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Impresa commerciale
industriale, 2000, n.2, Editore Eti,
Roma ___________________________________________________ IL FALLIMENTO DEL SOCIO RECEDUTO L'estensione del fallimento al socio illimitatamente responsabile uscito dalla società fallita e l'accertamento del pregresso stato di insolvenza dell'impresa collettiva Sommario: 1) Inadempimenti e stato di insolvenza 2) Il fallimento delle società di persona e dei soci
illimitatamente responsabili 3) Scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un
socio e fallimento della società. La
rilevanza dei motivi del recesso e dell'esclusione nell'indagine diretta ad
accertare il momento in cui si è manifestato lo stato di insolvenza della
società 4) Il
fallimento del socio receduto 5) L'accertamento a posteriori dello stato di insolvenza
dell'impresa collettiva determinatosi prima del recesso 1) Inadempimenti e stato di insolvenza Ai sensi dell'art.2290 del codice
civile se, nelle società di persona, il rapporto sociale si scioglie
limitatamente a un socio, questi o i suoi eredi rimangono responsabili verso
i terzi per le obbligazioni sociali sino al giorno in cui si verifica lo
scioglimento. Dopo lo scioglimento del rapporto,
residua pertanto, a carico del socio che non è più parte della società o dei
suoi eredi, la responsabilità personale e illimitata per le obbligazioni
contratte prima dello scioglimento e, se l'inadempimento di esse concorre a
determinare lo stato di insolvenza della società e la conseguenziale sua
dichiarazione di fallimento, il fallimento della società determina, allora,
il fallimento anche di tale socio, malgrado la sua assenza dalla compagine
sociale al momento della dichiarazione di fallimento dell'impresa collettiva. Sulla relazione causale che intercorre
normalmente tra l'inadempimento delle obbligazioni da parte dell'imprenditore
e lo stato di insolvenza della sua impresa, incide allora, in modo del tutto
peculiare nella fattispecie dell'impresa collettiva, il carattere ultrattivo
della responsabilità per le obbligazioni assunte. Ai sensi dell'art.5 della legge
fallimentare, essenziale presupposto oggettivo per la dichiarazione di
fallimento è lo stato di insolvenza dell'imprenditore, che si realizza ogni
qualvolta le condizioni del suo patrimonio versino in una situazione di
oggettiva impotenza economica, funzionale e non transitoria, per cui
l'imprenditore non sia più in grado di far fronte, con regolarità e mezzi
normali, all'adempimento delle proprie obbligazioni a seguito del verificarsi
di eventi che pregiudicano la liquidità e il credito necessari allo
svolgimento della propria attività (1) Deve pertanto realizzarsi una
situazione di illiquidità non transeunte (2) e manifesta (3) del patrimonio
del debitore, senza che possano aver rilievo le cause che la hanno
determinata, siano esse imputabili a fattori esterni o imputabili allo stesso
debitore (4). Lo stato di insolvenza può desumersi
non soltanto da manifestazioni dirette ed inequivoche, quali il susseguirsi
di inadempimenti da parte dell'imprenditore, ma anche indirettamente
attraverso altri indici univocamente sintomatici di tale stato tratti da
ulteriori fattori esteriori (5), tra i quali, il successivo art.7, annovera
la fuga o la latitanza
dell'imprenditore, la chiusura dei locali dell'impresa, il trafugamento, la
sostituzione o la diminuzione fraudolenta dell'attivo da parte dell'imprenditore. Pur risultando, sul piano applicativo,
il caso di maggior frequenza, il mancato adempimento delle obbligazioni
pecuniarie da parte dell'imprenditore ha pertanto soltanto un valore
meramente presuntivo, potendo lo stato di insolvenza anche prescindere sia
dall'effettiva sussistenza di inadempimenti sia dal numero e dalla gravità di
essi (6) e, per converso, pure un solo inadempimento potrebbe legittimare la
dichiarazione di fallimento, ove esso costituisca indice inequivocabilmente
sintomatico dell'esistenza di un patrimonio in dissesto e dell'oggettiva
impossibilità del debitore di soddisfare, con regolarità e con mezzi normali,
gli obblighi assunti (7). Al riguardo, non è sufficiente che
effettivamente esista una concreta situazione debitoria da parte
dell'imprenditore, essendo necessario innanzitutto che si sia verificato un
vero e proprio inadempimento e che esso possa dirsi attuale, avendo il
creditore effettuato, senza esito positivo, una vera e propria richiesta di
pagamento e sempreché l'imprenditore non sia riuscito a dimostrare, ovvero
non sia altrimenti emersa, la capacità di far luogo con regolarità al
pagamento delle proprie obbligazioni (8). La verifica della consistenza e della
gravità del mancato adempimento dev'essere pertanto sempre compiuta alla
stregua di tale criterio, per cui anche l'inadempimento relativo ad un solo e
modesto credito, ove relativo ad obbligazioni costituite per servizi ritenuti
essenziali all'azienda, può essere ritenuto senz'altro sintomatico di un più
generale stato di insolvenza (9). Anche il mancato adempimento di una
sola obbligazione da parte dell'imprenditore è quindi circostanza idonea a
legittimare la presunzione della decozione della sua impresa, ma soltanto se
non vi siano altri elementi che inducano a concludere diversamente. In tal caso potrà, allora, essere
legittimamente accolta l'istanza di fallimento presentata dal creditore
insoddisfatto, in specie se preceduta da atti esecutivi rimasti senza esito
positivo, dovendo ragionevolmente desumersi, sia dalla ingiustificata e
persistente volontà del debitore di sottrarsi all'adempimento, sia dal
mancato reperimento di beni di sufficiente valore da assoggettare ad
espropriazione forzata, il verosimile stato di dissesto della sua impresa
(10). Al contrario, senza l'allegazione di
ulteriori circostanza comprovanti lo stato di insolvenza, l'omesso
adempimento di un'unica obbligazione non potrà costituire valido fondamento
della richiesta di fallimento e giustificarne l'accoglimento, ove da tale
circostanza non possa trarsi la conclusione della sussistenza di uno stato di
insolvenza, come nel caso in cui il credito sia giudizialmente contestato dal
debitore e, a maggior ragione, se la contestazione sia stata avanzata prima
della domanda proposta dal creditore al tribunale fallimentare, a nulla rilevando,
in tal caso, l'efficacia della clausola di provvisoria esecuzione di cui
eventualmente sia munito il titolo dell'istante (11). Rilevante è, semmai, al riguardo, la
valutazione compiuta dal tribunale fallimentare, sia pure in via sommaria,
sul carattere pretestuoso o meno delle eccezioni svolte dal debitore in
ordine alla contestazione del credito posto a base dell'istanza, al fine di
verificare se esse non appaiano manifestamente infondate o se invece
risultino presumibilmente dirette esclusivamente a differire nel tempo il
pagamento del dovuto ed a celare quindi un'ingiustificata volontà del
debitore di sottrarsi all'adempimento degli obblighi assunti, per non essere,
in realtà, più in grado di farvi fronte con regolarità e con mezzi normali. Esclusa la pretestuosità della
contestazione giudiziale svolta dal debitore ed in assenza di altri elementi
da cui desumere il dissesto della sua impresa, deve quindi ritenersi
irrilevante tanto l'efficacia esecutiva del titolo del creditore istante,
quanto l'eventuale tentativo di pignoramento da esso esperito con esito
negativo (12). La dinamica dei rapporti obbligatori
intercorrenti tra i terzi e l'imprenditore e le vicende concernenti
l'attuazione delle relative prestazioni
a carico di quest'ultimo sono circostanze che possono avere adeguato
rilievo, ai fini dell'accoglimento della richiesta di fallimento, soltanto
nella misura in cui da esse sia consentito trarre elementi che rendano
fondatamente presumibile un conclamato stato di decozione della sua impresa. Nello stesso senso, l'attuazione del
rapporto obbligatorio nella rigorosa osservanza dei patti contrattualmente
stabiliti mediante l'esatta e tempestiva esecuzione delle relative
prestazioni da parte dell'imprenditore non può essere ritenuta circostanza di
per sé sufficiente ad escludere lo stato di decozione, come nel caso in cui
esso sia riuscito a far fronte alle singole scadenze ricorrendo a mezzi
anormali di pagamento, quali ad esempio l'alienazione totale o parziale del
patrimonio che abbia provocato o possa determinare uno squilibrio economico
tale da rendere verosimilmente impossibile il rispetto degli obblighi assunti
nei confronti dei creditori (13). Elemento essenziale, dunque, per
considerare verificata la condizione di dissesto economico, costituente lo
stato di insolvenza, non può ritenersi, allora, il verificarsi o il
susseguirsi di uno o più inadempimenti, ma deve invece essere individuato nel
fattore causale di essi e di cui questi stessi rappresentano specifico e
significativo indice sintomatico, precisamente costituito dal venir meno
della capacità di credito di cui gode e deve godere l'impresa, quale
possibilità, più o meno immediata, per l'imprenditore, di procurarsi credito
con operazioni proprie normali, ossia il venir meno della capacità
produttiva, nel senso di capacità dell'impresa di far fronte ai suoi impegni
con l'utilizzazione di mezzi normali di pagamento (14). Alla luce di tale principio, si è
allora affermato che nemmeno è utile ad escludere lo stato di insolvenza la
semplice circostanza che le condizioni economiche dell'impresa evidenzino
un'eccedenza dell'attivo rispetto al passivo (15), essendo sufficiente, per
la realizzazione del presupposto al procedimento concorsuale, la constatata
perdita delle consuete condizioni di liquidità e di credito (16), come nel
caso in cui l'impresa, pur in attivo, si trovi ad essere priva di denaro
liquido a causa di improvvidi investimenti non rapidamente reversibili (17)
oppure, malgrado i magazzini ricolmi di merce, l'imprenditore non sia di
fatto in grado di alienarla senza
ricorrere a svendite (18). Per contro, l'eccedenza del passivo
sull'attivo, pur mantenendo un significativo valore indiziario, non è, di per
sé, indice univocamente sintomatico di una situazione di totale e definitivo
dissesto, come nel caso in cui un'impresa si trovi di consueto ad operare con
uno sbilancio cronico e tuttavia il consistente credito bancario e
commerciale le consenta di mutare ed avvicendare costantemente le scadenza
delle proprie obbligazioni (19). L'accertamento dello stato di
insolvenza deve pertanto essere compiuto in base a tali criteri compositi,
sulla base di presunzioni costituite da circostanze indiziarie che, per i
loro requisiti di gravità, precisione e concordanza rendano palese ed oggettivamente
conoscibile la realizzazione di tale condizione, con un'attenta verifica
compiuta dal giudice di merito e sottratta, se immune da vizi
logico-giuridici, al sindacato di legittimità della suprema corte (20). Tale orientamento, ormai del tutto
univoco e consolidato, trae origine da quella risalente linea di pensiero
che, già nella vigenza del precedente codice di commercio, si accinse ad
affrontare le problematiche relative all'individuazione del concetto di
insolvenza con una prospettiva diversa da quella tradizionalmente seguita
dalla giurisprudenza dell'epoca, incline a risolvere tout court
l'inadempimento nell'insolvenza, tentando di superare l'affermata equivalenza
assoluta tra il primo e la seconda, giungendo alla fine ad assumere che, per
stabilire la sussistenza o meno del presupposto oggettivo richiesto ai fini
della dichiarazione di fallimento, dovesse aversi riguardo essenzialmente al
credito concesso all'imprenditore, anziché alla molteplicità ed alla
consistenza dei suoi inadempimenti (21). L'obiettivo dell'indagine andò quindi a
spostarsi oltre la mera circostanza della violazione degli obblighi
contrattuali, sostenendosi che quel che conta è la valutazione positiva che i
creditori e, più in generale, i fornitori esprimono dell'attività dell'imprenditore
e della sua attitudine a godere della fiducia indipensabile per potersi
dotare di capitali e servizi necessari al funzionamento dell'azienda, in
quanto se tali elementi vengono a mancare significa che i terzi hanno perduto
la fiducia nell'imprenditore, il quale dovrà pertanto, per questo, essere
considerato insolvente, posto quindi che altro è l'inadempimento o la
pluralità degli inadempimenti e altro ancora è l'insolvenza, dovendosi
cogliere la differenza tra i due fenomeni nel fatto che i primi sono soltanto
alcuni, sia pure così importanti da meritare una specifica menzione, dei vari
fattori esteriori con i quali l'insolvenza si manifesta (22). 2) Il fallimento delle società di
persona e dei soci illimitatamente responsabili Il principio della responsabilità
illimitata e personale dei soci per le obbligazioni sociali è affermato
dall’art.2267 del codice civile per la società semplice e dai successivi articoli 2291 e 2318 rispettivamente per
la società in nome collettivo, sia pure irregolare o di fatto (23), e per
quella in accomandita semplice (24). Caratterizzando la disciplina delle
società di persone e postulando l’integrazione di una soggettività incompleta
di esse con la soggettività propria delle persone dei soci, tale principio
trova peculiare applicazione in sede fallimentare, laddove si stabilisce, ai
sensi dell'art.147 L.F., che il fallimento della società si estende anche ai
soci illimitatamente responsabili. Come stabilisce l’art.1 della legge
fallimentare, sono soggetti alle disposizioni sul fallimento gli imprenditori
che esercitano una attività commerciale e, posto che l'imprenditore
commerciale, oltre che una persona fisica, può essere anche una persona
giuridica o un ente non fornito di personalità giuridica, ma dotato comunque
di autonomia patrimoniale, quel che rileva ai fini della sua assoggettabilità
alla disciplina fallimentare è che esso svolga un’attività anzitutto
imprenditoriale a carattere, inoltre, tipicamente commerciale. Non ha invece rilevanza la forma assunta dall'imprenditore
collettivo, tipica o atipica, regolare o irregolare, poiché anche nella
ipotesi minima, costituita dalla società collettiva irregolare o di fatto, si
avrà un ente irregolare, ma sufficientemente autonomo per essere assoggettato
al fallimento, mentre anche nella ipotesi massima, rappresentata dalla
società con personalità giuridica regolarmente costituitasi, non potrà
esservi un tale assoggettamento ove manchi l'esercizio di una impresa
commerciale, come ad esmpio nel caso di una società per azioni che coltiva un
fondo agricolo (25). Secondo la sopra citata disposizione della disciplina
fallimentare, in caso di fallimento di un imprenditore collettivo fornito non
di personalità giuridica ma solo di autonomia patrimoniale e quindi di
limitata soggettività, falliscono insieme all'ente i soci personalmente e
illimitatamente responsabili, e ciò costituisce in sostanza l'unico caso di
sottoposizione al processo fallimentare di un soggetto al quale manca la
qualità, fondamentale per l’applicabilità della peculiare disciplina
fallimentare, di imprenditore commerciale. Il fallimento della società con soci a responsabilità
personale illimitata, cioè della società cosiddetta di persone, determina
sempre il fallimento dei soci stessi, tranne che degli accomandanti, salvo il
caso della società cooperativa con soci personalmente e illimitatamente
responsabili, il cui fallimento non determina il fallimento dei soci, mentre
il fallimento del socio, pur personalmente e illimitatamente responsabile,
non produce il fallimento della società.. Posto che l'ordinamento giuridico attribuisce la
personalità giuridica alla società per azioni, alla società in accomandita
per azioni, alla società a responsabilità limitata, alla società cooperativa,
e soltanto a queste, se l'indagine sulla identificazione dell'imprenditore
collettivo soggetto al fallimento dovesse essere condotta con criteri
ristretti e orientato esclusivamente agli ordinari principi civilistici che
regolano l’inadempimento e le azioni volte alla tutela delle ragioni
creditorie, necessitando ogni processo esecutivo di un soggetto debitore e
parte passiva, soltanto le società rientranti nei tipi sopra indicati
potrebbero essere legittimamente sottoposte al processo esecutivo speciale
fallimentare. Il legislatore, con l’introduzione dell’art.147 L.F., ha
escluso la prospettazione stessa del problema, stabilendo espressamente che
la sentenza che dichiara il fallimento della società con soci a
responsabilità illimitata produce anche il fallimento dei soci
illimitatamente responsabili (26) e allora quella cosiddetta autonomia
patrimoniale, nella quale per lo più si è ravvisato un termine intermedio tra
la soggettività piena e l'inesistenza della soggettività, risulta senz’altro
sufficiente, per il diritto fallimentare, a fare assumere la fìgura di
soggetto e di parte del processo, pur non senza diversità sostanziali come
processuali, rispetto al soggetto fornito di soggettività piena. Ecco che, allora, la società fornita di personalità
giuridica esaurisce di regola la sua soggettività in se stessa e non è
costretta a chiamare alcuno ad integrarla, mentre quella priva di tale
attributo non può esonerarsi dal collegare sempre la propria deficitaria
soggettività con le persone dei soci personalmente e illimitatamente
responsabili. Resta, tuttavia, l'enorme importanza teorica e pratica di
non limitarsi nel secondo caso a dichiarare il fallimento dei singoli soci,
bensì di dichiarare, ed in primis, il fallimento del soggetto sociale,
il che implica evidenti effetti proprio nelle ipotesi di società fornite di
personalità giuridica, per i casi in cui per qualsiasi ragione e per lo più
per una irregolarità della costituzione della società o per il mancato
esaurimento delle formalità necessarie, non sia sorta la personalità
giuridica, posto che in siffatte situazioni l'autonomia patrimoniale, che dà
vita ad una limitata soggettività al punto da distinguere la società dai
soci, giustifica l'assoggettamento al fallimento della società irregolare,
sia pure con l'applicazione del regime proprio delle società aventi soci a
responsabilità illimitata, cioè delle cosiddette società di persone (27). Nella società irregolare, intendendosi per tale quella che
tende ad adeguarsi ad un tipo particolare o pretende di funzionare come un
tipo particolare senza peraltro avere o senza avere ancora quella
costituzione tipica richiesta dalla legge per il sorgere regolare e quindi
per il regolare funzionamento di quel tipo prescelto di società, l’ente collettivo
subisce la degradazione di fronte alla irregolarità della costituzione,
secondo le regole del codice civile, ed assume di fronte al fallimento il
regime proprio che tale degradazione gli comporta. Tale degradazione agisce in differenti modi a seconda del
tipo di società con notevoli conseguenze sul piano fallimentare, poiché ogni
degradazione che porti alla applicazione sic et simpliciter dei regime
della società semplice, porta al fallimento dei soci che hanno agito in nome
e per conto della società e, salvo patto contrario, degli altri soci, mentre
invece quando la degradazione consenta la applicazione degli artt. 2331 e
2332 c.c., cioè in sostanza per le società di capitali irregolari il
fallimento investe soltanto coloro che hanno agito, ferma restando la
responsabilità puramente civilistica, nell'ambito del capitale sottoscritto,
dei soci che invece non hanno agito (28), nel qual caso il vincolo sociale
della società irregolare che viene in luce sul piano fallimentare a
corroborare col fallimento personale dei soci il fallimento del soggetto
sociale non fornito di soggettività perfetta, non è il vincolo che riguarda
tutti i soci, ma soltanto quello che lega coloro che hanno agito (29). In tema di società occulta, nessuna norma, né comune né
speciale, sancisce che il vincolo sociale, per dispiegare le sue conseguenze
specialmente sul piano delle responsabilità, debba essere esteriorizzato, né
il criterio soggettivo su cui si fonda il nostro sistema attuale del diritto
delle imprese può spingersi fino al punto da qualificare l'imprenditore solo
quando vi è spendita del nome in aggiunta ai requisiti dell'art. 2082 c.c.
(30). La società, come ente fornito di soggettività, di qualunque grado,
esiste di per sé, per il solo fatto di essere stata in qualche modo
costituita, anche dal mero patto tra i soci, purché seguito, per quanto
riguarda la rilevanza sul piano fallimentare, da concreta attività
commerciale. Ai sensi del secondo comma dell’art.147 L.F., nel caso in
cui, dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l'esistenza di
altri soci illimitatamente responsabili, è senz’altro dichiarato il
fallimento anche di questi e, se è vero che si presuppone nell'ipotesi
specifica il fallimento sociale già dichiarato, è tuttavia altrettanto certo
che si suppone il carattere occulto di un particolare vincolo sociale tra la
società già dichiarata fallita e taluni soci prima ignoti. Il fenomeno non ha, quindi, un sua peculiare rilevanza giuridica sul problema esistenziale
della società nella sua realtà giuridico-sociale, con la conseguenza che va
applicato senza limitazioni il principio per cui, come verso i terzi risponde
la società realmente sussistente con i soci realmente tali, così al
fallimento è assoggettato l'ente reale con le sue costellazioni personali dei
soci, personalmente e illimitata- mente responsabili per avere assunto in
concreto tale qualifica (31). Il tema si collega con quello della
società apparente, laddove vige la regola dell’affidamento dei terzi, mentre
nella società occulta opera la regola della realtà. Posto che il principio dell’affidamento dei terzi è un
dato costante dell’intero ordinamento giuridico e trova nei vari istituti
molteplici applicazioni, specialmente sul tema comune della responsabilità
giuridica, deve ritenersi che se i creditori sociali sono entrati in rapporti
con un soggetto fondatamente da loro ritenuto come sociale a causa delle sue
univoche e costanti manifestazioni e del suo coerente modo di operare, oppure
sono entrati in rapporti con una società reale nella quale appariva tra gli
altri come socio anche un determinato soggetto, l'affidamento che essi hanno
riposto in siffatta situazione di fatto non debba iniquamente essere travolto
da una realtà dissimulata (32), con la conseguenza che può essere allora senz’altro
assoggettata a fallimento anche la società apparente, come collettiva
irregolare e anche come società di persone regolarmente costituita
simulatamente. In ordine alla simulazione in ambito
societario, si osserva come la natura giuridica della costituzione di una
società di capitali, il procedimento per la costituzione, il carattere
dell'intervento statuale, siano tutti elementi che escludono la possibilità
di una dichiarazione di simulazione (33). Fermo che si può legittimamente
ricorrere alla costituzione di una società di capitali anche allo scopo
esclusivo di limitare la propria responsabilità patrimoniale, se l’ente
collettivo ha un suo regolare svolgimento, ogni problema ulteriore di pretesa
responsabilità civilistica o fallimentare dei soci non si pone neppure se, ad
esempio, l'intestazione delle azioni o delle quote è fittizia o fiduciaria,
purché la società abbia vita regolare nel suo aspetto formale e sostanziale,
il patrimonio sociale ed i patrimoni individuali non vengano confusi e non vengano
poste in essere quelle situazioni del tutto anomale che snaturano l'ente
sociale non già a soggetto, bensì a materiale strumento o a paravento di un
esercizio di una attività commerciale concretamente individuale ovvero
sociale irregolare. In sostanza, in tutte le ipotesi di imprenditore occulto,
dell'imprenditore indiretto, del prestanome, del socio sovrano, del socio
dominante, del socio tiranno, quali fattispecie riconducibili ad categoria
generale di società cosidetta anomala, quel che rileva non è la
simulazione, né la compromissione del
principio della limitazione della propria responsabilità patrimoniale
attraverso il conferimento del proprio patrimonio in una società regolarmente
costituita e regolarmente funzionante e nemmeno si pone il problema della
soggettività, più o meno piena, della società, ma soltanto una evidente
snaturazione degli istituti giuridici e delle conseguenti responsabilità. La conseguenza non può che essere quella dell'affermazione
della responsabilità patrimoniale personale del reale im- prenditore, sia
esso individuale, sia esso collettivo, e del conseguente falli- mento
personale, per avere utilizzato la società di capitali come uno strumento,
non giuridico bensì materiale, snaturando l'istituto con il rigetto del regime
giuridico suo proprio (34). L’unico caso in cui il suddetto
principio dell’estensione del fallimento della società ai suoi soci
illimitatamente responsabili risulta applicabilke anche alla società di
capitali è quello nel quale quest’ultima risulta costituita da un unico socio
(35). Nel sistema anteriore all’introduzione
nell’ordinamento giuridico della società unipersonale a responsabilità
limitata, operata dal decreto legislativo 3 marzo 1993 n.88, in attuazione
della XII Direttiva CEE 21 dicembre 1989 n.667/89 e della legge comunitaria
28 gennaio 1992 n.142, per le società di capitali, in vista della
soggettività riconosciuta e dell'autonomia patrimoniale perfetta che le
contraddistingue, il legislatore aveva creato, per l’ipotesi di riduzione del
nucleo sociale ad un unico componente, i meccanismi sussidiari del 2362 e del
2497 c.c., mantenendo in vita l'ente, ma accrescendo le garanzie dei terzi
che erano venuti in contatto con la società nel periodo in cui essa si era
trovata ridotta ad un unico socio con la statuizione della responsabilità
illimitata di quest’ultimo per le obbligazioni contratte in tale periodo,
quale disposizione normativa ritenuta di natura fidejussoria ed eccezionale
(36) Nel nuovo sistema, che istituzionalizza la figura del
socio unico di società di capitali, non più relegandola ad ipotesi
eccezionale e transeunte, si è osservato che il socio fallisce, se non riesce
a far fronte alle obbligazioni assunte nel periodo in cui da solo ha preso
parte alla società (37), non perché esso svolge attività imprenditoriale in
proprio, posto che tale evenienza nella estensione dell’art. 147 L.F., anche
nella sua interpretazione tradizionale, appare orientamento assolutamente
superato (38), ma perché invece esso è illimitatamente responsabile e non ha
posto in essere quegli accorgimenti previsti dalla legge idonei ad escludere
la sua responsabilità patrimoniale per le obbligazioni che esso contrae,
stabilita in base al principio sancito dall'art. 2740 c.c. del quale l'art.
2362 c.c. costituisce generale applicazione (39). 3) Scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un
socio e fallimento della società. La
rilevanza dei motivi del recesso e dell'esclusione nell'indagine diretta ad
accertare il momento in cui si è manifestato lo stato di insolvenza della
società Le problematiche che sorgono in ordine alla possibilità di
estendere il fallimento della società al socio illimitatamente responsabile
da essa receduto sono le stesse che si riscontrano ogni qual volta si sia verificato
lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio e sia
successivamente intervenuta la dichiarazione di fallimento della società,
dovendo verificarsi, allora, se tra le obbligazioni rimaste inadempiute ve ne
siano talune contratte prima dell'evento modificativo della compagine sociale
e, in caso positivo, decidere se tale circostanza sia da sola sufficiente a
legittimare l'estensione del fallimento della società al socio
illimitatamente responsabile che di essa non faccia tuttavia più parte,
ovvero se a tale conclusione possano essere di ostacolo altre circostanze, quali il decorso del
tempo, la eventuale mancanza di un nesso causale tra l'inadempimento
dell'obbligazione contratta prima dell'evento modificativo ed il successivo
dissesto dell'impresa sociale, nonché il sorgere o il manifestarsi dello
stato di insolvenza soltanto dopo tale evento. Il legislatore ha specificatamente previsto i casi in cui
il rapporto sociale si scioglie limitatamente ad un socio. Vi è, innanzitutto, l'ipotesi della morte del socio, a cui
consegue, ai sensi dell'art.2284 c.c., l'obbligo della società di liquidare
la quota del socio defunto agli eredi. Ai sensi dell'art.2285 c.c., lo scioglimento del rapporto
si produce, inoltre, per il recesso del socio, che si attua con atto
unilaterale recettizio costituito da una manifestazione di volontà che
risulti incompatibile con la prosecuzione del rapporto sociale e che può
essere liberamente esercitato nei casi in cui la società sia stata contratta
a tempo indeterminato o per tutta la vita di uno dei soci, ovvero, nella
diversa ipotesi, per giusta causa o per i motivi stabiliti nel contratto
sociale. Vi sono poi il caso della cessione della quota del socio e
tutte le ipotesi della sua esclusione dalla società. Ai sensi dell'art.2288 c.c., l'esclusione interviene di
diritto se il socio è dichiarato fallito, sempre che il fallimento del socio
non sia la diretta conseguenza dello stesso fallimento della società, ovvero
nel caso in cui un suo creditore particolare abbia ottenuto la liquidazione
della sua quota, secondo la disposizione contenuta nell'art.2270 del codice
civile. L'esclusione può essere altresì determinata, come
stabilito dall'art.2286 c.c., dalle gravi inadempienze delle obbligazioni
derivanti dalla legge o dal contratto sociale, dall'interdizione del socio e
dalla sua inabilitazione per condanna che ne abbia comportato l'interdizione,
anche temporanea, dai pubblici uffici, nonché, per il socio che abbia
conferito nella società la propria opera o il godimento di una cosa, ovvero
si sia obbligato con il conferimento a trasferire la proprietà di una cosa,
dall'impossibilità di svolgere, per sopravvenuta inidoneità, l'opera
conferita, ovvero dal perimento, per causa a lui non imputabile, della cosa
dovuta o di quella promessa, se perita prima del trasferimento della sua
proprietà alla società. E' evidente che le ragioni del recesso o dell'esclusione
possono assumere una decisiva importanza, specialmente nel caso in cui sia
intercorso un non breve lasso di tempo tra l'intervento dell'evento
modificativo della compagine sociale e la dichiarazione di fallimento della
società e non sia agevole individuare a posteriori, con una certa precisione,
per l'eventuale mancanza o carenza delle scritture contabili o di altri elementi
attendibili, in quale momento si sia manifestato lo stato di insolvenza della
stessa e siano state contratte le obbligazioni rimaste inadempiute, al fine
di decidere se al socio receduto o escluso possa essere esteso il fallimento
della società, in forza dell'ultrattiva sua responsabilità per tali
obbligazioni. In particolare, non può sfuggire il rilievo che assume
l'ipotesi di esclusione del socio determinata dalle sue gravi inadempienze
delle obbligazioni derivanti dalla legge o dal contratto sociale, per
l'incidenza che certamente può determinare sulla verifica delle condizioni
legittimanti l'eventuale estensione del fallimento della società al socio
illimitatamente responsabile precedente escluso per tali ragioni, anche in
ordine all'applicazione delle disposizioni penali della legge fallimentare. E, poiché nelle società di persona il ruolo di socio
illimitatamente responsabile normalmente si connette con quello di
amministratore, per i cui inadempimenti l'ordinamento ha specificatamente
previsto l'istituto della revoca per giusta causa, la questione non può
essere esaminata che unitariamente, alla luce dei rapporti che intercorrono
tra la posizione di socio illimitatamente responsabile, in ordine alla quale
per le violazioni commesse dal socio è stabilita la sua esclusione dalla
società, e di amministratore della stessa, per la quale le violazioni
commesse non determinano, di per sé, alcuna espulsione dalla compagine
sociale. La rilevanza dell'argomento è data non soltanto
dall'incidenza che può avere, in sede di procedimento concorsuale per la
decisione sull'estensione del fallimento nei confronti del socio escluso, la
verifica delle ragioni che determinarono l'esclusione al fine di poter più
facilmente, in mancanza di altri elementi, accertare uno stato di insolvenza
della società già sussistente al momento dell'evento modificativo del nucleo
sociale, con la deduzione di inadempimenti ascritti alla responsabilità del
socio che, per questo, fu escluso, ma anche per l'influenza, affatto
marginale, delle connesse problematiche inerenti alla possibilità, nelle
società di persona, di affidare a terzi non soci il potere di
amministrazione. Se, infatti, si dovesse accedere alla tesi che consente
tale possibilità (infra), la sola esclusione del socio illimitatamente
responsabile cui sia affidata l'amministrazione della società, non avrebbe
anche l'effetto di farne contestualmente cessare il potere di
amministrazione, impedendo così ogni estensione del fallimento della società
nei suoi confronti ogni qual volta l'insolvenza della società si sia
manifestata successivamente all'esclusione a causa dell'inadempimento di
obbligazioni sia pure contratte dal socio escluso dopo la sua fuoriuscita
dalla società, ma nell'ambito del residuato suo potere di amministratore della
medesima. Posto che, in tema di società personali, il primo comma
dell'art.2286 del codice civile stabilisce l'esclusione del socio per gravi
inadempienze derivanti dalla legge o dal contratto sociale, mentre il
precedente art.2259 prevede che ciascuno dei soci può chiedere giudizialmente
la revoca per giusta causa dell'amministratore, si ritiene che il
socio-amministratore di una società di persone può essere non soltanto
revocato dalla carica di amministratore per la violazione dei doveri inerenti
al mandato conferitogli, ma anche escluso dalla società ai sensi
dell'art.2286 c.c., nel caso in cui gli inadempimenti da lui posti in essere
si pongano in contrasto con i fini
della società (40). Indipendentemente dagli obblighi che l'amministratore
socio di una società di persone deve adempiere in base al mandato che lo lega
alla società, ai sensi dell'art.2260 c.c., sussiste sempre l'obbligo che gli
deriva dalla sua qualità di socio di non compiere atti in contrasto con le
finalità della società e pertanto la sua esclusione da quest'ultima,
giustificata da un comportamento contrario ai fini e agli interessi
dell'ente, non può certo trovare ostacolo nella circostanza che, rivestendo
egli la carica di amministratore, il medesimo comportamento integri anche la
violazione degli specifici doveri inerenti al mandato di amministrazione, sì
da comportare la revoca e l'eventuale esperimento dell'azione di
responsabilità (41) Si sostiene univocamente, in proposito, che le norme che
disciplinano la risoluzione per inadempimento dei contratti a prestazioni
corrispettive non sono applicabili al contratto di società, che ha una
diversa natura e la cui disciplina prevede specifici rimedi contro
l'inadempimento dei soci (42), precisandosi che ad esso non sono quindi applicabili
né la disciplina del termine né quella della diffida ad adempiere e, in
genere, le norme che regolano, appunto, l'anzidetta risoluzione, in quanto la
la esclusione dalla società ha una sua propria peculiare disciplina, in parte
antitetica con la risoluzione, per modo che le disposizioni a questa relative
non possono a quella applicarsi, dovendo l'esclusione considerarsi come un
caso di scioglimento del rapporto sociale, anche limitatamente ad un socio, e
non come risoluzione e trovando luogo, al riguardo, soltanto la disciplina
che regola la particolare materia (43). E' stato allora ritenuto che, in ipotesi di inadempimento
da parte di un socio di una società in nome collettivo delle obbligazioni che
gli incombono per effetto del contratto sociale, gli altri soci non possono
proporre domanda di risoluzione del contratto sociale, ma possono avvalersi
dei rimedi predisposti dall'ordinamento, tra cui quello dell'esclusione del
socio inadempiente (44) e che, tuttavia, non sussiste ultrapetizione se,
avendo la parte chiesta la risoluzione del contratto di società per
inadempimento dell'unico altro socio, il giudice, ritenendo inapplicabile il
rimedio della risoluzione stabilito dall'art.1453 c.c., accolga la domanda in
forza dell'art.2286 c.c., disponendo lo scioglimento del rapporto soltanto
rispetto al socio inadempiente (45). Si suole in particolare distinguere tra le inadempienze
che attengono alle mansioni amministrative e che pertanto legittimano la
revoca del socio dalla carica di amministratore e quelle stabilite
dall'art.2286 c.c. che consentono l'esclusione del socio dalla società (46),
ritenendosi che l'esclusione sia un rimedio speciale, interamente sostitutivo
della risoluzione per inadempimento prevista dall'art.1459 c.c. anche per i
contratti plurilaterali con comunione di scopo (47). La sanzione della revoca è determinata dalle violazioni
che il socio pone in essere nell'ambito del rapporto gestorio e richiede la
sussistenza di una giusta causa, senza che tuttavia questa debba giungere ad
integrare l'elemento volontaristico della colpa imputabile, potendo anche
dipendere da circostanze estranee alla volontà dell'agente. Si è, al riguardo, osservato che l'adozione della sanzione
appare giustificata dal verificarsi di circostanze, dipendenti o meno dalla
volontà del socio-amministratore, anche obiettive, tali da scuotere la
fiducia posta a base del rapporto e da rendere legittima la reazione al
comportamento che ne abbia comportato la violazione, senza che tuttavia il
venir meno della fiducia ed il sorgere della situazione di ostacolo alla
continuazione del rapporto non siano state scientemente provocate dal
comportamento unilaterale di una delle parti (48). Si è, più precisamente, ritenuto che costituisce giusta
causa ogni fatto o comportamento che renda impossibile il naturale
svolgimento del rapporto di gestione, sia che ciò integri la violazione degli
obblighi dell'amministrazione in quanto tale, sia che si determini la
materiale impossibilità per l'amministratore di adempiere ai compiti che
l'amministrazione comporta. Sono state così considerate ipotesi di giusta causa di
revoca dall'amministrazione la delega ad altri del potere di gestione (49),
la mancanza di fatto di un amministratore capace di espletare l'attività di
gestione (50), la violazione del divieto di concorrenza e la cessazione di
fatto dell'esercizio delle funzioni gestorie (51), la mancata redazione e
l'omesso deposito dei bilanci e dei conti profitti e perdite presso la sede
sociale, la loro mancata comunicazione ai soci non amministratori e l'aver
impedito a questi ultimi di esercitare il diritto di approvazione del
bilancio e di controllo della gestione sociale (52). In altre occasioni si è preferito invece
un'interpretazione restrittiva del concetto di giusta causa, identificandosi
la giusta causa della revoca dell'amministratore unicamente con la violazione
degli obblighi del mandato ad amministrare (53). L'esclusione dalla società nei riguardi del socio che di
essa sia anche amministratore è invece determinata da inadempimenti
integranti atti in contrasto con gli stessi fini sociali e che costituiscono
insidia per la compagine della società stessa. Tale sanzione, producente la risoluzione del rapporto
sociale, deriva dalla violazione dell'essenziale obbligo di collaborazione
attiva insito nella struttura legale del rapporto di società (54), che
costituisce il riflesso dell'obbligo di fedeltà dei soci al patto sociale e
si determina in presenza di comportamenti che turbino l'intuitus personae in
base al quale il contratto sociale era stato stipulato e su cui si fondava
l'affectio societatis che è indispensabile per l'esercizio dell'attività
sociale (55), dovendo la reciproca fiducia caratterizzare, nella società di
persone, tutti i rapporti tra i vari componenti la compagine sociale (56). Circa la gravità delle inadempienze del socio che, ai
sensi dell'art.2286 primo comma c.c., può giustificare la sua esclusione
dalla società, si sostiene, al riguardo, che non occorre anche che tali
inadempimenti siano tali da impedire del tutto il raggiungimento dello scopo
sociale, ma è sufficiente che, secondo l'incensurabile apprezzamento del
giudice del merito, abbiano inciso negativamente sulla situazione della
società, rendendone anche soltanto meno agevole il perseguimento dei fini
(57). E' indifferente che l'inadempimento non sia suscettibile
di arrecare un danno immediato, effettivo e diretto, come nel caso in cui il
socio abbia agito in mancanza di poteri
di amministrazione od oltre i limiti di questi senza perciò riuscire a
vincolare la società all'adempimento delle obbligazioni assunte (58), essendo
sufficiente che il suo comportamento sia stato soltanto tendenzialmente
diretto ad ostacolare l'attività della società e sia di quella stessa gravità
che, nei rapporti negoziali di diritto civile, qualifica l'importanza
dell'inadempimento per la risoluzione del contratto ai sensi dell'art.1455
del codice civile (59). Tra le diverse sono state ravvisate, come concrete
inadempienze idonee a giustificare l'esclusione, l'assunzione di obbligazioni
in nome e per conto della società senza averne i poteri, sul rilievo che, pur
non essendo la società tenuta ad adempierle, il fatto di apparire
inadempiente e di essere soggetta ad inviti o intimazioni di pagamento degli
asseriti creditori genera un discredito nell'ambiente in cui la società
stessa opera (60), l'emissione di un vaglia cambiario in nome della società
ma nel proprio interesse e al di fuori di qualsiasi operazione sociale (61),
l'utilizzazione di somme della società a titolo personale e all'insaputa
degli altri soci (62), la mancata esecuzione del conferimento determinato nel
contratto sociale (63) ove tale inadempimento sia ritenuto di sufficiente gravità
(64), il conferimento da parte di un socio di un mandato generale senza
obbligo di rendiconto ad una persona che svolga attività commerciale identica
e potenzialmente concorrente con quella della società (65), l'ostruzionismo
del socio che, nei rapporti con i terzi, disconosca in toto l'operato degli
amministratori (66), ovvero si attribuisca falsamente la qualifica di
amministratore con la pretesa di condizionare ogni operazione sociale al suo
preventivo assenso (67), mentre si è, per altro lato, escluso che
costituiscano validi motivi di esclusione l'aver agito per ottenere la
liquidazione della società e per rilevare l'azienda sociale nell'ambito del
procedimento di liquidazione, il compimento, con il consenso degli altri
soci, di attività amministrative in materia non pienamente conforme ai patti
sociali (68), l'omessa tenuta, da parte del socio amministratore, dei libri
contabili obbligatori, sempre che la regolare tenuta di quello dell'imposta
sul valore aggiunto abbia in concreto consentito alla società di operare
egualmente (69). Nonostante parte della giurisprudenza di merito abbia
propeso per una netta separazione tra gli obblighi che al socio competono
come tale e quelli che, invece, ineriscono alla sua qualità di amministratore
(70), si ritengono ormai tendenzialmente omogenee entrambe le posizioni. In effetti, il fatto che non sia possibile ricondurre
sotto l'ambito dell'art.2286 c.c. le inadempienze che si riferiscono, in modo
esclusivo, all'attività di amministrazione e ogni eccesso dal mandato in cui
sia incorso il socio-amministratore, è circostanza che risponde ad un
criterio indubbiamente esatto, ma la sua applicazione, per discriminare le
conseguenze dell'irregolarità e degli eccessi dal mandato del
socio-amministratore, non è senza limiti e non giustifica il rigetto della
domanda di esclusione quando risulti che quest'ultimo, nello sconfinare dai
limiti del mandato, abbia svolto un'attività che sia di per sé contrastante
con i fini sociali (71). Si delinea allora quella violazione di doveri per cui può
farsi luogo alla sanzione prevista dall'art.2286 c.c., osservandosi infatti
che, al di fuori e indipendentemente dagli obblighi che l'amministratore
socio incontra per il mandato a lui conferito, vi è un obbligo fondamentale
che deriva dalla sua stessa qualità di socio, principalmente costituito dal
dovere di non compiere atti che, per essere in contrasto con i fini della
società, costituiscono insidia per la compagine di questa e pertanto quando
la violazione dei doveri inerenti alla qualità di amministratore non soltanto
incide sugli obblighi nascenti dal rapporto di mandato, ma assume altresì il
carattere di "grave inadempienza" delle obbligazioni derivanti dal
contratto sociale o dalla legge, dovrà ritenersi del tutto legittimo il
ricorso alla esclusione dalla società ai sensi della norma sopra citata (72). Essendo la norma sancita dall'art.2259 c.c. che regola la
revoca per giusta causa dall'amministrazione e quella dell'art.2286 c.c. che
disciplina l'esclusione del socio dalla società per gravi inadempienze poste
a tutela di due distinti beni giuridici, quali rispettivamente l'interesse di
ciascun socio a che l'amministrazione si svolga in conformità a quel rapporto
fiduciario che deve intercorrere tra soci e amministratori e l'interesse all'adempimento
del generico dovere di collaborazione
per il perseguimento del fine sociale, non sembra potersi ravvisare una netta
e certa separazione tra il campo di applicazione della revoca per giusta
causa del socio-amministratore e quello concernente l'esclusione dello stesso
per gravi inadempienze, poiché nelle società personali difetta in radice la
stessa sussistenza di una netta differenzazione tra il ruolo di socio e
quello di amministratore. Al riguardo, è stato chiarito che le qualità di amministratore
e di socio di una società in nome collettivo, ancorché riunite in una
medesima persona, non possono assolutamente considerarsi divise e non può
quindi ritenersi che le inadempienze compiute dall'amministratore, anche se
così gravi da minare la compagine sociale, siano ciò nonostante sempre
insuscettibili di intaccare la sua posizione di socio, come se si trattasse
di due persone diverse ovvero come se la carica di amministratore, per ciò
solo, dispensasse dal dovere di fedeltà cui è tenuto ciascun membro del
nucleo sociale, determinando l'insorgere, nei rispetti della posizione di
socio, di una sorta di immunità per il tradimento che questi realizzi
avvalendosi della carica gestoria (73). Invero, l'aver agito a danno della società tanto più
risulta grave quanto più fortemente legittima l'esclusione dalla compagine
sociale, specialmente ed a maggior ragione se a porre in essere
l'inadempimento sia stato chi rivesta la qualità di amministratore
avvalendosi dei poteri e delle prerogative ad essa inerenti (74). Intimamente connesso a questo tema, si pone il problema
dell'ammissibilità, nelle società di persone, di amministratori non soci
(75), in quanto è evidente che, se si ammette la possibilità di conferire
l'amministrazione della società a terzi ad essa estranei, il rimedio della
esclusione dalla società non accompagnata anche dalla revoca per giusta causa
dall'amministrazione risulterebbe inidoneo a produrre, oltre alla espulsione
del socio dalla società, anche la privazione del suo potere di amministrazione. In tal caso, ove nei confronti del socio-amministratore
resosi responsabile di gravi inadempienze in violazione non solo del rapporto
di mandato, ma anche degli interesse societari, fosse adottato il
provvedimento di espulsione, quale oggettiva sanzione di massima gravità
producente la fuoriuscita dalla compagine sociale, tale provvedimento si
rivelerebbe del tutto inidoneo a scongiurare il protrarsi della situazione di
pericolo e pregiudizio agli interessi societari, in quanto incapace di eliminare,
da solo, il corrente potere di amministrazione. E non vi è dubbio che, in una simile fattispecie, assai
verosimilmente il destinatario del provvedimento di esclusione avrebbe più di
un motivo, sia pure soltanto per il probabile risentimento nei confronti
degli altri componenti e per il disinteresse sulle sorti della società, per
avvalersi dei suoi poteri al fine di recare a quest'ultima il maggior danno
possibile. La soluzione in questi termini della questione, com'è
evidente, deriva da quella concezione, che appare superata, secondo cui le
posizioni di socio e amministratore devono ritenersi separate, cosicché ove
gli inadempimenti posti in essere dall'amministratore siano di tale gravità
anche e sopratutto nei rispetti degli interessi della società determinandone
irreparabile pregiudizio, non potrebbe ritenersi superato il rimedio della
revoca per giusta causa dall'amministrazione dall'adozione del provvedimento
di esclusione, dovendo necessariamente essere attuati entrambi. In conformità all'orientamento, che appare preferibile,
secondo cui devono ritenersi omogenee le posizioni di socio e di
socio-amministratore, risulta evidente l'incompatibilità tra la qualifica di
amministratore e quella di socio escluso, dovendo concludersi che mentre la
perdita della qualità di amministratore non determina automaticamente
l'esclusione dalla società (76), quest'ultima determina sempre anche la
decadenza dall'amministrazione (77). La soluzione, pur da ritenere esatta, incontra tuttavia
alcuni ostacoli rappresentati dalla difforme procedura che il codice prevede
per la revoca per giusta causa dall'amministrazione e per l'esclusione del
socio, tenuto conto che, se con il procedimento stabilito per quest'ultima si
raggiungono sostanzialmente gli effetti della prima, per essa tuttavia la legge
prescrive requisiti procedimentali più rigorosi. Secondo, infatti, la prevalente interpretazione
dell'art.2259 c.c., la revoca per giusta causa dall'amministrazione richiede
l'unanimità dei consensi (78), mentre per l'esclusione è sufficiente una
deliberazione a maggioranza. Fuori dei casi in cui la pronuncia dell'esclusione sia
stata richiesta direttamente all'autorità giudiziaria potrebbe allora
ritenersi, al fine di dare adeguata soluzione al problema, che nell'ipotesi
in cui la revoca dall'amministrazione sia conseguenza diretta del
provvedimento di esclusione non debba ritenersi necessaria l'unanimità dei
consensi oppure che nel caso in cui debba escludersi un socio-amministratore,
fermo che all'esclusione dalla compagine sociale non potrà residuare la
sopravvivenza del potere di amministrazione in capo al socio escluso, il
provvedimento di esclusione debba essere adottato con il procedimento
richiamato per la revoca nel rispetto dei requisiti sanciti dall'art.2259
c.c. (79). 4) Il fallimento del socio receduto Posto che le osservazioni che seguono valgono naturalmente
per tutti i casi in cui il fallimento della società sia intervenuto dopo lo
scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio, in ordine al
quale il recesso costituisce una singola ipotesi della più complessa
fattispecie, secondo il più recente orientamento della giurisprudenza,
si ritiene assoggettabile a
fallimento il socio receduto se l'insolvenza della società riguardi anche
obbligazioni contratte prima del recesso (80), così come è nota la tesi,
certamente più contrastata almeno da parte della giurisprudenza di merito,
che il fallimento del socio receduto potrebbe esser dichiarato anche nel caso
in cui, posto l'inadempimento di tali obbligazioni precedenti al recesso, lo
stato di insolvenza della società si sia tuttavia manifestato dopo lo
scioglimento del vincolo sociale (81). ............................. L’orientamento che negava ogni rilievo, per tal ultimo
riguardo, al decorso del termine annuale stabilito dall’art.10 della lege
fallimentare, dai più considerato inapplicabile in materia di società (82),
deve ormai ritenersi superato a seguito della recente sentenza della Corte
costituzionale che, sia pure in via interpretativa, ha rtenuto applicabile
tanto detta disposiziona, quanto il successivo art.11 anche in ambito
societario, stabilendo pertanto il principio che , così come avviene per
l’imprenditore individuale, il falimento dei soci illimitatamente
responsabili defunti o receduti può essere dichiarato solo entro il termine
di un anno dallo scioglimento del rapporto (83). La questione, in questo senso risolta
dalla Corte Costituzionale, sia pure non senza contrastanti accenti da parte
della giurisprudenza di merito (84), era stata oggetto di approfondimento
specialmente in tema di trasformazione societaria, laddove anche nei casi in
cui a tale disposizione era stato dato rilievo in ambito societario (85), si
era prevalentemente ritenuto che il termine di cui all'art. 10 L.F.
decorresse non dalla cessazione dell'attività d'impresa esercitata in forma
collettiva, ma dalla effettiva chiusura della fase liquidatoria necessaria
all'estinzione (86). La tesi appare, naturalmente,
prospettabile sempreché si sostenga che la fase di liquidazione possa ritenersi
conclusa con il procedimento formale di estinzione e cancellazione della
società, a prescindere dalla eventuale sussistenza di altri debiti residui
(87), dato che soltanto in questo caso tale disposizione potrebbe avere un
senso logico ed una reale portata applicativa in quanto, ove si assuma invece
che, malgrado la cancellazione, la società resta giuridicamente in vita sino
alla definizione dell'ultimo rapporto obbligatorio (88), l'assoggettabilità a
fallimento sarebbe sempre possibile, mentre la soddisfazione dell'ultimo
credito, da una parte determinerebbe l'effettiva estinzione della società, e
dall'altra renderebbe del tutto superflua la disposizione dell'art.10 L.F.,
non essendovi più obbligazioni inadempiute che potrebbero causare la dichiarazione
di fallimento. L'infondatezza della prospettata
questione di legittimità costituzionale dell'art.147 L.F. in relazione
all'art.3 Cost., è stata argomentata sostenendosi che la diversità della
disciplina applicabile nell'ipotesi di impresa individuale e di società, per
quanto riguarda la rilevanza della decorrenza del termine di cui all'art.10
L.F., appare giustificata dalla diversità giuridica o di fatto delle due
situazioni comparate, altro essendo l'impresa individuale, legata
all'esistenza in vita ed all'attività dell'imprenditore persona fisica, altro
essendo invece l'impresa collettiva, la cui estinzione effettiva
giuridicamente rilevante dipende esclusivamente dalla risoluzione dell'intero
complesso dei rapporti intersoggettivi che ne sono alla base (89). °°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°° Anche nel caso della società ridottasi
ad unico socio e quindi scioltasi per legge, si ritiene che fallisca sia
l’ente collettivo, sia l’unico socio residuato oltre l’anno (88). Nello stesso senso, in ipotesi di
trasformazione di società di persone in società di capitali, poiché ciò non
determina la nascita di un nuovo ente in luogo di altro che si estingue, i
soci illimitatamente responsabili della società trasformata sono dichiarati
falliti a seguito del fallimento dell'ente dotato di personalità giuridica
derivante dalla trasformazione, sempreché non vi sia stata liberazione da
parte dei creditori sociali ai sensi dell'art.2499 c.c. e lo stato di
insolvenza risalga ad un momento anteriore alla trasformazione stessa (89). Pur non essendo incontroversa la
questione, dato che da alcuni si nega l'estensibilità del fallimento della
società derivante dalla trasformazione alla società trasformata (90), mentre
da altri la si ammette, secondo l’avviso che attribuisce alla trasformazione
natura senz’altro novativa, nel solo caso in cui, in difetto di consenso dei
creditori alla trasformazione, lo stato d'insolvenza concerna il periodo
precedente all'iscrizione della trasformazione nel registro delle imprese e
non sia decorso un anno da essa (91), così come anche una parte della stessa
giurisprudenza esclude tale estensibilità ritenendo norma di carattere
eccezionale l'art.147 L.F. (92) ed ammette la sola possibilità di
assoggettare i soci illimitatamente responsabili ad esecuzione forzata ai
sensi dell'art.2304 c.c. nel caso in cui mediante la procedura concorsuale
non sia stato possibile soddisfare i creditori sociali (93), l'orientamento
che sostiene l'estensibilità del fallimento ai soci della società trasformata
appare dominante. Si è anzi addirittura osservato, da una
parte, che non avrebbe rilievo il fatto che l'esistenza di obbligazioni
anteriori alla trasformazione non integri uno stato d'insolvenza esistente a
tale momento, dovendo essa sussistere all'epoca della dichiarazione di
fallimento e non già al tempo dei debiti insoluti più remoti, tanto che
sarebbe allora sufficiente, ai fini dell'estensione del fallimento della
società trasformata ai soci illimitatamente responsabili, la sussistenza di
obbligazioni sorte antecedentemente alla trasformazione e rimaste
inadempiute, anche in difetto di qualsiasi efficienza causale tra
l'inadempimento di dette obbligazioni e l'insorgere dello stato d'insolvenza
della società derivante dalla trasformazione (94). Secondo quest'orientamento, pertanto,
il fallimento dei soci illimitatamente responsabili sarebbe automatica
conseguenza del fallimento della società trasformata, senza che rilevi ogni
tipo di indagine volta da individuare una relazione tra il dissesto
finanziario finale della società derivata dalla trasformazione e le
obbligazioni preesistenti rimaste inadempiute, anche nel caso in cui queste
ultime risultassero di modestissima entità ed a prescindere dal loro numero,
sia pure nell'ipotesi in cui si trattasse di un unico ed esiguo debito Al riguardo, si è perciò sostenuto che,
in ipotesi di fallimento di società di persone trasformata in società di
capitali, si avrebbe un unico fallimento con due masse attive,
rispettivamente concernenti il patrimonio di ciascun socio illimitatamente
responsabile e quello proprio della società fallita, argomentandosi di
conseguenza che sulla prima massa concorrerebbero solo i titolari dei crediti
sorti prima della trasformazione e sulla seconda concorrerebbero invece tutti
gli altri creditori successivi (95). Per questo avviso, la procedura
concorsuale andrebbe così ad estendersi automaticamente a tutti i soci
illimitatamente responsabili risultanti prima della trasformazione, a
prescindere dalla loro qualità di imprenditori e dallo stesso stato di insolvenza
delle loro rispettive sfere patrimoniali (96), in sostanza determinandosi
così l’applicazione di una legge nata appositamente per gli imprenditori
commerciali anche a chi non riveste
tale qualifica (97). Il che implica l’automatica estensione
del fallimento, in forza di una regola che richiama i principi della
responsabilità oggettiva, nei confronti di coloro che risultano avere
comunque accettato il rischio d’impresa, senza alcuna influenza della
verifica, affatto necessaria, della loro solvibilità o della loro insolvenza
(98). Si è del resto osservato che il socio,
il quale dev'essere obbligatoriamente convocato in camera di consiglio prima
della pronuncia di estensione nei suoi confronti del fallimento della
società, a pena di nullità della sentenza (99), potrebbe senz’altro sanare
l’intero passivo della società e il non farlo implicherebbe automatica
ammissione di una personale incapacità di far fronte alle obbligazioni
sociali costituente prova della propria insolvenza (100). 5) L'accertamento a posteriori dello
stato di insolvenza dell'impresa collettiva determinatosi prima del recesso. Ciò posto, non pare però potersi effettivamente dubitare
che per la dichiarazione di fallimento del socio receduto le obbligazioni
contratte prima del recesso e rimaste inadempiute debbano essere
effettivamente determinative dello stato di insolvenza della società (101),
occorrendo un preciso nesso di causalità tra l'inadempimento di esse e
l'insorgere della decozione dell'impresa sociale. Diversamente ragionando, il socio receduto nel momento in
cui la situazione economica della società è caratterizzata, come di norma, da
una pluralità di crediti e di debiti, senza tuttavia alcuna pregiudizievole
attuale o prevedibile alterazione delle proprie capacità di far fronte agli
impegni economici con normali mezzi di pagamento, potrebbe sempre restare
coinvolto dal fallimento della società, senza alcun limite di tempo stante la
ritenuta inapplicabilità dell'art.10 L.F. (102), anche nei casi in cui la
successiva insolvenza della società sia unicamente da ascriversi alla
seguente gestione operata dagli altri soci rimasti i quali, pur provocando
essi soltanto il dissesto economico con la contrazione di nuovi e diversi
debiti abbiano lasciato inadempiuta anche qualche più vecchia obbligazione
costituita prima del recesso del socio. Posto che la gestione dell'attività commerciale postula
sempre la coesistenza di posizioni creditorie e debitorie, non ci sarebbe
allora mai, per il socio che intende recedere, alcuna possibilità di
escludere il pericolo di un suo futuro fallimento, potendo egli soltanto
contare sulla buona sorte del futuro andamento dell'attività commerciale
della società e sulle capacità gestionali dei soci che restano, ovvero sul
fatto che comunque essi provvedano ad estinguere tutte le obbligazioni sorte
prima del recesso prima di mettere a repentaglio lo stato economico e
patrimoniale della società con la contrazione di nuovi debiti. Se, allora, deve guardarsi a quel collegamento funzionale che,
si sostiene, deve sussistere tra inadempimento e insolvenza, non può certo
ritenersi assoggettabile a fallimento il socio receduto soltanto per il fatto
che, nonostante la decozione dell'impresa sia da ricollegarsi esclusivamente
al mancato adempimento di obbligazioni sorte dopo il recesso o ad altri
eventi sempre successivamente verificatisi, tra tutti i debiti della società
dissestata se ne possa individuare comunque qualcuno sorto anteriormente al
recesso del socio. E se, pertanto, l'insolvenza implica l'incapacità del
debitore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni e la sua vera
causa deve ravvisarsi nella perdita della capacità di credito da parte
dell'imprenditore (103) deve innanzitutto e soltanto verificarsi se tale
incapacità e tale perdita di credito siano da ricollegare ad eventi
verificatisi in un tempo anteriore o successivo alla fuoriuscita del socio,
dovendo, in questa seconda ipotesi, escludere senz'altro il suo fallimento, a
prescindere dal fatto che nella massa siano individuabili taluni crediti
sorti al tempo della sua partecipazione alla società, ma del tutto
ininfluenti, di per sé, alla successiva determinazione dello stato di
insolvenza. Propendendo, invece, per la tesi che
ritiene che la dichiarazione di fallimento della società e l’estensione di
essa ai soci illimitatamente responsabili dipenda dall’accertamento della
sussistenza dello stato di insolvenza già prima del recesso, si pone, allora,
il problema della verifica di tale condizione nel passato. Poiché l’indagine non può che svolgersi al momento della
dichiarazione di fallimento e deve essere diretta non soltanto ad accertare
l’esistenza di debiti remoti insoluti, ma altresì e principalmente a
verificare la loro idoneità ad integrare il requisito dell’insolvenza della
società nel periodo trascorso, che può essere anche assai distante, il
problema può spesso apparire di difficile soluzione, specie nei casi in cui,
in difetto di altri elementi da cui poter dedurre una pregressa insolvenza,
manchino o risultino carenti le scritture contabili dell’impresa collettiva,
utili al fine di verificare l’eventuale alterazione della passata situazione
economica di quest’ultima nel senso di un suo preesistente stato di
decozione. Sul piano processuale e, in specie, a
livello probatorio, si rileva che, almeno nella maggior parte dei casi,
sopratutto laddove le scritture contabili analizzabili al momento della
dichiarzione di fallimento non offrano elementi certi e attendibili per la
verifica degli elementi da cui poter desumere la sussistenza di un remoto
stato di insolvenza della società, non vi è in concreto altra possibilità che
ricorrere all’accertamento di tale condizione mediante presunzioni, tenuto
tuttavia conto, nell’utilizzazione di tale sistema probatorio, della particolare
natura che ha, nell’ordinamento giuridico, il procedimento fallimentare. Com’è noto, in genere la prova
presuntiva costituisce un procedimento logico induttivo, per cui l'interprete
desume dall'esistenza di un fatto noto quella di un fatto ignorato nel
presupposto che debba essere vero, nel caso concreto, ciò che ordinariamente,
ovvero secondo l'id quod plerumque accidit, suol essere vero nella
normalità dei casi in cui quello rientra e quindi il secondo fatto, da
provare, dev'essere desunto dal primo come sua conseguenza ragionevolmente
desumibile (104). Presupposto essenziale per
l'ammissibilità di tale elemento probatorio è che il fatto noto, dal quale
debba desumersi in via presuntiva l'esistenza del fatto ignoto, non risulti,
a sua volta, da una precedente presunzione (105), tanto che se il fatto
asserito come noto si può alternativamente spiegare come conseguenza di
diversi antecedenti causali senza che a nessuno di essi possa risalirsi con
certezza, nessuno di questi può essere presunto a preferenza degli altri,
poiché tutti, sino a prova contraria, tanto possono essere egualmente
accettabili, quanto egualmente contestabili (106). Non sono poi ammissibili presunzioni
che difettino dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, individuati
attraverso una valutazione globale dei vari indizi (107), osservandosi che
gravi sono gli indizi consistenti, cioè resistenti alle obiezioni e quindi
attendibili e convincenti; precisi sono quelli non generici e non
suscettibili di diversa interpretazione altrettanto o più verosimile e,
perciò, non equivoci; concordanti sono quelli che non contrastino tra loro e
più ancora con altri dati o elementi certi (108). In particolare, la precisione
dell'indizio, che dovrà essere sempre reale certo ed univoco per assurgere al
rango di elemento probatorio (109), ne suppone la certezza, nel senso
dell'accertata verificazione storico-naturalistica della circostanza che lo
costituisce per obiettiva esistenza direttamente assodata o per deduzione
inequivoca e sicura da altri elementi e per esclusione, per contro di
difforme o antitetica significazione e il rigoroso ed obiettivo accertamento
del fatto ignorato dovrà pertanto, in specie nell'ambito del processo
fallimentare ed in considerazione della sua particolare natura, costituire lo
sbocco necessitato e strettamente conseguenziale, sul piano logico-giuridico,
delle premesse indiziarie in fatto, con esclusione di ogni altra soluzione
prospettabile, in termini di equivalenza o di alternatività, dovendo il
giudizio conclusivo risultare come l'unico possibile, alla stregua degli
elementi disponibili, secondo i criteri di razionalità dedotti
dall'esperienza umana (110). NOTE (1) Ferrara, Il
fallimento, Milano, 1989. Cass., 21
novembre 1986, n.6856, in "Fall.", 1987, 190. Contra:
Bonsignori, Il presupposto oggettivo delle procedure concorsuali, in
"Dir.fall.", 1981, II, p.360; Campisi, Orientamenti attuali sullo
stato di insolvenza, ivi, 1983, II, p.182. (2) Tribunale di
Roma, 10 aprile 1987, in "Dir.fall.", 1987, II, 784. (3) Pajardi,
Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1986, p.93; Andrioli, Il
fallimento, in E.d.D., Milano, 1967, p.316; De Semo,
Diritto fallimentare, Padova, 1968, p.127; Azzolina, Il
fallimento, Torino, 1953, p.244; Ferrara, Il
fallimento, op.cit., p.131 e s. (4) Ferrara, Il
fallimento, op.cit., p.128; Provinciali,
Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, p.333; Satta,
Diritto fallimentare, Padova, 1990, p.45; Mazzocca,
Manuale di diritto fallimentare, Napoli, 1980, p.603. Cass., 19
novembre 1992, n.12383, in "Dir.fall.", 1993, II, 1084; Cass., 9
maggio 1992, n.5525, in "Fall.", 1992, 811; Cass., 21
novembre 1986, n.6856, cit.; Appello
Firenze, 14 luglio 1978, in "Dir.fall.", 1978, II, 326; Tribunale di
Napoli, 22 gennaio 1984, in "Dir.giur.", 1975, 476. (5) Azzolina, Il
fallimento, op.cit., p.209; Provinciali,
Trattato, op.cit., p.327. (6) Azzolina, Il
fallimento, op.cit., p.276; Provinciali,
Trattato, op.cit., p.309; Ragusa
Maggiore, Il presupposto del fallimento, Padova, 1984, p.109; Satta,
Istituzioni di diritto fallimentare, Milano, 1963, p.5. Tribunale di
Potenza, 11 giugno 1994, in "Banca Borsa", 1995, II, 610. (7) Pajardi,
Manuale, op.cit., p.98; Ferarra, Il
fallimento, op.cit., p.130. Tribunale di
Milano, 27 dicembre 1972, in "Dir.fall.", 1972, II, 823. (8) Tribunale di
Napoli, 28 febbraio 1996, in "Dir.fall.", 1996, II, 600. (9) Pajardi,
Manuale, op.cit., p.98; Tribunale di
Milano, 2 dicembre 1993, in "Gius", 1994, fasc.5, 95; Tribunale di
Milano, 5 settembre 1988, in "Dir.fall.", 1989, II, 643. (10) Tribunale di
Firenze, 24 agosto 1989, in "Dir.fall.", 1990, II, 844. (11) Tribunale di
Chieti, 26 maggio 1992, in "Dir.fall.", 1993, II, 545. (12) Tribunale di
Milano, 17 novembre 1994, in "Gius", 1995, 449. (13) Satta,
Istituzioni, op.cit., p.48; Provinciali,
Trattato, op.cit., p.330. (14) Satta,
Istituzioni, op.cit., p.38; Bonsignori,
Il presupposto, op.cit., p.358. Cass., 20
maggio 1993, n.5376, in "Fall.", 1993, 1135; Cass., 21
novembre 1986, n.6856, cit.; Cass., 22
giugno 1985, n.3877, in "Giur.it.", 1986, I, 1, 409; Cass., 11
maggio 1981, n.3095, in "Giur.comm.", 1982, II, 463; Tribunale di
Como, 19 dicembre 1994, in "Dir.fall.", 1995, II, 276. (15) Pajardi,
Manuale, op.cit., p.96; Pellegrini,
Lo stato di insolvenza , Padova, 1980, p.57; Candian, Lo
stato di insolvenza in uno scritto recente, in "Dir.fall.", 1981,
I, 93; Ferrara, Il
fallimento, op.cit., p.130. Cass., 26
giugno 1992, n.8012, in "Fall.", 1992, 1026; Cass., 9
maggio 1992, n.5525, cit.; Cass., 11
aprile 1992, n.4463, in "Giust.civ.", 1993, I, 1027; Cass., 31
gennaio 1984, n.182, in "Arch.civ.", 1984, 253. Contra,
Satta, Istituzioni, op.cit., p.48. (16) Cass., 26
giugno 1992, n.8022, cit; Cass., 11
aprile 1992, n.2055, n.4463, cit.; Cass., 24
novembre 1983, n.2055, in "Fall.", 1983, 1022. (17) Pajardi,
Manuale, op.cit., p.97. (18) Satta,
Istituzioni, op.cit., p.48. Cass., 12
dicembre 1973, n.267, in "Giust.civ.", 1973, 205. (19) Pajardi,
Manuale, op.cit., p.97. Tribunale di
Genova, 20 febbraio 1995, in "Gius", 1995, 953. (20) Ferrara, Il
fallimento, op.cit., p.34; Pajardi,
Manuale, op.cit., p.96; Ragusa
Maggiore, Il presupposto, op.cit., p.110. (21) Bonelli, Il
fallimento, I, Milano, 1973, p.5. (22) Andrioli, Fallimento,
E.d.D., Milano, 1967, p.316. (23) Tribunale di Ascoli Piceno, 28 gennaio
1988, in “Soc.”, 1988, 605; Tribunale di Milano, 2 maggio 1957, in
“Dir.fall.”, 1958, II, 740. (24) Cass., 6 luglio 1968, n.2327, in “Foro
it.”, 1969, I, 233. Appello, Milano, 12 aprile 1960, in
“Foro it.”, 1960, I, 1222. Tribunale di Udine, 12 dicembre 1983,
in “Dir.fall.”, 1984, I, 175. (25)
Nel
senso che le società commerciali costituite nelle forme previste dal c.c., ed
aventi ad oggetto un'attività commerciale, sono soggette a fallimento
indipendentemento dall'effettivo esercizio di una siffatta attività e che, a
differenza dell'imprenditore individuale, esse acquistanto la qualità di
imprenditore commerciale dal momento della loro costituzione e non già dall'inizio
del concreto esercizio dell'attività: Cass., 4 novembre 1994, n. 9084, n
“Fall.”, 1995, 622; Cass. 10 agosto 1979, n. 4644, in “Giust. Civ.”, 1980, 1,
129. Appello, Catanzaro 9 marzo 1993, in “Dir. Fall.”, 1994, 11, 1012.
Tribunale di Milano 6 luglio 1995, in “Fall.”, 1995, 1247; Tribunale di
Torino, 15 aprile 1994, in “Fall.”, 1994, 1217; Tribunale di Foggia 21
febbraio 1994, in “Dir. Fall.”, 1994, 11, 639. (26) Satta, Diritto fallimentare, Padova, 1990,
29. (27) Pajardi, Manuale di Diritto fallimentare,
Milano, 1998, 579 (28) Nel senso che sono esperibili le azioni individuali nei
confronti dei soci che hanno agito, onde realizzare la illimitatezza della
responsabilità: Satta, Diritto, op.cit., 339; Nel senso invece della
illimitatezza della responsabilità di tutti i soci della società di capitali
irregolare, senza distinguere fra chi ha agito e chi no: Provinciali,
Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974; Escludono qualunque sottoponibilità a fallimento dell’ente e
dei soci: Galgano, Diritto commerciale. Le Società, Bologna, 1994, 172; Di
Sabato, Manuale delle società, Torino, 1992, 266. Nel senso che non è possibile
dichiarare fallito l'ente poiché l'iscrizione nel registro delle imprese,
esistente dal 1993, è formalità costitutiva nella cui assenza l'ente è
inesistente: Cass. 19 giugno 1971, n. 1882, in “Giust. Civ.”, 1971, I, 1602 e
Cass. 27 maggio 1960, n. 1371, in “Dir. Fall.”, 1960, Il, 469. (29) Pajardi, Manuale, op.cit., 582. (30) Cass. 30 gennaio 1995, n. 1106, in
“Fall.”, 1995, 919; Cass. 4 marzo 1987, n. 2259, in “Soc.”, 1987, 654. Trib.
Napoli 17 luglio 1996, in “Fall.”, 1997, 103. (31) Panzani, Imprenditore individuale
apparente, società occulta ed identità d'impresa, ivi, 1995, 924. Cass. 30
gennaio 1995, n. 1106, cit. Tribunale di Napoli 17 luglio 1996, cit. Nel senso che non occorre che il socio
occulto sia personalmente insolvente e sia data prova di ciò: Cass. 5 marzo
1987, n. 2311, in “Fall.”, 1987, 572; Cass. 13 marzo 1982, n. 1632, in
“Fall.”, 1982, 1422. Nel senso che nemmeno necessita, di regola, un suo
coinvolgimento nella amministrazione: Tribunale di Torino 15 aprile 1994, in
“Fall.”, 1994, 881. (32) Nel senso che se due persone fra loro
non legate da alcun contratto di società si omportano in modo da ingenerare
nei terzi l'opinione che essi agiscano come soci, spendendo addirittura una
sedicente ragione sociale, sono sottoponibili a fallimento poiché la società
non esistente, sì è cateriorizzata e la simulazione non è opponibile ai terzi
di buona fede: Galgano, Bonsignori, Il fallimento delle società, in Trattato
Galgano, Padova, .988, X, 53. Nel senso che non occorre che sia positivamente
accertata l'affectio societatis, essendo sufficiente che essa appaia sencondo
l’ordinario discernimento umano: Cass. 9 settembre 1996, n. 8168, in “Mass.
UDA Cass. Civ.”, 499528; Cass., 28 marzo 1990, n. 2359, in “Giur. It.”,
1990,1,1727; Cass., 4 agosto 1988, n. 4827, in “Giur. It.”, 1989,1, 463;
Cass., 6 ottobre 1988, n. 5043, ivi.
Contra: Ricci, Lezioni sul fallimento, Milano, 1997, 115; Alvino, Non
assoggettabilità a fallimento della società apparente, in “Dir. Fall.”, 1974,
I, 295; Cuneo, Le procedure concorsuali. Natura, effetti, svolgimento,
Milano, 1988, 45; Provinciali, Trattato, op.cit., 2116; De Marco, Società di
fatto e apparenza giuridica, in “Giur. Cass. Civ.”, 1953, 11, 179. Tribunale
di Milano 8 novembre 1982, in “Fall.”, 1983, 758 ; Tribunale di Napoli, 24
giugno 1964, in “Foro It.”, 1964,1, 2215. (33) Provinciali, Trattato, op.cit.,2164. (34) Pajardi, Manuale, op.cit., 589. (35) Cass., 27 maggio 1997, n.4701, in
“Giust.civ.Mass.”, 1997, 852. Tribunale di Milano, 22 aprile 1997, in
“Soc.”, 1997, 1312; Tribunale di Monza, 24 maggio 1996, in
“Fall.”, 1997, 88; Tribunale di S.Maria Capua Vetere, 1
marzo 1996, in “Dir.fall.”, 1997, II, 1059; Tribunale di Milano, 19 ottobre 1995,
in “Fall.”, 1996, 385. (36) Nigro, Il fallimento del socio
illimitatamente responsabile, Milano, 1974. Cass., Sez. Un., 14 dicembre 1981, n.
6594, in “Giur. It.”, 1982,11,2411. Trib. Napoli 7 febbraio 1987, in “Giur.
It.”, 1988, I, 2, 22; Trib. Milano 18 marzo 1985, in “Giur.
Comm.”, 1986,11, 538; Trib. Roma 22 maggio 1985, in Giur.
Comm., 1986, 11, 928. (37) Tribunale di Monza, 24 maggio 1996, in
“Fall.”, 1997, 88; Tribunale di Milano, 19 ottobre 1995,
in “Fall.”, 1996, 385; Tribunale di Bologna, 13 novembre 1990,
in “Giur.comm.”, 1992, II, 112. (38) Pajardi, Manuale di diritto
fallimentare, Milano, 1998, 585. (39) Galgano, Le società e lo schermo della
Personalità giuridica, in “Giur. comm.”, 1983, I, 14; Galgano, Il fallimento delle società,
in Trattato Dir.Comm. e Dir. Pubbl. Ec., X, Padova, 1988, 94 e s..; Pellizi, Unico Azionista controllo
totalitario indiretto, in “Giur. Comm.”, 1981, 11, 615. Cass. 29
novembre 1983, n.7152, in "Giust.civ.", 1984, 11, 3127. (40) Minervini, In tema di esclusione di
socio amministratore unico di collettiva, in "Dir.e giur.", 1947,
249. Galgano, Le società di persone, Bologna,
1971, 121; Ferrara jr., Gli imprenditori e le
società, Milano, 1971, 275; Cottino, Diritto commerciale, vol.I,
Padova, 1976, 470; Tarantino, Revoca ed esclusione del
socio amministratore nelle società personali, in "Giur.comm.",
1980, II, 303; Morace Pinelli, Esclusione del socio e
revoca dell'amministratore: inadempienze rilevanti, in "Soc.",
1994, II, 368; Cagetti, Brevi note in
materia di scioglimento della
societa' ed esclusione del socio
nelle societa' personali, commento a sentenza, Appello Cagliari, 24 gennaio 1994, in
"Riv. giur. Sarda", 1995,II, 340; Ancora, Esclusione del socio nella
societa' composta da due soli soci, commento a sentenza, Tribunale di Milano,
22 marzo 1990, in "Riv.dir.comm.", 1991, II, 449; Di Gravio, Estromissione di un
socio dalla societa' di
persone e liquidazione della quota del socio uscente, in "Giur. di
merito", 1995, II, 855; Ghisiglieri-Guido, Lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio (art. 2284-2290
c.c.), in "Nuova giur.civ.comm.", 1994, II, 100; Perrino, Sulla non collegialita' del procedimento
deliberativo di societa' di persone: il caso dell'esclusione del socio, in
"Riv. dir. impresa", 1997, I, 1, 353; Ronco, Quali effetti per
le inadempienze dei soci di societa' personali?, commento a
sentenza, Tribunale di Milano, 14 ottobre 1993, in "Soc.", 1994,
II, 655; . Boero, Sull'esclusione per
gravi inadempienze di
un socio dopo
lo scioglimento di una societa' di persone, in "Dir.fall.",
1981, I, 117; Giannattasio, Sulle gravi
irregolarita'
nell'amministrazione delle
societa' di persone, commento
a sentenza, Cass., 30 gennaio
1980 n. 710, in "Giust.
civ.", 1980, I, 817; Bollino, Le cause di
esclusione del socio nelle
societa' di persone e nelle cooperative, in "Riv.dir.comm." 1992,
I, 375. Pernazza, Presupposti e procedimento di esclusione del socio accomandatario, commento a sentenza,
Tribunale di Milano, 21 ottobre 1993, in "Soc.", 1994, II,
364; Cass., 26 ottobre 1976, n.3938, in V.Buonocore - G.Castellano -
R.Costi, Casi materiali di dir.comm., Soc.di persone, Milano, 1978, 1165; Cass., 9 luglio 1973, n.1977, in
"Giur.it.", 1973, I, 1, 1627; Cass., 17 gennaio 1956, n.103, in
"Rep.Foro it.", 1956, v.Soc., n.408. Contra: Cass., 14 aprile 1958, n.1204,
in "Giur.it.", 1958, I, 1, 1434; Appello Milano, 12 luglio 1974, in
"Foro pad.", 1974, I, 403; Appello Milano, 23 ottobre 1970, in
"Giur.it.", 1971, I, 2, 913; Tribunale di Napoli, 9 febbraio 1967,
in "Foro it.", 1967, I, 1949. Ferri, Della società, in Commentario
del codice civile a cura di Scialoja e Branca, Libro V, Del Lavoro,
artt.2247-2324, Bologna-Roma, 1969, 290. 41) Cass., 9 marzo 1995, n.2736, in
"Giust.civ.Mass.", 1995, 554; Cass., 17 gennaio 1983, n.343, in
"Soc.", 1983, 891; Cass., 16 febbraio 1981, n.935, in
"Giust.civ.Mass.", 1981, 358; Cass., 30 gennaio 1980, n.710, in
"Giur.comm.", 1980, II, 319. Tribunale di Perugia, 2 agosto 1994, in
"Rass.giur.umbra", 1995, 81. (42) Ascarelli, Il contratto plurilaterale,
Studi in tema di contratti, Milano, 1952, 115; Graziani, Le società, Napoli, 1963, 33; Ferri, Delle società, in Commentario
del cod.civ. a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1972, 6 e s.; Ferrara, Imprenditori e società, Milano
1978, 203; Campobasso, Diritto Commerciale, II,
Torino, 1992, 3 e s.; Jaeger-Denozza, Appunti di diritto
commerciale, Milano, 1994, 110 e s. Cass., 4 dicembre 1995, n.12487, in
"Giust.civ.Mass.", 1995, fasc.13; Cass., 1 marzo 1973, n.561, in
"Dir.fall.", 1973, II, 915; Cass., 18 febbraio 1972, n.463, in
Giust.civ.", 1972, I, 1628; Cass., 8 marzo 1961, n.498, in
"Foro it.", 1961, I, 1358. Appello Napoli, 18 marzo 1971, in
"Dir.e giur.", 1971, 917; Appello Milano, 17 marzo 1953, in
"Foro it.", 1953, I, 830. Tribunale di Milano, 22 ottobre 1990,
in "Soc.", 1991, 221; Tribunale di Milano, 2 giugno 1988, in
"Giur.comm.", 1990, II, 699; Tribunale di Milano, 17 maggio 1985, in
"Soc.", 1985, 509; Tribunale di Siena, 3 aprile 1974, in
"Nuovo dir.", 1975, II, 66. (43) Cass., 16 luglio 1958, n.2603, in
"Giur.sic.", 1960, 68; Cass., 15 giugno 1955, n.1824, in
"Dir.fall.", 1956. (44) Tribunale di Mialno, 2 giugno 1988,
cit. (45) Cass., 12 giugno 1973, n.1696, in
"Dir.fall.", 1974, II, 94. (46) Cass., 17 gennaio 1983, n.343, cit.; Cass., 30 gennaio 1980, n.710, cit.; Cass., 9 luglio 1973, n.1977, cit.; Cass., 17 gennaio 1956, n.103, cit.; Tribunale di Milano 14 ottobre 1993, in
"Giur.it.", 1994, I, 2, 305; Tribunale di Milano, 22 ottobre 1990,
in "Giur.comm.", 1992, II, 307. (47) Tribunale di Milano, 22 ottobre 1990,
in "Giur.comm.", 1992, II, 307. Costi-Di Chio, Società in generale.
Società di persone. Associazione in partecipazione, in "Giur.sit.civ.e
comm.", fondata da W.Bigiavi, Torino, 1991, 689 e segg.. Contra: Ferri, Le società, in Trattato
di dir.civ.it., di F.Vassalli, 1985, 282; secondo il quale la risoluzione per
inadempimento può trovare autonoma applicazione, accanto all'esclusione del
socio, in tutte quelle ipotesi in cui l'inadempimento sia intervenuto prima
ancora della costituzione del fondo sociale. Tribunale di Milano, 2 giugno 1988, in
"Giur.comm.", 1990, II, 699. (48) Santoro Passarelli, in Noviss.Digesto,
VII, v.Giusta causa, Torino, 1961, 1108. Cass., 22 giugno 1985, in "Foro
it.", 1986, I, 1364; Cass., 2 novembre 1957, n.4240, in
"Dir.fall.", 1958, II, 51. (49) Tribunale di Caltanissetta, 19 giugno
1947, in "Giur.it.", 1948, I, 2, 319. (50) Pretura di Mialno, 27 agosto 1961, in
"Temi", 1962, 53. (51) Tribunale di Genova, 13 novembre 1959,
in "Foro it.", 1960, I, 1830. (52) Pretura di Piombino, 5 ottobre 1979, in
"Giur.comm.", 1980, II, 765. (53) Tribunale di Verona, 19 novembre 1971,
in "Giur.it.", 1972, I, 2, 744. (54) Cass., 16 luglio 1953, n.2307, in
"Dir.fall.", 1953, II, 695. (55) Tarantino, Revoca ed esclusione del
socio amministratore nelle società personali, in "Giur.comm.",
1980, I, 303. (56) Tribunale di Milano, 22 marzo 1990, in
"Soc.", 1990, n.9, 1057. (57) Cass., 1 giugno 1991, n.6200, in
"Giur.it.", 1991, I, 1, 886; Cass., 17 aprile 1982, n.2344, in
"Dir.fall.", 1982, II, 859; Cass., 16 luglio 1953, n.2307, in
"Giur.it.", 1954, I, 1, 718; Appello Milano, 12 settembre 1974, in
"Riv.not.", 1975, 939; Tribunale di Torino, 15 dicembre 1986,
in "Soc.", 1987, 597; Tribunale di Napoli, 9 febbraio 1967,
in "Foro it.", 1967, I, 1949. Nel senso che non è sufficiente
l'accertamento della violazione di una clausola del contratto sociale, nel
caso in cui la violazione sia perdurata per tutto il rapporto senza un
apprezzamento di essa come gravemente lesiva degli interessi sociali e manchi
l'indicazione del pregiudizio rispetto aai fini dell'attività sociale: Cass.,
10 gennaio 1998, n.153, in "Guida al Diritto.Il Sole 24Ore", 1998,
21 febbraio 1998, n.7, 73.
(58) Anche tale comportamento costituirebbe
inadempimento capace di legittimare l'esclusione dalla società, alla quale
sarebbe comunque riferibile un pregiudizio se non altro rappresentato dal
discredito commerciale e dalle incombenze ed oneri necessari per resistere
alle eventuali azioni dei creditori. Cass., 13 agosto 1960, n.2380, in
"Mass.Giur.it.", 1960, 595. (59) Galgano, Società di persone, in
Tratt.dir.civ.comm., diretto da Cicu-Messineo, Milano, 1982, 326 e segg.; Cottino, Diritto commerciale, I, 2,
Padova, 1987, 225 e segg.; Simonetto, L'apporto nel contratto di
società, in "Riv.dir.civ.", 1958, I, 56; Di Francia, Qualche considerazione in
tema di esclusione del socio per gravi inadempienze, in
"Giur.merito", 1970, I, 164; Tarantino, Revoca ed esclusione del
socio amministratore nelle società personali, in "Giur.comm.",
1980, II, 303. (60) Cass., 13 agosto 1960, n.2380, in
"Dir.fall.", 1960, II, 848. Appello Catania, 16 settembre 1980, in
"Giur.comm.", 1982, II, 537. (61) Appello Bologna, 8 luglio 1966, in
"Giur.it.", 1968, I, 2, 105. (62) Tribunale di Milano, 22 marzo 1990, in
"Soc.", 1990, 1057. (63) Cass., 22 ottobre 1970, n.2099, in
"Giust.civ.", 1971, I, 301. Appello Firenze, 8 maggo 1951, in
"Giur.tosc.", 1951, 450. (64) Cass., 22 ottobre 1970, n.2099, cit. (65) Tribunale di Larino, 19 luglio 1983, in
"Giur.it.", 1984, I, 239. (66) Cass., 2 aprile 1992, n.4018, in
"Soc.", 1992, 1063. (67) Tribunale di Napoli, 17 ottobre 1986,
in "Giur.comm.", 1988, II, 654. (68) Appello Torino, 16 marzo 1979, in
"Giur.comm.", 1980, II, 470. Tribunale di Torino, 19 novembre 1977,
in "Giur.comm.", 1979, II, 492. (69) Tribunale di Milano, 1 febbraio 1988,
in "Soc.", 1988, 609. (70) Ferri, Delle società, in Commentario,
op.cit., p.290. Appello Milano, 23 ottobre 1970, cit.; Tribunale di Napoli, 9 febbraio 1967,
cit.. (71) Cass., 17 gennaio 1956, n.103, cit.. (72) Cass., 9 luglio 1973, n.1977, cit.. (73) Cass., 26 ottobre 1976, n.3938, cit.. Contra: Ferri, Della società semplice,
in Commentario al codice civile a cura di Scialoja e Branca, cit.. (74) Tribunale di Milano, 28 ottobre 1993,
in "Soc.", 1994, n.3, 368. (75) In senso favorevole: Minervini, In tema
di esclusione, op.cit., 254 e segg.; Ferri, Le società, op.cit.. Contra:
Galgano, Le società di persone, op.cit., 121; Ferrara jr., Gli imprenditori,
op.cit., 250; Cottino, Diritto commerciale, op.cit., 506 e segg.; V.Buonocore
- G.Castellano - R.Costi, Casi materiali, op.cit., 1367. (76) Costi-Di Chio, Società in generale,
op.cit.; Galgano, Società di persone, op.cit.,
328; Tarantino, Revoca ed esclusione,
op.cit., 303. Cass., 30 gennaio 1980, n.710, in
"Giur.comm.", 1980, II, 319; Appello Bari, 31 ottobre 1977, in
"Giur.comm.", 1980, II, 303 Appello Firenze, 7 dicembre 1955, in
"Giur.tosc.", 1956, 250; Tribunale di Firenze, 25 agosto 1950,
in "Giur.tosc.", 1950, 294; (77) Cottino, Diritto commerciale, op.cit.,
470. Ferri, Le società, op.cit., 229;
secondo il quale, nonostante ritenga ammissibile l'affidamento a non soci del
potere di amministrazione, quest'ultimo deve comunque considerarsi pur sempre
posto essenzialmente in funzione del rapporto sociale, di tal che se i soci
non si avvalsero della facoltà di conferire ad un terzo il potere di amministrazione,
soltanto un esplicito atto di volontà dei socie, coevo all'esclusione,
potrebbe conservare al socio escluso, divenuto perciò terzo rispetto alla
società, quelle funzioni che nel contratto sociale o nell'atto separato
furono attribuiti al socio o nell'atto separato furono attribuite al socio. Contra: Minervini, In tema di
esclusione, op.cit., 254 e segg.. Tribunale di Torino, 19 novembre 1977,
cit.. (78) Cottino, Diritto commerciale, op.cit.,
418; Campobasso, Diritto commerciale,
op.cit., 96. Contra: Graziani, Diritto delle
società, Napoli, 1963, 96. Cass., 12.06.1996, n.5416, in
"Giust.civ.", 1997, I, 157. Appello Roma, 30 maggio 1956, in
"Foro it:", 1957, I, 2068. Tribunale di Catania, 19 aprile 1984,
in "Soc.", 1985, 413. (79) Boero, Commento ad Appello Messina, 23
novembre 1977 ed a Tribunale di Torino, 19 novembre 1977, in
"Giur.comm.", 1979, II, 492. (80) Cass., 24 luglio
1997, n.6925, in "Giust.civ.Mass.", 1997, 1266; Cass., 6 lulgio1993,
n.7385, in "Fall.", 1993, 1241. Cass., 06.10.1988,
n.6403, in "Soc.", 1988, 129; Cass., 22 novembre
1983, n.6934, in "Giur.fall.", 1984, 1140. Appello, Genova, 9
giugno 1978, in "Giur.comm.", 1980, II, 648. Tribunale di Napoli,
22 marzo 1986, in "Dir.e giur.", 1987, 731. Contra: Cass.,
22.05.1990, n.4626, in "Fall.", 1991, 125 (81) Cass., 06.10.1988, n.6403, cit. Appello, Milano, 11 maggio 1985, in
"Fall.", 1986, 55. Tribunale di Genova, 5 gennaio 1995, in
"Gius", 1995, 1639; Tribunale di Napoli, 1 settembre 1984, in
"Dir.fall.", 1985, II, 613. Contra: Tribunale di Monza, 30.10.1996, in
"Fall.", 1997, 531; Tribunale di Cagliari, 29.03.1995, in
"Riv.giur.sarda", 1996, 444;
Tribunale di Como, 29.11.1994, in "Inform.prev.", 1996, 280;
Tribunale di Foggia, 02.12.1993, in "Dir.fall.", 1994, II, 644;
Tribunale di Torino, 11.11.1992, in "Giur.it.", 1993, I, 2, 504. Nel senso che il fallimento potrebbe essere
esteso al socio receduto prima del manifestarsi dello stato di insolvenza
della società: Tribunale di Cuneo, 14 giugno 1985, in "Foro pad.",
1988, I, 525. (82) Satta, Istituzioni di diritto fallimentare,
Roma, 1964, p.372; Provinciali, Trattato di diritto fallimentare,
Milano, 1974, IV, p.2055; Pajardi, Manuale di diritto fallimentare,
Milano, 1986, p.681. Cass., 6 ottobre 1988, n.6403, in
"Soc.", 1988, 129; Cass., 17 ottobre 1986, in
"Giur.fall.", 1986, 96; Cass., 21 novembre 1983, n.6934, in
"Giur.fall.", 1983, 149; Tribunale di Monza, 30 ottobre 1996, cit.; Tribunale di Tolmezzo, 28 novembre 1996, in
"Inform.prev.", 1996, 1139; Tribunale di Genova, 5 gennaio 1995, in
"Dir.fall.", II, 1995, 406 Tribunale di Torino, 8 novembre 1984, in
"Giur.piemontese", 1985, 143; Tribunale di Ascoli Piceno, 23 ottobre 1986,
in "Dir.fall.", 1987, II, 1055; Tribunale di Foggia, 24 novembre 1983, in
"Dir.fall.", 1984, II, 318; Tribunale di Napoli, 22 marzo 1980, in
"Dir.e giur.", 1987, 731; Appello Milano, 11 maggio 1985, in
"Fall.", 1986, 55; Appello Genova, 9 giugno 1978, in
"Giur.comm.", 1980, II, 648. Contra: Galgano-Bonsignori, Il fallimento,
op.cit., p.36, 74-75;Ferrara, Il fallimento, Milano, 1988, p.678; Mazzocca,
Manuale di diritto fallimentare, Napoli, 1980, p.525. (83) Contra:
Pajardi, Manuale, op.cit.; Pellegrino, I
presupposti soggettivi del fallimento sociale, Padova, 1982, 139 (84) Cass., 24
luglio 1997, n.6925, cit.; Cass., 8
gennaio 1997, n.73, in "Giust.civ.Mass.", 1997, 11; Cass., 9
marzo 1996, n.1876, in "Dir.fall.", 1996, II, 829; Cass., 24
luglio 1992, n.8924, cit.; Cass., 20 dicembre
1988, n.6953, in "Fall.", 1989, 510; Cass., 25
gennaio 1986, n.495, in "Fall.", 1986, 747. Tribunale di
Milano, 30 gennaio 1995, in "Gius", 1995, 1642; Tribunale di
Milano, 29 ottobre 1994, in "Giur.it.", 1995, I, 2, 160; Tribunale di
Roma, 4 febbraio 1992, in "Giur.di merito", 1994, 64; Tribunale di
Venezia, 25 settembre 1987, in "Fall.", 1988, 273; Tribunale di
Milano, 3 ottobre 1986, in "Dir.fall.", 1987, II, 731. Contra in
dottrina: Jorio, Gli artt. 10 e 11 della legge fallimentare, in "Riv.soc.",
1969, p.293; Buonocore, Fallimento e impresa, Napoli, 1969, p.251; Valcavi,
Se l'art.10 legge fallimentare sia applicabile alle società imprenditrici, in
"Dir.fall.", 1952, II, p 463. E, inoltre, in giurisprudenza:
Tribunale di Rimini, 17 dicembre 1996, in "Dir.fall.", 1997, II,
378; Tribunale di Varese, 21 maggio 1990, in "Foro pad.", 1991, I,
198. (85) Cass., 23
febbraio 1995, n.2524, in "Riv.pen.econ.", 1995, 250. Tribunale di
Varese, 21 maggio 1990, cit.; Tribunale di
Milano, 7 giugno 1980, in "Fall.", 1980, 130. (86) Cass., 17
marzo 1998, n.2869, in “Giust.civ.Mass.”, 1998, 599. Appello Bari,
22 aprile 1988, in "Fall.", 1988, 821. Tribunale di
Sulmona, 14 marzo 1992, in "Dir.fall.", 1993, II, 560. (87) Corte Cost.,
26 luglio 1988, n.919, in “Fall.”, 1988, 1061. Cass., 24
luglio 1992, n.8924, cit.; Cass., 25
gennaio 1986, n.495, cit. (88) Tribunale di
Perugia, 21 settembre 1991 in “Fall.”, 1992, 499. (89) Candian,
Società trasformata e fallimento dei soci, in "Riv.dir.comm.",
1935, I, 518; Jorio, Il
fallimento, IV, in Giust.sist.civ.comm., Torino, 1979, 779. Cass., 24
luglio 1992, n.8924, cit.; Cass., 22
maggio 1990, n.4626, in "Fall.", 1991, 125; Cass., 6
novembre 1985, n.5394, in "Giur.fall.", 1985, 137; Cass., 7
settembre 1970, n.1287, in "Foro it.", 1970, I, 2826. Appello
Firenze, 28 gennaio 1988, in "Dir.fall.", 1988, II, 951. Tribunale di
Sulmona, 14 marzo 1992, cit.; Tribunale di
Verona, 6 novembre 1990, in"Giur.it.", 1991, II, 586; Tribunale di
Lecce, 22 febbraio 1990, in "Riv.not.", 1990, 152; Tribunale di
Udine, 21 giugno 1984, in "Dir.fall.", 1985, II, 218; Tribunale di
Vicenza, 7 febbraio 1983, in "Fall.", 1984, 324; Tribunale di
Milano, 25 maggio 1973, in "Dir.fall.", 1974, II, 383. (90) Ferri, Le
società, in Tratt. Vassalli, vol.X, tomo III, Torino, 1987, 573; Azzolina, Il
fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino, 1953, 242; Maffei
Alberti, Trasformazione di società di persone in società di capitali e
procedure concorsuali, in "Riv.dir.civ.", 1977, II, 638. (91) Cuneo, Le
procedure concorsuali, Milano, 1988, p.135; Galgano-Bonsignori,
Il fallimento delle società, in Tratt. Galgano, vol.X, Padova, 1988, 75.
Tribunale di Cosenza, 11 maggio 1995, in "Giur.it.", 1996, I, 2,
434. (92) Cass., 20
settembre 1984, n.4810, in "Fall.", 1985, 620. (93) Cass., 4
settembre 1984, n.4752, in "Dir.fall.", 1984, II, 936. (94) Tribunale di
Genova, 18 maggio 1994, in "Fall.", 1995, 301; Tribunale di
Genova, 25 ottobre 1984, in "Giur.comm.", 1987, II, 368; Tribunale di
Genova, 1 giugno 1982, in "Giur.comm.", 1984, II, 106. Contra, nel
senso che il fallimento della società di capitali trasformata possa
estendersi ai soci nel caso in cui le obbligazioni che hanno concorso a
determinare lo stato di insolvenza siano sorte prima della trasformazione:
Cass., 6 novembre 1985, n.5394, cit.; Tribunale di Messina, 18 ottobre 1995,
in “Soc.”, 1996, 446; Tribunale di Verona, 6 novembre 1990, cit.; Tribunale
di Belluno, 27 febbraio 1990, in "Fall.", 1990, 760.. (95) Mazzocca,
L'insolvenza dei soci nella trasformazione della società, in
"Dir.fall.", 1988, I, 563.. (96) Cass., 6
febbraio 1997, n.1122, in “Fall.”, 1997, 1179; Tribunale di
Monza, 30 ottobre 1996, cit.. (97) Tribunale di
Milano, 21 aprile 1997, cit... (98) Cass., 4
giugno 1992, n.6852, in “Fall.”, 1992, 928; Cass., 28
maggio 1991, n.6028, in “Fall.”, 1991, 1146; Cass., 21
dicembre 1990, n.12145, in “Dir.fall.”, 1991, II, 465. (99) Tribunale di
Rimini, 10 giugno 1987, in "Dir.fall.", 1988, II, 1134. (100) Satta,
Diritto fallimentare, Padova, 1964, 346. Contra, nel
senso che andrebbe specificatamente accertata la singola insolvenza del
socio: De Nozza, Responsabilità dei soci e rischio d’impresa nelle società
personali, Milano, 1973, 145. (101) Cass.,
06.11.1985, n.5394, in "Fall.", 1986, 497; Cass., 11.05.1981, n.3095, in
"Giur.comm.", 1982, II, 463. Tribunale di Milano, 10.06.1993, in
"Dir.fall.", 1994, II, 263. Contra: Tribunale di Genova, 18.05.1994, in
"Fall.", 1995, 301; Tribunale di Genova, 25.10.1984, in
"Giur.comm.", 1987, II, 386; Tribunale di Genova, 01.06.1982, ivi,
1984, II, 106. (102) Cass.,
24.07.1992, n.8924, in "Fall.", 1993, 48. (103) Cass.,
20.051993, n.5376, in "Fall.", 1993, 1135; Cass., 21.11.1986, n.6856, ivi, 1987, 190; Cass., 22.06.1985, n.3877, in
"Giur.it.", 1986, I, 1, 409. (104) Cass.,
Sez.Un., 13 novembre 1996 n.9961, in "Giur.it., 1997, I, 1, 1564; Cass., 26 giugno
1995 n.7213, in "Giust.civ.Mass.", 1995, fasc.6; Cass., 20
agosto 1951 n.2541, in "Giur.compl.cass.civ.", 1951, III, 881. (105) Cass., 16
marzo 1992 n.3205, in "Giust.civ.Mass.", 1992, fasc.3. (106) Cass., 28
gennaio 1974 n.217, in "Giust.civ.", 1975, I, 495.. (107) Cass., 15
maggio 1997 n.4305, in "Giust.civ.Mass.", 1992, fasc.3; Cass., 2
settembre 1995 n.9265, in "Boll.trib.", 1996, 1706. (108) Cass., Sez.I,
24 giugno 1992, in "Riv.pen.", 1993, 579.. (109) Cass.,
Sez.II, 08 febbraio 1991, in "Cass.pen.", 1992, 2160. (110) Cass., Sez.I,
24 giugno 1992, cit. |
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