[1]
Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt
Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae,
nostra Galli appellantur. Hi omnes lingua, institutis, legibus
inter se differunt. Gallos ab Aquitanis Garumna flumen, a Belgis
Matrona et Sequana dividit. Horum omnium fortissimi sunt Belgae,
propterea quod a cultu atque humanitate provinciae longissime
absunt, minimeque ad eos mercatores saepe commeant atque ea quae
ad effeminandos animos pertinent important, proximique sunt
Germanis, qui trans Rhenum incolunt, quibuscum continenter
bellum gerunt. Qua de causa Helvetii quoque reliquos Gallos
virtute praecedunt, quod fere cotidianis proeliis cum Germanis
contendunt, cum aut suis finibus eos prohibent aut ipsi in eorum
finibus bellum gerunt. Eorum una, pars, quam Gallos obtinere
dictum est, initium capit a flumine Rhodano, continetur Garumna
flumine, Oceano, finibus Belgarum, attingit etiam ab Sequanis et
Helvetiis flumen Rhenum, vergit ad septentriones. Belgae ab
extremis Galliae finibus oriuntur, pertinent ad inferiorem
partem fluminis Rheni, spectant in septentrionem et orientem
solem. Aquitania a Garumna flumine ad Pyrenaeos montes et eam
partem Oceani quae est ad Hispaniam pertinet; spectat inter
occasum solis et septentriones. |
-
DESCRIZIONE DELLA GALLIA -
La Gallia è, nel suo complesso, divisa in tre parti: la prima
la abitano i Belgi, l'altra gli Aquitani, la terza
quelli che nella loro lingua prendono il nome di Celti,
nella nostra, di Galli.
I tre popoli differiscono tra loro per lingua, istituzioni e
leggi. Il fiume Garonna divide i Galli dagli Aquitani, la
Marna e la Senna li separano dai Belgi. Tra i vari
popoli i più forti sono i Belgi, ed eccone i motivi:
sono lontanissimi dalla finezza e dalla civiltà della nostra
provincia; i mercanti, con i quali hanno scarsissimi contatti,
portano ben pochi fra i prodotti che tendono a indebolire gli
animi; confinano con i Germani d'oltre Reno e con essi
sono continuamente in guerra. Anche gli Elvezi superano
in valore gli altri Galli per la stessa ragione: combattono con
i Germani quasi ogni giorno, o per tenerli lontani dai propri
territori o per attaccarli nei loro.
La parte in cui, come si è detto, risiedono i Galli,
inizia dal Rodano, è delimitata dalla Garonna, dall'Oceano, dai
territori dei Belgi, raggiunge anche il Reno dalla parte dei Sequani
e degli Elvezi, è volta a settentrione. La parte dei
Belgi inizia dalle più lontane regioni della Gallia, si
estende fino al corso inferiore del Reno, guarda a settentrione
e a oriente. L'Aquitania, invece, va dalla Garonna fino
ai Pirenei e alla parte dell'Oceano che bagna la Spagna, è
volta a occidente e a settentrione. |
[2]
Apud Helvetios longe nobilissimus fuit et ditissimus Orgetorix.
Is M. Messala, [et P.] M. Pisone consulibus regni cupiditate
inductus coniurationem nobilitatis fecit et civitati persuasit
ut de finibus suis cum omnibus copiis exirent: perfacile esse,
cum virtute omnibus praestarent, totius Galliae imperio potiri.
Id hoc facilius iis persuasit, quod undique loci natura Helvetii
continentur: una ex parte flumine Rheno latissimo atque
altissimo, qui agrum Helvetium a Germanis dividit; altera ex
parte monte Iura altissimo, qui est inter Sequanos et Helvetios;
tertia lacu Lemanno et flumine Rhodano, qui provinciam nostram
ab Helvetiis dividit. His rebus fiebat ut et minus late
vagarentur et minus facile finitimis bellum inferre possent; qua
ex parte homines bellandi cupidi magno dolore adficiebantur. Pro
multitudine autem hominum et pro gloria belli atque fortitudinis
angustos se fines habere arbitrabantur, qui in longitudinem
milia passuum CCXL, in latitudinem CLXXX patebant. |
-
GLI ELVEZI VOGLIONO CONQUISTARE TUTTA LA GALLIA-
Tra gli Elvezi il più nobile e il più ricco in assoluto
fu Orgetorige. Costui, al tempo del consolato di M.
Messala e M. Pisone, mosso dal desiderio di regnare, spinse i
nobili a fare lega e convinse il popolo a emigrare in massa:
sosteneva che avrebbero potuto impadronirsi dell'intera Gallia
con estrema facilità, poiché erano più forti di tutti. Li
persuase più facilmente perché, da ogni parte, gli Elvezi sono
protetti dalla conformazione naturale della regione: da un
lato sono chiusi dal Reno, fiume assai largo e
profondo, che divide le loro terre dai Germani; dall'altro incombe
su di essi il Giura, un monte altissimo, al confine tra
Elvezi e Sequani; dal terzo lato sono chiusi dal lago
Lemano e dal Rodano, che li separa dalla nostra
provincia. Ne conseguiva che potevano compiere solo brevi
spostamenti e attaccare i popoli limitrofi con maggiore
difficoltà. Sotto questo aspetto gli Elvezi, gente con la
voglia di combattere, erano profondamente scontenti. Inoltre, in
rapporto al loro numero e alla gloria della loro potenza
militare, ritenevano di possedere territori troppo piccoli, che
si estendevano per 240 miglia in lunghezza e 180 in larghezza. |
[3]
His rebus adducti et auctoritate Orgetorigis permoti
constituerunt ea quae ad proficiscendum pertinerent comparare,
iumentorum et carrorum quam maximum numerum coemere, sementes
quam maximas facere, ut in itinere copia frumenti suppeteret,
cum proximis civitatibus pacem et amicitiam confirmare. Ad eas
res conficiendas biennium sibi satis esse duxerunt; in tertium
annum profectionem lege confirmant. Ad eas res conficiendas
Orgetorix deligitur. Is sibi legationem ad civitates suscipit.
In eo itinere persuadet Castico, Catamantaloedis filio, Sequano,
cuius pater regnum in Sequanis multos annos obtinuerat et a
senatu populi Romani amicus appellatus erat, ut regnum in
civitate sua occuparet, quod pater ante habuerit; itemque
Dumnorigi Haeduo, fratri Diviciaci, qui eo tempore principatum
in civitate obtinebat ac maxime plebi acceptus erat, ut idem
conaretur persuadet eique filiam suam in matrimonium dat.
Perfacile factu esse illis probat conata perficere, propterea
quod ipse suae civitatis imperium obtenturus esset: non esse
dubium quin totius Galliae plurimum Helvetii possent; se suis
copiis suoque exercitu illis regna conciliaturum confirmat. Hac
oratione adducti inter se fidem et ius iurandum dant et regno
occupato per tres potentissimos ac firmissimos populos totius
Galliae sese potiri posse sperant. |
-
ELVEZI, EDUI E SEQUANI SI ALLEANO IN SEGRETO -
Spinti da tali motivi e indotti dal prestigio di Orgetorige, gli
Elvezi decisero di preparare ciò che serviva per la
partenza: comprarono quanti più cavalli e carri fosse
possibile, seminarono tutto il grano che gli riuscì di
seminare, per averne a sufficienza durante il viaggio,
rafforzarono i rapporti di pace e di amicizia con i popoli più
vicini. Ritennero che due anni fossero sufficienti per portare a
termine i preparativi: con una legge fissarono la partenza al
terzo anno. Per eseguire tali operazioni viene scelto Orgetorige,
che si assume il compito di recarsi in ambasceria presso gli
altri popoli. Durante la sua missione, il sequano Castico,
figlio di Catamantalede, che era stato per molti anni signore
dei Sequani e aveva ricevuto dal senato del popolo romano
il titolo di amico, venne persuaso da Orgetorige a impadronirsi
del regno che in precedenza era stato del padre. Allo stesso
modo Orgetorige convince ad analoga azione l'eduo Dumnorige,
al quale dà in sposa sua figlia. Dumnorige era fratello di Diviziaco,
a quel tempo principe degli Edui e amatissimo dal suo
popolo. Orgetorige dimostra a Castico e a Dumnorige che è assai
facile portare a compimento l'impresa, perché egli stesso sta
per prendere il potere: gli Elvezi, senza dubbio, erano i più
forti tra tutti i Galli. Assicura che con le sue truppe e con il
suo esercito avrebbe procurato loro il regno. Spinti dalle sue
parole, si scambiano giuramenti di fedeltà, sperando, una volta
ottenuti i rispettivi domini, di potersi impadronire di tutta la
Gallia mediante i tre popoli più potenti e più forti. |
[4]
Ea res est Helvetiis per indicium enuntiata. Moribus suis
Orgetoricem ex vinculis causam dicere coegerunt; damnatum poenam
sequi oportebat, ut igni cremaretur. Die constituta causae
dictionis Orgetorix ad iudicium omnem suam familiam, ad hominum
milia decem, undique coegit, et omnes clientes obaeratosque suos,
quorum magnum numerum habebat, eodem conduxit; per eos ne causam
diceret se eripuit. Cum civitas ob eam rem incitata armis ius
suum exequi conaretur multitudinemque hominum ex agris
magistratus cogerent, Orgetorix mortuus est; neque abest
suspicio, ut Helvetii arbitrantur, quin ipse sibi mortem
consciverit. |
-
IL PROGETTO DI ORGETORIGE VIENE SCOPERTO -
Un delatore svelò l'accordo agli Elvezi. Secondo la loro
usanza, essi costrinsero Orgetorige a discolparsi
incatenato: se lo avessero condannato, la pena comportava il
rogo. Nel giorno stabilito per il processo, Orgetorige fece
venire da ogni parte tutti i suoi familiari e servi, circa
diecimila persone, nonché tutti i suoi clienti e debitori, che
erano molto numerosi. Grazie a essi riuscì a sottrarsi
all'interrogatorio. Mentre il popolo, adirato per l'accaduto,
cercava di far valere con le armi il proprio diritto e i
magistrati radunavano dalle campagne una grande moltitudine di
uomini, Orgetorige morì. Non mancò il sospetto, secondo
l'opinione degli Elvezi, che si fosse suicidato. |
[5]
Post eius mortem nihilo minus Helvetii id quod constituerant
facere conantur, ut e finibus suis exeant. Ubi iam se ad eam rem
paratos esse arbitrati sunt, oppida sua omnia, numero ad
duodecim, vicos ad quadringentos, reliqua privata aedificia
incendunt; frumentum omne, praeter quod secum portaturi erant,
comburunt, ut domum reditionis spe sublata paratiores ad omnia
pericula subeunda essent; trium mensum molita cibaria sibi
quemque domo efferre iubent. Persuadent Rauracis et Tulingis et
Latobrigis finitimis, uti eodem usi consilio oppidis suis
vicisque exustis una cum iis proficiscantur, Boiosque, qui trans
Rhenum incoluerant et in agrum Noricum transierant Noreiamque
oppugnabant, receptos ad se socios sibi adsciscunt. |
-
IL PROGETTO PROSEGUE: I NUOVI ALLEATI -
Dopo la morte di Orgetorige, gli Elvezi cercano
ugualmente di attuare il progetto di abbandonare il loro
territorio. Quando ritengono di essere ormai pronti per la
partenza, incendiano tutte le loro città, una dozzina, i loro
villaggi, circa 400, e le singole case private che ancora
restavano; danno fuoco a tutto il grano, a eccezione delle
scorte che dovevano portare con sé, per essere più pronti ad
affrontare tutti i pericoli, una volta privati della speranza di
tornare in patria; ordinano che ciascuno porti da casa farina
per tre mesi. Persuadono i Rauraci, i Tulingi e i Latobici,
con i quali confinavano, a seguire la loro decisione, a
incendiare le città e i villaggi e a partire con loro.
Accolgono e si aggregano come alleati i Boi, che si erano
stabiliti al di là del Reno, erano passati nel Norico e avevano
assediato Noreia. |
[6]
Erant omnino itinera duo, quibus itineribus domo exire possent:
unum per Sequanos, angustum et difficile, inter montem Iuram et
flumen Rhodanum, vix qua singuli carri ducerentur, mons autem
altissimus impendebat, ut facile perpauci prohibere possent;
alterum per provinciam nostram, multo facilius atque expeditius,
propterea quod inter fines Helvetiorum et Allobrogum, qui nuper
pacati erant, Rhodanus fluit isque non nullis locis vado
transitur. Extremum oppidum Allobrogum est proximumque
Helvetiorum finibus Genava. Ex eo oppido pons ad Helvetios
pertinet. Allobrogibus sese vel persuasuros, quod nondum bono
animo in populum Romanum viderentur, existimabant vel vi
coacturos ut per suos fines eos ire paterentur. Omnibus rebus ad
profectionem comparatis diem dicunt, qua die ad ripam Rhodani
omnes conveniant. Is dies erat a. d. V. Kal. Apr. L. Pisone, A.
Gabinio consulibus. |
-
IL PIANO DEGLI ELVEZI DI PASSARE NELLA PROVINCIA ROMANA -
Le strade, attraverso le quali gli Elvezi potevano uscire dal
loro territorio, erano in tutto due: la prima, stretta e
difficoltosa, attraversava le terre dei Sequani tra il
monte Giura e il Rodano e permetteva, a stento, il transito di
un carro per volta; inoltre, il Giura incombeva su di essa a
precipizio, in modo tale che pochissimi bastavano facilmente a
impedire il passaggio; la seconda attraversava la nostra
provincia ed era molto più agevole e rapida, perché tra i
territori degli Elvezi e degli Allobrogi, da poco pacificati,
scorre il Rodano, che in alcuni punti consente il guado. Ginevra
è la città degli Allobrogi più settentrionale e
confina con i territori degli Elvezi, ai quali è collegata da
un ponte. Gli Elvezi, per garantirsi via libera, pensavano di
persuadere gli Allobrogi, che non sembravano ancora ben disposti
verso i Romani, o di obbligarli con la forza. Ultimati i
preparativi per la partenza, stabiliscono la data in cui
avrebbero dovuto riunirsi tutti sulla riva del Rodano: cinque
giorni prima delle calende di aprile, nell'anno del consolato di
L. Pisone e A. Gabinio. (28
marzo 58 a.C.) |
[7]
Caesari cum id nuntiatum esset, eos per provinciam nostram iter
facere conari, maturat ab urbe proficisci et quam maximis potest
itineribus in Galliam ulteriorem contendit et ad Genavam
pervenit. Provinciae toti quam maximum potest militum numerum
imperat (erat omnino in Gallia ulteriore legio una), pontem, qui
erat ad Genavam, iubet rescindi. Ubi de eius adventu Helvetii
certiores facti sunt, legatos ad eum mittunt nobilissimos
civitatis, cuius legationis Nammeius et Verucloetius principem
locum obtinebant, qui dicerent sibi esse in animo sine ullo
maleficio iter per provinciam facere, propterea quod aliud iter
haberent nullum: rogare ut eius voluntate id sibi facere liceat.
Caesar, quod memoria tenebat L. Cassium consulem occisum
exercitumque eius ab Helvetiis pulsum et sub iugum missum,
concedendum non putabat; neque homines inimico animo, data
facultate per provinciam itineris faciundi, temperaturos ab
iniuria et maleficio existimabat. Tamen, ut spatium intercedere
posset dum milites quos imperaverat convenirent, legatis
respondit diem se ad deliberandum sumpturum: si quid vellent, ad
Id. April. reverterentur. |
-
CESARE ARRIVA A GINEVRA -
Cesare, appena informato che gli Elvezi si proponevano di
attraversare la nostra provincia, affretta la sua partenza da
Roma, si dirige a marce forzate, con la massima rapidità, verso
la Gallia transalpina e giunge a Ginevra. Ordina
che tutta la provincia fornisca il maggior numero possibile di
soldati (in Gallia transalpina c'era una sola e unica legione) e
dà disposizione di distruggere il ponte che sorgeva nei pressi
della città. Gli Elvezi, conosciuto il suo arrivo, gli
inviano come ambasciatori i cittadini più nobili, con in testa
Nammeio e Veruclezio, incaricati di dirgli che, poiché non
esisteva altro cammino, erano intenzionati ad attraversare la
provincia senza arrecare danni e gliene chiedevano licenza.
Cesare, memore che gli Elvezi avevano ucciso il console L.
Cassio e costretto l'esercito romano, dopo averlo sconfitto, a
subire l'onta del giogo, non riteneva giusto concedere il
permesso; inoltre, era convinto che questa gente dall'animo
ostile non si sarebbe astenuta da offese e danni, una volta
concessa la facoltà di attraversare la provincia. Tuttavia, per
guadagnare tempo fino all'arrivo dei soldati da lui richiesti,
risponde agli ambasciatori che si riservava qualche giorno di
tempo per decidere: se a loro andava bene, ritornassero alle idi
di aprile. (13 aprile)- |
[8]
Interea ea legione quam secum habebat militibusque, qui ex
provincia convenerant, a lacu Lemanno, qui in flumen Rhodanum
influit, ad montem Iuram, qui fines Sequanorum ab Helvetiis
dividit, milia passuum XVIIII murum in altitudinem pedum sedecim
fossamque perducit. Eo opere perfecto praesidia disponit,
castella communit, quo facilius, si se invito transire conentur,
prohibere possit. Ubi ea dies quam constituerat cum legatis
venit et legati ad eum reverterunt, negat se more et exemplo
populi Romani posse iter ulli per provinciam dare et, si vim
facere conentur, prohibiturum ostendit. Helvetii ea spe deiecti
navibus iunctis ratibusque compluribus factis, alii vadis
Rhodani, qua minima altitudo fluminis erat, non numquam interdiu,
saepius noctu si perrumpere possent conati, operis munitione et
militum concursu et telis repulsi, hoc conatu destiterunt. |
-
CESARE NEGA IL PERMESSO DI PASSAGGIO AGLI ELVEZI -
Nel frattempo, impiegando la legione al suo seguito e i soldati
giunti dalla provincia, Cesare scava un fossato ed erige
un muro lungo 19 miglia e alto 16 piedi, dal lago Lemano,
che sbocca nel Rodano, fino al monte Giura, che divide i
territori dei Sequani dagli Elvezi. Ultimata l'opera, dispone
presidi e costruisce ridotte per respingere con maggior facilità
gli Elvezi, se avessero tentato di passare suo malgrado. Quando
giunse il giorno fissato con gli ambasciatori ed essi
ritornarono, Cesare disse che, conforme alle tradizioni e ai
precedenti del popolo romano, non poteva concedere ad alcuno il
transito attraverso la provincia e si dichiarò pronto a impedir
loro il passaggio nel caso cercassero di far ricorso alla forza.
Gli Elvezi, persa questa speranza, cercarono di aprirsi
un varco sia di giorno, sia, più spesso, di notte, o per mezzo
di barche legate insieme e di zattere, che avevano costruito in
gran numero, o guadando il Rodano nei punti in cui era meno
profondo. Respinti dalle fortificazioni e dall'intervento dei
nostri soldati, rinunciarono ai loro tentativi. |
[9]
Relinquebatur una per Sequanos via, qua Sequanis invitis propter
angustias ire non poterant. His cum sua sponte persuadere non
possent, legatos ad Dumnorigem Haeduum mittunt, ut eo
deprecatore a Sequanis impetrarent. Dumnorix gratia et
largitione apud Sequanos plurimum poterat et Helvetiis erat
amicus, quod ex ea civitate Orgetorigis filiam in matrimonium
duxerat, et cupiditate regni adductus novis rebus studebat et
quam plurimas civitates suo beneficio habere obstrictas volebat.
Itaque rem suscipit et a Sequanis impetrat ut per fines suos
Helvetios ire patiantur, obsidesque uti inter sese dent perficit:
Sequani, ne itinere Helvetios prohibeant, Helvetii, ut sine
maleficio et iniuria transeant.
|
-
GLI ELVEZI MUOVONO VERSO LE TERRE DEI SEQUANI -
Agli Elvezi rimaneva solo la strada attraverso le
terre dei Sequani; contro il loro volere, però, non
avrebbero potuto passare, perché era troppo stretta. Da soli
non sarebbero riusciti a persuadere i Sequani, perciò mandarono
degli emissari all'eduo Dumnorige, per ottenere via
libera grazie alla sua intercessione. Dumnorige era molto
potente presso i Sequani per il favore di cui godeva e per le
sue elargizioni, ed era amico degli Elvezi perché aveva preso
in moglie una elvetica, la figlia di Orgetorige; inoltre, spinto
dalla brama di regnare, tendeva a novità politiche e voleva,
mediante i benefici resi, tenere legati a sé quanti più popoli
possibile. Perciò, si assume l'incarico e ottiene che i Sequani
concedano agli Elvezi il permesso di transito e che le due parti
si scambino ostaggi: i Sequani per non ostacolare gli Elvezi
durante l'attraversamento del paese, gli Elvezi per
attraversarlo senza provocare offese o danni. |
[10]
Caesari renuntiatur Helvetiis esse in animo per agrum Sequanorum
et Haeduorum iter in Santonum fines facere, qui non longe a
Tolosatium finibus absunt, quae civitas est in provincia. Id si
fieret, intellegebat magno cum periculo provinciae futurum ut
homines bellicosos, populi Romani inimicos, locis patentibus
maximeque frumentariis finitimos haberet. Ob eas causas ei
munitioni quam fecerat T. Labienum legatum praeficit; ipse in
Italiam magnis itineribus contendit duasque ibi legiones
conscribit et tres, quae circum Aquileiam hiemabant, ex hibernis
educit et, qua proximum iter in ulteriorem Galliam per Alpes
erat, cum his quinque legionibus ire contendit. Ibi Ceutrones et
Graioceli et Caturiges locis superioribus occupatis itinere
exercitum prohibere conantur. Compluribus his proeliis pulsis ab
Ocelo, quod est oppidum citerioris provinciae extremum, in fines
Vocontiorum ulterioris provinciae die septimo pervenit; inde in
Allobrogum fines, ab Allobrogibus in Segusiavos exercitum ducit.
Hi sunt extra provinciam trans Rhodanum primi. |
-
CESARE SI PREPARA AD IMPEDIRE IL PASSAGGIO AGLI ELVEZI -
A Cesare viene riferito il disegno degli Elvezi di
attraversare i territori dei Sequani e degli Edui
per spingersi nella regione dei Santoni, non lontani dai Tolosati,
un popolo stanziato nella nostra provincia. Si rendeva conto
che, se ciò fosse accaduto, la presenza di uomini bellicosi e
ostili, al confine di quelle zone pianeggianti ed estremamente
fertili, avrebbe rappresentato un grave pericolo per la
provincia. Di conseguenza, posto il legato T. Labieno a capo
delle fortificazioni costruite, si dirige a marce forzate in
Italia, dove arruola due legioni e ne mobilita altre tre, che
svernavano nei pressi di Aquileia. Con le cinque legioni
si dirige nella Gallia transalpina per la via più breve,
attraverso le Alpi. Qui i Ceutroni, i Graioceli e
i Caturigi, appostatisi sulle alture, tentano di sbarrare
la strada al nostro esercito. Respinti questi popoli in una
serie di scontri, da Ocelo, la più lontana città della
Gallia cisalpina, Cesare dopo sei giorni di marcia giunge nel
territorio dei Voconzi, nella Gallia transalpina. Da qui
conduce l'esercito nelle terre degli Allobrogi e, poi,
dei Segusiavi, il primo popolo fuori della provincia, al
di là del Rodano. |
[11]
Helvetii iam per angustias et fines Sequanorum suas copias
traduxerant et in Haeduorum fines pervenerant eorumque agros
populabantur. Haedui, cum se suaque ab iis defendere non possent,
legatos ad Caesarem mittunt rogatum auxilium: ita se omni
tempore de populo Romano meritos esse ut paene in conspectu
exercitus nostri agri vastari, liberi [eorum] in servitutem
abduci, oppida expugnari non debuerint. Eodem tempore quo Haedui
Ambarri, necessarii et consanguinei Haeduorum, Caesarem
certiorem faciunt sese depopulatis agris non facile ab oppidis
vim hostium prohibere. Item Allobroges, qui trans Rhodanum vicos
possessionesque habebant, fuga se ad Caesarem recipiunt et
demonstrant sibi praeter agri solum nihil esse reliqui. Quibus
rebus adductus Caesar non expectandum sibi statuit dum, omnibus,
fortunis sociorum consumptis, in Santonos Helvetii pervenirent.
|
-
GLI ELVEZI ATTACCANO EDUI, AMBARRI E ALLOBROGI -
Gli Elvezi, oltrepassati con le loro truppe gli impervi
territori dei Sequani, erano giunti nella regione degli Edui
e ne devastavano i campi. Gli Edui, non essendo in grado
di difendere se stessi, né i propri beni, inviano a Cesare
un'ambasceria per chiedergli aiuto: in ogni circostanza avevano
acquisito meriti presso il popolo romano, perciò non avrebbero
dovuto vedere, quasi al cospetto del nostro esercito, i loro
campi saccheggiati, i loro figli asserviti, le loro città
espugnate. Nello stesso tempo gli Ambarri, affini per
razza agli Edui, informano Cesare che i loro campi erano stati
devastati e che essi difficilmente avrebbero potuto tenere
lontane dalle loro città le forze nemiche. Allo stesso modo gli
Allobrogi, che al di là del Rodano avevano villaggi e
possedimenti, fuggono e si rifugiano da Cesare, dicendogli che
nulla rimaneva loro, se non la terra dei campi. Cesare, spinto
da tali notizie, decide di non dover aspettare che gli Elvezi
giungano nei territori dei Santoni, dopo aver distrutto
tutti i beni degli alleati di Roma. |
[12]
Flumen est Arar, quod per fines Haeduorum et Sequanorum in
Rhodanum influit, incredibili lenitate, ita ut oculis in utram
partem fluat iudicari non possit. Id Helvetii ratibus ac
lintribus iunctis transibant. Ubi per exploratores Caesar
certior factus est tres iam partes copiarum Helvetios id flumen
traduxisse, quartam vero partem citra flumen Ararim reliquam
esse, de tertia vigilia cum legionibus tribus e castris
profectus ad eam partem pervenit quae nondum flumen transierat.
Eos impeditos et inopinantes adgressus magnam partem eorum
concidit; reliqui sese fugae mandarunt atque in proximas silvas
abdiderunt. Is pagus appellabatur Tigurinus; nam omnis civitas
Helvetia in quattuor pagos divisa est. Hic pagus unus, cum domo
exisset, patrum nostrorum memoria L. Cassium consulem
interfecerat et eius exercitum sub iugum miserat. Ita sive casu
sive consilio deorum immortalium quae pars civitatis Helvetiae
insignem calamitatem populo Romano intulerat, ea princeps poenam
persolvit. Qua in re Caesar non solum publicas, sed etiam
privatas iniurias ultus est, quod eius soceri L. Pisonis avum,
L. Pisonem legatum, Tigurini eodem proelio quo Cassium
interfecerant. |
-
CESARE SCONFIGGE PARTE DEGLI ELVEZI SULLA SAONA -
C'è un fiume, la Saona, che scorre attraverso i
territori degli Edui e dei Sequani e si versa nel
Rodano con incredibile placidità, tanto che a occhio non è
possibile stabilire quale sia il senso della corrente. Gli Elvezi
lo stavano attraversando con zattere e imbarcazioni legate.
Cesare, non appena fu informato dagli esploratori che i tre
quarti degli Elvezi erano già sull'altra sponda e che circa un
quarto era rimasto al di qua della Saona, dopo mezzanotte partì
dall'accampamento con tre legioni e raggiunse gli Elvezi che non
avevano ancora varcato il fiume. Li colse alla sprovvista,
mentre erano ancora impacciati dalle salmerie: ne uccise la
maggior parte, i superstiti fuggirono e si nascosero nelle selve
circostanti. Questa tribù (infatti, il popolo degli Elvezi si
divide, nel suo complesso, in quattro tribù) si chiamava dei
Tigurini. I Tigurini, all'epoca dei nostri padri, erano
stati gli unici a sconfinare, avevano ucciso il console L.
Cassio e sottoposto i suoi soldati all'onta del giogo. Così, o
per caso o per volontà degli dèi immortali, la prima a pagare
le proprie colpe fu proprio la tribù che aveva inferto al
popolo romano una memorabile sconfitta. Cesare vendicò non solo
le offese pubbliche, ma anche quelle private, perché i Tigurini,
nella stessa battaglia in cui era morto Cassio, avevano ucciso
il legato L. Pisone, avo di suo suocero L. Pisone. |
[13]
Hoc proelio facto, reliquas copias Helvetiorum ut consequi
posset, pontem in Arari faciendum curat atque ita exercitum
traducit. Helvetii repentino eius adventu commoti cum id quod
ipsi diebus XX aegerrime confecerant, ut flumen transirent,
illum uno die fecisse intellegerent, legatos ad eum mittunt;
cuius legationis Divico princeps fuit, qui bello Cassiano dux
Helvetiorum fuerat. Is ita cum Caesare egit: si pacem populus
Romanus cum Helvetiis faceret, in eam partem ituros atque ibi
futuros Helvetios ubi eos Caesar constituisset atque esse
voluisset; sin bello persequi perseveraret, reminisceretur et
veteris incommodi populi Romani et pristinae virtutis
Helvetiorum. Quod improviso unum pagum adortus esset, cum ii qui
flumen transissent suis auxilium ferre non possent, ne ob eam
rem aut suae magnopere virtuti tribueret aut ipsos despiceret.
Se ita a patribus maioribusque suis didicisse, ut magis virtute
contenderent quam dolo aut insidiis niterentur. Quare ne
committeret ut is locus ubi constitissent ex calamitate populi
Romani et internecione exercitus nomen caperet aut memoriam
proderet. |
-
GLI ELVEZI SONO PRONTI A NEGOZIARE LA PACE -
Dopodiché, per poter raggiungere le rimanenti truppe degli
Elvezi, Cesare ordina di costruire un ponte sulla Saona
e, così, trasborda sull'altra riva le sue truppe. Gli Elvezi,
scossi dal suo arrivo repentino, quando si resero conto che per
attraversare il fiume a Cesare era occorso un giorno solo,
mentre essi avevano impiegato venti giorni di enormi sforzi, gli
mandarono degli ambasciatori. Li guidava Divicone, già
capo degli Elvezi all'epoca della guerra di Cassio. Divicone
parlò a Cesare in questi termini: se il popolo romano siglava
la pace con gli Elvezi, essi si sarebbero recati dove Cesare
avesse deciso e voluto, per rimanervi; se, invece, continuava
con le operazioni di guerra, si ricordasse sia del precedente
rovescio del popolo romano, sia dell'antico eroismo degli Elvezi.
Aveva attaccato all'improvviso una sola tribù, quando gli
uomini ormai al di là del fiume non potevano soccorrerla: non
doveva, dunque, attribuire troppo merito, per la vittoria, al
suo grande valore, o disprezzare gli Elvezi, che avevano
imparato dai padri e dagli avi a combattere da prodi più che
con l'inganno o gli agguati. Perciò, non si esponesse al
rischio che il luogo dove si trovavano prendesse il nome e
tramandasse alla storia la disfatta del popolo romano e il
massacro del suo esercito. |
[14]
His Caesar ita respondit: eo sibi minus dubitationis dari, quod
eas res quas legati Helvetii commemorassent memoria teneret,
atque eo gravius ferre quo minus merito populi Romani
accidissent; qui si alicuius iniuriae sibi conscius fuisset, non
fuisse difficile cavere; sed eo deceptum, quod neque commissum a
se intellegeret quare timeret neque sine causa timendum putaret.
Quod si veteris contumeliae oblivisci vellet, num etiam
recentium iniuriarum, quod eo invito iter per provinciam per vim
temptassent, quod Haeduos, quod Ambarros, quod Allobrogas
vexassent, memoriam deponere posse? Quod sua victoria tam
insolenter gloriarentur quodque tam diu se impune iniurias
tulisse admirarentur, eodem pertinere. Consuesse enim deos
immortales, quo gravius homines ex commutatione rerum doleant,
quos pro scelere eorum ulcisci velint, his secundiores interdum
res et diuturniorem impunitatem concedere. Cum ea ita sint,
tamen, si obsides ab iis sibi dentur, uti ea quae polliceantur
facturos intellegat, et si Haeduis de iniuriis quas ipsis
sociisque eorum intulerint, item si Allobrogibus satis faciunt,
sese cum iis pacem esse facturum. Divico respondit: ita
Helvetios a maioribus suis institutos esse uti obsides accipere,
non dare, consuerint; eius rem populum Romanum esse testem. Hoc
responso dato discessit. |
-
CESARE PRETENDE OSTAGGI E RISARCIMENTI -
A tali parole Cesare così rispose: tanto meno doveva esitare,
perché ciò che gli ambasciatori degli Elvezi avevano ricordato
era impresso nella sua mente, e quanto minore era stata la colpa
del popolo romano, tanto maggior dolore provava lui per la
sconfitta: se i Romani avessero avuto coscienza di qualche torto
commesso, facilmente si sarebbero tenuti in guardia; ma non
pensavano di aver compiuto qualcosa per cui temere, né di dover
temere senza motivo, e questo li aveva traditi. E se anche
avesse voluto dimenticare le antiche offese, poteva forse
rimuovere dalla mente le recenti? Gli Elvezi, contro il
suo volere, non avevano cercato di aprirsi a forza un varco
attraverso la provincia, non avevano infierito contro gli Edui,
gli Ambarri, gli Allobrogi? Che si gloriassero in modo tanto
insolente e si stupissero di aver evitato così a lungo la
punizione delle offese inflitte, concorreva a uno stesso scopo:
gli dèi immortali, di solito, quando vogliono castigare
qualcuno per le sue colpe, gli concedono, ogni tanto, maggior
fortuna e un certo periodo di impunità, perché abbia a dolersi
ancor di più, quando la sorte cambia. La situazione stava così,
ma lui era disposto a far pace: gli Elvezi, però, dovevano
consegnargli ostaggi, a garanzia che le promesse le
avrebbero mantenute, e risarcire gli Edui, i loro alleati
e gli Allobrogi per i danni arrecati. Divicone
replicò che gli Elvezi avevano imparato dai loro antenati a
ricevere, non a consegnare ostaggi; di ciò il popolo romano era
testimone. Detto questo, se ne andò. |
[15]
Postero die castra ex eo loco movent. Idem facit Caesar
equitatumque omnem, ad numerum quattuor milium, quem ex omni
provincia et Haeduis atque eorum sociis coactum habebat,
praemittit, qui videant quas in partes hostes iter faciant. Qui
cupidius novissimum agmen insecuti alieno loco cum equitatu
Helvetiorum proelium committunt; et pauci de nostris cadunt. Quo
proelio sublati Helvetii, quod quingentis equitibus tantam
multitudinem equitum propulerant, audacius subsistere non
numquam et novissimo agmine proelio nostros lacessere coeperunt.
Caesar suos a proelio continebat, ac satis habebat in praesentia
hostem rapinis, pabulationibus populationibusque prohibere. Ita
dies circiter XV iter fecerunt uti inter novissimum hostium
agmen et nostrum primum non amplius quinis aut senis milibus
passuum interesset. |
-
GLI ELVEZI VINCONO UNA BATTAGLIA -
Il giorno seguente gli Elvezi tolgono le tende. Lo stesso fa
Cesare e, per vedere dove si dirigevano, manda in avanscoperta
tutta la cavalleria, di circa 4000 unità, reclutata sia in
tutta la provincia, sia tra gli Edui e i loro alleati. I nostri,
inseguita con troppo slancio la retroguardia degli Elvezi, si
scontrano con la cavalleria nemica in un luogo sfavorevole:
pochi dei nostri cadono. Gli Elvezi, esaltati dal
successo, poiché con 500 cavalieri avevano sbaragliato un
numero di nemici così alto, incominciarono a fermarsi, di tanto
in tanto, con maggiore audacia e a provocare con la loro
retroguardia i nostri. Cesare tratteneva i suoi e si
accontentava, per il momento, di impedire al nemico ruberie,
foraggiamenti e saccheggi. Proseguirono per circa quindici
giorni la marcia, in modo che gli ultimi reparti del nemico e i
nostri primi non distassero più di cinque o sei miglia. |
[16]
Interim cotidie Caesar Haeduos frumentum, quod essent publice
polliciti, flagitare. Nam propter frigora [quod Gallia sub
septentrionibus, ut ante dictum est, posita est,] non modo
frumenta in agris matura non erant, sed ne pabuli quidem satis
magna copia suppetebat; eo autem frumento quod flumine Arari
navibus subvexerat propterea uti minus poterat quod iter ab
Arari Helvetii averterant, a quibus discedere nolebat. Diem ex
die ducere Haedui: conferri, comportari, adesse dicere. Ubi se
diutius duci intellexit et diem instare quo die frumentum
militibus metiri oporteret, convocatis eorum principibus, quorum
magnam copiam in castris habebat, in his Diviciaco et Lisco, qui
summo magistratui praeerat, quem vergobretum appellant Haedui,
qui creatur annuus et vitae necisque in suos habet potestatem,
graviter eos accusat, quod, cum neque emi neque ex agris sumi
possit, tam necessario tempore, tam propinquis hostibus ab iis
non sublevetur, praesertim cum magna ex parte eorum precibus
adductus bellum susceperit; multo etiam gravius quod sit
destitutus queritur. |
-
CESARE PRETENDE IL GRANO PROMESSO DAGLI EDUI -
Nel frattempo, Cesare ogni giorno chiedeva agli Edui
il grano che gli avevano promesso ufficialmente. Infatti, a
causa del freddo, dato che la Gallia, come già si è detto, è
situata a settentrione, non solo il frumento nei campi non era
ancora maturo, ma non c'era neppure una quantità sufficiente di
foraggio. Del grano, poi, che aveva fatto portare su nave
risalendo la Saona, Cesare non poteva far uso, perché gli
Elvezi si erano allontanati dal fiume ed egli non voleva
perderne il contatto. Gli Edui rimandavano di giorno in
giorno: dicevano che il grano lo stavano raccogliendo, che era
già in viaggio, che stava per arrivare. Cesare, quando si rese
conto che da troppo tempo si tirava in lungo e che incalzava il
giorno della distribuzione ai soldati, convocò i principi degli
Edui, presenti in buon numero nell'accampamento; tra di essi
c'erano Diviziaco e Lisco. Quest'ultimo era il "vergobreto"
- come lo chiamano gli Edui - ossia il magistrato che riveste la
carica più alta, è eletto annualmente e ha potere di vita e di
morte sui suoi concittadini. Cesare li accusa duramente: non lo
aiutavano proprio quando il grano non poteva né comprarlo, né
prenderlo dai campi, in un momento così critico e con il nemico
così vicino, tanto più che aveva intrapreso la guerra spinto
soprattutto dalle loro preghiere. Perciò, si lamenta ancor più
pesantemente di essere stato abbandonato. |
[17]
Tum demum Liscus oratione Caesaris adductus quod antea tacuerat
proponit: esse non nullos, quorum auctoritas apud plebem
plurimum valeat, qui privatim plus possint quam ipsi magistratus.
Hos seditiosa atque improba oratione multitudinem deterrere, ne
frumentum conferant quod debeant: praestare, si iam principatum
Galliae obtinere non possint, Gallorum quam Romanorum imperia
perferre, neque dubitare [debeant] quin, si Helvetios
superaverint Romani, una cum reliqua Gallia Haeduis libertatem
sint erepturi. Ab isdem nostra consilia quaeque in castris
gerantur hostibus enuntiari; hos a se coerceri non posse. Quin
etiam, quod necessariam rem coactus Caesari enuntiarit,
intellegere sese quanto id cum periculo fecerit, et ob eam
causam quam diu potuerit tacuisse.
|
-
LISCO RIVELA IL COMPLOTTO INTERNO -
Solo allora Lisco, spinto dal discorso di Cesare, espone
ciò che in precedenza aveva passato sotto silenzio: c'erano
degli individui che godevano di grande prestigio tra il popolo e
che, pur non rivestendo cariche pubbliche, avevano da privati più
potere dei magistrati stessi. Erano loro a indurre la massa, con
discorsi sediziosi e proditori, a non consegnare il grano
dovuto: sostenevano che, se gli Edui non erano più capaci di
conservare la signoria sul paese, era meglio sopportare il
dominio dei Galli piuttosto che dei Romani; i Romani, una volta
sconfitti gli Elvezi, avrebbero senza dubbio tolto la libertà
agli Edui insieme agli altri Galli. E le stesse persone
rivelavano ai nemici i nostri piani e tutto ciò che accadeva
nell'accampamento. Lisco non era in grado di tenerle a freno,
anzi, adesso che era stato costretto a palesare a Cesare la
situazione così critica, si rendeva conto di quale pericolo
stesse correndo. Ecco il motivo per cui aveva taciuto il più a
lungo possibile. |
[18]
Caesar hac oratione Lisci Dumnorigem, Diviciaci fratrem,
designari sentiebat, sed, quod pluribus praesentibus eas res
iactari nolebat, celeriter concilium dimittit, Liscum retinet.
Quaerit ex solo ea quae in conventu dixerat. Dicit liberius
atque audacius. Eadem secreto ab aliis quaerit; reperit esse
vera: ipsum esse Dumnorigem, summa audacia, magna apud plebem
propter liberalitatem gratia, cupidum rerum novarum. Complures
annos portoria reliquaque omnia Haeduorum vectigalia parvo
pretio redempta habere, propterea quod illo licente contra
liceri audeat nemo. His rebus et suam rem familiarem auxisse et
facultates ad largiendum magnas comparasse; magnum numerum
equitatus suo sumptu semper alere et circum se habere, neque
solum domi, sed etiam apud finitimas civitates largiter posse,
atque huius potentiae causa matrem in Biturigibus homini illic
nobilissimo ac potentissimo conlocasse; ipsum ex Helvetiis
uxorem habere, sororum ex matre et propinquas suas nuptum in
alias civitates conlocasse. Favere et cupere Helvetiis propter
eam adfinitatem, odisse etiam suo nomine Caesarem et Romanos,
quod eorum adventu potentia eius deminuta et Diviciacus frater
in antiquum locum gratiae atque honoris sit restitutus. Si quid
accidat Romanis, summam in spem per Helvetios regni obtinendi
venire; imperio populi Romani non modo de regno, sed etiam de ea
quam habeat gratia desperare. Reperiebat etiam in quaerendo
Caesar, quod proelium equestre adversum paucis ante diebus esset
factum, initium eius fugae factum a Dumnorige atque eius
equitibus (nam equitatui, quem auxilio Caesari Haedui miserant,
Dumnorix praeerat): eorum fuga reliquum esse equitatum
perterritum. |
-
IL TRADIMENTO DI DUMNORIGE -
Cesare intuiva che il discorso alludeva a Dumnorige,
fratello di Diviziaco, ma non voleva trattare l'argomento
di fronte a troppa gente; così, si affretta a sciogliere
l'assemblea, ma trattiene Lisco. A tu per tu gli chiede
delucidazioni su ciò che aveva detto durante la riunione. Lisco
parla con maggior libertà e minor timore. Cesare, poi, prende
segretamente informazioni anche da altre fonti e scopre che era
vero: si trattava proprio di Dumnorige, un individuo di
estrema audacia, di gran credito presso il popolo per la sua
liberalità e avido di rivolgimenti. Per parecchi anni aveva
ottenuto a basso prezzo l'appalto delle dogane e di tutte le
altre imposte, perché nessuno osava fare concorrenza alle sue
offerte. In questo modo aveva aumentato il patrimonio familiare
e si era procurato ingenti mezzi per fare delle elargizioni. A
sue spese finanziava costantemente un gran numero di cavalieri,
che aveva sempre intorno a sé; inoltre, non solo in patria, ma
anche tra le genti confinanti godeva di molta autorità e, per
aumentarla, aveva dato in sposa sua madre a un uomo molto nobile
e potente della tribù dei Biturigi, aveva preso in
moglie una donna degli Elvezi, aveva fatto maritare una
sua sorella dal lato materno e altre sue parenti con uomini che
appartenevano ad altri popoli. Favoriva gli Elvezi ed era
ben disposto nei loro confronti per ragioni di parentela;
nutriva anche un odio personale nei confronti di Cesare e dei
Romani, perché con il loro arrivo il suo potere era diminuito e
suo fratello Diviziaco aveva riacquistato la precedente
posizione di influenza e di onore. Nel caso di una sconfitta dei
Romani aveva forti speranze di ottenere il regno con l'appoggio
degli Elvezi; sotto il dominio del popolo romano non poteva
nutrire speranze non solo di regnare, ma neppure di mantenere
l'influenza che aveva. Cesare, continuando nella sua indagine,
veniva anche a sapere che nel malaugurato scontro di cavalleria
di recente avvenuto, il primo a fuggire era stato Dumnorige con
i suoi (infatti, era lui il comandante della cavalleria che gli
Edui avevano mandato di rinforzo a Cesare): la loro fuga aveva
seminato il panico tra gli altri cavalieri. |
[19]
Quibus rebus cognitis, cum ad has suspiciones certissimae res
accederent, quod per fines Sequanorum Helvetios traduxisset,
quod obsides inter eos dandos curasset, quod ea omnia non modo
iniussu suo et civitatis sed etiam inscientibus ipsis fecisset,
quod a magistratu Haeduorum accusaretur, satis esse causae
arbitrabatur quare in eum aut ipse animadverteret aut civitatem
animadvertere iuberet. His omnibus rebus unum repugnabat, quod
Diviciaci fratris summum in populum Romanum studium, summum in
se voluntatem, egregiam fidem, iustitiam, temperantiam
cognoverat; nam ne eius supplicio Diviciaci animum offenderet
verebatur. Itaque prius quam quicquam conaretur, Diviciacum ad
se vocari iubet et, cotidianis interpretibus remotis, per C.
Valerium Troucillum, principem Galliae provinciae, familiarem
suum, cui summam omnium rerum fidem habebat, cum eo conloquitur;
simul commonefacit quae ipso praesente in concilio [Gallorum] de
Dumnorige sint dicta, et ostendit quae separatim quisque de eo
apud se dixerit. Petit atque hortatur ut sine eius offensione
animi vel ipse de eo causa cognita statuat vel civitatem
statuere iubeat. |
-
CESARE DECIDE DI ACCUSARE DUMNORIGE -
Cesare, una volta appurato tutto ciò, poiché ai sospetti si
aggiungevano dati di assoluta certezza (Dumnorige aveva
fatto passare gli Elvezi attraverso i territori dei Sequani;
aveva promosso lo scambio degli ostaggi; aveva agito sempre
senza ricevere ordini da Cesare o dal suo popolo, anzi a loro
insaputa; era, infine, accusato dal magistrato degli Edui),
riteneva che vi fossero motivi sufficienti per procedere
personalmente contro Dumnorige o per invitare il suo popolo a
punirlo. A tutte le precedenti considerazioni, una sola si
opponeva: Cesare aveva conosciuto l'eccezionale devozione verso
il popolo romano, la disposizione davvero buona nei propri
confronti, la straordinaria fedeltà, giustizia e misura di Diviziaco,
fratello di Dumnorige. Intervenendo contro quest'ultimo, quindi,
temeva di offendere i sentimenti di Diviziaco. Perciò, prima di
muoversi contro Dumnorige, convocò Diviziaco: allontanati i
soliti interpreti, utilizzò, per il colloquio, C. Valerio
Trocillo, principe della provincia della Gallia, suo parente,
nel quale riponeva la massima fiducia. Cesare inizia subito col
ricordare a Diviziaco tutto ciò che in sua presenza era stato
detto su Dumnorige durante l'assemblea dei Galli e lo mette al
corrente delle informazioni che ciascuno, singolarmente, gli
aveva dato sul conto del fratello. Gli chiede, anzi lo prega di
non offendersi, se lui stesso, aperta un'inchiesta contro
Dumnorige, emetterà un giudizio o inviterà gli Edui a
emetterlo. |
[20]
Diviciacus multis cum lacrimis Caesarem complexus obsecrare
coepit ne quid gravius in fratrem statueret: scire se illa esse
vera, nec quemquam ex eo plus quam se doloris capere, propterea
quod, cum ipse gratia plurimum domi atque in reliqua Gallia,
ille minimum propter adulescentiam posset, per se crevisset;
quibus opibus ac nervis non solum ad minuendam gratiam, sed
paene ad perniciem suam uteretur. Sese tamen et amore fraterno
et existimatione vulgi commoveri. Quod si quid ei a Caesare
gravius accidisset, cum ipse eum locum amicitiae apud eum
teneret, neminem existimaturum non sua voluntate factum; qua ex
re futurum uti totius Galliae animi a se averterentur. Haec cum
pluribus verbis flens a Caesare peteret, Caesar eius dextram
prendit; consolatus rogat finem orandi faciat; tanti eius apud
se gratiam esse ostendit uti et rei publicae iniuriam et suum
dolorem eius voluntati ac precibus condonet. Dumnorigem ad se
vocat, fratrem adhibet; quae in eo reprehendat ostendit; quae
ipse intellegat, quae civitas queratur proponit; monet ut in
reliquum tempus omnes suspiciones vitet; praeterita se Diviciaco
fratri condonare dicit. Dumnorigi custodes ponit, ut quae agat,
quibuscum loquatur scire possit. |
-
DIVIZIACO CHIEDE CLEMENZA A CESARE PER IL FRATELLO -
Diviziaco abbracciò Cesare e scoppiò in lacrime: incominciò
a implorarlo di non prendere provvedimenti troppo gravi nei
confronti del fratello. Diceva di sapere che era vero, ma ne era
addolorato più di chiunque altro, perché a rendere potente
Dumnorige era stato proprio lui, Diviziaco, quando era molto
influente in patria e nel resto della Gallia, mentre suo
fratello non lo era affatto a causa della sua giovane età. Dumnorige,
però, si era servito delle risorse e delle forze acquisite,
finendo non solo per diminuire il favore di cui godeva suo
fratello, ma quasi per rovinare se stesso. Tuttavia, Diviziaco
diceva di essere mosso sia dall'affetto fraterno, sia
dall'opinione della sua gente. Se Cesare condannava Dumnorige a
una pena grave, nessuno avrebbe creduto all'estraneità di
Diviziaco, che aveva una posizione di privilegio, come amico di
Cesare, ragion per cui egli avrebbe perso l'appoggio di tutti i
Galli. Piangendo, continuava a rivolgergli parole di supplica.
Cesare, prendendogli la destra, lo consola, gli chiede di non
aggiungere altro e gli dichiara che la sua influenza contava per
lui tanto, che avrebbe sacrificato al suo desiderio e alle sue
preghiere sia l'offesa arrecata alla repubblica, sia il proprio
risentimento. Alla presenza del fratello convoca Dumnorige, gli
espone gli addebiti da muovergli, le cose che aveva capito e
quelle di cui il suo popolo si lamentava. Lo ammonisce a evitare
in futuro tutti i sospetti e gli dice che gli perdonava il
passato in virtù di suo fratello Diviziaco. Lo mette, però,
sotto sorveglianza per poter sapere che cosa facesse e con chi
parlasse. |
[21]
Eodem die ab exploratoribus certior factus hostes sub monte
consedisse milia passuum ab ipsius castris octo, qualis esset
natura montis et qualis in circuitu ascensus qui cognoscerent
misit. Renuntiatum est facilem esse. De tertia vigilia T.
Labienum, legatum pro praetore, cum duabus legionibus et iis
ducibus qui iter cognoverant summum iugum montis ascendere iubet;
quid sui consilii sit ostendit. Ipse de quarta vigilia eodem
itinere quo hostes ierant ad eos contendit equitatumque omnem
ante se mittit. P. Considius, qui rei militaris peritissimus
habebatur et in exercitu L. Sullae et postea in M. Crassi fuerat,
cum exploratoribus praemittitur. |
-
CESARE DECIDE DI ATTACCARE GLI ELVEZI CON DUE LEGIONI -
Nello stesso giorno Cesare venne informato dagli esploratori che
i nemici si erano fermati alle pendici di un monte a otto miglia
dal suo accampamento. Mandò allora ad accertare quale fosse la
conformazione del monte e se c'era una via d'accesso. Gli
riferirono che vi si poteva salire con facilità. Ordina a T. Labieno,
legato propretore, di salire dopo mezzanotte sulla sommità del
monte con due legioni, avvalendosi delle guide che avevano
effettuato il sopralluogo, e gli chiarisce il suo piano. Lui
stesso, dopo le tre di notte, per la stessa via percorsa dal
nemico, muove contro gli Elvezi, mandando avanti tutta la
cavalleria. In avanscoperta, con gli esploratori, viene spedito
P. Considio, che aveva fama di soldato espertissimo per avere
servito prima nell'esercito di L. Silla e, poi, in quello di M.
Crasso. |
[22]
Prima luce, cum summus mons a [Lucio] Labieno teneretur, ipse ab
hostium castris non longius mille et quingentis passibus abesset
neque, ut postea ex captivis comperit, aut ipsius adventus aut
Labieni cognitus esset, Considius equo admisso ad eum accurrit,
dicit montem, quem a Labieno occupari voluerit, ab hostibus
teneri: id se a Gallicis armis atque insignibus cognovisse.
Caesar suas copias in proximum collem subducit, aciem instruit.
Labienus, ut erat ei praeceptum a Caesare ne proelium
committeret, nisi ipsius copiae prope hostium castra visae
essent, ut undique uno tempore in hostes impetus fieret, monte
occupato nostros expectabat proelioque abstinebat. Multo denique
die per exploratores Caesar cognovit et montem a suis teneri et
Helvetios castra, movisse et Considium timore perterritum quod
non vidisset pro viso sibi renuntiavisse. Eo die quo consuerat
intervallo hostes sequitur et milia passuum tria ab eorum
castris castra ponit. |
-
LE TRUPPE ROMANE ATTENDONO IL MOMENTO PROPIZIO -
All'alba, mentre Labieno teneva la sommità del monte e
Cesare non distava più di millecinquecento passi
dall'accampamento dei nemici, ignari, come si seppe in seguito
dai prigionieri, sia del suo arrivo, sia della presenza di
Labieno, Considio a briglia sciolta si precipita da Cesare e gli
comunica che il monte, di cui Labieno doveva impadronirsi, era
nelle mani dei nemici: lo aveva capito dalle armi e dalle
insegne galliche. Cesare comanda alle sue truppe di
ritirarsi sul colle più vicino e le schiera a battaglia. Labieno
aveva ricevuto ordine di non attaccare finché non avesse visto
nei pressi dell'accampamento nemico le truppe di Cesare: lo
scopo era di sferrare l'assalto contemporaneamente da tutti i
lati. Labieno, perciò, teneva la sommità del monte e aspettava
i nostri, senza attaccare. Solo a giorno già inoltrato Cesare
seppe dagli esploratori che il monte era in mano ai suoi, che
gli Elvezi avevano spostato l'accampamento e che Considio, in
preda al panico, aveva riferito di avere visto ciò che, in
realtà, non aveva visto. Quel giorno Cesare segue i nemici alla
solita distanza e si ferma a tre miglia dalle loro posizioni. |
[23]
Postridie eius diei, quod omnino biduum supererat, cum exercitui
frumentum metiri oporteret, et quod a Bibracte, oppido Haeduorum
longe maximo et copiosissimo, non amplius milibus passuum XVIII
aberat, rei frumentariae prospiciendum existimavit; itaque iter
ab Helvetiis avertit ac Bibracte ire contendit. Ea res per
fugitivos L. Aemilii, decurionis equitum Gallorum, hostibus
nuntiatur. Helvetii, seu quod timore perterritos Romanos
discedere a se existimarent, eo magis quod pridie superioribus
locis occupatis proelium non commisissent, sive eo quod re
frumentaria intercludi posse confiderent, commutato consilio
atque itinere converso nostros a novissimo agmine insequi ac
lacessere coeperunt. |
-
CESARE SI DIRIGE VERSO BIBRACTE PER RIFORNIRSI -
L'indomani, considerando che mancavano solo due giorni alla
distribuzione di grano e che Bibracte, la città degli Edui
più grande e più ricca in assoluto, non distava più di
diciotto miglia, Cesare pensò di dover provvedere ai
rifornimenti. Smette di seguire gli Elvezi e si affretta verso
Bibracte. Alcuni schiavi, fuggiti dalla cavalleria gallica del
decurione L. Emilio, riferiscono al nemico la faccenda. Gli Elvezi,
o perché pensavano che i Romani si allontanassero per paura,
tanto più che il giorno precedente non avevano attaccato pur
occupando le alture, o perché contavano di poter impedire ai
nostri l'approvvigionamento di grano, modificarono i loro piani,
invertirono il senso di marcia e incominciarono a inseguire e a
provocare la nostra retroguardia. |
[24]
Postquam id animum advertit, copias suas Caesar in proximum
collem subduxit equitatumque, qui sustineret hostium petum,
misit. Ipse interim in colle medio triplicem aciem instruxit
legionum quattuor veteranarum; in summo iugo duas legiones quas
in Gallia citeriore proxime conscripserat et omnia auxilia
conlocavit, ita ut supra se totum montem hominibus compleret;
impedimenta sarcinasque in unum locum conferri et eum ab iis qui
in superiore acie constiterant muniri iussit. Helvetii cum
omnibus suis carris secuti impedimenta in unum locum contulerunt;
ipsi confertissima acie, reiecto nostro equitatu, phalange facta
sub primam nostram aciem successerunt. |
-
GLI ELVEZI DECIDONO DI ATTACCARE -
Cesare, quando se ne accorse, ritirò le sue truppe sul colle più
vicino e mandò la cavalleria a fronteggiare l'attacco nemico.
Nel frattempo, a metà del colle dispose, su tre linee, le quattro
legioni di veterani, mentre in cima piazzò le due
legioni da lui appena arruolate nella Gallia cisalpina e
tutti gli ausiliari, riempiendo di uomini tutto il monte. Ordinò,
frattanto, che le salmerie venissero ammassate in un sol luogo e
che lo difendessero le truppe schierate più in alto. Gli Elvezi,
che venivano dietro con tutti i loro carri, raccolsero in un
unico posto i bagagli, si schierarono in formazione
serratissima, respinsero la nostra cavalleria, formarono la
falange e avanzarono contro la nostra prima linea. |
[25]
Caesar primum suo, deinde omnium ex conspectu remotis equis, ut
aequato omnium periculo spem fugae tolleret, cohortatus suos
proelium commisit. Milites loco superiore pilis missis facile
hostium phalangem perfregerunt. Ea disiecta gladiis destrictis
in eos impetum fecerunt. Gallis magno ad pugnam erat impedimento
quod pluribus eorum scutis uno ictu pilorum transfixis et
conligatis, cum ferrum se inflexisset, neque evellere neque
sinistra impedita satis commode pugnare poterant, multi ut diu
iactato bracchio praeoptarent scutum manu emittere et nudo
corpore pugnare. Tandem vulneribus defessi et pedem referre et,
quod mons suberit circiter mille passuum spatio, eo se recipere
coeperunt. Capto monte et succedentibus nostris, Boi et Tulingi,
qui hominum milibus circiter XV agmen hostium claudebant et
novissimis praesidio erant, ex itinere nostros ab latere aperto
adgressi circumvenire, et id conspicati Helvetii, qui in montem
sese receperant, rursus instare et proelium redintegrare
coeperunt. Romani conversa signa bipertito intulerunt: prima et
secunda acies, ut victis ac submotis resisteret, tertia, ut
venientes sustineret. |
-
I ROMANI AVANZANO MA SI ATTIVANO BOI E TULINGI -
Cesare ordinò di allontanare e nascondere prima il suo
cavallo, poi quelli degli altri: voleva rendere il pericolo
uguale per tutti e togliere a ognuno la speranza della fuga.
Spronati i soldati, attaccò. I nostri riuscirono con facilità
a spezzare la falange nemica lanciando dall'alto i giavellotti;
una volta disunita la falange, sguainarono le spade e si
gettarono all'assalto. I Galli combattevano con grande difficoltà:
molti dei loro scudi erano stati trafitti e inchiodati da un
solo lancio di giavellotti; i giavellotti si erano piegati, per
cui essi non riuscivano né a svellerli, né a lottare nel modo
migliore con la mano sinistra impedita. Molti, dopo avere a
lungo agitato il braccio, preferirono gettare a terra gli scudi
e combattere a corpo scoperto. Alla fine, spossati per le
ferite, incominciarono a ritirarsi e a cercar riparo su un
monte, che si trovava a circa un miglio di distanza; lì si
attestarono. Mentre i nostri si spingevano sotto, i Boi e
i Tulingi, che con circa 15.000 uomini chiudevano lo
schieramento nemico e proteggevano la retroguardia, aggirarono i
nostri e li assalirono dal fianco scoperto. Vedendo ciò, gli Elvezi
che si erano rifugiati sul monte incominciarono a premere di
nuovo e a riaccendere lo scontro. I Romani operarono una
conversione e attaccarono su due fronti: la prima e la seconda
linea per tener testa agli Elvezi già vinti e respinti, la
terza per reggere all'urto dei nuovi arrivati. |
[26]
Ita ancipiti proelio diu atque acriter pugnatum est. Diutius cum
sustinere nostrorum impetus non possent, alteri se, ut coeperant,
in montem receperunt, alteri ad impedimenta et carros suos se
contulerunt. Nam hoc toto proelio, cum ab hora septima ad
vesperum pugnatum sit, aversum hostem videre nemo potuit. Ad
multam noctem etiam ad impedimenta pugnatum est, propterea quod
pro vallo carros obiecerunt et e loco superiore in nostros
venientes tela coiciebant et non nulli inter carros rotasque
mataras ac tragulas subiciebant nostrosque vulnerabant. Diu cum
esset pugnatum, impedimentis castrisque nostri potiti sunt. Ibi
Orgetorigis filia atque unus e filiis captus est. Ex eo proelio
circiter hominum milia CXXX superfuerunt eaque tota nocte
continenter ierunt [nullam partem noctis itinere intermisso]; in
fines Lingonum die quarto pervenerunt, cum et propter vulnera
militum et propter sepulturam occisorum nostri [triduum morati]
eos sequi non potuissent. Caesar ad Lingonas litteras nuntiosque
misit, ne eos frumento neve alia re iuvarent: qui si iuvissent,
se eodem loco quo Helvetios habiturum. Ipse triduo intermisso
cum omnibus copiis eos sequi coepit. |
-
GLI ELVEZI FUGGONO NELLE TERRE DEI LINGONI -
Così, si combatté su due fronti a lungo e con accanimento.
Alla fine, quando non poterono più sostenere l'attacco dei
nostri, parte degli Elvezi, come aveva già fatto prima,
si mise al sicuro sul monte, parte si ritirò là dove avevano
ammassato i bagagli e i carri. A dire il vero, per tutto il
tempo della battaglia, durata dall'una del pomeriggio fino al
tramonto, nessuno poté vedere un solo nemico in fuga. Nei
pressi delle salmerie si lottò addirittura fino a notte
inoltrata, perché gli Elvezi avevano disposto i carri come una
trincea e dall'alto scagliavano frecce sui nostri che
attaccavano. Alcuni, appostati tra i carri e le ruote,
lanciavano matare e tragule, colpendo i nostri. Dopo una lunga
lotta, i soldati romani si impadronirono dell'accampamento e
delle salmerie. Qui vennero catturati la figlia di Orgetorige
e uno dei figli. Sopravvissero allo scontro 130.000 Elvezi e
per tutta la notte marciarono ininterrottamente. Senza fermarsi
mai neppure nelle notti seguenti, dopo tre giorni giunsero nei
territori dei Lingoni. I nostri, invece, sia per curare
le ferite riportate dai soldati, sia per dare sepoltura ai
morti, si attardarono per tre giorni e non poterono incalzarli.
Cesare inviò ai Lingoni una lettera e dei messaggeri per
proibir loro di fornire grano o altro agli Elvezi: in caso
contrario, li avrebbe trattati alla stessa stregua. Al quarto
giorno riprese a inseguire gli Elvezi con tutte le truppe. |
[27]
Helvetii omnium rerum inopia adducti legatos de deditione ad eum
miserunt. Qui cum eum in itinere convenissent seque ad pedes
proiecissent suppliciterque locuti flentes pacem petissent,
atque eos in eo loco quo tum essent suum adventum expectare
iussisset, paruerunt. Eo postquam Caesar pervenit, obsides,
arma, servos qui ad eos perfugissent, poposcit. Dum ea
conquiruntur et conferuntur, [nocte intermissa] circiter hominum
milia VI eius pagi qui Verbigenus appellatur, sive timore
perterriti, ne armis traditis supplicio adficerentur, sive spe
salutis inducti, quod in tanta multitudine dediticiorum suam
fugam aut occultari aut omnino ignorari posse existimarent,
prima nocte e castris Helvetiorum egressi ad Rhenum finesque
Germanorum contenderunt. |
-
GLI ELVEZI OFFRONO LA RESA -
Agli Elvezi mancava tutto il necessario per proseguire la
guerra, perciò inviarono degli ambasciatori a offrire la resa. Cesare
era ancora in marcia quando gli si fecero incontro; si gettarono
ai suoi piedi e gli chiesero pace, piangendo e supplicando.
Cesare ordinò agli Elvezi di aspettarlo dove adesso si
trovavano, ed essi obbedirono. Appena giunto, chiese la consegna
degli ostaggi, delle armi e degli schiavi fuggiti. Mentre gli
Elvezi stavano ancora provvedendo alla ricerca e alla raccolta,
scese la notte, nelle prime ore della quale circa 6000 uomini
della tribù dei Verbigeni lasciarono l'accampamento
degli Elvezi e si diressero verso il Reno e i territori dei
Germani: forse temevano di essere uccisi, una volta consegnate
le armi, oppure speravano di salvarsi, pensando che in mezzo a
tanta gente che si era arresa la loro fuga potesse rimanere
nascosta o passare del tutto inosservata. |
[28]
Quod ubi Caesar resciit, quorum per fines ierant his uti
conquirerent et reducerent, si sibi purgati esse vellent,
imperavit; reductos in hostium numero habuit; reliquos omnes
obsidibus, armis, perfugis traditis in deditionem accepit.
Helvetios, Tulingos, Latobrigos in fines suos, unde erant
profecti, reverti iussit, et, quod omnibus frugibus amissis domi
nihil erat quo famem tolerarent, Allobrogibus imperavit ut iis
frumenti copiam facerent; ipsos oppida vicosque, quos
incenderant, restituere iussit. Id ea maxime ratione fecit, quod
noluit eum locum unde Helvetii discesserant vacare, ne propter
bonitatem agrorum Germani, qui trans Rhenum incolunt, ex suis
finibus in Helvetiorum fines transirent et finitimi Galliae
provinciae Allobrogibusque essent. Boios petentibus Haeduis,
quod egregia virtute erant cogniti, ut in finibus suis
conlocarent, concessit; quibus illi agros dederunt quosque
postea in parem iuris libertatisque condicionem atque ipsi erant
receperunt.
|
-
CESARE ACCETTA LA RESA -
Cesare, appena lo seppe, ordinò ai popoli, attraverso i cui
territori erano passati i Verbigeni, di cercarli e di
riportarglieli, se volevano essere giustificati ai suoi occhi.
Trattò come nemici i Verbigeni catturati, mentre accettò
la resa degli Elvezi che gli consegnarono ostaggi, armi e
fuggiaschi. Comandò agli Elvezi, ai Tulingi e ai Latobici
di ritornare nei territori dai quali erano partiti e, poiché in
patria erano andati perduti tutti i raccolti e non avevano più
nulla con cui sfamarsi, diede disposizione agli Allobrogi
di rifornirli di grano. Ordinò agli Elvezi di ricostruire le
città e i villaggi incendiati. La sua intenzione era,
soprattutto, di non lasciare spopolate le zone dalle quali gli
Elvezi si erano mossi: non voleva che i Germani d'oltre Reno
passassero nei territori degli Elvezi, più fertili, venendo a
confinare con la provincia della Gallia e con gli Allobrogi. I Boi,
che avevano dato prova di grande valore, ottennero il permesso
di stabilirsi nei territori degli Edui, che lo avevano
richiesto. Ai Boi gli Edui diedero campi da
coltivare e, in seguito. concessero parità di diritti e la
stessa condizione di libertà di cui essi stessi godevano. |
[29]
In castris Helvetiorum tabulae repertae sunt litteris Graecis
confectae et ad Caesarem relatae, quibus in tabulis nominatim
ratio confecta erat, qui numerus domo exisset eorum qui arma
ferre possent, et item separatim, quot pueri, senes mulieresque.
[Quarum omnium rerum] summa erat capitum Helvetiorum milium
CCLXIII, Tulingorum milium XXXVI, Latobrigorum XIIII, Rauracorum
XXIII, Boiorum XXXII; ex his qui arma ferre possent ad milia
nonaginta duo. Summa omnium fuerunt ad milia CCCLXVIII. Eorum
qui domum redierunt censu habito, ut Caesar imperaverat,
repertus est numerus milium C et X.
|
-
IL CENSIMENTO DEI GALLI -
Nell'accampamento degli Elvezi vennero trovate e
consegnate a Cesare delle tavolette scritte in caratteri greci.
Si trattava di un elenco nominativo degli uomini in grado di
combattere che avevano lasciato i loro territori; c'era anche, a
parte, una lista riguardante i bambini, i vecchi e le donne. La
somma dei due elenchi contava 263.000 Elvezi, 36.000 Tulingi,
14.000 Latobici, 23.000 Rauraci, 32.000 Boi.
Circa 92.000 erano, tra di essi, gli uomini in grado di
portare armi. Il totale ammontava a 368.000. Si tenne,
per ordine di Cesare, un censimento generale degli Elvezi che
rientravano in patria: risultarono 110.000. |
[30]
Bello Helvetiorum confecto totius fere Galliae legati, principes
civitatum, ad Caesarem gratulatum convenerunt: intellegere sese,
tametsi pro veteribus Helvetiorum iniuriis populi Romani ab his
poenas bello repetisset, tamen eam rem non minus ex usu [terrae]
Galliae quam populi Romani accidisse, propterea quod eo consilio
florentissimis rebus domos suas Helvetii reliquissent uti toti
Galliae bellum inferrent imperioque potirentur, locumque
domicilio ex magna copia deligerent quem ex omni Gallia
oportunissimum ac fructuosissimum iudicassent, reliquasque
civitates stipendiarias haberent. Petierunt uti sibi concilium
totius Galliae in diem certam indicere idque Caesaris facere
voluntate liceret: sese habere quasdam res quas ex communi
consensu ab eo petere vellent. Ea re permissa diem concilio
constituerunt et iure iurando ne quis enuntiaret, nisi quibus
communi consilio mandatum esset, inter se sanxerunt. |
-
LA RIUNIONE GENERALE DEI GALLI -
Terminata la guerra con gli Elvezi, da quasi tutta la Gallia
vennero a congratularsi con Cesare, in veste di ambasciatori, i
più autorevoli cittadini dei vari popoli. Si rendevano conto
che Cesare, con questa guerra, aveva punito gli Elvezi
per le vecchie offese da essi inflitte al popolo romano, ma ne
aveva tratto vantaggio la Gallia non meno di Roma: gli Elvezi,
pur godendo di grandissima prosperità, avevano abbandonato la
loro terra per portare guerra a tutta la Gallia, conquistarla e
scegliersi per insediamento, tra tutte le regioni del paese, la
zona che avessero giudicato più vantaggiosa e fertile,
assoggettando gli altri popoli con un tributo. Chiesero a Cesare
il permesso di fissare una data per una riunione generale dei
Galli: volevano presentargli delle richieste, sulle quali
c'era completo accordo. Cesare acconsentì e tutti giurarono
solennemente di non rivelare gli argomenti trattati, se non su
incarico dell'assemblea stessa. |
[31]
Eo concilio dimisso, idem princeps civitatum qui ante fuerant ad
Caesarem reverterunt petieruntque uti sibi secreto in occulto de
sua omniumque salute cum eo agere liceret. Ea re impetrata sese
omnes flentes Caesari ad pedes proiecerunt: non minus se id
contendere et laborare ne ea quae dixissent enuntiarentur quam
uti ea quae vellent impetrarent, propterea quod, si enuntiatum
esset, summum in cruciatum se venturos viderent. Locutus est pro
his Diviciacus Haeduus: Galliae totius factiones esse duas;
harum alterius principatum tenere Haeduos, alterius Arvernos. Hi
cum tantopere de potentatu inter se multos annos contenderent,
factum esse uti ab Arvernis Sequanisque Germani mercede
arcesserentur. Horum primo circiter milia XV Rhenum transisse;
postea quam agros et cultum et copias Gallorum homines feri ac
barbari adamassent, traductos plures; nunc esse in Gallia ad C
et XX milium numerum. Cum his Haeduos eorumque clientes semel
atque iterum armis contendisse; magnam calamitatem pulsos
accepisse, omnem nobilitatem, omnem senatum, omnem equitatum
amisisse. Quibus proeliis calamitatibusque fractos, qui et sua
virtute et populi Romani hospitio atque amicitia plurimum ante
in Gallia potuissent, coactos esse Sequanis obsides dare
nobilissimos civitatis et iure iurando civitatem obstringere
sese neque obsides repetituros neque auxilium a populo Romano
imploraturos neque recusaturos quo minus perpetuo sub illorum
dicione atque imperio essent. Unum se esse ex omni civitate
Haeduorum qui adduci non potuerit ut iuraret aut liberos suos
obsides daret. Ob eam rem se ex civitate profugisse et Romam ad
senatum venisse auxilium postulatum, quod solus neque iure
iurando neque obsidibus teneretur. Sed peius victoribus Sequanis
quam Haeduis victis accidisse, propterea quod Ariovistus, rex
Germanorum, in eorum finibus consedisset tertiamque partem agri
Sequani, qui esset optimus totius Galliae, occupavisset et nunc
de altera parte tertia Sequanos decedere iuberet, propterea quod
paucis mensibus ante Harudum milia hominum XXIIII ad eum
venissent, quibus locus ac sedes pararentur. Futurum esse paucis
annis uti omnes ex Galliae finibus pellerentur atque omnes
Germani Rhenum transirent; neque enim conferendum esse Gallicum
cum Germanorum agro neque hanc consuetudinem victus cum illa
comparandam. Ariovistum autem, ut semel Gallorum copias proelio
vicerit, quod proelium factum sit ad Magetobrigam, superbe et
crudeliter imperare, obsides nobilissimi cuiusque liberos
poscere et in eos omnia exempla cruciatusque edere, si qua res
non ad nutum aut ad voluntatem eius facta sit. Hominem esse
barbarum, iracundum, temerarium: non posse eius imperia, diutius
sustineri. Nisi quid in Caesare populoque Romano sit auxilii,
omnibus Gallis idem esse faciendum quod Helvetii fecerint, ut
domo emigrent, aliud domicilium, alias sedes, remotas a Germanis,
petant fortunamque, quaecumque accidat, experiantur. Haec si
enuntiata Ariovisto sint, non dubitare quin de omnibus obsidibus
qui apud eum sint gravissimum supplicium sumat. Caesarem vel
auctoritate sua atque exercitus vel recenti victoria vel nomine
populi Romani deterrere posse ne maior multitudo Germanorum
Rhenum traducatur, Galliamque omnem ab Ariovisti iniuria posse
defendere. |
-
LA LOTTA FRA AVERNI-SEQUANI E EDUI: IL RUOLO DEI GERMANI -
Dopo che l'assemblea fu sciolta, si ripresentarono a Cesare i
principi delle varie popolazioni, gli stessi che già erano
venuti da lui. Gli chiesero di poter trattare con lui,
segretamente, di questioni che riguardavano non solo loro, ma la
salvezza comune. Ottenuto il permesso, si gettarono tutti ai
suoi piedi, supplicandolo: desideravano e si preoccupavano di
non fare trapelare nulla del loro colloquio tanto quanto di
vedere esaudite le proprie richieste, perché erano certi che
avrebbero subito i peggiori tormenti, se la cosa si fosse
risaputa. Parlò a nome di tutti l'eduo Diviziaco: tutta
la Gallia era divisa in due fazioni con a capo, rispettivamente,
gli Edui e gli Arverni. I due popoli si erano
contesi tenacemente la supremazia per molti anni, fino a che gli
Arverni e i Sequani non erano ricorsi all'aiuto
dei Germani, assoldandoli. In un primo tempo, avevano
passato il Reno circa 15.000 Germani; quando, però, questa
gente rozza e barbara aveva incominciato ad apprezzare i campi,
la civiltà e le ricchezze dei Galli, il loro numero era
aumentato: adesso, in Gallia, ammontavano a circa 120.000. Gli Edui
e i popoli loro soggetti li avevano affrontati più di una
volta, ma avevano subito una grave disfatta, perdendo tutti i
nobili, tutti i senatori, tutti i cavalieri. In passato, gli Edui
detenevano il potere assoluto in Gallia sia per il loro valore,
sia per l'ospitalità e l'amicizia che li legava al popolo
romano; adesso, invece, prostrati dalle battaglie e dalle
calamità, erano stati costretti dai Sequani a consegnare
in ostaggio i cittadini più insigni e a vincolare il popolo con
il giuramento di non chiedere la restituzione degli ostaggi, di
non implorare l'aiuto del popolo romano e di non ribellarsi mai
alla loro autorità. Ma lui, Diviziaco, non erano
riusciti a costringerlo: tra tutti gli Edui, era l'unico a non
aver giurato, né consegnato i propri figli in ostaggio. Era
fuggito dalla sua terra ed era venuto a Roma dal senato per
chiedere aiuto, proprio perché solo lui non era vincolato da
giuramenti o da ostaggi. Ma ai Sequani vincitori
era toccata sorte peggiore che agli Edui vinti: Ariovisto,
re dei Germani, si era stabilito nei territori dei Sequani
e aveva occupato un terzo delle loro campagne, le più fertili
dell'intera Gallia; adesso ordinava ai Sequani di
evacuarne un altro terzo, perché pochi mesi prima lo avevano
raggiunto circa 20.000 Arudi e a essi voleva trovare una
regione in cui potessero stanziarsi. In pochi anni tutti i Galli
sarebbero stati scacciati dai loro territori e tutti i Germani
avrebbero oltrepassato il Reno. Non c'era paragone, infatti, tra
le campagne dei Galli e dei Germani, né tra il loro tenore di
vita. Ariovisto, poi, da quando aveva vinto l'esercito
dei Galli ad Admagetobriga, regnava con superbia e crudeltà,
chiedeva in ostaggio i figli di tutti i più nobili e riservava
loro ogni specie di punizione e di tortura, se non eseguivano
gli ordini secondo il suo cenno e volere. Era un uomo barbaro,
iracondo e temerario. Non era possibile sopportare più a lungo
le sue prepotenze. Se non avessero trovato aiuto in Cesare e nel
popolo romano, a tutti i Galli non restava che seguire la
decisione degli Elvezi: emigrare dalla patria, cercarsi altra
dimora, altre sedi lontane dai Germani e tentare la sorte,
qualunque cosa accadesse. Ma se Ariovisto avesse avuto notizia
di tutto questo, senza dubbio avrebbe inflitto terribili
supplizi agli ostaggi in sua mano. Cesare, avvalendosi
del prestigio suo e dell'esercito oppure sfruttando la recente
vittoria o il nome del popolo romano, poteva impedire che
aumentasse il numero dei Germani in Gallia e difendere tutto il
paese dai torti di Ariovisto. |
[32]
Hac oratione ab Diviciaco habita omnes qui aderant magno fletu
auxilium a Caesare petere coeperunt. Animadvertit Caesar unos ex
omnibus Sequanos nihil earum rerum facere quas ceteri facerent
sed tristes capite demisso terram intueri. Eius rei quae causa
esset miratus ex ipsis quaesiit. Nihil Sequani respondere, sed
in eadem tristitia taciti permanere. Cum ab his saepius
quaereret neque ullam omnino vocem exprimere posset, idem
Diviacus Haeduus respondit: hoc esse miseriorem et graviorem
fortunam Sequanorum quam reliquorum, quod soli ne in occulto
quidem queri neque auxilium implorare auderent absentisque
Ariovisti crudelitatem, velut si cora adesset, horrerent,
propterea quod reliquis tamen fugae facultas daretur, Sequanis
vero, qui intra fines suos Ariovistum recepissent, quorum oppida
omnia in potestate eius essent, omnes cruciatus essent
perferendi. |
-
LA TERRIBILE SITUAZIONE DEI SEQUANI -
Quando Diviziaco ebbe finito il suo discorso, tutti i
presenti, tra grandi pianti, iniziarono a chiedere aiuto a
Cesare, il quale notò che solo i Sequani non si
comportavano per nulla come gli altri, ma, senza alzare lo
sguardo da terra, tenevano la testa bassa, tristi. Stupito, ne
chiese loro il motivo. I Sequani non risposero, continuando a
rimanere in silenzio, nello stesso atteggiamento di tristezza.
Più volte Cesare ripeté la sua domanda, senza ottenere la
benché minima risposta. Intervenne ancora Diviziaco: la sorte
dei Sequani era molto più misera e pesante di quella degli
altri perché non osavano, neppure in una riunione segreta,
lamentarsi e implorare aiuto e rabbrividivano per la crudeltà
di Ariovisto come se fosse lì presente, anche se era lontano. E
poi, perché gli altri, almeno, avevano la possibilità di
fuggire; essi, invece, che avevano accolto Ariovisto nei loro
territori e avevano visto le loro città cadere nelle sue mani,
dovevano sopportare tormenti d'ogni sorta. |
[33]
His rebus cognitis Caesar Gallorum animos verbis confirmavit
pollicitusque est sibi eam rem curae futuram; magnam se habere
spem et beneficio suo et auctoritate adductum Ariovistum finem
iniuriis facturum. Hac oratione habita, concilium dimisit. Et
secundum ea multae res eum hortabantur quare sibi eam rem
cogitandam et suscipiendam putaret, in primis quod Haeduos,
fratres consanguineosque saepe numero a senatu appellatos, in
servitute atque [in] dicione videbat Germanorum teneri eorumque
obsides esse apud Ariovistum ac Sequanos intellegebat; quod in
tanto imperio populi Romani turpissimum sibi et rei publicae
esse arbitrabatur. Paulatim autem Germanos consuescere Rhenum
transire et in Galliam magnam eorum multitudinem venire populo
Romano periculosum videbat, neque sibi homines feros ac barbaros
temperaturos existimabat quin, cum omnem Galliam occupavissent,
ut ante Cimbri Teutonique fecissent, in provinciam exirent atque
inde in Italiam contenderent [, praesertim cum Sequanos a
provincia nostra Rhodanus divideret]; quibus rebus quam
maturrime occurrendum putabat. Ipse autem Ariovistus tantos sibi
spiritus, tantam arrogantiam sumpserat, ut ferendus non
videretur. |
-
CESARE PENSA AL PROBLEMA "GERMANI" -
Cesare, sapute queste cose, rinfrancò i Galli con le sue
parole e la promessa che avrebbe preso a cuore la faccenda:
aveva fondate speranze che Ariovisto, in considerazione dei
benefici ricevuti e del prestigio di Cesare, avrebbe posto fine
ai suoi torti. Detto ciò, sciolse l'assemblea. Molte
considerazioni, oltre alle precedenti, lo spingevano a ritenere
che fosse necessario riflettere sulla situazione e occuparsene:
primo, vedeva che gli Edui, più volte definiti dal
senato fratelli e consanguinei, si trovavano sotto il dominio e
la schiavitù dei Germani e capiva che loro ostaggi si trovavano
nelle mani di Ariovisto e dei Sequani, cosa che giudicava una
vergogna per sé e per la repubblica, data la potenza del popolo
romano; secondo, riteneva pericoloso per Roma che, a poco a
poco, i Germani prendessero l'abitudine di oltrepassare
il Reno e di stanziarsi in Gallia in numero molto elevato.
Infatti, stimava che questa gente, rozza e barbara, una volta
occupata tutta la Gallia, non avrebbe fatto a meno di passare
nella nostra provincia e di dirigersi verso l'Italia, come un
tempo i Cimbri ed i Teutoni, soprattutto tenendo conto che solo
il Rodano divide la nostra provincia dalla regione dei Sequani.
Stimava, dunque, di doversi occupare al più presto del
problema. Ariovisto stesso, poi, aveva assunto una superbia e
una arroganza tale, che non lo si poteva più sopportare. |
[34]
Quam ob rem placuit ei ut ad Ariovistum legatos mitteret, qui ab
eo postularent uti aliquem locum medium utrisque conloquio
deligeret: velle sese de re publica et summis utriusque rebus
cum eo agere. Ei legationi Ariovistus respondit: si quid ipsi a
Caesare opus esset, sese ad eum venturum fuisse; si quid ille se
velit, illum ad se venire oportere. Praeterea se neque sine
exercitu in eas partes Galliae venire audere quas Caesar
possideret, neque exercitum sine magno commeatu atque molimento
in unum locum contrahere posse. Sibi autem mirum videri quid in
sua Gallia, quam bello vicisset, aut Caesari aut omnino populo
Romano negotii esset. |
-
CESARE CHIEDE DI INCONTRARE IL RE DEI GERMANI -
Perciò, Cesare decise di mandare ad Ariovisto degli
ambasciatori, incaricati di chiedergli che scegliesse un luogo
per un colloquio, a metà strada tra loro: voleva trattare di
questioni politiche della massima importanza per entrambi. Agli
ambasciatori Ariovisto così rispose: se gli serviva
qualcosa da Cesare, si sarebbe recato di persona da lui; ma se
era Cesare a volere qualcosa, toccava a lui andare da Ariovisto.
Inoltre, non osava recarsi senza esercito nelle zone della
Gallia possedute da Cesare, né era possibile radunare
l'esercito senza ingenti scorte di viveri e grandi sforzi. Del
resto, si domandava con meraviglia che cosa Cesare o, in
generale, il popolo romano avessero a che fare nella sua parte
di Gallia, da lui vinta in guerra. |
[35]
His responsis ad Caesarem relatis, iterum ad eum Caesar legatos
cum his mandatis mittit: quoniam tanto suo populique Romani
beneficio adtectus, cum in consulatu suo rex atque amicus a
senatu appellatus esset, hanc sibi populoque Romano gratiam
referret ut in conloquium venire invitatus gravaretur neque de
communi re dicendum sibi et cognoscendum putaret, haec esse quae
ab eo postularet: primum ne quam multitudinem hominum amplius
trans Rhenum in Galliam traduceret; deinde obsides quos haberet
ab Haeduis redderet Sequanisque permitteret ut quos illi
haberent voluntate eius reddere illis liceret; neve Haeduos
iniuria lacesseret neve his sociisque eorum bellum inferret. Si
[id] ita fecisset, sibi populoque Romano perpetuam gratiam atque
amicitiam cum eo futuram; si non impetraret, sese, quoniam M.
Messala, M. Pisone consulibus senatus censuisset uti quicumque
Galliam provinciam obtineret, quod commodo rei publicae lacere
posset, Haeduos ceterosque amicos populi Romani defenderet, se
Haeduorum iniurias non neglecturum. |
-
CESARE NOTIFICA LE SUE RICHIESTE AD ARIOVISTO -
Ricevuta tale risposta, Cesare manda di nuovo ad
Ariovisto degli ambasciatori, coi compito di comunicargli quanto
segue: durante il consolato di Cesare, il senato e il popolo
romano lo avevano definito re e amico. Adesso, poiché così
dimostrava a Cesare e al popolo romano la sua gratitudine,
rifiutandosi di venire a colloquio benché invitato e ritenendo
di non dover discutere o conoscere questioni di interesse
comune, Cesare, allora, gli notificava le proprie richieste:
primo, di non far più passare in Gallia altri Germani; secondo,
di restituire gli ostaggi ricevuti dagli Edui e di permettere ai
Sequani di rendere quelli che detenevano per ordine suo; infine,
di non provocare ingiustamente gli Edui e di non muovere guerra
né a essi, né ai loro alleati. Regolandosi così, Ariovisto
si sarebbe garantito per sempre il favore e l'amicizia del
popolo romano. Cesare, invece, se non avesse ottenuto
quanto chiedeva, non sarebbe rimasto indifferente alle offese
inflitte agli Edui, perché sotto il consolato di M.
Messala e M. Pisone il senato aveva stabilito che il governatore
della Gallia transalpina doveva difendere gli Edui e gli altri
amici del popolo romano, per quanto ciò rispondesse agli
interessi di Roma. |
[36]
Ad haec Ariovistus respondit: ius esse belli ut qui vicissent
iis quos vicissent quem ad modum vellent imperarent. Item
populum Romanum victis non ad alterius praescriptum, sed ad suum
arbitrium imperare consuesse. Si ipse populo Romano non
praescriberet quem ad modum suo iure uteretur, non oportere se a
populo Romano in suo iure impediri. Haeduos sibi, quoniam belli
fortunam temptassent et armis congressi ac superati essent,
stipendiarios esse factos. Magnam Caesarem iniuriam facere, qui
suo adventu vectigalia sibi deteriora faceret. Haeduis se
obsides redditurum non esse neque his neque eorum sociis iniuria
bellum inlaturum, si in eo manerent quod convenisset
stipendiumque quotannis penderent; si id non fecissent, longe
iis fraternum nomen populi Romani afuturum. Quod sibi Caesar
denuntiaret se Haeduorum iniurias non neglecturum, neminem secum
sine sua pernicie contendisse. Cum vellet, congrederetur:
intellecturum quid invicti Germani, exercitatissimi in armis,
qui inter annos XIIII tectum non subissent, virtute possent. |
-
ARIOVISTO RIFIUTA LE RICHIESTE -
Ariovisto replicò così: il diritto di guerra permetteva ai
vincitori di dominare i vinti a proprio piacimento; allo stesso
modo il popolo romano era abituato a governare i vinti non
secondo le imposizioni altrui, ma a proprio arbitrio. Se
Ariovisto non dava ordini ai Romani su come esercitare il loro
diritto, non c'era ragione che i Romani ponessero ostacoli a
lui, quando applicava il suo. Gli Edui avevano tentato la
sorte in guerra, avevano combattuto ed erano usciti sconfitti;
perciò, li aveva resi suoi tributari. Era Cesare a fargli un
grave torto, perché con il suo arrivo erano diminuiti i
versamenti dei popoli sottomessi. Non avrebbe restituito gli
ostaggi agli Edui, ma neppure avrebbe mosso guerra a essi, né
ai loro alleati, se rispettavano gli obblighi assunti, pagando
ogni anno i tributi. In caso contrario, poco sarebbe servito
loro il titolo di fratelli del popolo romano. Se Cesare lo aveva
avvertito che non avrebbe lasciato impunite le offese inferte
agli Edui, gli rispondeva che nessuno aveva combattuto contro
Ariovisto senza subire una disfatta. Attaccasse pure quando
voleva: si sarebbe reso conto del valore degli invitti Germani,
che erano addestratissimi e per quattordici anni non avevano mai
avuto bisogno di un tetto. |
[37]
Haec eodem tempore Caesari mandata referebantur et legati ab
Haeduis et a Treveris veniebant: Haedui questum quod Harudes,
qui nuper in Galliam transportati essent, fines eorum
popularentur: sese ne obsidibus quidem datis pacem Ariovisti
redimere potuisse; Treveri autem, pagos centum Sueborum ad ripas
Rheni consedisse, qui Rhemum transire conarentur; his praeesse
Nasuam et Cimberium fratres. Quibus rebus Caesar vehementer
commotus maturandum sibi existimavit, ne, si nova manus Sueborum
cum veteribus copiis Ariovisti sese coniunxisset, minus facile
resisti posset. Itaque re frumentaria quam celerrime potuit
comparata magnis itineribus ad Ariovistum contendit.
|
-
CESARE DECIDE DI ATTACCARE ARIOVISTO -
Nel momento stesso in cui a Cesare veniva riferita la risposta
di Ariovisto, giungevano emissari da parte degli Edui e
dei Treveri. Gli Edui si lamentavano che gli Arudi,
da poco trasferitisi in Gallia, devastavano il loro territorio:
neppure la consegna degli ostaggi era valsa a ottenere la pace
da Ariovisto. I Treveri, invece, dicevano che le cento
tribù degli Svevi si erano stabilite lungo le rive del
Reno e tentavano di attraversarlo; li guidavano i fratelli Nasua
e Cimberio. Cesare, fortemente scosso dalle notizie, pensò
di dover stringere i tempi per evitare di incontrare maggiore
resistenza, se il nuovo gruppo degli Svevi si fosse aggiunto
alle precedenti truppe di Ariovisto. Perciò, fatta al più
presto provvista di grano, mosse contro Ariovisto forzando le
tappe. |
[38]
Cum tridui viam processisset, nuntiatum est ei Ariovistum cum
suis omnibus copiis ad occupandum Vesontionem, quod est oppidum
maximum Sequanorum, contendere [triduique viam a suis finibus
processisse]. Id ne accideret, magnopere sibi praecavendum
Caesar existimabat. Namque omnium rerum quae ad bellum usui
erant summa erat in eo oppido facultas, idque natura loci sic
muniebatur ut magnam ad ducendum bellum daret facultatem,
propterea quod flumen [alduas] Dubis ut circino circumductum
paene totum oppidum cingit, reliquum spatium, quod est non
amplius pedum MDC, qua flumen intermittit, mons continet magna
altitudine, ita ut radices eius montis ex utraque parte ripae
fluminis contingant, hunc murus circumdatus arcem efficit et cum
oppido coniungit. Huc Caesar magnis nocturnis diurnisque
itineribus contendit occupatoque oppido ibi praesidium conlocat. |
-
CESARE ENTRA A VESONZIONE PER PROTEGGERLA -
Dopo tre giorni di marcia gli riferirono che Ariovisto era
partito dai suoi territori già da tre giorni e si dirigeva con
tutte le truppe verso Vesonzione, la più grande città
dei Sequani, per occuparla. Cesare giudicò di
dover impedire a ogni costo che Vesonzione cadesse. Infatti,
nella città si trovava, in abbondanza, tutto ciò che serve in
guerra; inoltre, era così protetta dalla conformazione
naturale, da permettere con facilità le operazioni belliche: il
fiume Doubs la circonda quasi completamente, come se il suo
corso fosse stato tracciato con un compasso; dove non scorre il
fiume, in una zona che si estende per non più di 1600 piedi,
sorge un monte molto elevato, la cui base tocca da entrambi i
lati le sponde del Doubs. Un muro circonda il monte, lo unisce
alla città e ne fa una roccaforte. Cesare qui si diresse, a
marce forzate di giorno e di notte. occupò la città e vi pose
un presidio. |
[39]
Dum paucos dies ad Vesontionem rei frumentariae commeatusque
causa moratur, ex percontatione nostrorum vocibusque Gallorum ac
mercatorum, qui ingenti magnitudine corporum Germanos,
incredibili virtute atque exercitatione in armis esse
praedicabant (saepe numero sese cum his congressos ne vultum
quidem atque aciem oculorum dicebant ferre potuisse), tantus
subito timor omnem exercitum occupavit ut non mediocriter omnium
mentes animosque perturbaret. Hic primum ortus est a tribunis
militum, praefectis, reliquisque qui ex urbe amicitiae causa
Caesarem secuti non magnum in re militari usum habebant: quorum
alius alia causa inlata, quam sibi ad proficiscendum necessariam
esse diceret, petebat ut eius voluntate discedere liceret; non
nulli pudore adducti, ut timoris suspicionem vitarent,
remanebant. Hi neque vultum fingere neque interdum lacrimas
tenere poterant: abditi in tabernaculis aut suum fatum
querebantur aut cum familiaribus suis commune periculum
miserabantur. Vulgo totis castris testamenta obsignabantur.
Horum vocibus ac timore paulatim etiam ii qui magnum in castris
usum habebant, milites centurionesque quique equitatui praeerant,
perturbabantur. Qui se ex his minus timidos existimari volebant,
non se hostem vereri, sed angustias itineris et magnitudinem
silvarum quae intercederent inter ipsos atque Ariovistum, aut
rem frumentariam, ut satis commode supportari posset, timere
dicebant. Non nulli etiam Caesari nuntiabant, cum castra moveri
ac signa ferri iussisset, non fore dicto audientes milites neque
propter timorem signa laturos. |
-
I ROMANI TEMONI I GERMANI -
Nei pochi giorni in cui Cesare si trattenne a Vesonzione per
rifornirsi di grano e di viveri, i Galli e i mercanti,
interrogati dai nostri soldati, andavano dicendo che i Germani
erano uomini dal fisico imponente, incredibilmente valorosi e
avvezzi al combattimento; spesso li avevano affrontati, ma non
erano neppure riusciti a sostenerne l'aspetto e lo sguardo. Di
colpo, in seguito a tali voci, un timore così grande si
impadronì dei nostri, da sconvolgere profondamente le menti e
gli animi di tutti. Dapprima, si manifestò tra i tribuni
militari, i prefetti e gli altri privi di grande esperienza
militare, che avevano seguito Cesare da Roma per ragioni di
amicizia. Tutti adducevano scuse, chi l'una, chi l'altra,
sostenendo di avere dei motivi che li costringevano a partire, e
ne chiedevano a Cesare il permesso. Alcuni, trattenuti dalla
vergogna, rimanevano, per non destare sospetti di timore, ma non
potevano contraffare l'espressione del volto, né talora
trattenere le lacrime; al sicuro, nelle loro tende, si
lamentavano del loro destino o compiangevano con i loro amici il
comune pericolo. In ogni angolo dell'accampamento si facevano
testamenti. I discorsi e la paura di questa gente, a poco a
poco, impressionavano anche le persone provviste di grande
esperienza militare: legionari, centurioni e capi della
cavalleria. Chi voleva apparire meno pusillanime diceva di
paventare non tanto il nemico, quanto la strada molto stretta e
l'estensione delle foreste che li dividevano da Ariovisto,
oppure di avere paura che il frumento non potesse essere
trasportato tanto facilmente. Alcuni avevano addirittura
riferito a Cesare che, all'ordine di togliere le tende e di
avanzare, i soldati non avrebbero obbedito, né levato il campo,
terrorizzati com'erano. |
[40]
Haec cum animadvertisset, convocato consilio omniumque ordinum
ad id consilium adhibitis centurionibus, vehementer eos
incusavit: primum, quod aut quam in partem aut quo consilio
ducerentur sibi quaerendum aut cogitandum putarent. Ariovistum
se consule cupidissime populi Romani amicitiam adpetisse; cur
hunc tam temere quisquam ab officio discessurum iudicaret? Sibi
quidem persuaderi cognitis suis poslulatis atque aequitate
condicionum perspecta eum neque suam neque populi Romani gratiam
repudiaturum. Quod si furore atque amentia impulsum bellum
intulisset, quid tandem vererentur? Aut cur de sua virtute aut
de ipsius diligentia desperarent? Factum eius hostis periculum
patrum nostrorum memoria Cimbris et Teutonis a C. Mario pulsis [cum
non minorem laudem exercitus quam ipse imperator meritus
videbatur]; factum etiam nuper in Italia servili tumultu, quos
tamen aliquid usus ac disciplina, quam a nobis accepissent,
sublevarint. Ex quo iudicari posse quantum haberet in se boni
constantia, propterea quod quos aliquam diu inermes sine causa
timuissent hos postea armatos ac victores superassent. Denique
hos esse eosdem Germanos quibuscum saepe numero Helvetii
congressi non solum in suis sed etiam in illorum finibus
plerumque superarint, qui tamen pares esse nostro exercitui non
potuerint. Si quos adversum proelium et fuga Gallorum commoveret,
hos, si quaererent, reperire posse diuturnitate belli
defatigatis Gallis Ariovistum, cum multos menses castris se ac
paludibus tenuisset neque sui potestatem fecisset, desperantes
iam de pugna et dispersos subito adortum magis ratione et
consilio quam virtute vicisse. Cui rationi contra homines
barbaros atque imperitos locus fuisset, hac ne ipsum quidem
sperare nostros exercitus capi posse. Qui suum timorem in rei
frumentariae simulationem angustiasque itineris conferrent,
facere arroganter, cum aut de officio imperatoris desperare aut
praescribere viderentur. Haec sibi esse curae; frumentum
Sequanos, Leucos, Lingones subministrare, iamque esse in agris
frumenta matura; de itinere ipsos brevi tempore iudicaturos.
Quod non fore dicto audientes neque signa laturi dicantur, nihil
se ea re commoveri: scire enim, quibuscumque exercitus dicto
audiens non fuerit, aut male re gesta fortunam defuisse aut
aliquo facinore comperto avaritiam esse convictam. Suam
innocentiam perpetua vita, felicitatem Helvetiorum bello esse
perspectam. Itaque se quod in longiorem diem conlaturus fuisset
repraesentaturum et proxima nocte de quarta, vigilia castra
moturum, ut quam primum intellegere posset utrum apud eos pudor
atque officium an timor plus valeret. Quod si praeterea nemo
sequatur, tamen se cum sola decima legione iturum, de qua non
dubitet, sibique eam praetoriam cohortem futuram. Huic legioni
Caesar et indulserat praecipue et propter virtutem confidebat
maxime. |
-
CESARE RIMPROVERA L'ESERCITO -
Cesare, messo in allarme, riunì il consiglio di guerra e
convocò anche i centurioni di ogni grado. Li rimproverò
aspramente, perché, soprattutto, avevano la presunzione di
chiedersi e di rimuginare dove li portasse e con quali
intenzioni. Sotto il suo consolato, Ariovisto aveva ricercato
con molta ansia l'amicizia del popolo romano: chi poteva
immaginarsi che sarebbe venuto meno ai propri doveri così
avventatamente? Dal canto suo, era convinto che Ariovisto,
conosciute le richieste e constatata l'equità dei patti
proposti, non avrebbe respinto l'appoggio di Cesare e del popolo
romano. E se, spinto da un demenziale impulso, avesse mosso
guerra ai Romani, che cosa mai dovevano temere? Che motivo c'era
di non aver più fiducia nel valore dei soldati o nella sua
efficienza di generale? Ai tempi dei loro padri avevano già
affrontato il pericolo rappresentato da quei nemici, quando i Cimbri
e i Teutoni erano stati sconfitti da C. Mario e
l'esercito si era meritato non meno gloria del comandante
stesso; un pericolo simile lo avevano corso, e non erano passati
molti anni, anche in Italia con la rivolta degli schiavi, che
però si erano avvalsi della pratica e della disciplina imparate
dai Romani. Tali esempi permettevano di giudicare come sia
positiva in sé la fermezza d'animo: proprio il nemico, temuto a
lungo e senza motivo quando era privo d'armi, lo avevano
successivamente sconfitto quando era armato e già vincitore.
Infine, i Germani erano lo stesso popolo con il quale gli Elvezi
si erano più volte scontrati, non solo nei propri territori, ma
anche nei loro, riportando la vittoria nella maggior parte dei
casi. E gli Elvezi non erano riusciti a tener testa all'esercito
romano. Chi era rimasto scosso perché i Galli erano stati
sconfitti e messi in fuga, avrebbe scoperto, se si fosse
informato, che Ariovisto aveva logorato i suoi avversari con una
guerra di attesa, tenendosi per molti mesi in un accampamento
tra le paludi, senza esporsi mai. Poi, quando ormai i Galli
disperavano di poter combattere e si erano disuniti, li aveva
assaliti, riuscendo, così, a sconfiggerli grazie ai suoi
calcoli e ai suoi piani più che al suo valore. Ma se c'era
spazio per questi calcoli contro dei barbari privi di esperienza
militare, neppure Ariovisto stesso si illudeva di poter così
sorprendere il nostro esercito. Chi esprimeva il proprio timore,
fingendo di essere preoccupato per le scorte di grano e per la
strada molto stretta, era un insolente, perché osava negare il
senso del dovere del comandante o addirittura voleva impartirgli
delle direttive. I suoi compiti di comandante erano di indurre i
Sequani, i Leuci e i Lingoni a fornire il
grano, ormai maturo nei campi; quanto alla strada, avrebbero
giudicato tra breve essi stessi. Se si mormorava che i soldati
non avrebbero eseguito gli ordini, né levato il campo, non se
ne curava affatto: conosceva, infatti, casi di disobbedienza da
parte delle truppe, ma si trattava di comandanti che avevano
fallito un'impresa ed erano stati abbandonati dalla fortuna dei
quali era stato scoperto qualche misfatto e dimostrata l'avidità.
Ma tutta la sua vita comprovava la sua onestà, la guerra contro
gli Elvezi la sua fortuna. Perciò, avrebbe dato subito l'ordine
che voleva rimandare a più tardi: avrebbe levato le tende la
notte successiva, dopo le tre, per accertarsi al più presto se
in loro prevaleva la vergogna, unita al senso del dovere, oppure
la paura. E se, poi, nessuno lo avesse seguito, si sarebbe messo
in marcia, comunque, con la sola decima legione, su cui non
aveva dubbi: sarebbe stata la sua coorte pretoria. Nei confronti
della decima legione Cesare aveva avuto una benevolenza
particolare e in essa riponeva la massima fiducia per il suo
valore. |
[41]
Hac oratione habita mirum in modum conversae sunt omnium mentes
summaque alacritas et cupiditas belli gerendi innata est,
princepsque X. legio per tribunos militum ei gratias egit quod
de se optimum iudicium fecisset, seque esse ad bellum gerendum
paratissimam confirmavit. Deinde reliquae legiones cum tribunis
militum et primorum ordinum centurionibus egerunt uti Caesari
satis facerent: se neque umquam dubitasse neque timuisse neque
de summa belli suum iudicium sed imperatoris esse existimavisse.
Eorum satisfactione accepta et itinere exquisito per Diviciacum,
quod ex Gallis ei maximam fidem habebat, ut milium amplius
quinquaginta circuitu locis apertis exercitum duceret, de quarta
vigilia, ut dixerat, profectus est. Septimo die, cum iter non
intermitteret, ab exploratoribus certior factus est Ariovisti
copias a nostris milia passuum IIII et XX abesse.
|
-
IL MORALE DELL'ESERCITO SI RIPRENDE -
Dopo il discorso di Cesare, lo stato d'animo di tutti mutò in
modo sorprendente e in ognuno nacque una gran voglia di agire,
un gran desiderio di combattere. Per prima la decima legione,
attraverso i tribuni militari, lo ringraziò per lo
straordinario apprezzamento ricevuto e confermò di essere
prontissima a scendere in campo. Poi le altre legioni, con i
tribuni militari e i centurioni più alti in grado, provvidero a
scusarsi con Cesare: non avevano mai nutrito dubbi o timori, né
avevano pensato che la valutazione delle scelte strategiche
spettasse a loro, ma al comandante. Cesare ne accettò le
scuse e a Diviziaco, l'unico a cui riservava la massima
fiducia tra i Galli, chiese l'itinerario da seguirsi per portare
l'esercito in luoghi aperti compiendo un giro di oltre 50
miglia. Come aveva preannunziato, dopo le tre di notte partì.
Il settimo giorno di marcia ininterrotta fu informato dagli
esploratori che le truppe di Ariovisto distavano dai nostri 24
miglia. |
[42]
Cognito Caesaris adventu Ariovistus legatos ad eum mittit: quod
antea de conloquio postulasset, id per se fieri licere, quoniam
propius accessisset seque id sine periculo facere posse
existimaret. Non respuit condicionem Caesar iamque eum ad
sanitatem reverti arbitrabatur, cum id quod antea petenti
denegasset ultro polliceretur, magnamque in spem veniebat pro
suis tantis populique Romani in eum beneficiis cognitis suis
postulatis fore uti pertinacia desisteret. Dies conloquio dictus
est ex eo die quintus. Interim saepe cum legati ultro citroque
inter eos mitterentur, Ariovistus postulavit ne quem peditem ad
conloquium Caesar adduceret: vereri se ne per insidias ab eo
circumveniretur; uterque cum equitatu veniret: alia ratione sese
non esse venturum. Caesar, quod neque conloquium interposita
causa tolli volebat neque salutem suam Gallorum equitatui
committere audebat, commodissimum esse statuit omnibus equis
Gallis equitibus detractis eo legionarios milites legionis X.,
cui quam maxime confidebat, imponere, ut praesidium quam
amicissimum, si quid opus facto esset, haberet. Quod cum fieret,
non inridicule quidam ex militibus X. legionis dixit: plus quam
pollicitus esset Caesarem facere; pollicitum se in cohortis
praetoriae loco X. legionem habiturum ad equum rescribere. |
-
ARIOVISTO PROPONE UN INCONTRO A CESARE -
Ariovisto, informato dell'arrivo di Cesare, gli manda
degli ambasciatori: il colloquio sollecitato in precedenza
poteva, per quanto lo riguardava, aver luogo, perché Cesare si
era avvicinato ed egli stimava di non correre pericolo. Cesare
non respinge la proposta, perché riteneva ormai che Ariovisto
avesse riacquistato il buon senso, visto che offriva
spontaneamente ciò che prima aveva negato, quando ne era stato
richiesto. Inoltre, Cesare nutriva grandi speranze che Ariovisto,
in considerazione dei grandi benefici ricevuti da lui e dal
popolo romano, avrebbe deposto la sua ostinazione, una volta
conosciuto che cosa si voleva da lui. Il colloquio fu fissato da
lì a cinque giorni. Nel periodo di tempo che lo precedette, si
ebbe un'intensa attività diplomatica. Ariovisto pose
come condizione che Cesare non portasse al colloquio truppe di
fanteria, perché temeva di cadere in un'imboscata: entrambi
sarebbero giunti con la cavalleria, altrimenti non si sarebbe
presentato. Cesare non voleva che, per il frapporsi di un
pretesto, il colloquio saltasse, ma neppure osava mettersi nelle
mani della cavalleria dei Galli; decise, perciò, che la cosa più
conveniente era lasciare a terra i cavalieri Galli e mettere in
sella i soldati della decima legione, nella quale riponeva la
massima fiducia, per avere, se c'era bisogno di agire, la scorta
più leale possibile. Mentre veniva eseguita l'operazione, uno
dei soldati della decima legione, non senza spirito, disse che
Cesare aveva fatto per loro più di quanto avesse promesso:
aveva detto che li avrebbe presi come coorte pretoria, adesso li
faceva passare addirittura al rango equestre. |
[43]
Planities erat magna et in ea tumulus terrenus satis grandis.
Hic locus aequum fere spatium a castris Ariovisti et Caesaris
aberat. Eo, ut erat dictum, ad conloquium venerunt. Legionem
Caesar, quam equis devexerat, passibus CC ab eo tumulo
constituit. Item equites Ariovisti pari intervallo constiterunt.
Ariovistus ex equis ut conloquerentur et praeter se denos ad
conloquium adducerent postulavit. Ubi eo ventum est, Caesar
initio orationis sua senatusque in eum beneficia commemoravit,
quod rex appellatus esset a senatu, quod amicus, quod munera
amplissime missa; quam rem et paucis contigisse et pro magnis
hominum officiis consuesse tribui docebat; illum, cum neque
aditum neque causam postulandi iustam haberet, beneficio ac
liberalitate sua ac senatus ea praemia consecutum. Docebat etiam
quam veteres quamque iustae causae necessitudinis ipsis cum
Haeduis intercederent, quae senatus consulta quotiens quamque
honorifica in eos facta essent, ut omni tempore totius Galliae
principatum Haedui tenuissent, prius etiam quam nostram
amicitiam adpetissent. Populi Romani hanc esse consuetudinem, ut
socios atque amicos non modo sui nihil deperdere, sed gratia,
dignitate, honore auctiores velit esse; quod vero ad amicitiam
populi Romani attulissent, id iis eripi quis pati posset?
Postulavit deinde eadem quae legatis in mandatis dederat: ne aut
Haeduis aut eorum sociis bellum inferret, obsides redderet, si
nullam partem Germanorum domum remittere posset, at ne quos
amplius Rhenum transire pateretur.
|
-
CESARE RINNOVA LE SUE PROPOSTE -
C'era un'ampia pianura, con un rialzo di terra abbastanza
grande, all'incirca a pari distanza dagli accampamenti di
Ariovisto e di Cesare. Qui, come stabilito, si incontrarono per
il colloquio. A 200 passi dal rialzo, Cesare fermò i legionari
che lo seguivano a cavallo. Anche i cavalieri di Ariovisto si
fermarono alla stessa distanza. Ariovisto chiese che si parlasse
senza scendere da cavallo e che ciascuno portasse con sé 10
uomini. Quando giunsero sul posto, Cesare iniziò il suo
discorso ricordando i benefici resi ad Ariovisto da lui e dal
senato: era stato definito re e amico, gli erano stati inviati
doni in abbondanza. Onori del genere toccavano a poche persone
ed i Romani, di solito, li concedevano in considerazione di
servigi eccezionali; Ariovisto, invece, pur non avendo né
titoli, né motivo per pretendere simili privilegi, li aveva
ottenuti grazie al favore e alla liberalità di Cesare e del
senato. E gli illustrava anche quanto fossero antiche e giuste
le ragioni dei legami che intercorrevano tra i Romani e gli Edui,
quante e quali onorifiche disposizioni il senato avesse preso
nei loro riguardi, come gli Edui avessero sempre detenuto
l'egemonia su tutta la Gallia, ancor prima di cercare la nostra
amicizia. Il popolo romano voleva, per consuetudine, che gli
alleati e gli amici non solo non perdessero nulla del potere
acquisito, ma vedessero crescere il favore, la dignità, l'onore
di cui godevano: chi poteva, dunque, tollerare che venisse tolto
agli Edui ciò che avevano offerto all'amicizia del popolo
romano? Ribadì, poi, le stesse richieste presentate dai
suoi ambasciatori: che Ariovisto non muovesse guerra né agli
Edui, né ai loro alleati, restituisse gli ostaggi e, se non
poteva rimandare indietro nessuno dei Germani ormai presenti in
Gallia, almeno non permettesse che altri oltrepassassero il
Reno. |
[44]
Ariovistus ad postulata Caesaris pauca respondit, de suis
virtutibus multa praedicavit: transisse Rhenum sese non sua
sponte, sed rogatum et arcessitum a Gallis; non sine magna spe
magnisque praemiis domum propinquosque reliquisse; sedes habere
in Gallia ab ipsis concessas, obsides ipsorum voluntate datos;
stipendium capere iure belli, quod victores victis imponere
consuerint. Non sese Gallis sed Gallos sibi bellum intulisse:
omnes Galliae civitates ad se oppugnandum venisse ac contra se
castra habuisse; eas omnes copias a se uno proelio pulsas ac
superatas esse. Si iterum experiri velint, se iterum paratum
esse decertare; si pace uti velint, iniquum esse de stipendio
recusare, quod sua voluntate ad id tempus pependerint. Amicitiam
populi Romani sibi ornamento et praesidio, non detrimento esse
oportere, atque se hac spe petisse. Si per populum Romanum
stipendium remittatur et dediticii subtrahantur, non minus
libenter sese recusaturum populi Romani amicitiam quam
adpetierit. Quod multitudinem Germanorum in Galliam traducat, id
se sui muniendi, non Galliae oppugnandae causa facere; eius rei
testimonium esse quod nisi rogatus non venerit et quod bellum
non intulerit sed defenderit. Se prius in Galliam venisse quam
populum Romanum. Numquam ante hoc tempus exercitum populi Romani
Galliae provinciae finibus egressum. Quid sibi vellet? Cur in
suas possessiones veniret? Provinciam suam hanc esse Galliam,
sicut illam nostram. Ut ipsi concedi non oporteret, si in
nostros fines impetum faceret, sic item nos esse iniquos, quod
in suo iure se interpellaremus. Quod fratres a senatu Haeduos
appellatos diceret, non se tam barbarum neque tam imperitum esse
rerum ut non sciret neque bello Allobrogum proximo Haeduos
Romanis auxilium tulisse neque ipsos in iis contentionibus quas
Haedui secum et cum Sequanis habuissent auxilio populi Romani
usos esse. Debere se suspicari simulata Caesarem amicitia, quod
exercitum in Gallia habeat, sui opprimendi causa habere. Qui
nisi decedat atque exercitum deducat ex his regionibus, sese
illum non pro amico sed pro hoste habiturum. Quod si eum
interfecerit, multis sese nobilibus principibusque populi Romani
gratum esse facturum (id se ab ipsis per eorum nuntios compertum
habere), quorum omnium gratiam atque amicitiam eius morte
redimere posset. Quod si decessisset et liberam possessionem
Galliae sibi tradidisset, magno se illum praemio remuneraturum
et quaecumque bella geri vellet sine ullo eius labore et
periculo confecturum. |
-
ARIOVISTO SI DICE PRONTO ALLA GUERRA -
Ariovisto dedicò poche parole alle richieste di Cesare, ma
molte ne spese per elencare i propri meriti: aveva passato il
Reno non per volontà sua, ma su richiesta e invito dei Galli;
non aveva certo lasciato la patria e i congiunti senza viva
speranza di forti ricompense; in Gallia occupava sedi che gli
erano state concesse; gli ostaggi gli erano stati consegnati
spontaneamente; percepiva tributi secondo il diritto di guerra,
che i vincitori sono soliti imporre ai vinti. Non era stato lui
ad aggredire i Galli, ma i Galli lui; tutti i popoli della
Gallia si erano mossi ed erano scesi in campo contro di lui; li
aveva respinti e sconfitti, tutti, in una sola battaglia. Se i
Galli intendevano riprovarci, era pronto a battersi di nuovo,
ma, se desideravano la pace, non era giusto che si rifiutassero
di pagare il tributo fino ad allora versato volontariamente.
L'amicizia del popolo romano doveva essere per lui non un danno,
ma un vanto e una protezione, e con questa speranza l'aveva
richiesta. Se a causa del popolo romano doveva rimetterci i
tributi e restituire i prigionieri, avrebbe rinunciato
all'amicizia di Roma con lo stesso piacere con cui l'aveva
cercata. Se faceva passare al di qua del Reno molti Germani, era
per difendersi, non per assalire la Gallia: lo testimoniava il
fatto che era venuto solo perché lo avevano chiamato e non
aveva mosso guerra, ma si era difeso. Era giunto in Gallia prima
del popolo romano, il cui esercito, in precedenza, non era mai
uscito dai confini della provincia della Gallia. Che cosa
cercava Cesare, come mai entrava nei possedimenti di Ariovisto?
Questa parte di Gallia era sua, così come l'altra era nostra.
Come non era ammissibile che i Romani cedessero, se i Germani
avessero attaccato il nostro territorio, così noi, allo stesso
modo, eravamo in torto a interferire nel suo diritto. Se Cesare
dichiarava che gli Edui avevano ricevuto il titolo di amici dal
senato, gli rispondeva che non era così barbaro, né
sprovveduto da ignorare che gli Edui non avevano aiutato i
Romani nel recente conflitto con gli Allobrogi, né si erano
avvalsi del sostegno del popolo romano nella lotta contro di lui
e i Sequani. Doveva sospettare che Cesare simulasse questa
amicizia e tenesse in Gallia un esercito con il solo scopo di
sopraffarlo. Se Cesare non si ritirava con le sue truppe dalle
regioni in questione, lo avrebbe considerato non un amico, ma un
nemico. E se lo avesse ucciso, avrebbe fatto cosa gradita a
molti nobili e capi del popolo romano; lo aveva saputo da loro
emissari: con la morte di Cesare poteva guadagnarsi il
favore e l'amicizia di tutti loro. Ma se Cesare si allontanava e
gli concedeva il libero possesso della Gallia, lo avrebbe
ricompensato ampiamente e gli avrebbe consentito di muovere
qualsiasi guerra volesse, senza travaglio o pericolo alcuno. |
[45]
Multa a Caesare in eam sententiam dicta sunt quare negotio
desistere non posset: neque suam neque populi Romani
consuetudinem pati ut optime meritos socios desereret, neque se
iudicare Galliam potius esse Ariovisti quam populi Romani. Bello
superatos esse Arvernos et Rutenos a Q. Fabio Maximo, quibus
populus Romanus ignovisset neque in provinciam redegisset neque
stipendium posuisset. Quod si antiquissimum quodque tempus
spectari oporteret, populi Romani iustissimum esse in Gallia
imperium; si iudicium senatus observari oporteret, liberam
debere esse Galliam, quam bello victam suis legibus uti
voluisset. |
-
LE MOTIVAZIONI DI CESARE -
Cesare, in risposta, spiegò lungamente ad Ariovisto perché
non poteva venir meno all'impegno preso: né lui, né il popolo
romano avevano l'abitudine di abbandonare gli alleati molto
benemeriti; inoltre, non riteneva che la Gallia spettasse ad
Ariovisto più che al popolo romano. Q. Fabio Massimo aveva
sconfitto gli Arverni e i Ruteni; il popolo romano li aveva
perdonati, non aveva ridotto a provincia i loro territori, né
imposto tributi. Se occorreva riandare ai tempi più antichi, il
dominio del popolo romano in Gallia era il più giusto; se
bisognava rispettare il decreto del senato, la Gallia doveva
rimanere libera, perché, vinta in guerra da Roma, aveva voluto
mantenere le proprie leggi. |
[46]
Dum haec in conloquio geruntur, Caesari nuntiatum est equites
Ariovisti propius tumulum accedere et ad nostros adequitare,
lapides telaque in nostros coicere. Caesar loquendi finem fecit
seque ad suos recepit suisque imperavit ne quod omnino telum in
hostes reicerent. Nam etsi sine ullo periculo legionis delectae
cum equitatu proelium fore videbat, tamen committendum non
putabat ut, pulsis hostibus, dici posset eos ab se per fidem in
conloquio circumventos. Postea quam in vulgus militum elatum est
qua arrogantia in conloquio Ariovistus usus omni Gallia Romanis
interdixisset, impetumque in nostros eius equites fecissent,
eaque res conloquium ut diremisset, multo maior alacritas
studiumque pugnandi maius exercitui iniectum est. |
-
IL TRADIMENTO DEI GERMANI-
Mentre il colloquio andava svolgendosi in questo modo, a Cesare
venne riferito che i cavalieri di Ariovisto si avvicinavano al
rialzo e si dirigevano contro i nostri, scagliando pietre e
frecce. Allora interruppe il discorso, raggiunse i suoi e diede
ordine tassativo di non rispondere ai nemici neanche con un
dardo. Infatti, anche se nello scontro con la cavalleria nemica
non prevedeva alcun pericolo per la sua legione prediletta,
tuttavia non ritenne opportuno ingaggiar battaglia, perché i
nemici, battuti, non potessero sostenere di essere caduti
vittima di un tradimento di Cesare, durante il colloquio. Quando
tra le nostre truppe si sparse la voce, dappertutto, del tono di
arroganza assunto da Ariovisto, che aveva interdetto ai Romani
tutta la Gallia, e di come i suoi cavalieri avessero assalito i
nostri, causando l'interruzione del colloquio, nell'esercito si
destò un ardore e un desiderio di combattere ancor più vivo. |
[47]
Biduo post Ariovistus ad Caesarem legatos misit: velle se de iis
rebus quae inter eos egi coeptae neque perfectae essent agere
cum eo: uti aut iterum conloquio diem constitueret aut, si id
minus vellet, ex suis legatis aliquem ad se mitteret.
Conloquendi Caesari causa visa non est, et eo magis quod pridie
eius diei Germani retineri non potuerant quin tela in nostros
coicerent. Legatum ex suis sese magno cum periculo ad eum
missurum et hominibus feris obiecturum existimabat.
Commodissimum visum est C. Valerium Procillum, C. Valerii Caburi
filium, summa virtute et humanitate adulescentem, cuius pater a
C. Valerio Flacco civitate donatus erat, et propter fidem et
propter linguae Gallicae scientiam, qua multa iam Ariovistus
longinqua consuetudine utebatur, et quod in eo peccandi Germanis
causa non esset, ad eum mittere, et una M. Metium, qui hospitio
Ariovisti utebatur. His mandavit quae diceret Ariovistus
cognoscerent et ad se referrent. Quos cum apud se in castris
Ariovistus conspexisset, exercitu suo praesente conclamavit:
quid ad se venirent? an speculandi causa? Conantes dicere
prohibuit et in catenas coniecit. |
-
ARIOVISTO IMPRIGIONA GLI AMBASCIATORI DI CESARE -
Due giorni dopo, Ariovisto inviò a Cesare un'ambasceria:
voleva trattare delle questioni di cui avevano cominciato a
discutere senza giungere a una conclusione: perciò, gli
chiedeva di scegliere un giorno per un nuovo incontro o, se
preferiva, di mandare uno dei suoi in veste di legato. Cesare
non vedeva motivo di riprendere il colloquio, tanto più che il
giorno precedente i Germani non avevano saputo trattenersi dal
lanciare frecce contro i nostri. Riteneva che mandare uno dei
suoi in veste di legato, mettendolo nelle mani di quegli uomini
rozzi, fosse molto pericoloso. La cosa più utile gli sembrò
inviare C. Valerio Procillo, un giovane di notevolissimo
valore e civiltà, figlio di C. Valerio Caburo, il quale aveva
ricevuto la cittadinanza romana da C. Valerio Flacco: gli dava
piena fiducia, conosceva la lingua gallica, che Ariovisto
parlava piuttosto bene per lunga consuetudine e, infine, i
Germani non avevano motivo di essere scorretti nei riguardi di
C. Valerio Procillo. Con lui inviò M. Mezio, che aveva
con Ariovisto vincoli di ospitalità. Cesare li incaricò
di sentire le proposte e di riferirgliele. Ma quando Ariovisto
li vide nel suo accampamento, alla presenza del suo esercito
cominciò a gridare: cosa venivano a fare da lui? Volevano
spiarlo? I due tentarono di rispondere, ma Ariovisto li obbligò
a tacere e li fece gettare in catene. |
[48]
Eodem die castra promovit et milibus passuum VI a Caesaris
castris sub monte consedit. Postridie eius diei praeter castra
Caesaris suas copias traduxit et milibus passuum duobus ultra
eum castra fecit eo consilio uti frumento commeatuque qui ex
Sequanis et Haeduis supportaretur Caesarem intercluderet. Ex eo
die dies continuos V Caesar pro castris suas copias produxit et
aciem instructam habuit, ut, si vellet Ariovistus proelio
contendere, ei potestas non deesset. Ariovistus his omnibus
diebus exercitum castris continuit, equestri proelio cotidie
contendit. Genus hoc erat pugnae, quo se Germani exercuerant:
equitum milia erant VI, totidem numero pedites velocissimi ac
fortissimi, quos ex omni copia singuli singulos suae salutis
causa delegerant: cum his in proeliis versabantur, ad eos se
equites recipiebant; hi, si quid erat durius, concurrebant, si
qui graviore vulnere accepto equo deciderat, circumsistebant; si
quo erat longius prodeundum aut celerius recipiendum, tanta erat
horum exercitatione celeritas ut iubis sublevati equorum cursum
adaequarent. |
-
ARIOVISTO BLOCCA I RIFORNIMENTI AI ROMANI -
Quel giorno stesso Ariovisto si spostò in avanti e si
stabilì ai piedi di un monte, a sei miglia dall'accampamento di
Cesare. L'indomani transitò con le sue truppe davanti al campo
romano, lo oltrepassò e pose le tende a due miglia di distanza,
con l'intento di impedire a Cesare di ricevere il grano e i
viveri che venivano forniti dai Sequani e dagli Edui. Da quel
momento, per cinque giorni consecutivi, Cesare condusse le sue
truppe davanti al campo, in formazione da combattimento, per
dare ad Ariovisto la possibilità di misurarsi con lui, se lo
voleva. Ma Ariovisto, per tutti e cinque i giorni, tenne
bloccato il suo esercito nell'accampamento, limitandosi
quotidianamente a semplici scaramucce di cavalleria. I Germani
erano addestrati in questa tecnica militare disponevano di 6000
cavalieri e di altrettanti fanti molto veloci e forti; ciascun
cavaliere aveva scelto tra tutta la truppa, a propria tutela, un
fante, insieme al quale entrava nella mischia. I cavalieri si
riparavano presso i fanti, che, se c'era qualche pericolo, si
precipitavano; se il cavaliere veniva ferito piuttosto
gravemente e cadeva da cavallo, lo attorniavano; se dovevano
spingersi più lontano o ripiegare più alla svelta, si erano
garantiti con l'esercizio una tale rapidità, da reggere
all'andatura dei cavalli, tenendosi aggrappati alla criniera. |
[49]
Ubi eum castris se tenere Caesar intellexit, ne diutius commeatu
prohiberetur, ultra eum locum, quo in loco Germani consederant,
circiter passus DC ab his, castris idoneum locum delegit acieque
triplici instructa ad eum locum venit. Primam et secundam aciem
in armis esse, tertiam castra munire iussit. [Hic locus ab hoste
circiter passus DC, uti dictum est, aberat.] Eo circiter hominum
XVI milia expedita cum omni equitatu Ariovistus misit, quae
copiae nostros terrerent et munitione prohiberent. Nihilo setius
Caesar, ut ante constituerat, duas acies hostem propulsare,
tertiam opus perficere iussit. Munitis castris duas ibi legiones
reliquit et partem auxiliorum, quattuor reliquas legiones in
castra maiora reduxit.
|
-
CESARE FORTIFICA UN NUOVO ACCAMPAMENTO -
Constatato che Ariovisto rimaneva nel suo accampamento, Cesare,
per non vedersi tagliati i rifornimenti, scelse una zona adatta
per porre le tende, al di là del posto in cui si erano
stabiliti i Germani, a una distanza di circa 600 passi da essi.
Schierato l'esercito su tre linee, giunse al luogo prescelto e
ordinò che le prime due linee rimanessero in armi e che la
terza fortificasse l'accampamento. Il luogo distava, come già
si è detto, circa 600 passi dal nemico. Ariovisto vi
inviò circa 16.000 uomini senza bagagli e tutta la cavalleria,
per atterrire i nostri e impedire l'opera di fortificazione. Cesare,
non di meno, come aveva in precedenza stabilito, ordinò alle
prime due linee di respingere il nemico e alla terza di portare
a termine i lavori. Fortificato il sito, con una parte delle
truppe ausiliarie lasciò due legioni e ricondusse nel campo
maggiore le quattro rimanenti. |
[50]
Proximo die instituto suo Caesar ex castris utrisque copias suas
eduxit paulumque a maioribus castris progressus aciem instruxit
hostibusque pugnandi potestatem fecit. Ubi ne tum quidem eos
prodire intellexit, circiter meridiem exercitum in castra
reduxit. Tum demum Ariovistus partem suarum copiarum, quae
castra minora oppugnaret, misit. Acriter utrimque usque ad
vesperum pugnatum est. Solis occasu suas copias Ariovistus
multis et inlatis et acceptis vulneribus in castra reduxit. Cum
ex captivis quaereret Caesar quam ob rem Ariovistus proelio non
decertaret, hanc reperiebat causam, quod apud Germanos ea
consuetudo esset ut matres familiae eorum sortibus et
vaticinationibus declararent utrum proelium committi ex usu
esset necne; eas ita dicere: non esse fas Germanos superare, si
ante novam lunam proelio contendissent.
|
-
LE PRIME BATTAGLIE -
Il giorno successivo, secondo la sua abitudine, Cesare fece
uscire le sue truppe dai due accampamenti, le schierò a
battaglia non molto lontano dal campo maggiore e diede al nemico
la possibilità di combattere. Quando si rese conto che neppure
allora i nemici si sarebbero fatti avanti, verso mezzogiorno
ordinò ai suoi soldati di rientrare negli accampamenti. Solo
allora Ariovisto inviò una parte delle sue truppe ad assalire
il campo minore. Fino a sera si combatté con accanimento da
ambo le parti. Al tramonto Ariovisto richiamò le sue
truppe, che avevano inflitto ai nostri molte perdite, ma molte
ne avevano subite. Cesare chiese ai prigionieri per quale
motivo Ariovisto non accettasse lo scontro aperto e ne scoprì
la causa: presso i Germani era consuetudine che le madri di
famiglia, consultando le sorti e i vaticini, dichiarassero se
era vantaggioso combattere o no. In questo caso, il responso era
stato il seguente: il destino è avverso alla vittoria dei
Germani, se combatteranno prima della luna nuova. |
[51]
Postridie eius diei Caesar praesidio utrisque castris quod satis
esse visum est reliquit, alarios omnes in conspectu hostium pro
castris minoribus constituit, quod minus multitudine militum
legionariorum pro hostium numero valebat, ut ad speciem alariis
uteretur; ipse triplici instructa acie usque ad castra hostium
accessit. Tum demum necessario Germani suas copias castris
eduxerunt generatimque constituerunt paribus intervallis,
Harudes, Marcomanos, Tribocos, Vangiones, Nemetes, Sedusios,
Suebos, omnemque aciem suam raedis et carris circumdederunt, ne
qua spes in fuga relinqueretur. Eo mulieres imposuerunt, quae ad
proelium proficiscentes milites passis manibus flentes
implorabant ne se in servitutem Romanis traderent. |
-
I GERMANI SI PREPARANO AL COMBATTIMENTO CAMPALE -
Il giorno successivo Cesare lasciò in entrambi gli
accampamenti un presidio a suo parere sufficiente e dispiegò
tutte le truppe degli alleati davanti all'accampamento minore,
ben visibili, sfruttandole per ingannare il nemico, dato che i
legionari erano inferiori ai Germani, dal punto di vista
numerico; sistemato l'esercito su tre linee, avanzò fino
all'accampamento dei nemici. Solo allora i Germani furono
costretti a condurre fuori le loro truppe e si disposero secondo
le varie tribù, a pari distanza le une dalle altre: gli Arudi,
i Marcomanni, i Triboci, i Vangioni, i Nemeti,
i Sedusi, gli Svevi. Tutto intorno collocarono
carri e carriaggi, per togliere a chiunque la speranza di
fuggire. Sui carri fecero salire le loro donne, che, mentre essi
partivano per combattere, piangevano e con le mani protese li
imploravano di non renderle schiave dei Romani. |
[52]
Caesar singulis legionibus singulos legatos et quaestorem
praefecit, uti eos testes suae quisque virtutis haberet; ipse a
dextro cornu, quod eam partem minime firmam hostium esse
animadverterat, proelium commisit. Ita nostri acriter in hostes
signo dato impetum fecerunt itaque hostes repente celeriterque
procurrerunt, ut spatium pila in hostes coiciendi non daretur.
Relictis pilis comminus gladiis pugnatum est. At Germani
celeriter ex consuetudine sua phalange facta impetus gladiorum
exceperunt. Reperti sunt complures nostri qui in phalanga
insilirent et scuta manibus revellerent et desuper vulnerarent.
Cum hostium acies a sinistro cornu pulsa atque in fugam coniecta
esset, a dextro cornu vehementer multitudine suorum nostram
aciem premebant. Id cum animadvertisset P. Crassus adulescens,
qui equitatui praeerat, quod expeditior erat quam ii qui inter
aciem versabantur, tertiam aciem laborantibus nostris subsidio
misit.
|
-
I GERMANI METTONO IN DIFFICOLTA' I ROMANI -
Cesare mise a capo di ciascuna legione i rispettivi legati e
il questore, perché ognuno li avesse a testimoni del proprio
valore; egli stesso guidò l'attacco alla testa dell'ala destra,
perché si era accorto che da quella parte lo schieramento
nemico era molto debole. Al segnale, i nostri attaccarono con
tale veemenza e i nemici si slanciarono in avanti così
all'improvviso e con tale rapidità, che non si ebbe il tempo di
lanciare i giavellotti. Ci si sbarazzò di essi e si combatté
corpo a corpo, con le spade. I Germani formarono
rapidamente, secondo la loro abitudine, delle falangi e ressero
all'assalto condotto con le spade. Si videro molti soldati
romani salire sopra le varie falangi, strappare via con le mani
gli scudi dei nemici e colpire dall'alto. Mentre l'ala sinistra
dello schieramento nemico veniva respinta e messa in fuga, l'ala
destra con la sua massa premeva violentemente sui nostri. Il
giovane P. Crasso, comandante della cavalleria, essendo nei
movimenti più libero di chi combatteva nel folto dello
schieramento, se ne accorse e mandò la terza linea in aiuto dei
nostri in difficoltà. |
[53]
Ita proelium restitutum est, atque omnes hostes terga verterunt
nec prius fugere destiterunt quam ad flumen Rhenum milia passuum
ex eo loco circiter L pervenerunt. Ibi perpauci aut viribus
confisi tranare contenderunt aut lintribus inventis sibi salutem
reppererunt. In his fuit Ariovistus, qui naviculam deligatam ad
ripam nactus ea profugit; reliquos omnes consecuti equites
nostri interfecerunt. Duae fuerunt Ariovisti uxores, una Sueba
natione, quam domo secum eduxerat, altera Norica, regis
Voccionis soror, quam in Gallia duxerat a fratre missam: utraque
in ea fuga periit; duae filiae: harum altera occisa, altera
capta est. C. Valerius Procillus, cum a custodibus in fuga
trinis catenis vinctus traheretur, in ipsum Caesarem hostes
equitatu insequentem incidit. Quae quidem res Caesari non
minorem quam ipsa victoria voluptatem attulit, quod hominem
honestissimum provinciae Galliae, suum familiarem et hospitem,
ereptum ex manibus hostium sibi restitutum videbat neque eius
calamitate de tanta voluptate et gratulatione quicquam fortuna
deminuerat. Is se praesente de se ter sortibus consultum dicebat,
utrum igni statim necaretur an in aliud tempus reservaretur:
sortium beneficio se esse incolumem. Item M. Metius repertus et
ad eum reductus est. |
-
I ROMANI RIPRENDONO VIGORE: ARIOVISTO E' IN FUGA -
Questa mossa salvò le sorti della battaglia: i nemici volsero
tutti le spalle e non si fermarono prima di aver raggiunto il
Reno, che distava circa cinque miglia dal luogo dello scontro.
Qui, pochissimi o cercarono di attraversare il fiume a nuoto,
confidando nelle proprie forze, o scovarono delle imbarcazioni e
si misero in salvo. Tra di loro ci fu Ariovisto, il quale
trovò legata alla riva una piccola barca che gli servì per
fuggire; tutti gli altri Germani furono inseguiti dalla nostra
cavalleria e uccisi. Ariovisto aveva due mogli: una sveva,
che si era portato da casa, l'altra norica, sorella del re
Voccione, che gli era stata inviata dal fratello stesso e che
Ariovisto aveva sposato in Gallia. Entrambe morirono nella
rotta. Delle due figlie, una fu uccisa, l'altra catturata. C.
Valerio Procillo, mentre durante la fuga veniva portato via
dai suoi guardiani legato con triplice catena, si imbatté
proprio in Cesare, che con la cavalleria stava inseguendo i
nemici. Ciò procurò a Cesare una gioia non minore della
vittoria stessa, perché si vedeva restituito, strappato alle
mani del nemico, l'uomo più onesto della provincia della Gallia,
suo amico e ospite: la Fortuna non aveva voluto togliere nulla
alla sua grande gioia e contentezza e aveva impedito la morte di
C. Valerio Procillo. Il giovane raccontava che, in sua presenza,
erano state consultate tre volte le sorti per decidere se doveva
essere arso sul rogo subito o in un secondo tempo: era vivo per
beneficio delle sorti. Anche M. Mezio fu ritrovato e riportato a
Cesare. |
[54]
Hoc proelio trans Rhenum nuntiato, Suebi, qui ad ripas Rheni
venerant, domum reverti coeperunt; quos ubi qui proximi Rhenum
incolunt perterritos senserunt, insecuti magnum ex iis numerum
occiderunt. Caesar una aestate duobus maximis bellis confectis
maturius paulo quam tempus anni postulabat in hiberna in
Sequanos exercitum deduxit; hibernis Labienum praeposuit; ipse
in citeriorem Galliam ad conventus agendos profectus est.
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Quando
al di là del Reno si ebbe notizia della battaglia, gli Svevi,
che erano giunti alle rive del fiume, incominciarono a ritornare
in patria. Non appena gli Ubi, che abitano nei pressi del
Reno, si accorsero che gli Svevi erano in preda al panico, li
inseguirono e ne uccisero un gran numero. Cesare, che in
una sola campagna aveva concluso due grandissime guerre,
tradusse l'esercito negli accampamenti invernali, nelle terre
dei Sequani, un po' prima di quanto non richiedesse la
stagione. Qui lasciò Labieno come comandante e si recò in
Gallia cisalpina, per tenervi le sessioni giudiziarie.
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