Impresa commerciale industriale, 2000, n.2, Editore Eti, Roma

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Mauro Vanni

 

IL FALLIMENTO DEL SOCIO RECEDUTO

 

L'estensione del fallimento al socio illimitatamente responsabile uscito dalla società fallita e l'accertamento del pregresso stato di insolvenza dell'impresa collettiva

 

Sommario:

1) Inadempimenti e stato di insolvenza

2) Il fallimento delle società di persona e dei soci illimitatamente responsabili

3) Scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio e  fallimento della società. La rilevanza dei motivi del recesso e dell'esclusione nell'indagine diretta ad accertare il momento in cui si è manifestato lo stato di insolvenza della società

4) Il fallimento del socio receduto

5) L'accertamento a posteriori dello stato di insolvenza dell'impresa collettiva determinatosi prima del recesso

 

 

 

1) Inadempimenti e stato di insolvenza

 

Ai sensi dell'art.2290 del codice civile se, nelle società di persona, il rapporto sociale si scioglie limitatamente a un socio, questi o i suoi eredi rimangono responsabili verso i terzi per le obbligazioni sociali sino al giorno in cui si verifica lo scioglimento.

Dopo lo scioglimento del rapporto, residua pertanto, a carico del socio che non è più parte della società o dei suoi eredi, la responsabilità personale e illimitata per le obbligazioni contratte prima dello scioglimento e, se l'inadempimento di esse concorre a determinare lo stato di insolvenza della società e la conseguenziale sua dichiarazione di fallimento, il fallimento della società determina, allora, il fallimento anche di tale socio, malgrado la sua assenza dalla compagine sociale al momento della dichiarazione di fallimento dell'impresa collettiva.

Sulla relazione causale che intercorre normalmente tra l'inadempimento delle obbligazioni da parte dell'imprenditore e lo stato di insolvenza della sua impresa, incide allora, in modo del tutto peculiare nella fattispecie dell'impresa collettiva, il carattere ultrattivo della responsabilità per le obbligazioni assunte.

Ai sensi dell'art.5 della legge fallimentare, essenziale presupposto oggettivo per la dichiarazione di fallimento è lo stato di insolvenza dell'imprenditore, che si realizza ogni qualvolta le condizioni del suo patrimonio versino in una situazione di oggettiva impotenza economica, funzionale e non transitoria, per cui l'imprenditore non sia più in grado di far fronte, con regolarità e mezzi normali, all'adempimento delle proprie obbligazioni a seguito del verificarsi di eventi che pregiudicano la liquidità e il credito necessari allo svolgimento della propria attività (1)

Deve pertanto realizzarsi una situazione di illiquidità non transeunte (2) e manifesta (3) del patrimonio del debitore, senza che possano aver rilievo le cause che la hanno determinata, siano esse imputabili a fattori esterni o imputabili allo stesso debitore (4).

Lo stato di insolvenza può desumersi non soltanto da manifestazioni dirette ed inequivoche, quali il susseguirsi di inadempimenti da parte dell'imprenditore, ma anche indirettamente attraverso altri indici univocamente sintomatici di tale stato tratti da ulteriori fattori esteriori (5), tra i quali, il successivo art.7, annovera la fuga o la  latitanza dell'imprenditore, la chiusura dei locali dell'impresa, il trafugamento, la sostituzione o la diminuzione fraudolenta dell'attivo da parte dell'imprenditore.

Pur risultando, sul piano applicativo, il caso di maggior frequenza, il mancato adempimento delle obbligazioni pecuniarie da parte dell'imprenditore ha pertanto soltanto un valore meramente presuntivo, potendo lo stato di insolvenza anche prescindere sia dall'effettiva sussistenza di inadempimenti sia dal numero e dalla gravità di essi (6) e, per converso, pure un solo inadempimento potrebbe legittimare la dichiarazione di fallimento, ove esso costituisca indice inequivocabilmente sintomatico dell'esistenza di un patrimonio in dissesto e dell'oggettiva impossibilità del debitore di soddisfare, con regolarità e con mezzi normali, gli obblighi assunti (7).

Al riguardo, non è sufficiente che effettivamente esista una concreta situazione debitoria da parte dell'imprenditore, essendo necessario innanzitutto che si sia verificato un vero e proprio inadempimento e che esso possa dirsi attuale, avendo il creditore effettuato, senza esito positivo, una vera e propria richiesta di pagamento e sempreché l'imprenditore non sia riuscito a dimostrare, ovvero non sia altrimenti emersa, la capacità di far luogo con regolarità al pagamento delle proprie obbligazioni (8).

La verifica della consistenza e della gravità del mancato adempimento dev'essere pertanto sempre compiuta alla stregua di tale criterio, per cui anche l'inadempimento relativo ad un solo e modesto credito, ove relativo ad obbligazioni costituite per servizi ritenuti essenziali all'azienda, può essere ritenuto senz'altro sintomatico di un più generale stato di insolvenza (9).

Anche il mancato adempimento di una sola obbligazione da parte dell'imprenditore è quindi circostanza idonea a legittimare la presunzione della decozione della sua impresa, ma soltanto se non vi siano altri elementi che inducano a concludere diversamente.

In tal caso potrà, allora, essere legittimamente accolta l'istanza di fallimento presentata dal creditore insoddisfatto, in specie se preceduta da atti esecutivi rimasti senza esito positivo, dovendo ragionevolmente desumersi, sia dalla ingiustificata e persistente volontà del debitore di sottrarsi all'adempimento, sia dal mancato reperimento di beni di sufficiente valore da assoggettare ad espropriazione forzata, il verosimile stato di dissesto della sua impresa (10).

Al contrario, senza l'allegazione di ulteriori circostanza comprovanti lo stato di insolvenza, l'omesso adempimento di un'unica obbligazione non potrà costituire valido fondamento della richiesta di fallimento e giustificarne l'accoglimento, ove da tale circostanza non possa trarsi la conclusione della sussistenza di uno stato di insolvenza, come nel caso in cui il credito sia giudizialmente contestato dal debitore e, a maggior ragione, se la contestazione sia stata avanzata prima della domanda proposta dal creditore al tribunale fallimentare, a nulla rilevando, in tal caso, l'efficacia della clausola di provvisoria esecuzione di cui eventualmente sia munito il titolo dell'istante (11).

Rilevante è, semmai, al riguardo, la valutazione compiuta dal tribunale fallimentare, sia pure in via sommaria, sul carattere pretestuoso o meno delle eccezioni svolte dal debitore in ordine alla contestazione del credito posto a base dell'istanza, al fine di verificare se esse non appaiano manifestamente infondate o se invece risultino presumibilmente dirette esclusivamente a differire nel tempo il pagamento del dovuto ed a celare quindi un'ingiustificata volontà del debitore di sottrarsi all'adempimento degli obblighi assunti, per non essere, in realtà, più in grado di farvi fronte con regolarità e con mezzi normali.

Esclusa la pretestuosità della contestazione giudiziale svolta dal debitore ed in assenza di altri elementi da cui desumere il dissesto della sua impresa, deve quindi ritenersi irrilevante tanto l'efficacia esecutiva del titolo del creditore istante, quanto l'eventuale tentativo di pignoramento da esso esperito con esito negativo (12).

La dinamica dei rapporti obbligatori intercorrenti tra i terzi e l'imprenditore e le vicende concernenti l'attuazione delle relative prestazioni  a carico di quest'ultimo sono circostanze che possono avere adeguato rilievo, ai fini dell'accoglimento della richiesta di fallimento, soltanto nella misura in cui da esse sia consentito trarre elementi che rendano fondatamente presumibile un conclamato stato di decozione della sua impresa.

Nello stesso senso, l'attuazione del rapporto obbligatorio nella rigorosa osservanza dei patti contrattualmente stabiliti mediante l'esatta e tempestiva esecuzione delle relative prestazioni da parte dell'imprenditore non può essere ritenuta circostanza di per sé sufficiente ad escludere lo stato di decozione, come nel caso in cui esso sia riuscito a far fronte alle singole scadenze ricorrendo a mezzi anormali di pagamento, quali ad esempio l'alienazione totale o parziale del patrimonio che abbia provocato o possa determinare uno squilibrio economico tale da rendere verosimilmente impossibile il rispetto degli obblighi assunti nei confronti dei creditori (13).

Elemento essenziale, dunque, per considerare verificata la condizione di dissesto economico, costituente lo stato di insolvenza, non può ritenersi, allora, il verificarsi o il susseguirsi di uno o più inadempimenti, ma deve invece essere individuato nel fattore causale di essi e di cui questi stessi rappresentano specifico e significativo indice sintomatico, precisamente costituito dal venir meno della capacità di credito di cui gode e deve godere l'impresa, quale possibilità, più o meno immediata, per l'imprenditore, di procurarsi credito con operazioni proprie normali, ossia il venir meno della capacità produttiva, nel senso di capacità dell'impresa di far fronte ai suoi impegni con l'utilizzazione di mezzi normali di pagamento (14).

Alla luce di tale principio, si è allora affermato che nemmeno è utile ad escludere lo stato di insolvenza la semplice circostanza che le condizioni economiche dell'impresa evidenzino un'eccedenza dell'attivo rispetto al passivo (15), essendo sufficiente, per la realizzazione del presupposto al procedimento concorsuale, la constatata perdita delle consuete condizioni di liquidità e di credito (16), come nel caso in cui l'impresa, pur in attivo, si trovi ad essere priva di denaro liquido a causa di improvvidi investimenti non rapidamente reversibili (17) oppure, malgrado i magazzini ricolmi di merce, l'imprenditore non sia di fatto in grado di alienarla  senza ricorrere a svendite (18).

Per contro, l'eccedenza del passivo sull'attivo, pur mantenendo un significativo valore indiziario, non è, di per sé, indice univocamente sintomatico di una situazione di totale e definitivo dissesto, come nel caso in cui un'impresa si trovi di consueto ad operare con uno sbilancio cronico e tuttavia il consistente credito bancario e commerciale le consenta di mutare ed avvicendare costantemente le scadenza delle proprie obbligazioni (19).

L'accertamento dello stato di insolvenza deve pertanto essere compiuto in base a tali criteri compositi, sulla base di presunzioni costituite da circostanze indiziarie che, per i loro requisiti di gravità, precisione e concordanza rendano palese ed oggettivamente conoscibile la realizzazione di tale condizione, con un'attenta verifica compiuta dal giudice di merito e sottratta, se immune da vizi logico-giuridici, al sindacato di legittimità della suprema corte (20).

Tale orientamento, ormai del tutto univoco e consolidato, trae origine da quella risalente linea di pensiero che, già nella vigenza del precedente codice di commercio, si accinse ad affrontare le problematiche relative all'individuazione del concetto di insolvenza con una prospettiva diversa da quella tradizionalmente seguita dalla giurisprudenza dell'epoca, incline a risolvere tout court l'inadempimento nell'insolvenza, tentando di superare l'affermata equivalenza assoluta tra il primo e la seconda, giungendo alla fine ad assumere che, per stabilire la sussistenza o meno del presupposto oggettivo richiesto ai fini della dichiarazione di fallimento, dovesse aversi riguardo essenzialmente al credito concesso all'imprenditore, anziché alla molteplicità ed alla consistenza dei suoi inadempimenti (21).

L'obiettivo dell'indagine andò quindi a spostarsi oltre la mera circostanza della violazione degli obblighi contrattuali, sostenendosi che quel che conta è la valutazione positiva che i creditori e, più in generale, i fornitori esprimono dell'attività dell'imprenditore e della sua attitudine a godere della fiducia indipensabile per potersi dotare di capitali e servizi necessari al funzionamento dell'azienda, in quanto se tali elementi vengono a mancare significa che i terzi hanno perduto la fiducia nell'imprenditore, il quale dovrà pertanto, per questo, essere considerato insolvente, posto quindi che altro è l'inadempimento o la pluralità degli inadempimenti e altro ancora è l'insolvenza, dovendosi cogliere la differenza tra i due fenomeni nel fatto che i primi sono soltanto alcuni, sia pure così importanti da meritare una specifica menzione, dei vari fattori esteriori con i quali l'insolvenza si manifesta (22).

 

2) Il fallimento delle società di persona e dei soci illimitatamente responsabili

Il principio della responsabilità illimitata e personale dei soci per le obbligazioni sociali è affermato dall’art.2267 del codice civile per la società semplice e dai successivi  articoli 2291 e 2318 rispettivamente per la società in nome collettivo, sia pure irregolare o di fatto (23), e per quella in accomandita semplice (24).

Caratterizzando la disciplina delle società di persone e postulando l’integrazione di una soggettività incompleta di esse con la soggettività propria delle persone dei soci, tale principio trova peculiare applicazione in sede fallimentare, laddove si stabilisce, ai sensi dell'art.147 L.F., che il fallimento della società si estende anche ai soci illimitatamente responsabili.

Come stabilisce l’art.1 della legge fallimentare, sono soggetti alle disposizioni sul fallimento gli imprenditori che esercitano una attività commerciale e, posto che l'imprenditore commerciale, oltre che una persona fisica, può essere anche una persona giuridica o un ente non fornito di personalità giuridica, ma dotato comunque di autonomia patrimoniale, quel che rileva ai fini della sua assoggettabilità alla disciplina fallimentare è che esso svolga un’attività anzitutto imprenditoriale a carattere, inoltre, tipicamente commerciale.

 

Non ha invece rilevanza la forma assunta dall'imprenditore collettivo, tipica o atipica, regolare o irregolare, poiché anche nella ipotesi minima, costituita dalla società collettiva irregolare o di fatto, si avrà un ente irregolare, ma sufficientemente autonomo per essere assoggettato al fallimento, mentre anche nella ipotesi massima, rappresentata dalla società con personalità giuridica regolarmente costituitasi, non potrà esservi un tale assoggettamento ove manchi l'esercizio di una impresa commerciale, come ad esmpio nel caso di una società per azioni che coltiva un fondo agricolo (25).

 

Secondo la sopra citata disposizione della disciplina fallimentare, in caso di fallimento di un imprenditore collettivo fornito non di personalità giuridica ma solo di autonomia patrimoniale e quindi di limitata soggettività, falliscono insieme all'ente i soci personalmente e illimitatamente responsabili, e ciò costituisce in sostanza l'unico caso di sottoposizione al processo fallimentare di un soggetto al quale manca la qualità, fondamentale per l’applicabilità della peculiare disciplina fallimentare, di imprenditore commerciale.

Il fallimento della società con soci a responsabilità personale illimitata, cioè della società cosiddetta di persone, determina sempre il fallimento dei soci stessi, tranne che degli accomandanti, salvo il caso della società cooperativa con soci personalmente e illimitatamente responsabili, il cui fallimento non determina il fallimento dei soci, mentre il fallimento del socio, pur personalmente e illimitatamente responsabile, non produce il fallimento della società..

Posto che l'ordinamento giuridico attribuisce la personalità giuridica alla società per azioni, alla società in accomandita per azioni, alla società a responsabilità limitata, alla società cooperativa, e soltanto a queste, se l'indagine sulla identificazione dell'imprenditore collettivo soggetto al fallimento dovesse essere condotta con criteri ristretti e orientato esclusivamente agli ordinari principi civilistici che regolano l’inadempimento e le azioni volte alla tutela delle ragioni creditorie, necessitando ogni processo esecutivo di un soggetto debitore e parte passiva, soltanto le società rientranti nei tipi sopra indicati potrebbero essere legittimamente sottoposte al processo esecutivo speciale fallimentare.

Il legislatore, con l’introduzione dell’art.147 L.F., ha escluso la prospettazione stessa del problema, stabilendo espressamente che la sentenza che dichiara il fallimento della società con soci a responsabilità illimitata produce anche il fallimento dei soci illimitatamente responsabili (26) e allora quella cosiddetta autonomia patrimoniale, nella quale per lo più si è ravvisato un termine intermedio tra la soggettività piena e l'inesistenza della soggettività, risulta senz’altro sufficiente, per il diritto fallimentare, a fare assumere la fìgura di soggetto e di parte del processo, pur non senza diversità sostanziali come processuali, rispetto al soggetto fornito di soggettività piena.

Ecco che, allora, la società fornita di personalità giuridica esaurisce di regola la sua soggettività in se stessa e non è costretta a chiamare alcuno ad integrarla, mentre quella priva di tale attributo non può esonerarsi dal collegare sempre la propria deficitaria soggettività con le persone dei soci personalmente e illimitatamente responsabili.

Resta, tuttavia, l'enorme importanza teorica e pratica di non limitarsi nel secondo caso a dichiarare il fallimento dei singoli soci, bensì di dichiarare, ed in primis, il fallimento del soggetto sociale, il che implica evidenti effetti proprio nelle ipotesi di società fornite di personalità giuridica, per i casi in cui per qualsiasi ragione e per lo più per una irregolarità della costituzione della società o per il mancato esaurimento delle formalità necessarie, non sia sorta la personalità giuridica, posto che in siffatte situazioni l'autonomia patrimoniale, che dà vita ad una limitata soggettività al punto da distinguere la società dai soci, giustifica l'assoggettamento al fallimento della società irregolare, sia pure con l'applicazione del regime proprio delle società aventi soci a responsabilità illimitata, cioè delle cosiddette società di persone (27).

Nella società irregolare, intendendosi per tale quella che tende ad adeguarsi ad un tipo particolare o pretende di funzionare come un tipo particolare senza peraltro avere o senza avere ancora quella costituzione tipica richiesta dalla legge per il sorgere regolare e quindi per il regolare funzionamento di quel tipo prescelto di società, l’ente collettivo subisce la degradazione di fronte alla irregolarità della costituzione, secondo le regole del codice civile, ed assume di fronte al fallimento il regime proprio che tale degradazione gli comporta.

Tale degradazione agisce in differenti modi a seconda del tipo di società con notevoli conseguenze sul piano fallimentare, poiché ogni degradazione che porti alla applicazione sic et simpliciter dei regime della società semplice, porta al fallimento dei soci che hanno agito in nome e per conto della società e, salvo patto contrario, degli altri soci, mentre invece quando la degradazione consenta la applicazione degli artt. 2331 e 2332 c.c., cioè in sostanza per le società di capitali irregolari il fallimento investe soltanto coloro che hanno agito, ferma restando la responsabilità puramente civilistica, nell'ambito del capitale sottoscritto, dei soci che invece non hanno agito (28), nel qual caso il vincolo sociale della società irregolare che viene in luce sul piano fallimentare a corroborare col fallimento personale dei soci il fallimento del soggetto sociale non fornito di soggettività perfetta, non è il vincolo che riguarda tutti i soci, ma soltanto quello che lega coloro che hanno agito (29).

In tema di società occulta, nessuna norma, né comune né speciale, sancisce che il vincolo sociale, per dispiegare le sue conseguenze specialmente sul piano delle responsabilità, debba essere esteriorizzato, né il criterio soggettivo su cui si fonda il nostro sistema attuale del diritto delle imprese può spingersi fino al punto da qualificare l'imprenditore solo quando vi è spendita del nome in aggiunta ai requisiti dell'art. 2082 c.c. (30). La società, come ente fornito di soggettività, di qualunque grado, esiste di per sé, per il solo fatto di essere stata in qualche modo costituita, anche dal mero patto tra i soci, purché seguito, per quanto riguarda la rilevanza sul piano fallimentare, da concreta attività commerciale.

Ai sensi del secondo comma dell’art.147 L.F., nel caso in cui, dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l'esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, è senz’altro dichiarato il fallimento anche di questi e, se è vero che si presuppone nell'ipotesi specifica il fallimento sociale già dichiarato, è tuttavia altrettanto certo che si suppone il carattere occulto di un particolare vincolo sociale tra la società già dichiarata fallita e taluni soci prima ignoti.

Il fenomeno non ha, quindi,  un sua peculiare rilevanza giuridica sul problema esistenziale della società nella sua realtà giuridico-sociale, con la conseguenza che va applicato senza limitazioni il principio per cui, come verso i terzi risponde la società realmente sussistente con i soci realmente tali, così al fallimento è assoggettato l'ente reale con le sue costellazioni personali dei soci, personalmente e illimitata- mente responsabili per avere assunto in concreto tale qualifica (31).

Il tema si collega con quello della società apparente, laddove vige la regola dell’affidamento dei terzi, mentre nella società occulta opera la regola della realtà.

Posto che il principio dell’affidamento dei terzi è un dato costante dell’intero ordinamento giuridico e trova nei vari istituti molteplici applicazioni, specialmente sul tema comune della responsabilità giuridica, deve ritenersi che se i creditori sociali sono entrati in rapporti con un soggetto fondatamente da loro ritenuto come sociale a causa delle sue univoche e costanti manifestazioni e del suo coerente modo di operare, oppure sono entrati in rapporti con una società reale nella quale appariva tra gli altri come socio anche un determinato soggetto, l'affidamento che essi hanno riposto in siffatta situazione di fatto non debba iniquamente essere travolto da una realtà dissimulata (32), con la conseguenza che può essere allora senz’altro assoggettata a fallimento anche la società apparente, come collettiva irregolare e anche come società di persone regolarmente costituita simulatamente.

In ordine alla simulazione in ambito societario, si osserva come la natura giuridica della costituzione di una società di capitali, il procedimento per la costituzione, il carattere dell'intervento statuale, siano tutti elementi che escludono la possibilità di una dichiarazione di simulazione (33).

Fermo che si può legittimamente ricorrere alla costituzione di una società di capitali anche allo scopo esclusivo di limitare la propria responsabilità patrimoniale, se l’ente collettivo ha un suo regolare svolgimento, ogni problema ulteriore di pretesa responsabilità civilistica o fallimentare dei soci non si pone neppure se, ad esempio, l'intestazione delle azioni o delle quote è fittizia o fiduciaria, purché la società abbia vita regolare nel suo aspetto formale e sostanziale, il patrimonio sociale ed i patrimoni individuali non vengano confusi e non vengano poste in essere quelle situazioni del tutto anomale che snaturano l'ente sociale non già a soggetto, bensì a materiale strumento o a paravento di un esercizio di una attività commerciale concretamente individuale ovvero sociale irregolare.

In sostanza, in tutte le ipotesi di imprenditore occulto, dell'imprenditore indiretto, del prestanome, del socio sovrano, del socio dominante, del socio tiranno, quali fattispecie riconducibili ad categoria generale di società cosidetta anomala, quel che rileva non è la simulazione,  né la compromissione del principio della limitazione della propria responsabilità patrimoniale attraverso il conferimento del proprio patrimonio in una società regolarmente costituita e regolarmente funzionante e nemmeno si pone il problema della soggettività, più o meno piena, della società, ma soltanto una evidente snaturazione degli istituti giuridici e delle conseguenti responsabilità.

La conseguenza non può che essere quella dell'affermazione della responsabilità patrimoniale personale del reale im- prenditore, sia esso individuale, sia esso collettivo, e del conseguente falli- mento personale, per avere utilizzato la società di capitali come uno strumento, non giuridico bensì materiale, snaturando l'istituto con il rigetto del regime giuridico suo proprio (34).

L’unico caso in cui il suddetto principio dell’estensione del fallimento della società ai suoi soci illimitatamente responsabili risulta applicabilke anche alla società di capitali è quello nel quale quest’ultima risulta costituita da un unico socio (35).

Nel sistema anteriore all’introduzione nell’ordinamento giuridico della società unipersonale a responsabilità limitata, operata dal decreto legislativo 3 marzo 1993 n.88, in attuazione della XII Direttiva CEE 21 dicembre 1989 n.667/89 e della legge comunitaria 28 gennaio 1992 n.142, per le società di capitali, in vista della soggettività riconosciuta e dell'autonomia patrimoniale perfetta che le contraddistingue, il legislatore aveva creato, per l’ipotesi di riduzione del nucleo sociale ad un unico componente, i meccanismi sussidiari del 2362 e del 2497 c.c., mantenendo in vita l'ente, ma accrescendo le garanzie dei terzi che erano venuti in contatto con la società nel periodo in cui essa si era trovata ridotta ad un unico socio con la statuizione della responsabilità illimitata di quest’ultimo per le obbligazioni contratte in tale periodo, quale disposizione normativa ritenuta di natura fidejussoria ed eccezionale (36)

Nel nuovo sistema, che istituzionalizza la figura del socio unico di società di capitali, non più relegandola ad ipotesi eccezionale e transeunte, si è osservato che il socio fallisce, se non riesce a far fronte alle obbligazioni assunte nel periodo in cui da solo ha preso parte alla società (37), non perché esso svolge attività imprenditoriale in proprio, posto che tale evenienza nella estensione dell’art. 147 L.F., anche nella sua interpretazione tradizionale, appare orientamento assolutamente superato (38), ma perché invece esso è illimitatamente responsabile e non ha posto in essere quegli accorgimenti previsti dalla legge idonei ad escludere la sua responsabilità patrimoniale per le obbligazioni che esso contrae, stabilita in base al principio sancito dall'art. 2740 c.c. del quale l'art. 2362 c.c. costituisce generale applicazione (39).

 

 

 

3) Scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio e  fallimento della società. La rilevanza dei motivi del recesso e dell'esclusione nell'indagine diretta ad accertare il momento in cui si è manifestato lo stato di insolvenza della società

 

Le problematiche che sorgono in ordine alla possibilità di estendere il fallimento della società al socio illimitatamente responsabile da essa receduto sono le stesse che si riscontrano ogni qual volta si sia verificato lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio e sia successivamente intervenuta la dichiarazione di fallimento della società, dovendo verificarsi, allora, se tra le obbligazioni rimaste inadempiute ve ne siano talune contratte prima dell'evento modificativo della compagine sociale e, in caso positivo, decidere se tale circostanza sia da sola sufficiente a legittimare l'estensione del fallimento della società al socio illimitatamente responsabile che di essa non faccia tuttavia più parte, ovvero se a tale conclusione possano essere di ostacolo  altre circostanze, quali il decorso del tempo, la eventuale mancanza di un nesso causale tra l'inadempimento dell'obbligazione contratta prima dell'evento modificativo ed il successivo dissesto dell'impresa sociale, nonché il sorgere o il manifestarsi dello stato di insolvenza soltanto dopo tale evento.

Il legislatore ha specificatamente previsto i casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente ad un socio.

Vi è, innanzitutto, l'ipotesi della morte del socio, a cui consegue, ai sensi dell'art.2284 c.c., l'obbligo della società di liquidare la quota del socio defunto agli eredi.

Ai sensi dell'art.2285 c.c., lo scioglimento del rapporto si produce, inoltre, per il recesso del socio, che si attua con atto unilaterale recettizio costituito da una manifestazione di volontà che risulti incompatibile con la prosecuzione del rapporto sociale e che può essere liberamente esercitato nei casi in cui la società sia stata contratta a tempo indeterminato o per tutta la vita di uno dei soci, ovvero, nella diversa ipotesi, per giusta causa o per i motivi stabiliti nel contratto sociale.

Vi sono poi il caso della cessione della quota del socio e tutte le ipotesi della sua esclusione dalla società.

Ai sensi dell'art.2288 c.c., l'esclusione interviene di diritto se il socio è dichiarato fallito, sempre che il fallimento del socio non sia la diretta conseguenza dello stesso fallimento della società, ovvero nel caso in cui un suo creditore particolare abbia ottenuto la liquidazione della sua quota, secondo la disposizione contenuta nell'art.2270 del codice civile.

L'esclusione può essere altresì determinata, come stabilito dall'art.2286 c.c., dalle gravi inadempienze delle obbligazioni derivanti dalla legge o dal contratto sociale, dall'interdizione del socio e dalla sua inabilitazione per condanna che ne abbia comportato l'interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici, nonché, per il socio che abbia conferito nella società la propria opera o il godimento di una cosa, ovvero si sia obbligato con il conferimento a trasferire la proprietà di una cosa, dall'impossibilità di svolgere, per sopravvenuta inidoneità, l'opera conferita, ovvero dal perimento, per causa a lui non imputabile, della cosa dovuta o di quella promessa, se perita prima del trasferimento della sua proprietà alla società.

E' evidente che le ragioni del recesso o dell'esclusione possono assumere una decisiva importanza, specialmente nel caso in cui sia intercorso un non breve lasso di tempo tra l'intervento dell'evento modificativo della compagine sociale e la dichiarazione di fallimento della società e non sia agevole individuare a posteriori, con una certa precisione, per l'eventuale mancanza o carenza delle scritture contabili o di altri elementi attendibili, in quale momento si sia manifestato lo stato di insolvenza della stessa e siano state contratte le obbligazioni rimaste inadempiute, al fine di decidere se al socio receduto o escluso possa essere esteso il fallimento della società, in forza dell'ultrattiva sua responsabilità per tali obbligazioni.

In particolare, non può sfuggire il rilievo che assume l'ipotesi di esclusione del socio determinata dalle sue gravi inadempienze delle obbligazioni derivanti dalla legge o dal contratto sociale, per l'incidenza che certamente può determinare sulla verifica delle condizioni legittimanti l'eventuale estensione del fallimento della società al socio illimitatamente responsabile precedente escluso per tali ragioni, anche in ordine all'applicazione delle disposizioni penali della legge fallimentare.

E, poiché nelle società di persona il ruolo di socio illimitatamente responsabile normalmente si connette con quello di amministratore, per i cui inadempimenti l'ordinamento ha specificatamente previsto l'istituto della revoca per giusta causa, la questione non può essere esaminata che unitariamente, alla luce dei rapporti che intercorrono tra la posizione di socio illimitatamente responsabile, in ordine alla quale per le violazioni commesse dal socio è stabilita la sua esclusione dalla società, e di amministratore della stessa, per la quale le violazioni commesse non determinano, di per sé, alcuna espulsione dalla compagine sociale.

La rilevanza dell'argomento è data non soltanto dall'incidenza che può avere, in sede di procedimento concorsuale per la decisione sull'estensione del fallimento nei confronti del socio escluso, la verifica delle ragioni che determinarono l'esclusione al fine di poter più facilmente, in mancanza di altri elementi, accertare uno stato di insolvenza della società già sussistente al momento dell'evento modificativo del nucleo sociale, con la deduzione di inadempimenti ascritti alla responsabilità del socio che, per questo, fu escluso, ma anche per l'influenza, affatto marginale, delle connesse problematiche inerenti alla possibilità, nelle società di persona, di affidare a terzi non soci il potere di amministrazione.

Se, infatti, si dovesse accedere alla tesi che consente tale possibilità (infra), la sola esclusione del socio illimitatamente responsabile cui sia affidata l'amministrazione della società, non avrebbe anche l'effetto di farne contestualmente cessare il potere di amministrazione, impedendo così ogni estensione del fallimento della società nei suoi confronti ogni qual volta l'insolvenza della società si sia manifestata successivamente all'esclusione a causa dell'inadempimento di obbligazioni sia pure contratte dal socio escluso dopo la sua fuoriuscita dalla società, ma nell'ambito del residuato suo potere di amministratore della medesima.

 

Posto che, in tema di società personali, il primo comma dell'art.2286 del codice civile stabilisce l'esclusione del socio per gravi inadempienze derivanti dalla legge o dal contratto sociale, mentre il precedente art.2259 prevede che ciascuno dei soci può chiedere giudizialmente la revoca per giusta causa dell'amministratore, si ritiene che il socio-amministratore di una società di persone può essere non soltanto revocato dalla carica di amministratore per la violazione dei doveri inerenti al mandato conferitogli, ma anche escluso dalla società ai sensi dell'art.2286 c.c., nel caso in cui gli inadempimenti da lui posti in essere si pongano in contrasto  con i fini della società (40).

Indipendentemente dagli obblighi che l'amministratore socio di una società di persone deve adempiere in base al mandato che lo lega alla società, ai sensi dell'art.2260 c.c., sussiste sempre l'obbligo che gli deriva dalla sua qualità di socio di non compiere atti in contrasto con le finalità della società e pertanto la sua esclusione da quest'ultima, giustificata da un comportamento contrario ai fini e agli interessi dell'ente, non può certo trovare ostacolo nella circostanza che, rivestendo egli la carica di amministratore, il medesimo comportamento integri anche la violazione degli specifici doveri inerenti al mandato di amministrazione, sì da comportare la revoca e l'eventuale esperimento dell'azione di responsabilità (41)

Si sostiene univocamente, in proposito, che le norme che disciplinano la risoluzione per inadempimento dei contratti a prestazioni corrispettive non sono applicabili al contratto di società, che ha una diversa natura e la cui disciplina prevede specifici rimedi contro l'inadempimento dei soci (42), precisandosi che ad esso non sono quindi applicabili né la disciplina del termine né quella della diffida ad adempiere e, in genere, le norme che regolano, appunto, l'anzidetta risoluzione, in quanto la la esclusione dalla società ha una sua propria peculiare disciplina, in parte antitetica con la risoluzione, per modo che le disposizioni a questa relative non possono a quella applicarsi, dovendo l'esclusione considerarsi come un caso di scioglimento del rapporto sociale, anche limitatamente ad un socio, e non come risoluzione e trovando luogo, al riguardo, soltanto la disciplina che regola la particolare materia (43).

E' stato allora ritenuto che, in ipotesi di inadempimento da parte di un socio di una società in nome collettivo delle obbligazioni che gli incombono per effetto del contratto sociale, gli altri soci non possono proporre domanda di risoluzione del contratto sociale, ma possono avvalersi dei rimedi predisposti dall'ordinamento, tra cui quello dell'esclusione del socio inadempiente (44) e che, tuttavia, non sussiste ultrapetizione se, avendo la parte chiesta la risoluzione del contratto di società per inadempimento dell'unico altro socio, il giudice, ritenendo inapplicabile il rimedio della risoluzione stabilito dall'art.1453 c.c., accolga la domanda in forza dell'art.2286 c.c., disponendo lo scioglimento del rapporto soltanto rispetto al socio inadempiente (45).

Si suole in particolare distinguere tra le inadempienze che attengono alle mansioni amministrative e che pertanto legittimano la revoca del socio dalla carica di amministratore e quelle stabilite dall'art.2286 c.c. che consentono l'esclusione del socio dalla società (46), ritenendosi che l'esclusione sia un rimedio speciale, interamente sostitutivo della risoluzione per inadempimento prevista dall'art.1459 c.c. anche per i contratti plurilaterali con comunione di scopo (47).

La sanzione della revoca è determinata dalle violazioni che il socio pone in essere nell'ambito del rapporto gestorio e richiede la sussistenza di una giusta causa, senza che tuttavia questa debba giungere ad integrare l'elemento volontaristico della colpa imputabile, potendo anche dipendere da circostanze estranee alla volontà dell'agente.

Si è, al riguardo, osservato che l'adozione della sanzione appare giustificata dal verificarsi di circostanze, dipendenti o meno dalla volontà del socio-amministratore, anche obiettive, tali da scuotere la fiducia posta a base del rapporto e da rendere legittima la reazione al comportamento che ne abbia comportato la violazione, senza che tuttavia il venir meno della fiducia ed il sorgere della situazione di ostacolo alla continuazione del rapporto non siano state scientemente provocate dal comportamento unilaterale di una delle parti (48).

Si è, più precisamente, ritenuto che costituisce giusta causa ogni fatto o comportamento che renda impossibile il naturale svolgimento del rapporto di gestione, sia che ciò integri la violazione degli obblighi dell'amministrazione in quanto tale, sia che si determini la materiale impossibilità per l'amministratore di adempiere ai compiti che l'amministrazione comporta.

Sono state così considerate ipotesi di giusta causa di revoca dall'amministrazione la delega ad altri del potere di gestione (49), la mancanza di fatto di un amministratore capace di espletare l'attività di gestione (50), la violazione del divieto di concorrenza e la cessazione di fatto dell'esercizio delle funzioni gestorie (51), la mancata redazione e l'omesso deposito dei bilanci e dei conti profitti e perdite presso la sede sociale, la loro mancata comunicazione ai soci non amministratori e l'aver impedito a questi ultimi di esercitare il diritto di approvazione del bilancio e di controllo della gestione sociale (52).

In altre occasioni si è preferito invece un'interpretazione restrittiva del concetto di giusta causa, identificandosi la giusta causa della revoca dell'amministratore unicamente con la violazione degli obblighi del mandato ad amministrare (53).

L'esclusione dalla società nei riguardi del socio che di essa sia anche amministratore è invece determinata da inadempimenti integranti atti in contrasto con gli stessi fini sociali e che costituiscono insidia per la compagine della società stessa.

Tale sanzione, producente la risoluzione del rapporto sociale, deriva dalla violazione dell'essenziale obbligo di collaborazione attiva insito nella struttura legale del rapporto di società (54), che costituisce il riflesso dell'obbligo di fedeltà dei soci al patto sociale e si determina in presenza di comportamenti che turbino l'intuitus personae in base al quale il contratto sociale era stato stipulato e su cui si fondava l'affectio societatis che è indispensabile per l'esercizio dell'attività sociale (55), dovendo la reciproca fiducia caratterizzare, nella società di persone, tutti i rapporti tra i vari componenti la compagine sociale (56).

Circa la gravità delle inadempienze del socio che, ai sensi dell'art.2286 primo comma c.c., può giustificare la sua esclusione dalla società, si sostiene, al riguardo, che non occorre anche che tali inadempimenti siano tali da impedire del tutto il raggiungimento dello scopo sociale, ma è sufficiente che, secondo l'incensurabile apprezzamento del giudice del merito, abbiano inciso negativamente sulla situazione della società, rendendone anche soltanto meno agevole il perseguimento dei fini (57).

E' indifferente che l'inadempimento non sia suscettibile di arrecare un danno immediato, effettivo e diretto, come nel caso in cui il socio abbia agito in mancanza di poteri  di amministrazione od oltre i limiti di questi senza perciò riuscire a vincolare la società all'adempimento delle obbligazioni assunte (58), essendo sufficiente che il suo comportamento sia stato soltanto tendenzialmente diretto ad ostacolare l'attività della società e sia di quella stessa gravità che, nei rapporti negoziali di diritto civile, qualifica l'importanza dell'inadempimento per la risoluzione del contratto ai sensi dell'art.1455 del codice civile (59).

Tra le diverse sono state ravvisate, come concrete inadempienze idonee a giustificare l'esclusione, l'assunzione di obbligazioni in nome e per conto della società senza averne i poteri, sul rilievo che, pur non essendo la società tenuta ad adempierle, il fatto di apparire inadempiente e di essere soggetta ad inviti o intimazioni di pagamento degli asseriti creditori genera un discredito nell'ambiente in cui la società stessa opera (60), l'emissione di un vaglia cambiario in nome della società ma nel proprio interesse e al di fuori di qualsiasi operazione sociale (61), l'utilizzazione di somme della società a titolo personale e all'insaputa degli altri soci (62), la mancata esecuzione del conferimento determinato nel contratto sociale (63) ove tale inadempimento sia ritenuto di sufficiente gravità (64), il conferimento da parte di un socio di un mandato generale senza obbligo di rendiconto ad una persona che svolga attività commerciale identica e potenzialmente concorrente con quella della società (65), l'ostruzionismo del socio che, nei rapporti con i terzi, disconosca in toto l'operato degli amministratori (66), ovvero si attribuisca falsamente la qualifica di amministratore con la pretesa di condizionare ogni operazione sociale al suo preventivo assenso (67), mentre si è, per altro lato, escluso che costituiscano validi motivi di esclusione l'aver agito per ottenere la liquidazione della società e per rilevare l'azienda sociale nell'ambito del procedimento di liquidazione, il compimento, con il consenso degli altri soci, di attività amministrative in materia non pienamente conforme ai patti sociali (68), l'omessa tenuta, da parte del socio amministratore, dei libri contabili obbligatori, sempre che la regolare tenuta di quello dell'imposta sul valore aggiunto abbia in concreto consentito alla società di operare egualmente (69).

Nonostante parte della giurisprudenza di merito abbia propeso per una netta separazione tra gli obblighi che al socio competono come tale e quelli che, invece, ineriscono alla sua qualità di amministratore (70), si ritengono ormai tendenzialmente omogenee entrambe le posizioni.

In effetti, il fatto che non sia possibile ricondurre sotto l'ambito dell'art.2286 c.c. le inadempienze che si riferiscono, in modo esclusivo, all'attività di amministrazione e ogni eccesso dal mandato in cui sia incorso il socio-amministratore, è circostanza che risponde ad un criterio indubbiamente esatto, ma la sua applicazione, per discriminare le conseguenze dell'irregolarità e degli eccessi dal mandato del socio-amministratore, non è senza limiti e non giustifica il rigetto della domanda di esclusione quando risulti che quest'ultimo, nello sconfinare dai limiti del mandato, abbia svolto un'attività che sia di per sé contrastante con i fini sociali (71).

Si delinea allora quella violazione di doveri per cui può farsi luogo alla sanzione prevista dall'art.2286 c.c., osservandosi infatti che, al di fuori e indipendentemente dagli obblighi che l'amministratore socio incontra per il mandato a lui conferito, vi è un obbligo fondamentale che deriva dalla sua stessa qualità di socio, principalmente costituito dal dovere di non compiere atti che, per essere in contrasto con i fini della società, costituiscono insidia per la compagine di questa e pertanto quando la violazione dei doveri inerenti alla qualità di amministratore non soltanto incide sugli obblighi nascenti dal rapporto di mandato, ma assume altresì il carattere di "grave inadempienza" delle obbligazioni derivanti dal contratto sociale o dalla legge, dovrà ritenersi del tutto legittimo il ricorso alla esclusione dalla società ai sensi della norma sopra citata (72).

Essendo la norma sancita dall'art.2259 c.c. che regola la revoca per giusta causa dall'amministrazione e quella dell'art.2286 c.c. che disciplina l'esclusione del socio dalla società per gravi inadempienze poste a tutela di due distinti beni giuridici, quali rispettivamente l'interesse di ciascun socio a che l'amministrazione si svolga in conformità a quel rapporto fiduciario che deve intercorrere tra soci e amministratori e l'interesse all'adempimento del  generico dovere di collaborazione per il perseguimento del fine sociale, non sembra potersi ravvisare una netta e certa separazione tra il campo di applicazione della revoca per giusta causa del socio-amministratore e quello concernente l'esclusione dello stesso per gravi inadempienze, poiché nelle società personali difetta in radice la stessa sussistenza di una netta differenzazione tra il ruolo di socio e quello di amministratore.

Al riguardo, è stato chiarito che le qualità di amministratore e di socio di una società in nome collettivo, ancorché riunite in una medesima persona, non possono assolutamente considerarsi divise e non può quindi ritenersi che le inadempienze compiute dall'amministratore, anche se così gravi da minare la compagine sociale, siano ciò nonostante sempre insuscettibili di intaccare la sua posizione di socio, come se si trattasse di due persone diverse ovvero come se la carica di amministratore, per ciò solo, dispensasse dal dovere di fedeltà cui è tenuto ciascun membro del nucleo sociale, determinando l'insorgere, nei rispetti della posizione di socio, di una sorta di immunità per il tradimento che questi realizzi avvalendosi della carica gestoria (73).

Invero, l'aver agito a danno della società tanto più risulta grave quanto più fortemente legittima l'esclusione dalla compagine sociale, specialmente ed a maggior ragione se a porre in essere l'inadempimento sia stato chi rivesta la qualità di amministratore avvalendosi dei poteri e delle prerogative ad essa inerenti (74).

Intimamente connesso a questo tema, si pone il problema dell'ammissibilità, nelle società di persone, di amministratori non soci (75), in quanto è evidente che, se si ammette la possibilità di conferire l'amministrazione della società a terzi ad essa estranei, il rimedio della esclusione dalla società non accompagnata anche dalla revoca per giusta causa dall'amministrazione risulterebbe inidoneo a produrre, oltre alla espulsione del socio dalla società, anche la privazione del suo potere di amministrazione.

In tal caso, ove nei confronti del socio-amministratore resosi responsabile di gravi inadempienze in violazione non solo del rapporto di mandato, ma anche degli interesse societari, fosse adottato il provvedimento di espulsione, quale oggettiva sanzione di massima gravità producente la fuoriuscita dalla compagine sociale, tale provvedimento si rivelerebbe del tutto inidoneo a scongiurare il protrarsi della situazione di pericolo e pregiudizio agli interessi societari, in quanto incapace di eliminare, da solo, il corrente potere di amministrazione.

E non vi è dubbio che, in una simile fattispecie, assai verosimilmente il destinatario del provvedimento di esclusione avrebbe più di un motivo, sia pure soltanto per il probabile risentimento nei confronti degli altri componenti e per il disinteresse sulle sorti della società, per avvalersi dei suoi poteri al fine di recare a quest'ultima il maggior danno possibile.

La soluzione in questi termini della questione, com'è evidente, deriva da quella concezione, che appare superata, secondo cui le posizioni di socio e amministratore devono ritenersi separate, cosicché ove gli inadempimenti posti in essere dall'amministratore siano di tale gravità anche e sopratutto nei rispetti degli interessi della società determinandone irreparabile pregiudizio, non potrebbe ritenersi superato il rimedio della revoca per giusta causa dall'amministrazione dall'adozione del provvedimento di esclusione, dovendo necessariamente essere attuati entrambi.

In conformità all'orientamento, che appare preferibile, secondo cui devono ritenersi omogenee le posizioni di socio e di socio-amministratore, risulta evidente l'incompatibilità tra la qualifica di amministratore e quella di socio escluso, dovendo concludersi che mentre la perdita della qualità di amministratore non determina automaticamente l'esclusione dalla società (76), quest'ultima determina sempre anche la decadenza dall'amministrazione (77).

La soluzione, pur da ritenere esatta, incontra tuttavia alcuni ostacoli rappresentati dalla difforme procedura che il codice prevede per la revoca per giusta causa dall'amministrazione e per l'esclusione del socio, tenuto conto che, se con il procedimento stabilito per quest'ultima si raggiungono sostanzialmente gli effetti della prima, per essa tuttavia  la legge  prescrive requisiti procedimentali più rigorosi.

Secondo, infatti, la prevalente interpretazione dell'art.2259 c.c., la revoca per giusta causa dall'amministrazione richiede l'unanimità dei consensi (78), mentre per l'esclusione è sufficiente una deliberazione a maggioranza.

Fuori dei casi in cui la pronuncia dell'esclusione sia stata richiesta direttamente all'autorità giudiziaria potrebbe allora ritenersi, al fine di dare adeguata soluzione al problema, che nell'ipotesi in cui la revoca dall'amministrazione sia conseguenza diretta del provvedimento di esclusione non debba ritenersi necessaria l'unanimità dei consensi oppure che nel caso in cui debba escludersi un socio-amministratore, fermo che all'esclusione dalla compagine sociale non potrà residuare la sopravvivenza del potere di amministrazione in capo al socio escluso, il provvedimento di esclusione debba essere adottato con il procedimento richiamato per la revoca nel rispetto dei requisiti sanciti dall'art.2259 c.c. (79).

 

 

4) Il fallimento del socio receduto

 

Posto che le osservazioni che seguono valgono naturalmente per tutti i casi in cui il fallimento della società sia intervenuto dopo lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio, in ordine al quale il recesso costituisce una singola ipotesi della più complessa fattispecie, secondo il più recente orientamento della giurisprudenza, si  ritiene assoggettabile a fallimento il socio receduto se l'insolvenza della società riguardi anche obbligazioni contratte prima del recesso (80), così come è nota la tesi, certamente più contrastata almeno da parte della giurisprudenza di merito, che il fallimento del socio receduto potrebbe esser dichiarato anche nel caso in cui, posto l'inadempimento di tali obbligazioni precedenti al recesso, lo stato di insolvenza della società si sia tuttavia manifestato dopo lo scioglimento del vincolo sociale (81).

.............................

L’orientamento che negava ogni rilievo, per tal ultimo riguardo, al decorso del termine annuale stabilito dall’art.10 della lege fallimentare, dai più considerato inapplicabile in materia di società (82), deve ormai ritenersi superato a seguito della recente sentenza della Corte costituzionale che, sia pure in via interpretativa, ha rtenuto applicabile tanto detta disposiziona, quanto il successivo art.11 anche in ambito societario, stabilendo pertanto il principio che , così come avviene per l’imprenditore individuale, il falimento dei soci illimitatamente responsabili defunti o receduti può essere dichiarato solo entro il termine di un anno dallo scioglimento del rapporto (83).

La questione, in questo senso risolta dalla Corte Costituzionale, sia pure non senza contrastanti accenti da parte della giurisprudenza di merito (84), era stata oggetto di approfondimento specialmente in tema di trasformazione societaria, laddove anche nei casi in cui a tale disposizione era stato dato rilievo in ambito societario (85), si era prevalentemente ritenuto che il termine di cui all'art. 10 L.F. decorresse non dalla cessazione dell'attività d'impresa esercitata in forma collettiva, ma dalla effettiva chiusura della fase liquidatoria necessaria all'estinzione (86).

La tesi appare, naturalmente, prospettabile sempreché si sostenga che la fase di liquidazione possa ritenersi conclusa con il procedimento formale di estinzione e cancellazione della società, a prescindere dalla eventuale sussistenza di altri debiti residui (87), dato che soltanto in questo caso tale disposizione potrebbe avere un senso logico ed una reale portata applicativa in quanto, ove si assuma invece che, malgrado la cancellazione, la società resta giuridicamente in vita sino alla definizione dell'ultimo rapporto obbligatorio (88), l'assoggettabilità a fallimento sarebbe sempre possibile, mentre la soddisfazione dell'ultimo credito, da una parte determinerebbe l'effettiva estinzione della società, e dall'altra renderebbe del tutto superflua la disposizione dell'art.10 L.F., non essendovi più obbligazioni inadempiute che potrebbero causare la dichiarazione di fallimento.

L'infondatezza della prospettata questione di legittimità costituzionale dell'art.147 L.F. in relazione all'art.3 Cost., è stata argomentata sostenendosi che la diversità della disciplina applicabile nell'ipotesi di impresa individuale e di società, per quanto riguarda la rilevanza della decorrenza del termine di cui all'art.10 L.F., appare giustificata dalla diversità giuridica o di fatto delle due situazioni comparate, altro essendo l'impresa individuale, legata all'esistenza in vita ed all'attività dell'imprenditore persona fisica, altro essendo invece l'impresa collettiva, la cui estinzione effettiva giuridicamente rilevante dipende esclusivamente dalla risoluzione dell'intero complesso dei rapporti intersoggettivi che ne sono alla base (89).

 

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Anche nel caso della società ridottasi ad unico socio e quindi scioltasi per legge, si ritiene che fallisca sia l’ente collettivo, sia l’unico socio residuato oltre l’anno (88).

Nello stesso senso, in ipotesi di trasformazione di società di persone in società di capitali, poiché ciò non determina la nascita di un nuovo ente in luogo di altro che si estingue, i soci illimitatamente responsabili della società trasformata sono dichiarati falliti a seguito del fallimento dell'ente dotato di personalità giuridica derivante dalla trasformazione, sempreché non vi sia stata liberazione da parte dei creditori sociali ai sensi dell'art.2499 c.c. e lo stato di insolvenza risalga ad un momento anteriore alla trasformazione stessa (89).

Pur non essendo incontroversa la questione, dato che da alcuni si nega l'estensibilità del fallimento della società derivante dalla trasformazione alla società trasformata (90), mentre da altri la si ammette, secondo l’avviso che attribuisce alla trasformazione natura senz’altro novativa, nel solo caso in cui, in difetto di consenso dei creditori alla trasformazione, lo stato d'insolvenza concerna il periodo precedente all'iscrizione della trasformazione nel registro delle imprese e non sia decorso un anno da essa (91), così come anche una parte della stessa giurisprudenza esclude tale estensibilità ritenendo norma di carattere eccezionale l'art.147 L.F. (92) ed ammette la sola possibilità di assoggettare i soci illimitatamente responsabili ad esecuzione forzata ai sensi dell'art.2304 c.c. nel caso in cui mediante la procedura concorsuale non sia stato possibile soddisfare i creditori sociali (93), l'orientamento che sostiene l'estensibilità del fallimento ai soci della società trasformata appare dominante.

Si è anzi addirittura osservato, da una parte, che non avrebbe rilievo il fatto che l'esistenza di obbligazioni anteriori alla trasformazione non integri uno stato d'insolvenza esistente a tale momento, dovendo essa sussistere all'epoca della dichiarazione di fallimento e non già al tempo dei debiti insoluti più remoti, tanto che sarebbe allora sufficiente, ai fini dell'estensione del fallimento della società trasformata ai soci illimitatamente responsabili, la sussistenza di obbligazioni sorte antecedentemente alla trasformazione e rimaste inadempiute, anche in difetto di qualsiasi efficienza causale tra l'inadempimento di dette obbligazioni e l'insorgere dello stato d'insolvenza della società derivante dalla trasformazione (94).

Secondo quest'orientamento, pertanto, il fallimento dei soci illimitatamente responsabili sarebbe automatica conseguenza del fallimento della società trasformata, senza che rilevi ogni tipo di indagine volta da individuare una relazione tra il dissesto finanziario finale della società derivata dalla trasformazione e le obbligazioni preesistenti rimaste inadempiute, anche nel caso in cui queste ultime risultassero di modestissima entità ed a prescindere dal loro numero, sia pure nell'ipotesi in cui si trattasse di un unico ed esiguo debito

Al riguardo, si è perciò sostenuto che, in ipotesi di fallimento di società di persone trasformata in società di capitali, si avrebbe un unico fallimento con due masse attive, rispettivamente concernenti il patrimonio di ciascun socio illimitatamente responsabile e quello proprio della società fallita, argomentandosi di conseguenza che sulla prima massa concorrerebbero solo i titolari dei crediti sorti prima della trasformazione e sulla seconda concorrerebbero invece tutti gli altri creditori successivi (95).

Per questo avviso, la procedura concorsuale andrebbe così ad estendersi automaticamente a tutti i soci illimitatamente responsabili risultanti prima della trasformazione, a prescindere dalla loro qualità di imprenditori e dallo stesso stato di insolvenza delle loro rispettive sfere patrimoniali (96), in sostanza determinandosi così l’applicazione di una legge nata appositamente per gli imprenditori commerciali  anche a chi non riveste tale qualifica (97).

Il che implica l’automatica estensione del fallimento, in forza di una regola che richiama i principi della responsabilità oggettiva, nei confronti di coloro che risultano avere comunque accettato il rischio d’impresa, senza alcuna influenza della verifica, affatto necessaria, della loro solvibilità o della loro insolvenza (98).

Si è del resto osservato che il socio, il quale dev'essere obbligatoriamente convocato in camera di consiglio prima della pronuncia di estensione nei suoi confronti del fallimento della società, a pena di nullità della sentenza (99), potrebbe senz’altro sanare l’intero passivo della società e il non farlo implicherebbe automatica ammissione di una personale incapacità di far fronte alle obbligazioni sociali costituente prova della propria insolvenza (100).

 

 

 

5) L'accertamento a posteriori dello stato di insolvenza dell'impresa collettiva determinatosi prima del recesso.

 

 

Ciò posto, non pare però potersi effettivamente dubitare che per la dichiarazione di fallimento del socio receduto le obbligazioni contratte prima del recesso e rimaste inadempiute debbano essere effettivamente determinative dello stato di insolvenza della società (101), occorrendo un preciso nesso di causalità tra l'inadempimento di esse e l'insorgere della decozione dell'impresa sociale.

Diversamente ragionando, il socio receduto nel momento in cui la situazione economica della società è caratterizzata, come di norma, da una pluralità di crediti e di debiti, senza tuttavia alcuna pregiudizievole attuale o prevedibile alterazione delle proprie capacità di far fronte agli impegni economici con normali mezzi di pagamento, potrebbe sempre restare coinvolto dal fallimento della società, senza alcun limite di tempo stante la ritenuta inapplicabilità dell'art.10 L.F. (102), anche nei casi in cui la successiva insolvenza della società sia unicamente da ascriversi alla seguente gestione operata dagli altri soci rimasti i quali, pur provocando essi soltanto il dissesto economico con la contrazione di nuovi e diversi debiti abbiano lasciato inadempiuta anche qualche più vecchia obbligazione costituita prima del recesso del socio.

Posto che la gestione dell'attività commerciale postula sempre la coesistenza di posizioni creditorie e debitorie, non ci sarebbe allora mai, per il socio che intende recedere, alcuna possibilità di escludere il pericolo di un suo futuro fallimento, potendo egli soltanto contare sulla buona sorte del futuro andamento dell'attività commerciale della società e sulle capacità gestionali dei soci che restano, ovvero sul fatto che comunque essi provvedano ad estinguere tutte le obbligazioni sorte prima del recesso prima di mettere a repentaglio lo stato economico e patrimoniale della società con la contrazione di nuovi debiti.

Se, allora, deve guardarsi a quel collegamento funzionale che, si sostiene, deve sussistere tra inadempimento e insolvenza, non può certo ritenersi assoggettabile a fallimento il socio receduto soltanto per il fatto che, nonostante la decozione dell'impresa sia da ricollegarsi esclusivamente al mancato adempimento di obbligazioni sorte dopo il recesso o ad altri eventi sempre successivamente verificatisi, tra tutti i debiti della società dissestata se ne possa individuare comunque qualcuno sorto anteriormente al recesso del socio.

E se, pertanto, l'insolvenza implica l'incapacità del debitore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni e la sua vera causa deve ravvisarsi nella perdita della capacità di credito da parte dell'imprenditore (103) deve innanzitutto e soltanto verificarsi se tale incapacità e tale perdita di credito siano da ricollegare ad eventi verificatisi in un tempo anteriore o successivo alla fuoriuscita del socio, dovendo, in questa seconda ipotesi, escludere senz'altro il suo fallimento, a prescindere dal fatto che nella massa siano individuabili taluni crediti sorti al tempo della sua partecipazione alla società, ma del tutto ininfluenti, di per sé, alla successiva determinazione dello stato di insolvenza.

 

 

Propendendo, invece, per la tesi che ritiene che la dichiarazione di fallimento della società e l’estensione di essa ai soci illimitatamente responsabili dipenda dall’accertamento della sussistenza dello stato di insolvenza già prima del recesso, si pone, allora, il problema della verifica di tale condizione nel passato.

 Poiché l’indagine non può che svolgersi al momento della dichiarazione di fallimento e deve essere diretta non soltanto ad accertare l’esistenza di debiti remoti insoluti, ma altresì e principalmente a verificare la loro idoneità ad integrare il requisito dell’insolvenza della società nel periodo trascorso, che può essere anche assai distante, il problema può spesso apparire di difficile soluzione, specie nei casi in cui, in difetto di altri elementi da cui poter dedurre una pregressa insolvenza, manchino o risultino carenti le scritture contabili dell’impresa collettiva, utili al fine di verificare l’eventuale alterazione della passata situazione economica di quest’ultima nel senso di un suo preesistente stato di decozione.  

Sul piano processuale e, in specie, a livello probatorio, si rileva che, almeno nella maggior parte dei casi, sopratutto laddove le scritture contabili analizzabili al momento della dichiarzione di fallimento non offrano elementi certi e attendibili per la verifica degli elementi da cui poter desumere la sussistenza di un remoto stato di insolvenza della società, non vi è in concreto altra possibilità che ricorrere all’accertamento di tale condizione mediante presunzioni, tenuto tuttavia conto, nell’utilizzazione di tale sistema probatorio, della particolare natura che ha, nell’ordinamento giuridico, il procedimento fallimentare.

Com’è noto, in genere la prova presuntiva costituisce un procedimento logico induttivo, per cui l'interprete desume dall'esistenza di un fatto noto quella di un fatto ignorato nel presupposto che debba essere vero, nel caso concreto, ciò che ordinariamente, ovvero secondo l'id quod plerumque accidit, suol essere vero nella normalità dei casi in cui quello rientra e quindi il secondo fatto, da provare, dev'essere desunto dal primo come sua conseguenza ragionevolmente desumibile (104).

Presupposto essenziale per l'ammissibilità di tale elemento probatorio è che il fatto noto, dal quale debba desumersi in via presuntiva l'esistenza del fatto ignoto, non risulti, a sua volta, da una precedente presunzione (105), tanto che se il fatto asserito come noto si può alternativamente spiegare come conseguenza di diversi antecedenti causali senza che a nessuno di essi possa risalirsi con certezza, nessuno di questi può essere presunto a preferenza degli altri, poiché tutti, sino a prova contraria, tanto possono essere egualmente accettabili, quanto egualmente contestabili (106).

Non sono poi ammissibili presunzioni che difettino dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, individuati attraverso una valutazione globale dei vari indizi (107), osservandosi che gravi sono gli indizi consistenti, cioè resistenti alle obiezioni e quindi attendibili e convincenti; precisi sono quelli non generici e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto o più verosimile e, perciò, non equivoci; concordanti sono quelli che non contrastino tra loro e più ancora con altri dati o elementi certi (108).

In particolare, la precisione dell'indizio, che dovrà essere sempre reale certo ed univoco per assurgere al rango di elemento probatorio (109), ne suppone la certezza, nel senso dell'accertata verificazione storico-naturalistica della circostanza che lo costituisce per obiettiva esistenza direttamente assodata o per deduzione inequivoca e sicura da altri elementi e per esclusione, per contro di difforme o antitetica significazione e il rigoroso ed obiettivo accertamento del fatto ignorato dovrà pertanto, in specie nell'ambito del processo fallimentare ed in considerazione della sua particolare natura, costituire lo sbocco necessitato e strettamente conseguenziale, sul piano logico-giuridico, delle premesse indiziarie in fatto, con esclusione di ogni altra soluzione prospettabile, in termini di equivalenza o di alternatività, dovendo il giudizio conclusivo risultare come l'unico possibile, alla stregua degli elementi disponibili, secondo i criteri di razionalità dedotti dall'esperienza umana (110).

 

NOTE

 

(1)

Ferrara, Il fallimento, Milano, 1989.

Cass., 21 novembre 1986, n.6856, in "Fall.", 1987, 190.

Contra: Bonsignori, Il presupposto oggettivo delle procedure concorsuali, in "Dir.fall.", 1981, II, p.360; Campisi, Orientamenti attuali sullo stato di insolvenza, ivi, 1983, II, p.182.

 

(2)

Tribunale di Roma, 10 aprile 1987, in "Dir.fall.", 1987, II, 784.

 

(3)

Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1986, p.93;

Andrioli, Il fallimento, in E.d.D., Milano, 1967, p.316;

De Semo, Diritto fallimentare, Padova, 1968, p.127;

Azzolina, Il fallimento, Torino, 1953, p.244;

Ferrara, Il fallimento, op.cit., p.131 e s.

 

(4)

Ferrara, Il fallimento, op.cit., p.128;

Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, p.333;

Satta, Diritto fallimentare, Padova, 1990, p.45;

Mazzocca, Manuale di diritto fallimentare, Napoli, 1980, p.603.

Cass., 19 novembre 1992, n.12383, in "Dir.fall.", 1993, II, 1084;

Cass., 9 maggio 1992, n.5525, in "Fall.", 1992, 811;

Cass., 21 novembre 1986, n.6856, cit.;

Appello Firenze, 14 luglio 1978, in "Dir.fall.", 1978, II, 326;

Tribunale di Napoli, 22 gennaio 1984, in "Dir.giur.", 1975, 476.

 

(5)

Azzolina, Il fallimento, op.cit., p.209;

Provinciali, Trattato, op.cit., p.327.

 

(6)

Azzolina, Il fallimento, op.cit., p.276;

Provinciali, Trattato, op.cit., p.309;

Ragusa Maggiore, Il presupposto del fallimento, Padova, 1984, p.109;

Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, Milano, 1963, p.5.

Tribunale di Potenza, 11 giugno 1994, in "Banca Borsa", 1995, II, 610.

 

(7)

Pajardi, Manuale, op.cit., p.98;

Ferarra, Il fallimento, op.cit., p.130.

Tribunale di Milano, 27 dicembre 1972, in "Dir.fall.", 1972, II, 823.

 

(8)

Tribunale di Napoli, 28 febbraio 1996, in "Dir.fall.", 1996, II, 600.

 

(9)

Pajardi, Manuale, op.cit., p.98;

Tribunale di Milano, 2 dicembre 1993, in "Gius", 1994, fasc.5, 95;

Tribunale di Milano, 5 settembre 1988, in "Dir.fall.", 1989, II, 643.

 

(10)

Tribunale di Firenze, 24 agosto 1989, in "Dir.fall.", 1990, II, 844.

 

(11)

Tribunale di Chieti, 26 maggio 1992, in "Dir.fall.", 1993, II, 545.

 

(12)

Tribunale di Milano, 17 novembre 1994, in "Gius", 1995, 449.

 

(13)

Satta, Istituzioni, op.cit., p.48;

Provinciali, Trattato, op.cit., p.330.

 

(14)

Satta, Istituzioni, op.cit., p.38;

Bonsignori, Il presupposto, op.cit., p.358.

Cass., 20 maggio 1993, n.5376, in "Fall.", 1993, 1135;

Cass., 21 novembre 1986, n.6856, cit.;

Cass., 22 giugno 1985, n.3877, in "Giur.it.", 1986, I, 1, 409;

Cass., 11 maggio 1981, n.3095, in "Giur.comm.", 1982, II,  463;

Tribunale di Como, 19 dicembre 1994, in "Dir.fall.", 1995, II, 276.

 

 

(15)

Pajardi, Manuale, op.cit., p.96;

Pellegrini, Lo stato di insolvenza , Padova, 1980, p.57;

Candian, Lo stato di insolvenza in uno scritto recente, in "Dir.fall.", 1981, I, 93;

Ferrara, Il fallimento, op.cit., p.130.

Cass., 26 giugno 1992, n.8012, in "Fall.", 1992, 1026;

Cass., 9 maggio 1992, n.5525, cit.;

Cass., 11 aprile 1992, n.4463, in "Giust.civ.", 1993, I, 1027;

Cass., 31 gennaio 1984, n.182, in "Arch.civ.", 1984, 253.

Contra, Satta, Istituzioni, op.cit., p.48.

 

 

(16)

Cass., 26 giugno 1992, n.8022, cit;

Cass., 11 aprile 1992, n.2055, n.4463, cit.;

Cass., 24 novembre 1983, n.2055, in "Fall.", 1983, 1022.

 

(17)

Pajardi, Manuale, op.cit., p.97.

 

(18)

Satta, Istituzioni, op.cit., p.48.

Cass., 12 dicembre 1973, n.267, in "Giust.civ.", 1973, 205.

 

(19)

Pajardi, Manuale, op.cit., p.97.

Tribunale di Genova, 20 febbraio 1995, in "Gius", 1995, 953.

 

(20)

Ferrara, Il fallimento, op.cit., p.34;

Pajardi, Manuale, op.cit., p.96;

Ragusa Maggiore, Il presupposto, op.cit., p.110.

 

(21)

Bonelli, Il fallimento, I, Milano, 1973, p.5.

 

(22)

Andrioli, Fallimento, E.d.D., Milano, 1967, p.316.

 

(23)

Tribunale di Ascoli Piceno, 28 gennaio 1988, in “Soc.”, 1988, 605;

Tribunale di Milano, 2 maggio 1957, in “Dir.fall.”, 1958, II, 740.

 

(24)

Cass., 6 luglio 1968, n.2327, in “Foro it.”, 1969, I, 233.

Appello, Milano, 12 aprile 1960, in “Foro it.”, 1960, I, 1222.

Tribunale di Udine, 12 dicembre 1983, in “Dir.fall.”, 1984, I, 175.

 

(25)

Nel senso che le società commerciali costituite nelle forme previste dal c.c., ed aventi ad oggetto un'attività commerciale, sono soggette a fallimento indipendentemento dall'effettivo esercizio di una siffatta attività e che, a differenza dell'imprenditore individuale, esse acquistanto la qualità di imprenditore commerciale dal momento della loro costituzione e non già dall'inizio del concreto esercizio dell'attività: Cass., 4 novembre 1994, n. 9084, n “Fall.”, 1995, 622; Cass. 10 agosto 1979, n. 4644, in “Giust. Civ.”, 1980, 1, 129. Appello, Catanzaro 9 marzo 1993, in “Dir. Fall.”, 1994, 11, 1012. Tribunale di Milano 6 luglio 1995, in “Fall.”, 1995, 1247; Tribunale di Torino, 15 aprile 1994, in “Fall.”, 1994, 1217; Tribunale di Foggia 21 febbraio 1994, in “Dir. Fall.”, 1994, 11, 639.

 

(26)

 Satta, Diritto fallimentare, Padova, 1990, 29.

 

(27)

Pajardi, Manuale di Diritto fallimentare, Milano, 1998, 579

 

(28)

 Nel senso che sono esperibili le azioni individuali nei confronti dei soci che hanno agito, onde realizzare la illimitatezza della responsabilità: Satta, Diritto, op.cit., 339; Nel senso invece della illimitatezza della responsabilità di tutti i soci della società di capitali irregolare, senza distinguere fra chi ha agito e chi no: Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974;  Escludono qualunque sottoponibilità a fallimento dell’ente e dei soci: Galgano, Diritto commerciale. Le Società, Bologna, 1994, 172; Di Sabato, Manuale delle società, Torino, 1992, 266.

Nel senso che non è possibile dichiarare fallito l'ente poiché l'iscrizione nel registro delle imprese, esistente dal 1993, è formalità costitutiva nella cui assenza l'ente è inesistente: Cass. 19 giugno 1971, n. 1882, in “Giust. Civ.”, 1971, I, 1602 e Cass. 27 maggio 1960, n. 1371, in “Dir. Fall.”, 1960, Il, 469.

 

(29)

Pajardi, Manuale, op.cit., 582.

 

(30)

Cass. 30 gennaio 1995, n. 1106, in “Fall.”, 1995, 919; Cass. 4 marzo 1987, n. 2259, in “Soc.”, 1987, 654. Trib. Napoli 17 luglio 1996, in “Fall.”, 1997, 103.

 

(31)

Panzani, Imprenditore individuale apparente, società occulta ed identità d'impresa, ivi, 1995, 924. Cass. 30 gennaio 1995, n. 1106, cit. Tribunale di Napoli 17 luglio 1996, cit.

Nel senso che non occorre che il socio occulto sia personalmente insolvente e sia data prova di ciò: Cass. 5 marzo 1987, n. 2311, in “Fall.”, 1987, 572; Cass. 13 marzo 1982, n. 1632, in “Fall.”, 1982, 1422. Nel senso che nemmeno necessita, di regola, un suo coinvolgimento nella amministrazione: Tribunale di Torino 15 aprile 1994, in “Fall.”, 1994, 881.

 

(32)

Nel senso che se due persone fra loro non legate da alcun contratto di società si omportano in modo da ingenerare nei terzi l'opinione che essi agiscano come soci, spendendo addirittura una sedicente ragione sociale, sono sottoponibili a fallimento poiché la società non esistente, sì è cateriorizzata e la simulazione non è opponibile ai terzi di buona fede: Galgano, Bonsignori, Il fallimento delle società, in Trattato Galgano, Padova, .988, X, 53. Nel senso che non occorre che sia positivamente accertata l'affectio societatis, essendo sufficiente che essa appaia sencondo l’ordinario discernimento umano: Cass. 9 settembre 1996, n. 8168, in “Mass. UDA Cass. Civ.”, 499528; Cass., 28 marzo 1990, n. 2359, in “Giur. It.”, 1990,1,1727; Cass., 4 agosto 1988, n. 4827, in “Giur. It.”, 1989,1, 463; Cass.,  6 ottobre 1988, n. 5043, ivi. Contra: Ricci, Lezioni sul fallimento, Milano, 1997, 115; Alvino, Non assoggettabilità a fallimento della società apparente, in “Dir. Fall.”, 1974, I, 295; Cuneo, Le procedure concorsuali. Natura, effetti, svolgimento, Milano, 1988, 45; Provinciali, Trattato, op.cit., 2116; De Marco, Società di fatto e apparenza giuridica, in “Giur. Cass. Civ.”, 1953, 11, 179. Tribunale di Milano 8 novembre 1982, in “Fall.”, 1983, 758 ; Tribunale di Napoli, 24 giugno 1964, in “Foro It.”, 1964,1, 2215.

 

(33)

Provinciali, Trattato, op.cit.,2164.

 

(34)

Pajardi, Manuale, op.cit., 589.

 

(35)

Cass., 27 maggio 1997, n.4701, in “Giust.civ.Mass.”, 1997, 852.

Tribunale di Milano, 22 aprile 1997, in “Soc.”, 1997, 1312;

Tribunale di Monza, 24 maggio 1996, in “Fall.”, 1997, 88;

Tribunale di S.Maria Capua Vetere, 1 marzo 1996, in “Dir.fall.”, 1997, II, 1059;

Tribunale di Milano, 19 ottobre 1995, in “Fall.”, 1996, 385.

 

(36)

Nigro, Il fallimento del socio illimitatamente responsabile, Milano, 1974.

Cass., Sez. Un., 14 dicembre 1981, n. 6594, in “Giur. It.”, 1982,11,2411.

Trib. Napoli 7 febbraio 1987, in “Giur. It.”, 1988, I, 2, 22;

Trib. Milano 18 marzo 1985, in “Giur. Comm.”, 1986,11, 538;

Trib. Roma 22 maggio 1985, in Giur. Comm., 1986, 11, 928.

 

(37)

Tribunale di Monza, 24 maggio 1996, in “Fall.”, 1997, 88;

Tribunale di Milano, 19 ottobre 1995, in “Fall.”, 1996, 385;

Tribunale di Bologna, 13 novembre 1990, in “Giur.comm.”, 1992, II, 112.

 

(38)

Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1998, 585.

 

(39)

Galgano, Le società e lo schermo della Personalità giuridica, in “Giur. comm.”, 1983, I, 14;

Galgano, Il fallimento delle società, in Trattato Dir.Comm. e Dir. Pubbl. Ec., X, Padova, 1988, 94 e s..;

Pellizi, Unico Azionista controllo totalitario indiretto, in “Giur. Comm.”, 1981, 11, 615.

Cass. 29 novembre 1983, n.7152, in "Giust.civ.", 1984, 11, 3127.

 

(40)

Minervini, In tema di esclusione di socio amministratore unico di collettiva, in "Dir.e giur.", 1947, 249.

Galgano, Le società di persone, Bologna, 1971, 121;

Ferrara jr., Gli imprenditori e le società, Milano, 1971, 275;

Cottino, Diritto commerciale, vol.I, Padova, 1976, 470;

Tarantino, Revoca ed esclusione del socio amministratore nelle società personali, in "Giur.comm.", 1980, II, 303;

Morace Pinelli, Esclusione del socio e revoca dell'amministratore: inadempienze rilevanti, in "Soc.", 1994, II, 368;

Cagetti, Brevi  note in  materia  di scioglimento della societa' ed esclusione del  socio nelle  societa'  personali,  commento a sentenza, Appello Cagliari, 24 gennaio 1994, in "Riv. giur. Sarda", 1995,II, 340;

Ancora, Esclusione del socio nella societa' composta da due soli soci, commento a sentenza, Tribunale di Milano, 22  marzo  1990, in "Riv.dir.comm.", 1991, II, 449;

Di Gravio, Estromissione di  un  socio  dalla societa' di persone e liquidazione della quota del socio uscente, in "Giur. di merito", 1995, II, 855;

Ghisiglieri-Guido, Lo  scioglimento  del rapporto sociale limitatamente a un socio (art. 2284-2290 c.c.), in "Nuova giur.civ.comm.", 1994, II, 100;

Perrino, Sulla  non collegialita' del procedimento deliberativo di societa' di persone: il caso dell'esclusione del socio, in "Riv. dir. impresa", 1997, I, 1, 353;

Ronco, Quali effetti  per  le  inadempienze dei  soci di societa' personali?, commento a sentenza, Tribunale di Milano, 14 ottobre 1993, in "Soc.", 1994, II, 655; .

Boero, Sull'esclusione  per   gravi  inadempienze   di  un  socio   dopo  lo scioglimento di una societa' di persone, in "Dir.fall.", 1981, I, 117; 

Giannattasio, Sulle  gravi  irregolarita'  nell'amministrazione delle  societa'  di persone, commento a sentenza,  Cass., 30  gennaio  1980 n.  710, in "Giust. civ.", 1980, I, 817;

Bollino, Le cause  di  esclusione  del socio nelle societa' di persone e nelle cooperative, in "Riv.dir.comm." 1992, I, 375.

Pernazza, Presupposti e  procedimento  di  esclusione del  socio accomandatario, commento a  sentenza,  Tribunale di Milano, 21 ottobre 1993, in "Soc.", 1994, II, 364;  Cass.,  26 ottobre 1976, n.3938, in V.Buonocore - G.Castellano - R.Costi, Casi materiali di dir.comm., Soc.di persone, Milano, 1978, 1165;

Cass., 9 luglio 1973, n.1977, in "Giur.it.", 1973, I, 1, 1627;

Cass., 17 gennaio 1956, n.103, in "Rep.Foro it.", 1956, v.Soc., n.408.

Contra: Cass., 14 aprile 1958, n.1204, in "Giur.it.", 1958, I, 1, 1434; Appello Milano, 12 luglio 1974, in "Foro pad.", 1974, I, 403; Appello Milano, 23 ottobre 1970, in "Giur.it.", 1971, I, 2, 913; Tribunale di Napoli, 9 febbraio 1967, in "Foro it.", 1967, I, 1949.

Ferri, Della società, in Commentario del codice civile a cura di Scialoja e Branca, Libro V, Del Lavoro, artt.2247-2324, Bologna-Roma, 1969, 290.

 

41)

Cass., 9 marzo 1995, n.2736, in "Giust.civ.Mass.", 1995, 554;

Cass., 17 gennaio 1983, n.343, in "Soc.", 1983, 891;

Cass., 16 febbraio 1981, n.935, in "Giust.civ.Mass.", 1981, 358;

Cass., 30 gennaio 1980, n.710, in "Giur.comm.", 1980, II, 319.

Tribunale di Perugia, 2 agosto 1994, in "Rass.giur.umbra", 1995, 81.

 

(42)

Ascarelli, Il contratto plurilaterale, Studi in tema di contratti, Milano, 1952, 115;

Graziani, Le società, Napoli, 1963, 33;

Ferri, Delle società, in Commentario del cod.civ. a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1972, 6 e s.;

Ferrara, Imprenditori e società, Milano 1978, 203;

Campobasso, Diritto Commerciale, II, Torino, 1992, 3 e s.;

Jaeger-Denozza, Appunti di diritto commerciale, Milano, 1994, 110 e s.

Cass., 4 dicembre 1995, n.12487, in "Giust.civ.Mass.", 1995, fasc.13;

Cass., 1 marzo 1973, n.561, in "Dir.fall.", 1973, II, 915;

Cass., 18 febbraio 1972, n.463, in Giust.civ.", 1972, I, 1628;

Cass., 8 marzo 1961, n.498, in "Foro it.", 1961, I, 1358.

Appello Napoli, 18 marzo 1971, in "Dir.e giur.", 1971, 917;

Appello Milano, 17 marzo 1953, in "Foro it.", 1953, I, 830.

Tribunale di Milano, 22 ottobre 1990, in "Soc.", 1991, 221;

Tribunale di Milano, 2 giugno 1988, in "Giur.comm.", 1990, II, 699;

Tribunale di Milano, 17 maggio 1985, in "Soc.", 1985, 509;

Tribunale di Siena, 3 aprile 1974, in "Nuovo dir.", 1975, II, 66.

 

(43)

Cass., 16 luglio 1958, n.2603, in "Giur.sic.", 1960, 68;

Cass., 15 giugno 1955, n.1824, in "Dir.fall.", 1956.

 

(44)

Tribunale di Mialno, 2 giugno 1988, cit.

 

(45)

Cass., 12 giugno 1973, n.1696, in "Dir.fall.", 1974, II, 94.

 

(46)

Cass., 17 gennaio 1983, n.343, cit.;

Cass., 30 gennaio 1980, n.710, cit.;

Cass., 9 luglio 1973, n.1977, cit.;

Cass., 17 gennaio 1956, n.103, cit.;

Tribunale di Milano 14 ottobre 1993, in "Giur.it.", 1994, I, 2, 305;

Tribunale di Milano, 22 ottobre 1990, in "Giur.comm.", 1992, II, 307.

 

 

(47)

Tribunale di Milano, 22 ottobre 1990, in "Giur.comm.", 1992, II, 307.

Costi-Di Chio, Società in generale. Società di persone. Associazione in partecipazione, in "Giur.sit.civ.e comm.", fondata da W.Bigiavi, Torino, 1991, 689 e segg..

Contra: Ferri, Le società, in Trattato di dir.civ.it., di F.Vassalli, 1985, 282; secondo il quale la risoluzione per inadempimento può trovare autonoma applicazione, accanto all'esclusione del socio, in tutte quelle ipotesi in cui l'inadempimento sia intervenuto prima ancora della costituzione del fondo sociale.

Tribunale di Milano, 2 giugno 1988, in "Giur.comm.", 1990, II, 699.

 

(48)

Santoro Passarelli, in Noviss.Digesto, VII, v.Giusta causa, Torino, 1961, 1108.

Cass., 22 giugno 1985, in "Foro it.", 1986, I, 1364;

Cass., 2 novembre 1957, n.4240, in "Dir.fall.", 1958, II, 51.

 

(49)

Tribunale di Caltanissetta, 19 giugno 1947, in "Giur.it.", 1948, I, 2, 319.

 

(50)

Pretura di Mialno, 27 agosto 1961, in "Temi", 1962, 53.

 

 

(51)

Tribunale di Genova, 13 novembre 1959, in "Foro it.", 1960, I, 1830.

 

(52)

Pretura di Piombino, 5 ottobre 1979, in "Giur.comm.", 1980, II, 765.

 

(53)

Tribunale di Verona, 19 novembre 1971, in "Giur.it.", 1972, I, 2, 744.

 

(54)

Cass., 16 luglio 1953, n.2307, in "Dir.fall.", 1953, II, 695.

 

(55)

Tarantino, Revoca ed esclusione del socio amministratore nelle società personali, in "Giur.comm.", 1980, I, 303.

 

(56)

Tribunale di Milano, 22 marzo 1990, in "Soc.", 1990, n.9, 1057.

 

(57)

Cass., 1 giugno 1991, n.6200, in "Giur.it.", 1991, I, 1, 886;

Cass., 17 aprile 1982, n.2344, in "Dir.fall.", 1982, II, 859;

Cass., 16 luglio 1953, n.2307, in "Giur.it.", 1954, I, 1, 718;

Appello Milano, 12 settembre 1974, in "Riv.not.", 1975, 939;

Tribunale di Torino, 15 dicembre 1986, in "Soc.", 1987, 597;

Tribunale di Napoli, 9 febbraio 1967, in "Foro it.", 1967, I, 1949.

Nel senso che non è sufficiente l'accertamento della violazione di una clausola del contratto sociale, nel caso in cui la violazione sia perdurata per tutto il rapporto senza un apprezzamento di essa come gravemente lesiva degli interessi sociali e manchi l'indicazione del pregiudizio rispetto aai fini dell'attività sociale: Cass., 10 gennaio 1998, n.153, in "Guida al Diritto.Il Sole 24Ore", 1998, 21 febbraio 1998, n.7, 73.

 

(58)

Anche tale comportamento costituirebbe inadempimento capace di legittimare l'esclusione dalla società, alla quale sarebbe comunque riferibile un pregiudizio se non altro rappresentato dal discredito commerciale e dalle incombenze ed oneri necessari per resistere alle eventuali azioni dei creditori.

Cass., 13 agosto 1960, n.2380, in "Mass.Giur.it.", 1960, 595.

 

(59)

Galgano, Società di persone, in Tratt.dir.civ.comm., diretto da Cicu-Messineo, Milano, 1982, 326 e segg.;

Cottino, Diritto commerciale, I, 2, Padova, 1987, 225 e segg.;

Simonetto, L'apporto nel contratto di società, in "Riv.dir.civ.", 1958, I, 56;

Di Francia, Qualche considerazione in tema di esclusione del socio per gravi inadempienze, in "Giur.merito", 1970, I, 164;

Tarantino, Revoca ed esclusione del socio amministratore nelle società personali, in "Giur.comm.", 1980, II, 303.

 

(60)

Cass., 13 agosto 1960, n.2380, in "Dir.fall.", 1960, II, 848.

Appello Catania, 16 settembre 1980, in "Giur.comm.", 1982, II, 537.

 

(61)

Appello Bologna, 8 luglio 1966, in "Giur.it.", 1968, I, 2, 105.

 

(62)

Tribunale di Milano, 22 marzo 1990, in "Soc.", 1990, 1057.

 

(63)

Cass., 22 ottobre 1970, n.2099, in "Giust.civ.", 1971, I, 301.

Appello Firenze, 8 maggo 1951, in "Giur.tosc.", 1951, 450.

 

(64)

Cass., 22 ottobre 1970, n.2099, cit.

 

(65)

Tribunale di Larino, 19 luglio 1983, in "Giur.it.", 1984, I, 239.

 

(66)

Cass., 2 aprile 1992, n.4018, in "Soc.", 1992, 1063.

 

(67)

Tribunale di Napoli, 17 ottobre 1986, in "Giur.comm.", 1988, II, 654.

 

(68)

Appello Torino, 16 marzo 1979, in "Giur.comm.", 1980, II, 470.

Tribunale di Torino, 19 novembre 1977, in "Giur.comm.", 1979, II, 492.

 

 

(69)

Tribunale di Milano, 1 febbraio 1988, in "Soc.", 1988, 609.

 

(70)

Ferri, Delle società, in Commentario, op.cit., p.290.

Appello Milano, 23 ottobre 1970, cit.;

Tribunale di Napoli, 9 febbraio 1967, cit..

 

(71)

Cass., 17 gennaio 1956, n.103, cit..

 

(72)

Cass., 9 luglio 1973, n.1977, cit..

 

(73)

Cass., 26 ottobre 1976, n.3938, cit..

Contra: Ferri, Della società semplice, in Commentario al codice civile a cura di Scialoja e Branca, cit..

 

(74)

Tribunale di Milano, 28 ottobre 1993, in "Soc.", 1994, n.3, 368.

 

(75)

In senso favorevole: Minervini, In tema di esclusione, op.cit., 254 e segg.; Ferri, Le società, op.cit.. Contra: Galgano, Le società di persone, op.cit., 121; Ferrara jr., Gli imprenditori, op.cit., 250; Cottino, Diritto commerciale, op.cit., 506 e segg.; V.Buonocore - G.Castellano - R.Costi, Casi materiali, op.cit., 1367.

 

(76)

Costi-Di Chio, Società in generale, op.cit.;

Galgano, Società di persone, op.cit., 328;

Tarantino, Revoca ed esclusione, op.cit., 303.

Cass., 30 gennaio 1980, n.710, in "Giur.comm.", 1980, II, 319;

Appello Bari, 31 ottobre 1977, in "Giur.comm.", 1980, II, 303

Appello Firenze, 7 dicembre 1955, in "Giur.tosc.", 1956, 250;

Tribunale di Firenze, 25 agosto 1950, in "Giur.tosc.", 1950, 294;

 

(77)

Cottino, Diritto commerciale, op.cit., 470.

Ferri, Le società, op.cit., 229; secondo il quale, nonostante ritenga ammissibile l'affidamento a non soci del potere di amministrazione, quest'ultimo deve comunque considerarsi pur sempre posto essenzialmente in funzione del rapporto sociale, di tal che se i soci non si avvalsero della facoltà di conferire ad un terzo il potere di amministrazione, soltanto un esplicito atto di volontà dei socie, coevo all'esclusione, potrebbe conservare al socio escluso, divenuto perciò terzo rispetto alla società, quelle funzioni che nel contratto sociale o nell'atto separato furono attribuiti al socio o nell'atto separato furono attribuite al socio.

Contra: Minervini, In tema di esclusione, op.cit., 254 e segg..

Tribunale di Torino, 19 novembre 1977, cit..

 

(78)

Cottino, Diritto commerciale, op.cit., 418;

Campobasso, Diritto commerciale, op.cit., 96.

Contra: Graziani, Diritto delle società, Napoli, 1963, 96. 

Cass., 12.06.1996, n.5416, in "Giust.civ.", 1997, I, 157.

Appello Roma, 30 maggio 1956, in "Foro it:", 1957, I, 2068.

Tribunale di Catania, 19 aprile 1984, in "Soc.", 1985, 413.

 

(79)

Boero, Commento ad Appello Messina, 23 novembre 1977 ed a Tribunale di Torino, 19 novembre 1977, in "Giur.comm.", 1979, II, 492.

 

 

(80)

Cass., 24 luglio 1997, n.6925, in "Giust.civ.Mass.", 1997, 1266;

Cass., 6 lulgio1993, n.7385, in "Fall.", 1993, 1241.

Cass., 06.10.1988, n.6403, in "Soc.", 1988, 129;

Cass., 22 novembre 1983, n.6934, in "Giur.fall.", 1984, 1140.

Appello, Genova, 9 giugno 1978, in "Giur.comm.", 1980, II, 648.

Tribunale di Napoli, 22 marzo 1986, in "Dir.e giur.", 1987, 731.

Contra: Cass., 22.05.1990, n.4626, in "Fall.", 1991, 125

 

(81)

Cass., 06.10.1988, n.6403, cit.

Appello, Milano, 11 maggio 1985, in "Fall.", 1986, 55.

Tribunale di Genova, 5 gennaio 1995, in "Gius", 1995, 1639;

Tribunale di Napoli, 1 settembre 1984, in "Dir.fall.", 1985, II, 613.

Contra: Tribunale di Monza, 30.10.1996, in "Fall.", 1997, 531; Tribunale di Cagliari, 29.03.1995, in "Riv.giur.sarda", 1996, 444;  Tribunale di Como, 29.11.1994, in "Inform.prev.", 1996, 280; Tribunale di Foggia, 02.12.1993, in "Dir.fall.", 1994, II, 644; Tribunale di Torino, 11.11.1992, in "Giur.it.", 1993, I, 2, 504.

Nel senso che il fallimento potrebbe essere esteso al socio receduto prima del manifestarsi dello stato di insolvenza della società: Tribunale di Cuneo, 14 giugno 1985, in "Foro pad.", 1988, I, 525.

 

 

(82)

Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, Roma, 1964, p.372;

Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, IV, p.2055;

Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1986, p.681.

Cass., 6 ottobre 1988, n.6403, in "Soc.", 1988, 129;

Cass., 17 ottobre 1986, in "Giur.fall.", 1986, 96;

Cass., 21 novembre 1983, n.6934, in "Giur.fall.", 1983, 149;

Tribunale di Monza, 30 ottobre 1996, cit.;

Tribunale di Tolmezzo, 28 novembre 1996, in "Inform.prev.", 1996, 1139;

Tribunale di Genova, 5 gennaio 1995, in "Dir.fall.", II, 1995, 406

Tribunale di Torino, 8 novembre 1984, in "Giur.piemontese", 1985, 143;

Tribunale di Ascoli Piceno, 23 ottobre 1986, in "Dir.fall.", 1987, II, 1055;

Tribunale di Foggia, 24 novembre 1983, in "Dir.fall.", 1984, II, 318;

Tribunale di Napoli, 22 marzo 1980, in "Dir.e giur.", 1987, 731;

Appello Milano, 11 maggio 1985, in "Fall.", 1986, 55;

Appello Genova, 9 giugno 1978, in "Giur.comm.", 1980, II, 648.

Contra: Galgano-Bonsignori, Il fallimento, op.cit., p.36, 74-75;Ferrara, Il fallimento, Milano, 1988, p.678; Mazzocca, Manuale di diritto fallimentare, Napoli, 1980, p.525.

 

(83)

Contra: Pajardi, Manuale, op.cit.;

Pellegrino, I presupposti soggettivi del fallimento sociale, Padova, 1982, 139

 

(84)

Cass., 24 luglio 1997, n.6925, cit.;

Cass., 8 gennaio 1997, n.73, in "Giust.civ.Mass.", 1997, 11;

Cass., 9 marzo 1996, n.1876, in "Dir.fall.", 1996, II, 829;

Cass., 24 luglio 1992, n.8924, cit.;

Cass., 20 dicembre 1988, n.6953, in "Fall.", 1989, 510;

Cass., 25 gennaio 1986, n.495, in "Fall.", 1986, 747.

Tribunale di Milano, 30 gennaio 1995, in "Gius", 1995, 1642;

Tribunale di Milano, 29 ottobre 1994, in "Giur.it.", 1995, I, 2, 160;

Tribunale di Roma, 4 febbraio 1992, in "Giur.di merito", 1994, 64;

Tribunale di Venezia, 25 settembre 1987, in "Fall.", 1988, 273;

Tribunale di Milano, 3 ottobre 1986, in "Dir.fall.", 1987, II, 731.

Contra in dottrina: Jorio, Gli artt. 10 e 11 della legge fallimentare, in "Riv.soc.", 1969, p.293; Buonocore, Fallimento e impresa, Napoli, 1969, p.251; Valcavi, Se l'art.10 legge fallimentare sia applicabile alle società imprenditrici, in "Dir.fall.", 1952, II, p 463. E, inoltre, in giurisprudenza: Tribunale di Rimini, 17 dicembre 1996, in "Dir.fall.", 1997, II, 378; Tribunale di Varese, 21 maggio 1990, in "Foro pad.", 1991, I, 198.

 

(85)

Cass., 23 febbraio 1995, n.2524, in "Riv.pen.econ.", 1995, 250.

Tribunale di Varese, 21 maggio 1990, cit.;

Tribunale di Milano, 7 giugno 1980, in "Fall.", 1980, 130. 

 

(86)

Cass., 17 marzo 1998, n.2869, in “Giust.civ.Mass.”, 1998, 599.

Appello Bari, 22 aprile 1988, in "Fall.", 1988, 821.

Tribunale di Sulmona, 14 marzo 1992, in "Dir.fall.", 1993, II, 560. 

 

(87)

Corte Cost., 26 luglio 1988, n.919, in “Fall.”, 1988, 1061.

Cass., 24 luglio 1992, n.8924, cit.;

Cass., 25 gennaio 1986, n.495, cit.

 

(88)

Tribunale di Perugia, 21 settembre 1991 in “Fall.”, 1992, 499.

 

(89)

Candian, Società trasformata e fallimento dei soci, in "Riv.dir.comm.", 1935, I, 518;

Jorio, Il fallimento, IV, in Giust.sist.civ.comm., Torino, 1979, 779.

Cass., 24 luglio 1992, n.8924, cit.;

Cass., 22 maggio 1990, n.4626, in "Fall.", 1991, 125;

Cass., 6 novembre 1985, n.5394, in "Giur.fall.", 1985, 137;

Cass., 7 settembre 1970, n.1287, in "Foro it.", 1970, I, 2826.

Appello Firenze, 28 gennaio 1988, in "Dir.fall.", 1988, II, 951.

Tribunale di Sulmona, 14 marzo 1992, cit.;

Tribunale di Verona, 6 novembre 1990, in"Giur.it.", 1991, II, 586;

Tribunale di Lecce, 22 febbraio 1990, in "Riv.not.", 1990, 152;

Tribunale di Udine, 21 giugno 1984, in "Dir.fall.", 1985, II, 218;

Tribunale di Vicenza, 7 febbraio 1983, in "Fall.", 1984, 324;

Tribunale di Milano, 25 maggio 1973, in "Dir.fall.", 1974, II, 383.

 

(90)

Ferri, Le società, in Tratt. Vassalli, vol.X, tomo III, Torino, 1987, 573;

Azzolina, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino, 1953, 242;

Maffei Alberti, Trasformazione di società di persone in società di capitali e procedure concorsuali, in "Riv.dir.civ.", 1977, II, 638.

 

(91)

Cuneo, Le procedure concorsuali, Milano, 1988, p.135;

Galgano-Bonsignori, Il fallimento delle società, in Tratt. Galgano, vol.X, Padova, 1988, 75. Tribunale di Cosenza, 11 maggio 1995, in "Giur.it.", 1996, I, 2, 434.

 

(92)

Cass., 20 settembre 1984, n.4810, in "Fall.", 1985, 620. 

 

(93)

Cass., 4 settembre 1984, n.4752, in "Dir.fall.", 1984, II, 936.

 

(94)

Tribunale di Genova, 18 maggio 1994, in "Fall.", 1995, 301;

Tribunale di Genova, 25 ottobre 1984, in "Giur.comm.", 1987, II, 368;

Tribunale di Genova, 1 giugno 1982, in "Giur.comm.", 1984, II, 106.

Contra, nel senso che il fallimento della società di capitali trasformata possa estendersi ai soci nel caso in cui le obbligazioni che hanno concorso a determinare lo stato di insolvenza siano sorte prima della trasformazione: Cass., 6 novembre 1985, n.5394, cit.; Tribunale di Messina, 18 ottobre 1995, in “Soc.”, 1996, 446; Tribunale di Verona, 6 novembre 1990, cit.; Tribunale di Belluno, 27 febbraio 1990, in "Fall.", 1990, 760..

 

(95)

Mazzocca, L'insolvenza dei soci nella trasformazione della società, in "Dir.fall.", 1988, I, 563..

 

(96)

Cass., 6 febbraio 1997, n.1122, in “Fall.”, 1997, 1179;

Tribunale di Monza, 30 ottobre 1996, cit..

 

(97)

Tribunale di Milano, 21 aprile 1997, cit...

 

(98)

Cass., 4 giugno 1992, n.6852, in “Fall.”, 1992, 928;

Cass., 28 maggio 1991, n.6028, in “Fall.”, 1991, 1146;

Cass., 21 dicembre 1990, n.12145, in “Dir.fall.”, 1991, II, 465.

 

(99)

Tribunale di Rimini, 10 giugno 1987, in "Dir.fall.", 1988, II, 1134.

 

(100)

Satta, Diritto fallimentare, Padova, 1964, 346.

Contra, nel senso che andrebbe specificatamente accertata la singola insolvenza del socio: De Nozza, Responsabilità dei soci e rischio d’impresa nelle società personali, Milano, 1973, 145.

 

(101)

Cass., 06.11.1985, n.5394, in "Fall.", 1986, 497;

Cass., 11.05.1981, n.3095, in "Giur.comm.", 1982, II, 463.

Tribunale di Milano, 10.06.1993, in "Dir.fall.", 1994, II, 263.

Contra: Tribunale di Genova, 18.05.1994, in "Fall.", 1995, 301; Tribunale di Genova, 25.10.1984, in "Giur.comm.", 1987, II, 386; Tribunale di Genova, 01.06.1982, ivi, 1984, II, 106.

 

(102)

Cass., 24.07.1992, n.8924, in "Fall.", 1993, 48.

 

(103)

Cass., 20.051993, n.5376, in "Fall.", 1993, 1135;

Cass., 21.11.1986, n.6856, ivi, 1987, 190;

Cass., 22.06.1985, n.3877, in "Giur.it.", 1986, I, 1, 409.

 

(104)

Cass., Sez.Un., 13 novembre 1996 n.9961, in "Giur.it., 1997, I, 1, 1564;

Cass., 26 giugno 1995 n.7213, in "Giust.civ.Mass.", 1995, fasc.6;

Cass., 20 agosto 1951 n.2541, in "Giur.compl.cass.civ.", 1951, III, 881.

 

(105)

Cass., 16 marzo 1992 n.3205, in "Giust.civ.Mass.", 1992, fasc.3.

 

(106)

Cass., 28 gennaio 1974 n.217, in "Giust.civ.", 1975, I, 495..

 

(107)

Cass., 15 maggio 1997 n.4305, in "Giust.civ.Mass.", 1992, fasc.3;

Cass., 2 settembre 1995 n.9265, in "Boll.trib.", 1996, 1706. 

 

(108)

Cass., Sez.I, 24 giugno 1992, in "Riv.pen.", 1993, 579..

 

(109)

Cass., Sez.II, 08 febbraio 1991, in "Cass.pen.", 1992, 2160. 

 

(110)

Cass., Sez.I, 24 giugno 1992, cit.