista.
Non si tratta affatto di una violenza puramente psicologica.
Una delle grandi scoperte delle scienze sociali contemporanee è proprio l’ “incorporazione”, il processo tramite il quale le relazioni simboliche producono effetti diretti sul corpo dei soggetti sociali.
Uno dei principali problemi che viene posto nel libro è il rapporto tra le forme della violenza simbolica, ad esempio le “piccole” e quasi invisibili prevaricazioni e stigmatizzazioni che caratterizzano la vita quotidiana, e le grandi e spettacolari violenze di massa.
Si tratta di fenomeni diversi o c’è, come molti sostengono, una fondamentale continuità nella natura di queste forme di violenza?

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D.: - Riguardo alla posizione dell’antropologia , nel testo lei parla di aggiungere cultura” a “storia” come “programma dell’antropologia contemporanea, che non solo attribuisce significati alla violenza, ma cerca di comprenderla come costitutiva di una teoria della società e della cultura” .
Cosa intende esattamente?

R.: - Come ho detto, non possiamo pensare alla violenza come un fenomeno pre-sociale – ciò che resterebbe, diciamo, quando vengono meno la società e la cultura.
Soprattutto, non possiamo pensarla come qualcosa di “arcaico”, in contrapposizione alla modernità.
Se il Novecento è stato “il secolo delle tenebre”, per la quantità e la qualità delle violenze di massa,
lo è stato proprio in relazione alle sue caratteristiche moderne.
In questo senso, come ad esempio ha mostrato Hannah Arendt, comprendere la violenza fa tutt’uno
con il tentativo di comprendere la società contemporanea, la natura del potere al suo interno.
Anche qui, la specificità dell’approccio antropologico consiste nel cercare di cogliere questi nessi non attraverso una grande teoria socio-politica, ma all’interno di concreti microcontesti locali.
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D.: - Lei prende una posizione chiara nel suo saggio sostenendo che debba permanere una costante tensione tra “comprensione critica, partecipazione morale e impegno politico” nella persona dell’antropologo, che non dovrebbe mai dimenticare il rigore scientifico trasformandosi in puro attivista politico.
Come convivono questi due aspetti nella persona di Fabio Dei?
Ci sono situazioni in cui avverte più forte questa bipolarità, in cui magari ha sentito la necessità di dare
più spazio all’attivista che è in Lei? Insomma, l’equilibrio non è sempre perfetto!

R.: - Certo, l’equilibrio non è mai perfetto.
Anzi, tra un ideale di conoscenza distaccata e neutrale e uno di partecipazione parziale e “militante” resta sempre una ineliminabile tensione.
Io sostengo che questa tensione non va eliminata, va anzi coltivata e preservata.
La conoscenza distaccata non è mai possibile (quella che pretende di esserlo nasconde di solito una parzialità ben più pericolosa); di fronte a certe forme di ingiustizia e di violenza non prendere parte, cioè non schierarsi, può equivalere a complicità (pensi alla grande questione degli “spettatori” che ha caratterizzato i maggiori genocidi del Novecento, dalla Shoah al Ruanda; e troppo spesso gli antropologi sono stati spettatori).
I colleghi che si sono trovati a fare ricerca sul campo in contesti di guerra hanno sentito con forza questo drammatico dilemma.
Personalmente, avendo lavorato sulle memorie delle seconda guerra mondiale, ho potuto permettermi un po’ di “distacco” in più: ma ho nondimeno percepito con forza il problema del “rendere giustizia”, la richiesta di un riconoscimento morale che ancora oggi quelle memorie esprimono.
Il problema è che per diventare puri militanti bisogna avere una fede assoluta nella “giusta causa”, e io non sono sempre sicuro di riconoscerla.
E se anche non ci fosse alcun dubbio su chi sono i buoni e chi i cattivi della storia drammatica che stiamo vivendo, si può forse esser più utili alla giusta causa restando antropologi (o studiosi, non so, o poeti) che non trasformandoci in attivisti tout court.
O almeno, siamo forse abbastanza fortunati da vivere in una nicchia che ci consente ancora di fare questa distinzione.
In molti momenti del nostro passato questo non è stato possibile; in futuro, chissà.


( Intervista
A cura di Giada G. – www.icorvi.net )



Fabio
Dei
attività di ricerca, articoli, saggi, studi
( Università di Pisa )