Il fallimento e le altre procedure concorsuali, 1996, n.1, 79, Editore Ipsoa, Milano

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Mauro Vanni

 

LA BANCAROTTA  DEI SOCI

ILLIMITATAMENTE RESPONSABILI  

 

Trasformazione di società di persone e costituzione simulata di società di capitali in frode ai creditori. Fallimento e bancarotta dei soci illimitatamente responsabili.

 

Sommario:

 

1) La trasformazione di società di persone in società di capitali.

2) La liberazione dei soci illimitatamente responsabili della società dalla responsabilità per le obbligazioni assunte prima della trasformazione.

3) La relazione di stima del patrimonio sociale.

4) Cessione dell'azienda sociale a società di capitali costituita dagli stessi  soci della società di persone cessata. Il fallimento della società in liquidazione.

5) Il fallimento della società trasformata e dei soci illimitatamente responsabili.

6) Considerazioni  conclusive ordine alla responsabilità dei soci illimitatamente responsabili. Note fiscali in tema di trasformazione societaria e cessione d'azienda.

7) La bancarotta dei soci illimitatamente responsabili.

8) La dichiarazione di fallimento come condizione essenziale del reato di bancarotta ed elemento pregiudiziale del procedimento penale.

9) L'appartenenza del socio illimitatamente responsabile alla società fallita e la dichiarazione del fallimento nei suoi confronti, quali elementi necessari per la configurabilità del reato.

 

 

1) La trasformazione di società di persone in società di capitali

 

La responsabilità solidale e illimitata dei soci per le obbligazioni sociali non costituisce conseguenza necessaria dell'organizzazione della società su base personale, dalla quale deriva soltanto l'impossibilità che sia esclusa o limitata la responsabilità personale di tutti i soci.

Perché sussista la responsabilità personale e illimitata del socio, nella società semplice occorre, ai sensi dell'art.2267 c.c., che esso abbia agito in nome e per conto della società, salvo la sua responsabilità non risulti esclusa mediante apposito patto portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei e nella società in accomandita semplice è necessario invece , ai sensi degli articoli 2317 e seguenti del codice civile, che il socio abbia assunto la qualità di accomandatario o che abbia comunque compiuto atti di amministrazione, trattando o concludendo affari in nome della società.

Viceversa, nella società in nome collettivo, la responsabilità personale e illimitata di tutti i soci costituisce l'effetto naturale dell'adozione di tale tipo di organizzazione sociale, il cui rigore appare esclusivamente temperato, a condizione che la società sia stata regolarmente iscritta nel registro delle imprese, dal beneficio della preventiva escussione del patrimonio sociale, in base al quale il creditore può sottoporre ad esecuzione forzata il patrimonio personale del socio, esclusivamente previo assolvimento dell'onere della prova dell'insufficienza di quello della società.

Come sancito dall'art. 1 della legge fallimentare, le società che svolgono attività commerciale sono soggette a fallimento che, ai sensi dell'art.147 L.F., si estende anche ai soci illimitatamente responsabili, i quali possono perciò essere chiamati a rispondere, come prevede l'art.222 L.F., dei reati di bancarotta stabiliti dalla normativa fallimentare per l'imprenditore dichiarato fallito.

Com'è noto, nell'ambito dell'impresa esercitata in forma collettiva, la responsabilità limitata per le obbligazioni sociali assunte e l'esclusione dell'estensione del fallimento della società ai soci , salva comunque l'applicabilità delle disposizioni penali  per i reati di bancarotta a carico degli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori in forza dell'art.223 L.F., può ottenersi mediante ricorso all'organizzazione dell'attività d'impresa nella forma di società di capitali.

Quando è già in essere l'attività sociale condotta in forma collettiva secondo lo schema tipico della società a base personale, il passaggio  ad altro tipo di organizzazione implicante le responsabilità limitata dei soci secondo il modello delle società di capitali può conseguirsi, ai sensi dell'art.2498 c.c., mediante trasformazione (1)

Tale disposizione consente infatti il cambiamento del tipo legale di società (2), senza che la trasformazione determini l'estinzione dell'ente collettivo originario e la costituzione di una nuova diversa società.

Comportando una modificazione dell'atto costitutivo, la trasformazione della società a base personale in società di capitali dev'essere deliberata all'unanimità ai sensi dell'art.2252 c.c. con atto pubblico ad substantiam (3), omologata, iscritta e pubblicata nel BUSARL (4).

Ciò che, in tal caso,  si verifica è soltanto il mutamento formale di un'organizzazione societaria già esistente senza la costituzione di altro e distinto ente, di tal che la società trasformata quando anche consegua la personalità giuridica di cui era sprovvista, non si estingue per rinascere sotto altra forma, né sorge un nuovo centro di imputazione di rapporti giuridici, sopravvivendo invece alla vicenda modificativa, senza soluzione di continuità e senza perdere la sua identità soggettiva, con la conseguenza che tutto il patrimonio della società trasformata dev'essere considerato di proprietà della medesima società, pur nella sua nuova veste e denominazione (5).

Continuano pertanto in capo alla società derivante dalla trasformazione i rapporti processuali sorti con l'ente originario (6) ed  i rapporti di lavoro in atto (7).

La sostanziale continuità dell'identico soggetto collettivo, pur sotto diversa forma giuridica, implica anche a livello amministrativo e tributario il permanere, nei rispetti dell'ente trasformato, degli obblighi e dei diritti facenti capo al soggetto originario (8).

Ai sensi dell'art. 2498 terzo comma c.c., permangono altresì a carico dell'ente succeduto i rapporti debitori contratti prima della trasformazione (9).

 

 

2) La liberazione dei soci illimitatamente responsabili della società dalla responsabilità per le obbligazioni assunte prima della trasformazione

 

Stabilisce, infine, il successivo art.2499 c.c. che la trasformazione non libera i soci a responsabilità illimitata dalla responsabilità per le obbligazioni sociali assunte anteriormente all'iscrizione della deliberazione di trasformazione nel registro delle imprese, se non risulta che i creditori sociali hanno acconsentito alla trasformazione medesima, dovendo presumersi il loro consenso allorquando non abbiano proposto opposizione nel termine di trenta giorni dalla comunicazione, mediante raccomandata, della delibera di trasformazione (10).

La norma, che intende garantire la massima salvaguardia delle posizioni creditorie le quali potrebbero subire il pregiudizio del venir meno della responsabilità illimitata del socio a seguito della trasformazione, comporta un obbligo supplementare di pubblicità della vicenda trasformativa, essendosi evidentemente reso conto il legislatore della insufficienza della iscizione della delibera di trasformazione nel registro delle imprese a garantire adeguatamente l'interesse dei creditori.

La portata applicativa della disposizione, ritenuta essenziale per qualsivoglia mutamento della configurazione giuridica e dell'assetto della società che consenta la liberazione del socio illimitatamente responsabile con possibile pregiudizio degli interessi dei creditori, i quali al momento in cui è stata contratta l'obbligazione potrebbero aver fatto legittimo affidamento sulla responsabilità illimitata dei debitori, è stata estesa, con un recentissimo intervento della Corte costituzionale, anche all'ipotesi di fusione (11).

L'art.2503 c.c., nel testo modificato dall'art.10 del D.lgs. 16 gennaio 1991 n.22 di attuazione delle direttive CEE 78/855 e 82/891 in materia di fusioni e scissioni societarie, prevedeva che i creditori potessero opporsi alla fusione entro due mesi dall'iscrizione della delibera nel registro delle imprese o dalla sua pubbligazione nella Gazzetta Ufficiale, salva la facoltà per il Tribunale di dare efficacia egualmente alla fusione ove, nonostante l'opposizione dei creditori, fosse stata prestata idonea garanzia da parte della società.

Poteva allora verificarsi, come non di rado è in effetti accaduto, che una società di persone con un consistente passivo venisse incorporata, magari dopo lo spostamento della sua sede nella circoscrizione di un distante Tribunale, da una società a responsabilità limitata con capitale irrisorio, senza che i creditori della prima potessero rendersi conto dell'evento loro pregiudizievole in tempo utile per la proposizione dell'opposizione.

Al riguardo, la giurisprudenza di merito, se da un  lato escludeva che mediante la fusione potesse conseguirsi la liberazione dei soci illimitatamente responsabili per le obbligazioni contratte anteriormente sulla base di un consenso dei creditori meramente presunto, in analogia al disposto di cui all'art.2499 c.c., dall'altro riteneva altresì inammissibile l'applicazione analogica di tale norma onde poter considerare normativamente imposta, anche in caso di fusione, la comunicazione personale ai creditori della relativa delibera, implicante esplicita richiesta individualizzata del consenso di ciascuno di essi e determinante un'effettiva loro conoscenza  dell'atto di fusione (12)

Ritenuta essenziale la più ampia garanzia dettata dall'art.2499 c.c., ove gli effetti pregiudizievoli della trasformazione si prosucono solo con il decorso del termine di trenta giorni dal ricevimento della raccomandata con cui è comunicata la delibera di trasformazione senza che sia proposta opposizione, in luogo di quella stabilita dal suddetto art.2503 c.c., ove gli effetti eventualmente pregiudizievoli della fusione si producono in capo ai creditori  direttamente a seguito della scadenza del termine di due mesi dall'iscrizione della delibera di fusione nel registro delle imprese anche se i creditori non ne sono venuti effettivamente a conoscenza, la disposizione è stata dichiarata incostituzionale nella parte in cui non prevede che la liberazione dei soci illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali assunte anteriormente alla fusione consegua esclusivamente al consenso espresso o presunto nei modi e nel termine di cui all'art.2499 c.c. dei creditori della società di persone partecipante alla fusione.

Con ciò la disposizione contenuta nell'art.2499 c.c. va a costituire quindi uniforme ed essenziale disciplina, a tutela degli interessi dei creditori, di ogni mutamento del tipo di organizzazione sociale e di configurazione giuridica societaria.  

 

 

 

3) La relazione di stima del patrimonio sociale

 

Elemento essenziale del negozio di trasformazione è la relazione di stima del patrimonio sociale, compiuta dall'esperto nominato dal presidente del Tribunale ai sensi dell'art.2343 del codice civile (13).

La stima, necessaria anche se il patrimonio sociale sia costituito esclusivamente in denaro (14), concerne la determinazione del netto patrimoniale da considerare come capitale della nuova società e deve perciò includere e valutare sia le poste attive che quelle passive, detraendo le seconde dall'ammontare delle prime, affinché il patrimonio sociale presente al momento iniziale della vita della società derivante dalla trasformazione, inteso come plusvalenza attiva, non sia inferiore di oltre un quinto rispetto alla misura indicata come capitale sociale nominale.

Da una parte, si sostiene che la relazione di stima consista nella valutazione della consistenza patrimoniale della società, dalla quale risulti che il patrimonio sociale non è inferiore al capitale sociale che alla società, a seguito della trasformazione, viene attribuito (15), mentre da altri si ritiene necessaria una valutazione descrittiva, e non complessiva e globale, dell'intero patrimonio, sia in ragione di quanto sancito dall'art.2343 c.c., richiamato dall'art.2498 secondo comma c.c., sia in considerazione del fatto che la relazione serve a preparare la futura attività sociale ed a costituire la base per le integrazioni di legge e per le conversioni dei conferimenti, nonché per l'emissione eventuale delle azioni se trattasi di società azionarie (16); da altri ancora si assume che sia l'oggetto della relazione, concernente tutto il patrimonio dell'ente trasformato, sia la sua funzione, diretta ad impedire l'attribuzione al patrimonio netto di un valore superiore rispetto al capitale della società derivante dalla trasformazione, inducono a ritenere che la stima giurata debba descrivere e valutare i beni costituenti il patrimonio sociale in modo analitico e dettagliato (17).

La giurisprudenza, al riguardo, ha precisato che il patrimonio della società, se in fase di costituzione è formato, almeno normalmente, dai soli beni che costituiscono l'oggetto dei singoli conferimenti, nell'ipotesi di trasformazione esso risulta invece da una serie di elementi attivi e passivi, di tal che la stima deve concernere la determinazione del netto patrimoniale da considerare come capitale della nuova società e, pertanto, al fine di ricavare il patrimonio netto, deve ricomprendere e valutare sia i rapporti attivi che quelli passivi, detraendo questi ultimi dall'ammontare dei primi, senza limitarsi ad indicare il semplice valore dei beni conferiti in società (18).

Ai sensi del terzo comma dell'art.2343, richiamato dall'art.2498 comma secondo c.c., gli amministratori e i sindaci debbono effettuare il controllo delle valutazioni contenute nella stima, affinché sia disposta la riduzione del capitale nel caso in cui il valore dei beni e crediti conferiti risulti inferiore di oltre un quinto.

In difetto della stima prescritta, la deliberazione di trasformazione è illegittima e non può essere efettuata perciò l'iscrizione nel registro delle imprese (19), il che esclude che il nuovo ente possa sorgere ed assumere gli obblighi della società originaria (20).

La relazione di stima costituisce pertanto elemento essenziale del negozio di trasformazione, quale vera e propria condictio sine qua non per l'efficacia e la validità del cambiamento del tipo sociale.

L'art.2629 n.4 c.c. punisce, con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da lire quattrocentomila a quattromilioni, gli amministratori che, agli effetti della relazione di stima, esagerano fraudolentemente il valore del patrimonio della società di persone da trasformare in società di capitali.

Ad integrare l'elemento soggettivo del reato è sufficiente il dolo generico costituito dall'intenzione fraudolenta che accompagna la coscienza della supervalutazione (21).

 

 

4) Cessione dell'azienda a società di capitali costituita dagli stessi soci della società di persone cessata. Il fallimento della società in liquidazione.

 

Allorquando il patrimonio sociale non sia sufficiente a costituire il netto patrimoniale da considerare come capitale della nuova società, non è pertanto possibile ricorrere all'istituto della trasformazione.

Al fine di conseguire un risultato pressoché analogo è allora frequente il ricorso alla costituzione di nuova società di capitali identica, per oggetto e denominazione, a quella di persone, accompagnata dalla cessione alla prima dell'azienda della seconda e dalla contestuale messa in liquidazione della società a base personale

Tale sistema, da una parte, consente la continuazione della medesima attività svolta dalla società di persone sotto il più favorevole regime della responsabilità limitata per le obbligazioni sociali a carico dei soci e, dall'altra, implica l'accollo automatico dei debiti a carico della società cessionaria (infra, p.18, n.80).

E' noto invero che, ai sensi dell'art.2560 c.c., in mancanza di consenso da parte dei creditori, tale accollo non determina la liberazione dell'alienante dalla responsabilità per le obbligazioni assunte, che va ad aggiungersi a quella dell'acquirente, producendo così soltanto un ampliamento della garanzia dei creditori.

Né il fallimento della società cedente posta in liquidazione subito dopo la cessione potrebbe essere escluso in ragione della desunta cessazione dell'esercizio effettivo della propria attività commerciale e  del decorso del termine stabilito dall'art.10 L.F. (22).

Laddove se ne ammette la rilevanza anche in ambito societario (23), è infatti opinione decisamente prevalente che il termine di cui all'art. 10 L.F. decorra non dalla cessazione dell'attività d'impresa esercitata in forma collettiva, ma dalla effettiva chiusura della fase liquidatoria necessaria all'estinzione(24).

Ciò naturalmente sempreché si sostenga che la fase di liquidazione possa ritenersi conclusa con il procedimento formale di estinzione e cancellazione della società, a prescindere dalla eventuale sussistenza di altri debiti residui (25) , dato che soltanto in questo caso tale disposizione potrebbe avere un senso logico ed una reale portata applicativa in quanto, ove si assuma invece che, malgrado la cancellazione,  la società resta giuridicamente in vita sino alla definizione dell'ultimo rapporto obbligatorio (26), l'assoggettabilità a fallimento sarebbe sempre possibile, mentre la soddisfazione dell'ultimo credito, da una parte determinerebbe l'effettiva estinzione della società, e dall'altra renderebbe del tutto superflua la disposizione dell'art.10 L.F., non essendovi più obbligazioni inadempiute che potrebbero causare la dichiarazione di fallimento.

Di recente la S.C. ha ribadito l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art.147 L.F. in relazione all'art.3 Cost., precisando che la diversità della disciplina applicabile nell'ipotesi di impresa individuale e di società, per quanto riguarda la rilevanza della decorrenza del termine di cui all'art.10 L.F., appare giustificata dalla diversità giuridica o di fatto delle due situazioni comparate, altro essendo l'impresa individuale, legata all'esistenza in vita ed all'attività dell'imprenditore persona fisica, altro essendo invece l'impresa collettiva, la cui estinzione effettiva giuridicamente rilevante dipende esclusivamente dalla risoluzione dell'intero complesso dei rapporti intersoggettivi che ne sono alla base (27).

 

 

5) Il fallimento della società trasformata e dei soci illimitatamente responsabili

 

Del pari, in ipotesi di trasformazione di società di persone in società di capitali, dato che ciò non determina la nascita di un nuovo ente in luogo di altro che si estingue, i soci illimitatamente responsabili della società trasformata sono dichiarati falliti a seguito del fallimento dell'ente dotato di personalità giuridica derivante dalla trasformazione, sempreché non vi sia stata liberazione da parte dei creditori sociali ai sensi dell'art.2499 c.c. e lo stato di insolvenza risalga ad un momento anteriore alla trasformazione stessa (28).

Pur non essendo incontroversa la questione, dato che da alcuni si nega l'estensibilità del fallimento della società derivante dalla trasformazione alla società trasformata (29) mentre da altri la si ammette nel solo caso in cui, in difetto di consenso dei creditori alla trasformazione, lo stato d'insolvenza concerna il periodo precedente all'iscrizione della trasformazione nel registro delle imprese e non sia decorso un anno da essa (30), così come anche una parte della stessa giurisprudenza esclude tale estensibilità ritenendo norma di carattere eccezionale l'art.147 L.F. (31) ed ammette la sola possibilità di assoggettare i soci illimitatamente responsabili ad esecuzione forzata ai sensi dell'art.2304 c.c. nel caso in cui mediante la procedura concorsuale non sia stato possibile soddisfare i creditori sociali (32), l'orientamento che sostiene l'estensibilità del fallimento ai soci della società trasformata appare dominante.

E' stata anzi di recente affermata l'estrema tesi secondo la quale non avrebbe rilievo il fatto che l'esistenza di obbligazioni anteriori alla trasformazione non integri uno stato d'insolvenza esistente a tale momento, dovendo essa sussistere all'epoca della dichiarazione di fallimento e non già al tempo dei debiti insoluti più remoti; sarebbe allora sufficiente, ai fini dell'estensione del fallimento della società trasformata ai soci illimitatamente responsabili, la sussistenza di obbligazioni sorte antecedentemente alla trasformazione e rimaste inadempiute, anche in difetto di qualsiasi efficienza causale tra l'inadempimento di dette obbligazioni e l'insorgere dello stato d'insolvenza della società derivante dalla trasformazione (33).

Secondo quest'orientamento, pertanto, il fallimento dei soci illimitatamente responsabili sarebbe automatica conseguenza del fallimento della società trasformata, senza che rilevi ogni tipo di indagine volta da individuare una relazione tra il dissesto finanziario finale della società derivata dalla trasformazione e le obbligazioni preesistenti rimaste inadempiute, anche nel caso in cui queste ultime risultassero di modestissima entità ed a prescindere dal loro numero, sia pure nell'ipotesi in cui si trattasse di un unico ed esiguo debito

Al riguardo, si è perciò sostenuto che, in ipotesi di fallimento di società di persone trasformata in società di capitali, si avrebbe un unico fallimento con due masse attive, rispettivamente concernenti il patrimonio di ciascun socio illimitatamente responsabile e quello proprio della società fallita, argomentandosi di conseguenza che sulla prima massa concorrerebbero solo i titolari dei crediti sorti prima della trasformazione e sulla seconda concorrerebbero invece tutti gli altri creditori successivi (34).

 

 

 

 

 

6) Considerazioni conclusive ordine alla responsabilità dei soci illimitatamente responsabili. Note fiscali in tema di trasformazione societaria e cessione d'azienda

 

Così stando le cose, è evidente che né in ipotesi di cessione d'azienda alla neocostituita società di capitali, con contestuale messa in liquidazione della originaria società di persone cedente, tantomeno in caso di trasformazione da società personale in società di capitali può conseguirsi il risultato di escludere la responsabilità illimitata dei soci  per i debiti già assunti nel corso dell'attività svolta in forma collettiva organizzata a base personalistica.

Nel primo caso, la società di persone, pur in stato di liquidazione, potrebbe sempre  esser dichiarata fallita per lo stato d'insolvenza concernente obbligazioni assunte prima della cessione, mentre nel secondo opererebbe il suddetto principio di estensibilità del fallimento alla società trasformata ed ai soci illimitatamente responsabili.

Né l'assoggettamento alla procedura concorsuale potrebbe essere escluso per l'eventuale decorso del termine di cui all'art.10 L.F. dalla trasformazione, dato che quest'ultima, come si è rilevato, non produce il sorgere di un nuovo ente collettivo in luogo di altro che si estingue e non determina pertanto alcuna cessazione di attività che possa rilevare ai fini della citata disposizione (35)

Nemmeno la dichiarazione di fallimento potrebbe esser esclusa, nei rispetti dei soci eventualmente receduti o esclusi, per l'eventuale decorso dell'anno dallo scioglimento del vincolo sociale, in applicazione della suindicata disposizione, dovendo ritenersi consentita l'assoggettabilità a fallimento del socio illimitatamente responsabile alle sole condizioni che l'insolvenza della società sia riferibile ad obbligazioni sorte nel periodo in cui era in vita il rapporto sociale, a prescindere dalla scadenza del suddetto termine (36), rilevante esclusivamente in ipotesi di imprenditore individuale (37), nonché dalla circostanza che detto stato d'insolvenza sia sia manifestato successivamente alla fuoriuscita del socio dalla società (38).

Tuttavia, se deve escludersi che le suddette operazioni di trasformazione societaria o di cessione d'azienda ad altro ente dotato di personalità giuridica appositamente costituito possano consentire il venir meno della responsabilità dei soci illimitatamente responsabili per le obbligazioni già assunte, esse consentono la continuazione della stessa attività commerciale da parte dei medesimi soggetti a condizioni più vantaggiose, quanto meno per tutte quelle obbligazioni che, pur originate da rapporti continuativi già in essere, andrebbero a costituirsi in epoca successiva alla trasformazione od alla cessione d'azienda nei soli rispetti della nuova società di capitali.

Inoltre, l'automatica assunzione dei rapporti in essere da parte del nuovo ente dotato di personalità giuridica, connaturale alla struttura stessa dell'istituto della trasformazione, ove infatti non vi è distinzione tra società trasformata e società derivata dalla trasformazione, e normativamente sancito dall'art.2558 c.c. in caso di cessione d'azienda, pur non determinando alcun effetto liberatorio per gli originari contraenti delle obbligazioni non soddisfatte, non pregiudicherebbe la possibilità di un'eventuale novazione di queste ultime con la sostituzione, previo consenso dei creditori, del nuovo ente debitore dotato di personalità giuridica a quello originario di essa sprovvisto e la conseguente sua liberazione.

Sul piano fiscale, l'art.122 del D.P.R. 22 dicembre 1986 n.917, stabilisce in particolare che la trasformazione non costituisce realizzo né distribuzione delle plusvalenze o minusvalenze di beni e che il reddito compreso tra l'inizio del periodo di imposta e la data in cui ha effetto la trasformazione (39), si determina secondo le disposizioni applicabili prima della trasformazione, sulla base delle risultanze del conto dei profitti e delle perdite.

Inoltre, ai sensi dell'art.2 comma terzo, lettera f), del D.P.R. 26 ottobre 1972 n.633, il pasaggio dei beni a seguito della trasformazione è considerato cessione e quindi assoggettato all'imposta sul valore aggiunto.

La trasformazione non costituisce invece atto imponibile ai fini INVIM, come previsto dall'art.2 D.P.R. 26 ottobre 1972 n.634.

Non determinando la creazione di un nuovo e distinto soggetto giuridico, ma risolvendosi invece la trasformazione soltanto in una modifica dell'atto costitutivo della società, che non implica perciò alcun effettivo trasferimento di beni, alla voltura catastale, ai sensi dell'art.10 secondo comma  del D.lgs. 31 ottobre 1990 n.347, si applica l'imposta in misura fissa e non quella proporzionale concernente i normali atti di compravendita (40).

Entro quattro mesi dalla data in cui ha effetto la trasformazione, vi è infine obbligo, ai sensi dell'art.113 comma primo del D.P.R. 29.09.1973 n.600, di presentare apposita dichiarazione relativa alla frazione di esercizio compresa tra l'inizio del periodo di imposta e la data di efficacia della trasformazione.

Ai sensi dell'art.54 comma quinto TUIR, la cessione d'azienda implica, com'è noto, la tassazione della plusvalenza realizzata, da riferirsi non ai beni considerati nella loro individualità, ma all'intero compendio aziendale ceduto (41), comprese le merci, nonostante esse di solito generino ricavi, ai sensi del precedente art.53, e non plusvlaenze (42).

La plusvalenza da assogettare a tassazione risulta dalla differenza tra il valore di base fiscalmente accertato ai sensi dell'art.54 citato ed il valore attuale dell'azienda (43).

L'art.2 terzo comma lettera b) del D.P.R. 26 ottobre 1972 n.633 esclude poi il negozio di cessione dal campo di applicazione dell'IVA, salvo si tratti di alienazione non del compendio ma di singoli cespiti aziendali, restando soggetto soltanto a registrazione in termine e misura fissi ai sensi degli articoli 1,2 e 7 della prima parte della tariffa allegata al Testo Unico delle disposizioni concernenti l'Imposta di Registro D.P.R. 26 aprile 1986 n.131.

La cessione determina poi l'insorgere della responsabilità solidale, sia pure non oltre il biennio antecedente l'acquisto, per i debiti erariali contratti dal cedente, come stabilito dagli articoli 66 e 80 del D.P.R. 29 settembre 1973 n.602 per le imposte dirette e dall'art.19 della legge 7 gennaio 1929 n.4, applicabile in forza del richiamo contenuto nell'art.75 del D.P.R. 26 ottobre 1972 n.633, per l'imposta sul valore aggiunto.

 

 

 

 

 

7) La bancarotta dei soci illimitatamente responsabili

 

Così configurato, sotto il profile civilistico e fiscale, il quadro normativo di riferimento delle fattispecie in discussione, dal lato penale, non può escludersi che sia ravvisabile a carico dei soci della società a base personale il reato di bancarotta fraudolenta, allorquando venga ad essi esteso il fallimento della società di capitali che sia derivata dalla trasformazione della società personale o che risulti cessionaria dell'azienda della società di persone e costituita al solo scopo di sottrarre ai creditori le loro legittime garanzie.

Si sostiene prevalentemente, infatti, che l'oggetto giuridico del reato previsto dall'art.216 L.F. sia proprio quello del diritto alla garanzia che i creditori hanno sul patrimonio del debitore (44) e concerna esattamente non solo i loro diritti veri e propri, ma in genere anche tutti i loro interessi patrimoniali (45).

Tra le condotte incriminate dalla norma vi è per l'appunto quella della "dissimulazione" parziale o totale dei beni dell'impresa costituita da ogni nascondimento del patrimonio realizzato non con mezzi materiali (46), ma attraverso negozi giuridici simulati (47).

Quanto all'elemento psicologico, mente in dottrina per taluni è sufficiente il dolo generico (48) e per altri è invece necessario il dolo specifico costituito dalla presenza della finalità dell'agente di trarre profitto per sé o per altri dai fatti commessi con pregiudizio dei creditori (49), la giurisprudenza oscilla tra più soluzioni, in alcune delle quali si ritiene sufficiente la sola consapevole volontà dell'agente di realizzare una o più delle tipiche immutazioni patrimoniali previste (50), mentre in altre si esige anche la consapevolezza del danno o della possibilità di esso per la massa dei creditori (51) o dell'accettazione del risultato della condotta criminosa da parte dell'agente (52), in altre ancora si giunge a richiedere la consapevole finalizzazione dei fatti incriminati alla prevista insolvenza e alla probabile conseguente dichiarazione di fallimento (53) ed in alcune altre infine si ritiene di dover distinguere tra loro le ipotesi criminose di esposizione o riconoscimento di passività inesistenti, per le quali si esige la sussistenza del dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori, quelle inoltre concernenti la tenuta delle scritture contabili di cui al comma primo, n.2, dell'art.216 L.F. per le quali anche si esige il dolo specifico, sia pure costituito non dall'intenzione di arrecare danno ai creditori ma di impedire invece la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari (54) e quelle di distrazione e occultamento di beni per le quali si ritiene la sufficienza del dolo generico (55).

Non vi è pertanto dubbio che, provata la simulata costituzione della società di capitali e la cessione ad essa del compendio aziendale della originaria società personale posta in liquidazione, quali atti in frode ai creditori, il sopravvenuto fallimento di quest'ultima in via diretta o mediante estensione del fallimento dell'ente a responsabilità limitata, vi sono i presupposti per dar spazio al reato di bancarotta fraudolenta, da ascrivere a carico dei soci dell'ente originario in concorso con i soci di quello nuovo, se in tutto o in parte diversi dai membri dell'altro.

Ciò in forza dell'art.221 L.F., che espressamente prevede l'applicabilità dell'art.216 L.F. ai soci illimitatamente responsabili della fallita loro società personale, includendoli nella stessa posizione in cui si trova il fallito, quale imprenditore individuale, e non già considerandoli alla stregua di soggetti diversi da quest'ultimo, cui possono egualmente applicarsi le pene stabilite dall'art.216 citato, come prevede il successivo art.223 L.F. per gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori delle società capitalistiche dichiarate fallite.

Al riguardo è stato, da una parte, sostenuto che, ai sensi dell'art.222 L.F., i soci illimitatamente responsabili risponderebbero soltanto dei fatti commessi sul proprio patrimonio personale e non su quello della società, dato che detta norma avrebbe la funzione di evitare che tali soci, in quanto non qualificabili come inprenditori individuali, possano sfuggire alla responsabilità penale sancita dagli articoli 216 e 217 L.F. per i fatti illeciti commessi dall'imprenditore commerciale sul proprio patrimonio.

Dei fatti compiuti sul patrimonio della società, secondo questa tesi, detti soci potrebbero rispondere esclusivamente in base agli articoli 223, 224 e 232 L.F. ove abbiano agito in veste di amministratori o terzi (56).

 

 

 

8) La dichiarazione di fallimento come condizione essenziale del reato di bancarotta ed elemento pregiudiziale del procedimento penale

 

In ogni caso, presupposto essenziale per il ricorrere del reato di bancarotta a carico dei soci illimitatamente responsabili è l'avvenuta dichiarazione di fallimento della società personale e dei soci.

Alla validità della tesi che pone la sentenza dichiarativa di fallimento quale elemento costitutivo del reato di bancarotta o comunque come condizione indispensabile per l'esistenza stessa dell reato, non può essere di ostacolo il fatto che l'art.238 secondo comma L.F. ammette l'esercizio dell'azione penale a prescindere dalla sussistenza di un fallimento giudizialmente dichiarato.

Apparendo evidente la responsabilità penale dall'avvenuta commissione dei fatti costitutivi di bancarotta o da gravi indizi, ancor prima della sentenza dichiarativa di fallimento, la norma citata consente, nei casi da essa tassativamente previsti, che l'autorità giudiziaria inquirente promuova l'azione penale, contestualmente richiedendo al Tribunale fallimentare, ove non sia già stata proposta istanza da altri,  la pronuncia di fallimento.

In difetto di quest'ultima, nonostante la condotta criminale risulti già portata a compimento, l'azione penale suddetta, esercitata in sede preliminare ed a carattere istruttorio, in specie al fine di assicurare le fonti di prova e di limitare le conseguenze del reato, non potrà esser più proseguita.

Nel sistema del previgente codice di commercio era generalmente esclusa la pregiudizialità della sentenza dichiarativa di fallimento, sostenendosi la piena ed assoluta autonomia dell'indagine penale rispetto ad essa (57), ma dopo le prime critiche che evidenziavano come un tale orientamento potesse sopratutto determinare il concreto pericolo di un conflitto di giudicati (58), si è andata consolidando sempre di più la tesi che la pronuncia giudiziale del fallimento costituisce elemento pregiudiziale del procedimento penale di bancarotta (59).

Nel regime del precedente codice di rito si sosteneva che la sentenza dichiarativa di fallimento fa stato nel procedimento penale per bancarotta sull'esistenza degli estremi soggettivi, come la qualità di imprenditore commerciale, di socio illimitatamente responsabile e lo status di fallito, nonché sull'esistenza degli estremi oggettivi, quali lo stato d'insolvenza rilevante ai fini del fallimento o delle altre procedure concorsuali (60), tanto che in ipotesi di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento il procedimento penale per bancarotta doveva essere sospeso sino al passaggio in giudicato della sentenza del tribunale fallimentare (61) e che la revoca della sentenza di fallimento intervenuta dopo la sopravvenuta condanna penale di bancarotta avrebbe costituito ipotesi di revisione ai sensi dell'art.544 c.p.p. (62).

Più vicino alla tesi contraria (63) si sono posti i principi ispiratori del nuovo codice di procedura penale che, all'art.2, ha affermato la regola dell'autonoma cognizione del giudice penale, sia pure temperata dall'espressa riserva che fa salva ogni ipotesi in cui sia diversamente stabilito e che consente al giudice di sospendere il processo, ove la decisione dipenda dalla risoluzione di una controversia sullo stato di famiglia o di cittadinanza, purché la questione sia seria e sia già pendente il relativo procedimento civile.

In forza del disposto di cui al primo comma del citato art.2, correlato al successivo art.479 c.p.p., è perciò attribuita al giudice penale la mera facoltà, e non più l'obbligo, di sospendere il processo ove debbano pregiudizialmente decidersi questioni civili o amministrative, diverse da quelle di stato, ai fini della pronuncia in sede penale.

Normativamente escluso perciò l'obbligo di sospendere il processo penale per bancarotta in caso di controversia sulla qualità di fallito attribuita all'imputato, è stato tuttavia sostenuto che la sentenza dichiarativa di fallimento costituisce in ogni caso il presupposto indispensabile per la sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta e che pertanto ogni questione relativa quanto meno all'accertamento dello stato di insolvenza, si configura come pregiudiziale e vincolante per la pronuncia penale, il che sembrerebbe non valere invece per le altre questioni concernenti il presupposto soggettivo della qualità di imprenditore commerciale da parte del soggetto agente (64).

Al riguardo si è affermato che la sentenza dichiarativa di fallimento, anche se oggetto di opposizione o non ancora passata in giudicato, dato che essa è provvisoriamente esecutiva ai sensi dell'art.16 L.F. da vita all'intera procedura concorsuale ed integra così il reato di bancarotta, essendo attribuita al giudice penale la facoltà di sospendere il processo, ai sensi dell'art.479 c.p.p., allorché sussistano elementi per ritenere che l'opposizione alla sentenza dichiarativa del fallimento potrà essere accolta (65).

E' stato inoltre rilevato che la competenza esclusiva del magistrato civile rispetto a quella del giudice penale si ricaverebbe dalla stessa lettera degli articoli 216 e 217 L.F., dovendo trarsi dall'inciso "se è dichiarato fallito" in essi contenuto, la conclusione della necessità della declaratoria di fallimento ai fini della punibilità, non potendosi considerare sufficiente solo il fatto che sia palese l'insolvenza e che siano state compiute le azioni delittuose descritte dalla norma.

Ed al riguardo si è argomentato che, costituendo le disposizioni penali in materia fallimentare un corpus normativo speciale, non avrebbe su di esse potuto incidere la lex posterioris generalis del nuovo codice di procedura penale nel senso di escludere, per l'integrazione del reato di bancarotta,  che il fallimento sia accertato con sentenza del tribunale civile, la quale rimane perciò presupposto indefettibile anche dopo l'entrata in vigore del nuovo codice di rito (66).

Ormai superata la risalente tesi della sentenza dichiarativa di fallimento quale condizione di procedibilità del reato di bancarotta (67), nonostante il diverso avviso della prevalente dottrina e di una parte della giurisprudenza che attribuiscono alla pronuncia giudiziale di fallimento la natura di condizione obiettiva di punibilità (68), si è andato consolidando, specie in giurisprudenza, l'orientamento che definisce la sentenza dichiarativa di fallimento come elemento costitutivo del reati di bancarotta (69).

 Dalla tesi deriva che il compimento delle azioni criminose delineate dalle disposizioni degli articoli 216 e 217 L.F. diviene penalmente rilevante soltanto con la pronunzia di fallimento e, allorquando la condotta dell'agente si esaurisca prima di quest'ultima, il momento consumativo del reato si perfeziona al momento e nel luogo della pronuncia medesima e non nel tempo e nel luogo eventualmente diversi in cui è stata realizzata l'azione delittuosa (70).

Tuttavia, anche accogliendo l'opinione che attribuisce alla dichiarazione di fallimento la natura di condizione obiettiva di punibilità, non sfugge, nei casi di bancarotta prefallimentare, la peculiarità di tale condizione che, non potendo configurarsi come estrinseca per il suo indubbio valore assolutamente determinante nell'economia del medesimo, risulta talmente inerente al fatto criminale da rappresentare un elemento stesso del reato (71), definito talora come necessario (72) ed in altri casi come costitutivo di esso (73) od incidente in via causale sulla sua esistenza (74) ovvero come vera e propria condizione del reato stesso (75).

E' infatti indubitabile che soltanto il fallimento nel suo aspetto sostanziale, quale insolvenza giudizialmente accertata, imprime ai comportamenti incriminati dalla legge fallimentare il carattere della illiceità, risultando altrimenti il compimento di tali atti penalmente indifferente (76), quale esercizio di un diritto del debitore sul proprio patrimonio consistente in un'attività che l'ordinamento consente od in ordine alla quale, nei casi in cui la ritiene illecita, assicura soltanto strumenti di tutela di carattere civilistico a salvaguardia delle garanzie patrimoniali creditorie rimaste offese od appresta altra tutela, diversa da quella sancita dalla legge fallimentare.

Mentre prima della dichiarazione di fallimento l'offesa agli interessi dei creditori resta alla stato potenziale ed eventuale, non potendosi escludere, almeno in astratto, che il debitore trovi il modo di adempiere le sue obbligazioni, dopo la pronuncia del Tribunale fallimentare tale offesa diviene effettiva e rilevante (77), costituendosi una situazione giuridica del tutto nuova, nella quale si trasformano, in senso tendenzialmente peggiorativo, i diritti dei creditori e  muta, dall'eventualità alla attualità, l'offesa inerente al  reato; ciò implica che la dichiarazione di fallimento, lungi dal configurarsi come estrinseca al fatto delittuoso, integra il reato al punto che prima di essa il reato non esiste ovvero non è perfetto.

Quanto alla configurabilità del tentativo nell'ipotesi di bancarotta prefallimentare, essa è decisamente esclusa da coloro che, considerando la dichiarazione di fallimento come condizione obiettiva di punibilità estrinseca al reato di bancarotta,  fanno leva sulla tesi che non consente la punibilità del tentativo nei reati condizonati (78), mentre la si ammette da parte di chi, invece, ritiene la pronuncia giudiziale di fallimento quale elemento costitutivo o condizione obiettiva di punibilità intrinseca del reato di bancarotta, sempreché il tipo di azione concretamente imputata all'agente non integri reato di pura condotta dipendente da un atto unisussistente o reato in cui condotta ed evento coincidono (79) e sebbene da una parte si sostenga che comunque anche la bancarotta tentata, integrati gli elementi costitutivi del reato fallimentare con la disposizione dell'art.56 c.p., non potrebbe prescindere dal verificarsi della condizione di punibilità costituita dal fallimento (80).

 

 

9) L'appartenenza del socio illimitatamente responsabile alla società fallita e la dichiarazione del fallimento nei suoi confronti, quali elementi necessari per la configurabilità del reato

 

E' evidente che del reato di bancarotta fraudolenta potranno essere chiamati a rispondere i soci illimitatamente responsabili della società trasformata soltanto nel caso in cui venga ad essi esteso, quali membri dell'originario nucleo sociale a base personale, il fallimento della società di capitali derivata dalla trasformazione e venga perciò in essere, con la sostanziale estensione della dichiarazione di fallimento all'ente privo della personalità giuridica esistente prima della trasformazione, il presupposto indefettibile per l'integrazione del reato fallimentare ascrivibile a carico dei soci di essa.

Del pari, in ipotesi di avvenuta cessione d'azienda alla neocostituita società di capitali da parte della società di persone posta poi in liquidazione al fine di sottrarre ai creditori le loro legittime garanzie, l'incriminazione dei soci di quest'ultima per bancarotta fraudolenta non potrà prescindere dall'avvenuta dichiarazione di fallimento della società di persone.

In quest'ultimo caso si verifica in effetti uno sfasamento tra la società a base personale resa inattiva e la nuova società di capitali, costituita in tutto o in parte dagli stessi soci della società di persone, che serve puramente da etichetta per la sostanziale continuazione dell'attività, a condizioni più vantaggiose, da parte degli stessi soci illimitatamente responsabili, previo svuotamento del patrimonio del loro originario ente collettivo, in vista delle probabili azioni esecutive dei creditori.

Si sostiene, al riguardo, che il fenomeno si risolverebbe sostanzialmente in una trasformazione tacita della società (81), dovendosi ritenere operante la società a base personale in luogo di quella capitalistica apparente e che comunque, sia che si accetti la tesi della trasformazione tacita sia che si ravvisi invece l'esistenza di due distinti enti societari (82), il fallimento deve investire la società effettivamente operante, con conseguente fallimento dei soci illimitatamente responsabili (83).

Allorquando i soci di una società decidono di costituire altro e distinto ente collettivo, sia pure per continuare in diverso regime la stessa identica attività, vengono comunque a crearsi distinti microcosmi giuridici, per cui il fallimento di uno di essi non potrà determinare automaticamente il fallimento dell'altro e tanto meno dei soci di esso ilimitatamente responsabili.

L'unica reazione normativa che il fallimento di una società produce sull'altro distinto ente collettivo, sia pure ad essa collegato o composto in tutto o in parte dagli stessi soci della prima, è l'esclusione di diritto dei soci dichiarati falliti ai sensi dell'art.2288 del codice civile, così come la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore individuale che abbia conferito la propria azienda in società di persone, la cui responsabilità per le obbligazioni preesistenti sussiste solo nei limiti stabiliti dal secondo comma dell'art.2560 c.c., certo non determina anche il fallimento della società  da esso costituita o in cui è entrato a far parte, causando soltanto la sua esclusione dalla compagine societaria ed eventualmente lo scioglimento della società per sopravvenuta impossibilità di conseguire l'oggetto sociale, mentre viceversa il fallimento dell'ente collettivo sarebbe sempre causa anche del fallimento dell'imprenditore di esso divenuto socio.

Il fenomeno è particolarmente evidente nell'ambito delle società collaterali, ove dalla circostanza che tra i soci di una società di capitali sia configurabile una collaterale società personale con attività coincidente ed interscambio di supporti organizzativi non consegue che la seconda cessi, per ciò solo, di essere un centro di imputazione di atti e di attività nettamente diverso dalla prima, con distinti elementi di rischio e distinte eventualità di dissesto.

A ciò pertanto consegue che il manifestarsi dello stato di insolvenza risulta idoneo a determinare il fallimento della società collaterale, in quanto dipenda dalla propria autonoma attività e dal passivo che ad essa si ricollega, senza che la collateralità possa considerarsi di per sé sufficiente a determinare una sovrapposizione o una confusione di imprese, ovvero un' osmosi di situazioni passive, salvo la possibilità di responsabilità cumulative riguardo a particolari obbligazioni derivanti da affari specifici assunti in comune o da specfiche prestazioni di garanzie (84).

Da tutto ciò si ricava che, in ipotesi di collegamento sotto qualsiasi forma tra diverse società, il fallimento dell'una non può essere autonoma conseguenza della dichiarazione di fallimento dell'altra e che pertanto il fallimento del socio illimitatamente responsabile può derivare esclusivamente dal fallimento della società a base personale di cui egli faccia parte e non di altra seppure ad essa connessa (85).

 Ciò implica pertanto che il reato di bancarotta potrà essere ascritto a carico soltanto del socio illimitatamente responsabile della società dichiarata fallita.

Per l'incriminazione dei soci illimitatamente responsabili è inoltre necessario, non solo, come abbiamo osservato, che sia dichiarato il fallimento della società di cui sono e risultano membri, ma anche che sia esplicitamente dichiarato il loro diretto fallimento, dato che soltanto con la dichiarazione di fallimento di ciascuno dei soci si realizzano, nei confronti di questi, tutti gli elementi costitutivi necessari per l'integrazione della fattispecie penale.

La stessa collocazione sistematica dell'art.222 L.F. nel capo I titolo VI, intitolato "Reati commessi dal fallito" fa infatti inequivocabilmente ritenere che la responsabilità penale, diversamente da quella dell'art.223, concerna esclusivamente persone di cui è stato dichiarato il fallimento.

Oltre a ciò, la ratio medesima della disposizione pare essere quella di consentire l'estensione a soggetti che si trovano in una particolare posizione, quali soci illimitatamente responsabili, di una responsabilità penale che altrimenti sarebbe stata dubbia, considerato il riferimento della normativa fallimentare al solo imprenditore, e inoltre il rinvio operato dalla norma alle disposizioni precedenti lascia intendere che anche rispetto a tali soggetti necessita un'apposita dichiarazione di fallimento (86)  

Nel caso in esame, escluso ogni automatismo tra la dichiarazione di fallimento della società di capitali e il fallimento della società di persone, l'estensione del fallimento della società cessionaria alla cedente messa in liquidazione implica una specfica dichiarazione giudiziale che potrebbe tuttavia restare esclusa, nonostante l'evidenza dell'intento fraudolento e la prova del compimento dei fatti criminali, dal fatto che gli inadempimenti determinanti la declaratoria di fallimento dell'ente cessionario risultino attinenti ad obbligazioni contratte esclusivamente da quest'ultimo dopo la cessione.

Così come, in ipotesi di trasformazione, l'estensione del fallimento della società derivata dalla trasformazione ai soci illimitatamente responsabili dell'ente originario potrebbe essere impedito dal fatto che l'insolvenza risulti sussistente soltanto in epoca successiva alla trasformazione stessa, sempreché naturalmente si aderisca alla tesi che consente l'estensione del fallimento ai soci della società trasformata nel solo caso in cui l'insolvenza risalga ad un momento precedente alla trasformazione (87).

Nonostante quindi la prova dell'intento fraudolento e del compimento dell'azione delittuosa (88), in difetto di dichiarazione di fallimento della società alla quale appartengono i soci illimitatamente responsabili, come osserva il G.I.P. del Tribunale di Pisa, difetta il presupposto dell'imputazione, dal momento che l'atto dispositivo incriminato non risulta riferibile alla società fallita. 

 

 

 

NOTE:

(1)

Granzotto, La trasformazione di società personali in società di capitali e la persistente responsabilità dei soci, in "Dir.fall.", 1993, II, p.560;

Gasperoni, La trasformazione delle società, Milano, 1952;

Simonetto, Trasformazione e fusione delle società, in Commentario al codice civile di Scialoja e Branca, Bologna - Roma , 1976;

Simonetto, Trasformazione societaria, responsabilità ed assegnazione di quote, in "Arch.civ.", 1986, p.241;

Paschi Pesucci, Trasformazione, fusione e scioglimento, in "Riv.soc.", 1983, p.671

Rescigno, Trasformazione di società e responsabilità dei soci, in "Riv.trim.dir.proc.civ.", 1950;

Ferri, Manuale di diritto commerciale, Torino, 1972, p.476 e s.;

Tantini, Trasformazione e fusione di società, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell'economia Galgano, VIII, Padova, 1985.


(2)

Nonostante il codice preveda solo l'ipotesi di trasformazione di società di persone in società di capitali, è ammessa anche l'ipotesi inversa: Cass., 9 novembre 1988, n. 6026, in "Soc.", 1989, 132.

Trattandosi di modificazione dell'atto costitutivo, al socio dissenziente spetta il diritto di recesso ai sensi dell'art.2437 c.c. e la deliberazione, approvata dall'assemblea straordinaria con maggioranza qualificata, è soggetta a omologazione, iscrizione e pubblicazione nel BUSARL: Tribunale di Torino, 28 giugno 1956, in "Giur.it.", 1956, I, 2, 1038; Appello Venezia, 19 maggio 1970, in "Dir.fall.", 1971, 2, 331. Contra: Tribunale di Biella 29 agosto 1955, "Dir.fall.", 1955, 2, 744; Tribunale di Padova, 1 marzo 1970, "Dir.fall.", 1971, 2, 331: ove si richiede l'unanimità dei consensi stante il diritto del socio a non rinunciare alla limitatezza della sua responsabilità.

 

 

(3)

Cass., 15 novembre 1985, n.5602, in "Giust.civ.Mass.", 1985, 1693.

 

(4)

Appello Milano, 22 novembre 1980, n.1311, in "Giur.comm.", 1981, II, 960.

 

(5)

Messineo, Manuale di diritto commerciale, Milano, 1954, p.554;

Ferri, Manuale, op.cit., p.476;

Ferrara-Corsi, Gli imprenditori e le società, Milano, 1987, p.729-730;

Cottino, Diritto commerciale, I, Padova, 1987, p.632 e s.;

Simonetto, Trasformazione e fusione, op.cit., p.11 e s.;

Tantini, Trasformazione e fusione, op.cit., p.188 e s.;

Serra, La trasformazione e la fusione delle società, in Trattato di diritto privato Rescigno, Torino, 1985, 17, p.303 e s.;

De Gregorio, Imprenditori e società, Città di Castello, 1970, p.369.

Cass., 30 luglio 1992, n.9124, in "Giust.civ.Mass.", 1992, Fasc.7;

Cass., 24 luglio 1992, n.8924, in "Fall.", 1993, 48;

Cass., 12 luglio 1990, n.7250, in "Riv.dir.comm.", 1991, II, 213;

Cass., 3 agosto 1988, n.4825, in "Foro it.", 1989, 1176.

 

(6)

Cass., 9 aprile 1987, n.3481, in "Giust.civ.Mass.", 1987, fasc.7;

Cass., 14 gennaio 1982, n.198, in "Giust.civ.Mass.", 1982, fasc.1;

Cass., 20 gennaio 1978, n.260, in "Giust.civ.", 1978, I, 654.

 

(7)

Cass., ,n16 aprile 1986, n.2697, in "Giust.civ.Mass.", 1986, fasc.4.

Cass., 4 ottobre 1985, n.4813, in "Lav.e prev.oggi", 1985, 2428;

 

(8)

Comm.centr.imp., Sez.XXII, 5 dicembre 1990, n.3278, in "Dir.e prat.trib.", 1991, II, 1408;

Comm.imp.prov.le, Sez.VI, Roma, 24 febbraio 1990, in "Boll.trib.", 1990, 932;

TAR Campania, Sez.I, Napoli, 17 gennaio 1990, in "Foro amm.", 1990, 2887.

 

(9)

Cass., 3 aprile 1987, n.3218, in "Giust.civ.", 1987, I, 1678

Contra:Appello Milano, 24 dicembre 1974, in "Giur.comm.", 1976, II, 114: ove si sostiene la non più prevalente tesi della novazione, salvo che la trasformazione avvenga tra tipi omogenei di società.

 

(10)

Si ritiene che la raccomandata con cui è data notizia dell'avvenuta trasformazione debba contenere la copia del verbale della relativa delibera: Tribunale di Lecce, 22 febbraio 1990, in "Foro it.", 1990, I, 2042.

 

 

(11)

 Corte cost., 8 febbraio 1995, n.47, in "Il fisco", 1995, 2651.

 

 

(12)

Tribunale di Milano, 4 gennaio 1990, in "Riv.dir.comm.", 1991, II, 65;

Tribunale di Milano, 5 ottobre 1989, in "Giur.it.", 1990, I, 2, 452.

 

(13)

Cass., 5 agosto 1987, n.6718, in "Giust.civ.". 1987, I, 2788;

Tribunale di Ascoli Piceno, 31 maggio 1988, in "Soc.", 1988, 1178;

Tribunale di Roma, 18 settembre 1986, in "Soc.", 1987, 422.

 

(14)

Tribunale di Napoli, 12 gennaio 1987, in "Soc.", 1987, 737;

Tribunale di Ancona, 3 aprile 1979, in "Giur.comm.", 1980, II, 210.

Contra: Appello Ancona, 5 aprile 1979, in "Giur.comm.", 1980, II, 220.

 

(15)

Graziani, Diritto delle società, Milano, 1962, p.515 e s..

 

(16)

Simonetto, Trasformazione e fusione, op.cit., p.150.

 

(17)

Serra, La trasformazione, op.cit., p.332.

 

(18)

Cass., 5 agosto 1987, n.6718, cit.;

Tribunale di Roma, 27 gennaio 1984, in "Soc.", 1985, 296;

Tribunale di Roma, 11 dicembre 1981, in "Soc.", 1982, 302.

 

(19)

Tribunale di Cassino, 12 aprile 1991, in "Riv.not.", 1991, II, 1075;

Tribunale di Roma, 18 settembre 1986, cit.;

Tribunale di Roma, 27 gennaio 1984, cit..

 

(20)

Cass., 3 maggio 1967, n.827, in "Dir.fall.", 1967, II, 879.

 

 

(21)

Cass., 29 novembre 1968, in "Giur.it.", 1969, 321.

 

(22)

Tribunale di Torino, 15 aprile 1994, in "Fall.", 1994, 1296;

Tribunale di Torino, 19 marzo 1990, in "Fall.", 1990, 1128;

Tribunale di Verona, 5 ottobre 1989, in "Fall.", 1990, 329;

Tribunale di Perugia, 27 ottobre 1987, in "Fall.", 1987, 1268;

Tribunale di Milano, 6 maggio 1985, in "Fall.", 1985, 883;

Appello Milano, 13 marzo 1984, in "Fall.", 1984, 1032;

Tribunale di Milano, 7 giugno 1979, in "Fall.", 1980, 130;

Tribunale di Torino, 24 febbraio 1974, in "Giur.comm.", 1974, II, 1564;

Cass., 10 agosto 1979, n.4644, in "Giust.civ.", 1980, I, 2256;

Cass., 22 giugno 1972, n.2067,  in "Foro it.", 1973, I, 504;

Cass., 10 agosto 1965, n.1921, in "Giust.civ.", 1965, I, 1959.

Contra: Tribunale di Venezia, 12 settembre 1962, in "Banca,borsa e tit.cred.", 1963,II, 137; Tribunale di Roma, 29 marzo 1954, in "Dir.fall.", 1954, II, 269.

 

 

(23)

In senso decisamente contrario: Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1986; Pellegrino, I presupposti soggettivi del fallimento sociale, Padova, 1982, p.139.

 

 

(24)

Cass., 24 luglio 1992, n.8924, cit.;

Cass., 20 dicembre 1988, n.6953, in "Fall.", 1989, 510;

Cass., 25 gennaio 1986, n.495, in "Fall.", 1986, 747;

Tribunale di Venezia, 25 settembre 1987, in "Fall.", 1988, 273;

Tribunale di Milano, 3 ottobre 1986, in "Dir.fall.", 1987, II, 731.

Contra in dottrina: Jorio, Gli artt. 10 e 11 della legge fallimentare, in "Riv.soc.", 1969, p.293; Buonocore, Fallimento e impresa, Napoli, 1969, p.251; Valcavi, Se l'art.10 legge fallimentare sia applicabile alle società imprenditrici, in "Dir.fall.", 1952, II, p 463.

 

(25)

Tribunale di Varese, 21 maggio 1990, in "Foro pad.", 1991, 198;

Tribunale di Milano, 7 giugno 1980, in "Fall.", 1980, 130.

 

(26)

Tribunale di Sulmona, 14 marzo 1992, in "Dir.fall.", 1993, II, 560;

Appello Bari, 22 aprile 1988, in "Fall.", 1988, 821.

 

(27)

Cass., 24 luglio 1992, n.8924, cit.;

Cass., 25 gennaio 1986, n.495, cit..

 

(28)

Cass., 24 luglio 1992, n.8924, cit.;

Cass., 22 maggio 1990, n.4626, in "Fall.", 1991, 125;

Cass., 6 novembre 1985, n.5394, in "Giur.fall.", 1985, 137;

Cass., 7 settembre 1970, n.1287, in "Foro it.", 1970, I, 2826;

Appello Firenze, 28 gennaio 1988, in "Dir.fall.", 1988, II, 951;

Tribunale di Sulmona, 14 marzo 1992, cit.;

Tribunale di Verona, 6 novembre 1990, in "Giur.it.", 1991, II, 586;

Tribunale di Lecce, 22 febbraio 1990, in "Riv.not.", 1990, 152;

Tribunale di Udine, 21 giugno 1984, in "Dir.fall.", 1985, II, 218;

Tribunale di Vicenza, 7 febbraio 1983, in "Fall.", 1984, 324;

Tribunale di Milano, 25 maggio 1973, in "Dir.fall.", 1974, II, 383.

Candian, Società trasformata e fallimento dei soci, in "Riv.dir.comm.", 1935, I, p.518;

Jorio, Il fallimento, IV, in Giust.sist.civ.comm., Torino, 1979, p.779

 

(29)

Ferri, Le società, in Tratt. Vassalli, vol.X, tomo III, Torino, 1987, p.573;

Azzolina, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino, 1953, p.242;

Maffei Alberti, Trasformazione di società di persone in società di capitali e procedure concorsuali, in "Riv.dir.civ.", 1977, II, p.638.

 

(30)

Cuneo, Le procedure concorsuali, Milano, 1988, p.135;

Galgano-Bonsignori, Il fallimento delle società, in Tratt. Galgano, vol.X, Padova, 1988, p.75.

 

(31)

Cass., 20 settembre 1984, n.4810, in "Fall.", 1985, 620.

 

(32)

Cass., 4 settembre 1984, n.4752, in "Dir.fall.", 1984, II, 936.

 

(33)

Tribunale di Genova, 18 maggio 1994, in "Fall.", 1995, 301;

Tribunale di Genova, 25 ottobre 1984, in "Giur.comm.", 1987, II, 368;

Tribunale di Genova, 1 giugno 1982, in "Giur.comm.", 1984, II, 106.

Contra, nel senso che il fallimento della società di capitali trasformata possa estendersi ai soci nel caso in cui le obbligazioni che hanno concorso a determinare lo stato di insolvenza siano sorte prima della trasformazione: Cass., 6 novembre 1985, n.5394, cit.; Tribunale di Verona, 6 novembre 1990, cit.; Tribunale di Belluno, 27 febbraio 1990, in "Fall.", 1990, 760.

Sia pure in relazione all' ipotesi del recesso del socio, si è sostenuto, per ammetterne il fallimento, che l'insolvenza si sia  già verificata al momento dello scioglimento particolare del vincolo: Cass., 22 maggio 1990, n.4626, cit.; Cass., 17 ottobre 1986, n.6087, in "Fall.", 1987, 572.

Nel senso che le obbligazioni inadempiute debbano essere invece determinative dello stato di insolvenza: Cass., 6 novembre 1985, n.5394, cit.; Cass., 11 maggio 1981, n.3095, in "Giur.comm.", 1982, II, 463.

Nel senso che l'assoggettamento alla procedura concorsuale dei soci della società trasformata sia subordinato alla circostanza che l'insolvenza si sia determinato in capo alla società di persone: Cass., 22 maggio 1990, n.4626, cit.; Appello Firenze, 28 gennaio 1988, cit.; Tribunale di Bologna, 19 gennaio 1988, in "Dir.fall.", 1989, II, 724; Tribunale di Milano, 29 maggio 1986, in "Fall.", 1986, 497; Tribunale di Udine, 13 novembre 1984, in "Dir.fall.", 1985, II, 509.

 

(34)

Mazzocca, L'insolvenza dei soci nella trasformazione della società, in "Dir.fall.", 1988, I, 563.

 

(35)

Tribunale di Sulmona, 14 marzo 1992, cit.

 

(36)

Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, Roma, 1964, p.372;

Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, IV, p.2055;

Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1986, p.681.

Cass., 6 ottobre 1988, n.6403, in "Soc.", 1988, 129;

Cass., 17 ottobre 1986, in "Giur.fall.", 1986, 96;

Cass., 21 novembre 1983, n.6934, in "Giur.fall.", 1983, 149;

Tribunale di Torino, 8 novembre 1984, in "Giur.piemontese", 1985, 143;

Tribunale di Ascoli Piceno, 23 ottobre 1986, in "Dir.fall.", 1987, II, 1055;

Tribunale di Foggia, 24 novembre 1983, in "Dir.fall.", 1984, II, 318;

Tribunale di Napoli, 22 marzo 1980, in "Dir.e giur.", 1987, 731;

Appello Milano, 11 maggio 1985, in "Fall.", 1986, 55;

Appello Genova, 9 giugno 1978, in "Giur.comm.", 1980, II, 648.

 

(37)
Contra: Galgano-Bonsignori, Il fallimento, op.cit., p.36, 74-75;

Ferrara, Il fallimento, Milano, 1988, p.678;

Mazzocca, Manuale di diritto fallimentare, Napoli, 1980, p.525.

 

 

(38)

Appello Bologna, 20 novembre 1993, in "Fall.", 1994, 645;

Cass., 6 ottobre 1988, n.6403, cit.;

Appello Milano, 11 maggio 1985, cit.;

Tribunale di Napoli, 1 settembre 1984, in "Dir.fall.", 1985, II, 613.

 

 

(39)

Risoluzione n.9/802 del Ministero delle Finanze Direz.Gen. Imposte.

Comm.centr.imp., Sez.I, 17 ottobre 1986, n.7851, in "Riv.not.", 1988, 756.

La trasformazione ha effetto dalla data di iscrizione nel registro delle imprese della società risultante dalla trasformazione.

Contra: Comm.trib.centr., Sez.VI, 15 novembre 1993, n.3110, in "Italia Oggi Gazzetta", Ins.n.3/94 del 11 febbraio 1994, 19 : ove si ritiene che la trasformazione ha effetto dalla data dell'atto pubblico.

 

 

(40)

Comm.trib.centr., 13 gennaio 1986, n.145, in "Comm.trib.centr.", 1986, 9;

Comm.trib.II°Grado di Alessandria, 10 marzo 1994, n.59, in "Corr.trib.", 1994, 1658.

Comm.trib.I°Grado di Rimini, 30 novembre 1992, n.1059, in "Corr.trib.", 1993, 1205;

Comm.trib.I°Grado di Udine, 29 settembre 1992, n.7, in "Corr.trib.", 1993, 288;

Comm.trib.I°Grado di Salerno, 29 gennaio 1990, n.177, in "Il fisco", 1990, 6837;

Circolare ministeriale 11 luglio 1991, n.37/350346, in "Il fisco", 1991, 4841.

Contra: Comm.trib.II°Grado di Treviso, Sez.II, 26 ottobre 1993, in "Rass.trib.", 1995, n.1, 126; Comm.trib.I°Grado di Pescara, 22 marzo 1994, in "Rass.trib.", 1995, n.1, 129.

 

(41)

Cass., 12 ottobre 1973, n.2574, in "Mass.", 1974;

Cass., 9 giugno 1973, n.1668, in "Mass.", 1973.

 

(42)

Risoluzione n.9/199, 8 febbraio 1979, Ministero delle Finanze, in Codice Imposte Dirette, IPSOA, Sez.24, art.34, n.6.

 

(43)

Cass., 24 ottobre 1987, n.7837, in "Corr.trib.", 1987, 3137.

 

(44)

Longhi, Bancarotta ed altri reati in materia commerciale, Milano, 1930, p.91:

 

(45)

Conti, La responsabilità patrimoniale: evoluzione dei principi della tutela penale, in Prospettive della riforma della legge fallimentare, Atti del convegno di Mantova 21-23 ottobre 1988, Milano, 1989, p.105 e s.;

Conti, Diritto penale commerciale, vol.II, I reati fallimentari, Torino, 1967, p.88;

Pajardi, Manuale, op.cit., p.841;

Allegri, La tutela penale dei creditori nel fallimento, in "Fall.", 1986, p.226;

Scalera, Teoria generale del reato di bancarotta, Milano, 1982, p.23 e s..

Giuliani, La concezione patrimoniale della bancarotta, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Genova, 1972, p.59.

Cass., 26 febbraio 1986, in "Giust.pen.", 1987, II, 227;

Cass., 10 luglio 1985, in "Cass.pen.", 1987, 824.

Cass., 12 novembre 1974, in "Riv.pen.", 1975, 105.

 

(46)

In tal caso infatti si avrebbe "occultamento" e non "dissimulazione". In tal senso cfr.: Cass., 29 giugno 1983, in "Cass.pen.", 1984, 2058.

In contrario, nel senso che invece il termine "occultamento" si riferisce ad ogni forma di nascondimento attuato con mezzi materiali o giuridici: Conti, Diritto penale, op.cit., p.158; Pajardi, Manuale, op.cit., p.863-864. Cass., 15 aprile 1969, in "Dir.fall.", 1970, II, 379.

 

(47)

Antolisei, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, Milano, 1987, p.57-58;

Nuvolone, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Milano, 1955, p.212;

La Monica, I reati fallimentari, Milano, 1972, p.239;

Mangano, Disciplina penale del fallimento, Milano, 1987, p.41.

Cass., 13 marzo 1974, in "Cass.pen.Mass.", 1975, 959.

 

(48)

Punzo, Il delitto di bancarotta, Torino, 1953, p.103 e s.;

Pajardi, Manuale, op.cit., p.865.

 

(49)

Antolisei, Manuale, op.cit., p.61 e s.;

Nuvolone, Il diritto penale, op.cit., p.63 e s..

 

(50)
Cass., 15 maggio 1987, in "Riv.pen.", 1988, 87;

Cass., 6 febbraio 1984 in "Riv.pen.", 1985, 145;

Cass., 25 maggio 1983, in "Riv.pen.", 1984, 218;

 

(51)

Cass., 24 aprile 1987, in "Riv.pen.", 1988, 200;

Cass., 13 marzo 1980 in "Riv.pen.", 1980, 888;

Cass., 23 ottobre 1978, in "Giust.pen.", 1979, II, 356.

 

(52)

Cass., 27 novembre 1985, in "Fall.", 1986, 913;

Cass., 10 settembre 1985, in "Fall.", 1986, 337.

 

(53)

Cass., 25 febbraio 1977, in "Giust.pen.", 1978, 11.

 

 

(54)

Cass., 22 gennaio 1992, in "Riv.pen.econ.", 1992, 572.

Contra: Cass., 18 febbraio 1992, in "Riv.pen.econ.", 1992, 575; Cass., 8 ottobre 1991, in "Giust.pen.", 1992, II, 287.

 

(55)

Cass., 27 febbraio 1992, in "Riv.pen.econ.", 1992, 585;

Cass., 26 aprile 1984, in "Riv.pen.", 1985, 145;

Cass., 16 novembre 1982 in "Giust.pen.", 1983, II, 428;

Cass., 12 maggio 1980, in "Giust.pen.", 1981, II, 295;

Cass., 25 febbraio 1977, cit;..

 

 

(56)

Pagliaro, Il delitto di bancarotta, Palermo, 1957, p.61;

Romano, Società di persone e oggetto materiale della bancarotta del socio illimitatamente responsabile, in Studi in onore di Biondi, III, Milano, 1965, p.363 e s..

Contra: Conti, Diritto penale, op.cit., p.258 e s.; Giuliani-Balestrino, La bancarotta e gli altri reati concorsuali, Milano, 1991, p.258; La Monica, I reati, op.cit., p.421 e s..

Cass., 18 settembre 1970, in "Cass.pen.Mass.", 1971, 2712; Cass., 18 febbraio 1968, in "Giust.pen.", 1968, I, 694.

Nel senso che dovrebbe aversi riguardo soltanto ai fatti commessi sul patrimonio della società: Punzo, La bancarotta impropria e gli altri reati previsti dalla legge fallimentare, Padova, 1957, p.15; Antonioni, La bancarotta semplice, Napoli, 1962, p.56.

 

(57)

Cuzzeri, Del fallimento, in "Il codice di commercio italiano commentato, Verona, 1883, p.690;

Carrara, Programma di diritto criminale, vol.II, Firenze, 1912, p.1417.

 

(58)

Bolaffio, Bancarotta e piccoli fallimenti, in "Temi veneta", 1895, p.91.

 

(59)

Bonelli, Del fallimento, vol.I, Milano, 1923, p.387;

Azzolina, Il fallimento, op.cit.;

Punzo, Postilla in tema di successione di leggi in relazione ai delitti di bancarotta, in "Giur.pen.", 1953, II, 301;

Conti, Diritto penale, op.cit.;

Conti, Opposizione a sentenza dichiarativa di fallimento, in "Giur.it.", 1952, II, 61;

Conti, Sulla natura pregiudiziale della sentenza dichiarativa di fallimento e sospensione del procedimento penale per bancarotta, in "Giur.it.", 1953, II, 251;

Allegra, La dichiarazione di fallimento nella struttura del reato di bancarotta, in "Giur.cass.pen.", 1950, 158;

Carnelutti, Interpretazione evolutiva in tema di rapporto tra il processo civile di fallimento e il processo penale di bancarotta, in "Riv.proc.pen.", 1960, II, 118.

Cass., 9 novembre 1953, in "Giur.cass.pen.", 1953, VI, 367;

Cass., 27 ottobre 1952, in Giur.cass.pen.", 1952, III, 679;

Cass., 31 maggio 1952, in Giur.cass.pen.", 1952, II, 463;

Cass., 18 gennaio 1967, in "Giust.pen.", 1968, II, 686;

Cass., 12 aprile 1967, in "Cass.pen.Mass.", 1968, 206;

Cass., 5 luglio 1967, in "Cass.pen.Mass.", 1968, 653;

Cass., 26 gennaio 1968, in "Cass.pen.Mass.", 1969, 39;

Cass., 8 marzo 1968, in "Cass.pen.Mass.", 1969, 994;

Cass., 18 marzo 1968, in "Arch.pen.", 1969, II, 277;

Cass., 30 gennaio 1969,  in "Giust.pen.", 1969, II, 1098;

Cass., 25 marzo 1971, in "Giust.pen.", 1972, II, 184;

Cass., 15 febbraio 1974, in "Riv.pen.", 1974, 1102;

Cass., 16 maggio 1975, in "Cass.pen.Mass.", 1976, 577.

 

 

(60)

Antolisei, Manuale, op.cit., p.240;

Conti, Diritto penale, op.cit., p.467;

Pajardi, Manuale, op.cit., p.834 e s..

Cass., 28 febbraio 1992, in "Riv.pen.econ.", 1992, 589;

Cas., 12 maggio 1989, in "Riv.pen.", 1990, 551;

Cass., 18 aprile 1988, in "Giust.pen.", 1989, II, 340;

Cass., 12 giugno 1984, in "Riv.pen.", 1985, 216;

Cass., 21 agosto 1984 in "Riv.pen.", 1985,533;

Cass., 28 maggio 1982, in "Cass.pen.Mass.", 1983, 2097.

 

 

(61)

Cass.Sez.Un., 29 novembre 1958, in "Riv.it.dir.proc.pen.", 1959, 624;

Cass., 30 settembre 1982, in "Giust.pen.", 1984, 695;

Corte cost., 16 luglio 1970, n.141, in "Giur.cost.", 1970, 569.

 

(62)

Cass., 12 maggio 1982, in "Giust.pen.", 1983, III, 371.

 

(63)

Giuliani, La bancarotta e gli altri reati concorsuali, Milano, 1974, p.80 e s.;
La Monica, I reati, op.cit., p.155 e s.;

Allegri, La dichiarazione di fallimento come condizione obiettiva di punibilità dei reati di bancarotta fallimentare, in "Fall.", 1982, p.481 e s..

Tribunale di Novara, 13 gennaio 1978, in "Foro it.", 1978, II, 380;

Tribunale di Milano, 2 aprile 1974, in "Mon.trib.", 1975, 155.

 

(64)

Cass., 1 dicembre 1990, n.1167, in "Giust.pen.", 1991, III, 503, 131.

 

(65)

Tribunale di Pordenone, 19 luglio 1991, in "Giur.merito", 1992, 1261.

 

(66)

Conti, Relazione in Atti del Convegno SISCO di Treviso del 13 aprile 1991.

Cass., 4 maggio 1993, in "Cass.pen.", 1619.

 

(67)

Manci, La bancarotta e il nuovo codice di commercio, in "Scuola pos.", 1927, p.206;

Taraschi, La bancarotta, Napoli, 1929, p.47;

Massari, Le condizioni di punibilità, in "Riv.it.dir.pen.", 1929, II, 494;

De Gennaro, La bancarotta, Napoli, 1930, p.164;

Visco, Il carattere pregiudiziale della sentenza dichiarativa di fallimento nel procedimento per bancarotta fraudolenta, in "Riv.it.dir.pen.", 1937, p.403.

 

 

(68)

Battaglini, Diritto penale. Parte generale, Padova, 1949, p.291;

Lordi, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Napoli, 1958, p.162;

Noto-Sardegna, I reati in materia di fallimento, Palermo, 1945, p.162;

Pannain, Manuale di diritto penale, vol.I, Torino, 1950, p.355;

Grispigni, La bancarotta e la legge in preparazione sul fallimento, in "Riv.dir.comm.", Padova, 1941, p.135 e s.

Antolisei, Manuale, op.cit., p.30 e s.;
Nuvolone, Il diritto penale, op.cit., p.9 e s.;

De Semo, Diritto fallimentare, Padova, 1967, p.583;

Conti, Diritto penale, op.cit., p.105;

Conti, I reati fallimentari, Torino, 1955, p.86;

Pajardi, Manuale, op.cit., p.863.

Tribunale di Trieste, 15 maggio 1954, in "Arch.pen.", 1956, II, 20;

Tribunale di Bologna, 27 novembre 1954, in "Giur.it.", 1955, II, 89.

Tribunale di Bergamo, 13 maggio 1955, in "Rep.Giur.it.", 1955, 336, n.27;

Tribunale di Benevento, 2 aprile 1962, in "Giur.it.", 1962, II, 225;

Tribunale di Firenze, 12 dicembre 1967, in "Giur.it.", 1968, II, 364;

Tribunale di Roma, 19 settembre 1969, in "Arch.pen.", 1970, II, p.382;

Tribunale di Milano, 26 novembre 1973, in "Rep.Giur.it.", 1974, 320, n.8;

Tribunale di Roma, 14 ottobre 1980, in "Giur.di merito", 1981, 1345.

 

 

(69)

Cass., 19 ottobre 1992, in "Cass.pen.Mass.", 1993, fasc.3, 51;

Cass., 7 luglio 1992, in "Cass.pen.Mass.", 1992, fasc.12, 120;

Cass., 15 gennaio 1990, in "Mass.UDA Cass.pen.", 183026;

Cass., 15 febbraio 1989, in "Mass.UDA Cass.pen.", 180525;

Cass., 9 novembre 1981, in "Giust.pen.", 1983, 430;

Cass., 6 ottobre 1979, in "Foro it.", 1980, II, 6;

Cass., 26 dicembre 1977, in "Giust.pen.", 1978, II, 426.

Tribunale di Sulmona, 7 maggio 1991, in "Giur.merito", 1992, 663.

Alla tesi, pur in fattispecie concernente la sola bancarotta semplice, ha aderito anche la Corte costituzionale: Corte cost., 27 luglio 1982, n.146, in "Giur.cost.", 1982, I, 1277.

 

(70)

Cass., 7 luglio 1992, cit.;

Cass., 2 luglio 1991, in "Cass.pen.", 1992, 2821;

Cass., 25 dicembre 1988, in "Giust.pen.", 1990, II, 279.

Cass., 12 maggio 1986, in "Giur.fall.", 1986, 52;

Cass., 27 aprile 1981, in "Giur.fall.", 1981, 149;

Cass.,Sez.Un., 25 gennaio 1958, in "Giust.pen.", 1958, II, 513.

 

(71)

Cass., 4 marzo 1952, in "Riv.pen.", 1952, II, 686.

 

(72)

Cass., 15 marzo 1950, in "Giust.pen.", 1950, III, 400.

 

(73)

Cass., 29 gennaio 1957, in "Giust.pen.", 1957, II, 290.

 

(74)

Cass.,Sez.Un., 3o maggio 1953, in "Giur.it.", 1954, II, 73.

 

(75)

Cass., 28 dicembre 1954, in "Riv.pen.", 1955, II, 760.

 

(76)

Cass., 28 gennaio 1976, in "Riv.pen.", 1976, 978;

Cass., 29 ottobre 1975, in "Giust.pen.", 1976, II, 503;

Cass., 10 aprile 1974, in "Giust.pen.", 1975, II, 152;

Cass., 6 aprile 1973, in "Giust.pen.", 1974, II, 433;

Cass., 21 febbraio 1972, in "Giust.pen.", 1973, II, 106;

Cass., 6 febbraio 1969, in Giust.pen.", 1969, II, 1098;

Cass., 13 dicembre 1968, in "Giust.pen.", 1969, II, 427;

Cass., 22 novembre 1968, in "Cass.pen.Mass.", 1970, 192;

Cass., 19 giugno 1968, in "Cass.pen.Mass.", 1969, 990;

Cass., 8 maggio 1968, in "Cass.pen.Mass.", 1969, 995.

 

 

(77)

Corte cost., 27 giugno 1972, n.110, in "Foro it.", 1972, I, 1902;

Cass., 26 giugno 1990, in "Riv.it.", 1992, 1142.

Pajardi, Manuale, op.cit., p.837-838;

Lanzi, Le responsabilità penali nelle procedure concorsuali: legislazione attuale e prospettive di riforma, in "Riv.it.", 1987, p.495.

 

 

(78)

Nuvolone, Il diritto penale, op.cit., p.481;

Vannini, Il problema giuridico del tentativo, Milano, 1952, p.162;

Provinciali, Trattato, op.cit., p.2622;

Scalera, Teoria, op.cit.;

Pagliaro, Il delitto, op.cit., p.150.

Cass., 12 settembre 1967, in "Giust.pen.", 1968, II, 190;

Appello Firenze, 26 agosto 1971, in "Rep.Giur.it.", 1972, 336, n.63.

 

(79)

Pajardi, Manuale, op.cit., p.85.

 

(80)

Alimena, Le condizioni di punibilità, Milano, 1938, p.72 e s.;

Antolisei, Manuale, op.cit., p.158;

Conti, Diritto penale, op.cit., p.300 e s.;

Pagliaro, Il delitto, op.cit., p.150;

Punzo, Il delitto, op.cit., p.277;

Pajardi, Manuale, op.cit., p.851;

Giuliani-Balestrino, La bancarotta, op.cit., p.741.

 

(81)

Ferrara, Società etichetta e società operante, in "Riv.dir.civ.", 1956, p.650.

 

(82)

Cass., 13 aprile 1964, in "Foro it.", 1964, I, 1158;

Cass., 3 aprile 1959, in "Foro it.", 1959, 1158;

Cass., 23 settembre 1958, in "Foro it.", 1959, I, 1143;

Tribunale di Roma, 10 aprile 1964, in "Foro it.", 1964, II, 274.

 

(83)

Ferrara, Il fallimento, Milano, 1995, p.710.

 

 

(84)

Cass., 10 agosto 1990, n.8154, in "Giur.it.", 191, I, 1, 591;

Cass., Sez.Un., 19  novembre 1981, n.6151, in "Foro it.", 1982, I, 2897.

 

(85)

Ferrara, Il fallimento, op.cit., p.711.

Tribunale di Roma, 6 maggio 1961, in "Dir.fall.", 1962, II, 418.

 

(86)

Cass., 1 febbraio 1994, in "Cass.pen.", 1994, 1621;

Cass., 17 gennaio 1978, in "Giust.pen.", 1978, II, 359;

Cass., 21 febbraio 1972, in "Foro it.", 1973, II, 7.

In mancanza di dichiarazione di fallimento del socio illimitatamente responsabile della società fallita, la responsabilità penale per bancarotta potrà delinearsi soltanto ai sensi dell'art.223 L.F., concernente i reati commessi da persone diverse dal fallito, nel caso in cui il socio abbia agito in veste di amministratore della società fallita: Cass., 11 ottobre 1994, n.12496, in "Guida al diritto. Il Sole 24Ore", 1995, n.10, 71.

 

(87)

Vedasi dottrina e giurisprudenza citata alla precedente nota 28.

 

(88)

Ai fini del delitto non è necessario l'effettivo conseguimento dello scopo criminale, né rileva che il mezzo materiale o giuridico utilizzato per il compimento dell'azione delittuosa si sia  rivelato davvero utile al conseguimento della finalità antigiuridica: Cass., 19 aprile 1988, in "Giust.pen.", 1989, II, 397.