Massimo Cogliandro
La “flessibilita'” nei Paesi dell’Unione
Europea
In un recente dibattito che si è tenuto in internet su un forum
mi sono sentito ripetere la solita giustificazione demagogica della
flessibilità nel mercato del lavoro, secondo cui "il sistema economico di
Paesi, come gli USA e la Germania, è più efficiente di quello italiano
semplicemente perché il mercato del lavoro è meno rigido di quello
italiano".
Questo genere di argomentazioni del tutto pretestuose servono
alla borghesia politica unicamente per dare un fondamento teorico-pratico al
processo di precarizzazione del rapporto di lavoro subordinato in atto già da
alcuni anni in Italia.
Gli U.S.A., la Germania e quasi tutti gli altri Paesi
dell’Unione Europea non hanno bisogno di particolari tutele giuridiche per i
lavoratori dal momento che è lo stesso sistema di relazioni industriali
esistente a proteggere i lavoratori.
In Germania, ad esempio, nelle imprese esistono dei Consigli di
Sorveglianza nominati in parte dai lavoratori e in parte dagli imprenditori,
che a loro volta nominano il comitato direttivo delle aziende e prendono tutte
le decisioni importanti per quello che riguarda assunzioni e licenziamenti.
Questo sistema di rappresentanze negli organi direttivi delle imprese, che ha
condotto a forme molto forti di socializzazione della gestione dei mezzi di
produzione sancite dalle leggi sulla cogestione delle imprese del 1951 e del
1976, ha reso inutile in Germania il
varo di una particolare legislazione di sostegno a tutela dei lavoratori sul
tipo dello Statuto dei Lavoratori esistente in Italia. Infatti, è quasi
impossibile che un Consiglio di Sorveglianza, nominato per circa la metà dei
suoi componenti dai lavoratori, faccia licenziare gli stessi lavoratori che
hanno contribuito ad eleggerlo.
E' proprio per questo motivo che in Germania e in altri Paesi
dell’Unione Europea, dove esiste una economia di tipo socialdemocratico, si è
sentita di meno la necessità di una legislazione sugli scioperi
"liberale" (si fa per dire!) come quella presente in Paesi ad
economia capitalistica come l’Italia.
Il capitalismo sociale tedesco, che si fonda sul
presupposto che tanto più i lavoratori sono coinvolti nella gestione dei
processi produttivi tanto più il loro interesse per il destino collettivo
cresce e l'efficienza del sistema economico si rinsalda non fonda dunque i
propri successi sulla flessibilità nel mercato del lavoro.
Lo stesso discorso vale per il capitalismo U.S.A, che dal
1976 coinvolge oltre 15.000.000 di lavoratori in esperienze di
"azionariato operaio"…
Naturalmente, i Paesi dell’Unione Europea hanno deciso anche in sede
comunitaria - con il varo della V^ direttiva CEE del 1972 - di
optare per un capitalismo sociale e non conflittuale, che basi i propri
successi non sull’estrema precarizzazione del rapporto di lavoro subordinato,
ma sulla valorizzazione del fattore umano e sulla partecipazione dei lavoratori
alla gestione dei processi produttivi.
La burocrazia politica italiana però, al contrario delle
classi sociali dominanti presenti negli altri Paesi d’Europa, è, come direbbe
Gramsci, una classe sociale dominante che ha un atteggiamento sovversivo e
destabilizzante nei confronti del sistema di rapporti sociali di produzione
esistenti… Per questo motivo, non credo che sarà facile cambiare il corso della
storia economica del nostro Paese.
In conclusione, io penso, guardando anche alle esperienze degli altri Paesi
Europei in cui lo sviluppo è stato messo in relazione con il coinvolgimento dei
lavoratori alla gestione delle imprese, che tanto più i
lavoratori aumentano il proprio potere diretto e indiretto sulla gestione dei
processi produttivi tanto più sarà possibile creare dei modelli economici
sempre più efficienti nel quadro di una società aperta senza bisogno di
ricorrere a misure come la flessibilità, che hanno l’unico effetto di aumentare
i profitti dei capitalisti e di contribuire alla ulteriore disgregazione di
micro-strutture sociali fondamentali come la famiglia.
Roma, 14/1/2001