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Il fallimento e le altre
procedure concorsuali, 1996, n.1, 79, Editore
Ipsoa, Milano __________________________________________________________________ LA
BANCAROTTA DEI SOCI ILLIMITATAMENTE RESPONSABILI Trasformazione di
società di persone e costituzione simulata di società di capitali in frode ai
creditori. Fallimento e bancarotta dei soci illimitatamente responsabili. Sommario: 1)
La trasformazione di società di persone in società di capitali. 2)
La liberazione dei soci illimitatamente responsabili della società dalla
responsabilità per le obbligazioni assunte prima della trasformazione. 3)
La relazione di stima del patrimonio sociale. 4)
Cessione dell'azienda sociale a società di capitali costituita dagli
stessi soci della società di persone
cessata. Il fallimento della società in liquidazione. 5)
Il fallimento della società trasformata e dei soci illimitatamente
responsabili. 6)
Considerazioni conclusive ordine alla
responsabilità dei soci illimitatamente responsabili. Note fiscali in tema di
trasformazione societaria e cessione d'azienda. 7)
La bancarotta dei soci illimitatamente responsabili. 8)
La dichiarazione di fallimento come condizione essenziale del reato di
bancarotta ed elemento pregiudiziale del procedimento penale. 9)
L'appartenenza del socio illimitatamente responsabile alla società fallita e
la dichiarazione del fallimento nei suoi confronti, quali elementi necessari
per la configurabilità del reato. 1) La trasformazione di società di persone in
società di capitali La
responsabilità solidale e illimitata dei soci per le obbligazioni sociali non
costituisce conseguenza necessaria dell'organizzazione della società su base personale,
dalla quale deriva soltanto l'impossibilità che sia esclusa o limitata la
responsabilità personale di tutti i soci. Perché
sussista la responsabilità personale e illimitata del socio, nella società
semplice occorre, ai sensi dell'art.2267 c.c., che esso abbia agito in nome e
per conto della società, salvo la sua responsabilità non risulti esclusa
mediante apposito patto portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei e
nella società in accomandita semplice è necessario invece , ai sensi degli articoli
2317 e seguenti del codice civile, che il socio abbia assunto la qualità di
accomandatario o che abbia comunque compiuto atti di amministrazione,
trattando o concludendo affari in nome della società. Viceversa,
nella società in nome collettivo, la responsabilità personale e illimitata di
tutti i soci costituisce l'effetto naturale dell'adozione di tale tipo di
organizzazione sociale, il cui rigore appare esclusivamente temperato, a
condizione che la società sia stata regolarmente iscritta nel registro delle
imprese, dal beneficio della preventiva escussione del patrimonio sociale, in
base al quale il creditore può sottoporre ad esecuzione forzata il patrimonio
personale del socio, esclusivamente previo assolvimento dell'onere della
prova dell'insufficienza di quello della società. Come
sancito dall'art. 1 della legge fallimentare, le società che svolgono
attività commerciale sono soggette a fallimento che, ai sensi dell'art.147
L.F., si estende anche ai soci illimitatamente responsabili, i quali possono
perciò essere chiamati a rispondere, come prevede l'art.222 L.F., dei reati
di bancarotta stabiliti dalla normativa fallimentare per l'imprenditore
dichiarato fallito. Com'è
noto, nell'ambito dell'impresa esercitata in forma collettiva, la
responsabilità limitata per le obbligazioni sociali assunte e l'esclusione
dell'estensione del fallimento della società ai soci , salva comunque
l'applicabilità delle disposizioni penali
per i reati di bancarotta a carico degli amministratori, direttori
generali, sindaci e liquidatori in forza dell'art.223 L.F., può ottenersi
mediante ricorso all'organizzazione dell'attività d'impresa nella forma di
società di capitali. Quando
è già in essere l'attività sociale condotta in forma collettiva secondo lo
schema tipico della società a base personale, il passaggio ad altro tipo di organizzazione implicante
le responsabilità limitata dei soci secondo il modello delle società di
capitali può conseguirsi, ai sensi dell'art.2498 c.c., mediante
trasformazione (1) Tale
disposizione consente infatti il cambiamento del tipo legale di società (2),
senza che la trasformazione determini l'estinzione dell'ente collettivo
originario e la costituzione di una nuova diversa società. Comportando
una modificazione dell'atto costitutivo, la trasformazione della società a
base personale in società di capitali dev'essere deliberata all'unanimità ai
sensi dell'art.2252 c.c. con atto pubblico ad substantiam (3), omologata,
iscritta e pubblicata nel BUSARL (4). Ciò
che, in tal caso, si verifica è soltanto
il mutamento formale di un'organizzazione societaria già esistente senza la
costituzione di altro e distinto ente, di tal che la società trasformata
quando anche consegua la personalità giuridica di cui era sprovvista, non si
estingue per rinascere sotto altra forma, né sorge un nuovo centro di
imputazione di rapporti giuridici, sopravvivendo invece alla vicenda
modificativa, senza soluzione di continuità e senza perdere la sua identità
soggettiva, con la conseguenza che tutto il patrimonio della società
trasformata dev'essere considerato di proprietà della medesima società, pur
nella sua nuova veste e denominazione (5). Continuano
pertanto in capo alla società derivante dalla trasformazione i rapporti
processuali sorti con l'ente originario (6) ed i rapporti di lavoro in atto (7). La
sostanziale continuità dell'identico soggetto collettivo, pur sotto diversa
forma giuridica, implica anche a livello amministrativo e tributario il
permanere, nei rispetti dell'ente trasformato, degli obblighi e dei diritti
facenti capo al soggetto originario (8). Ai
sensi dell'art. 2498 terzo comma c.c., permangono altresì a carico dell'ente
succeduto i rapporti debitori contratti prima della trasformazione (9). 2) La liberazione dei soci illimitatamente
responsabili della società dalla responsabilità per le obbligazioni assunte
prima della trasformazione Stabilisce,
infine, il successivo art.2499 c.c. che la trasformazione non libera i soci a
responsabilità illimitata dalla responsabilità per le obbligazioni sociali assunte
anteriormente all'iscrizione della deliberazione di trasformazione nel
registro delle imprese, se non risulta che i creditori sociali hanno
acconsentito alla trasformazione medesima, dovendo presumersi il loro
consenso allorquando non abbiano proposto opposizione nel termine di trenta
giorni dalla comunicazione, mediante raccomandata, della delibera di
trasformazione (10). La
norma, che intende garantire la massima salvaguardia delle posizioni
creditorie le quali potrebbero subire il pregiudizio del venir meno della
responsabilità illimitata del socio a seguito della trasformazione, comporta
un obbligo supplementare di pubblicità della vicenda trasformativa, essendosi
evidentemente reso conto il legislatore della insufficienza della iscizione
della delibera di trasformazione nel registro delle imprese a garantire
adeguatamente l'interesse dei creditori. La
portata applicativa della disposizione, ritenuta essenziale per qualsivoglia
mutamento della configurazione giuridica e dell'assetto della società che
consenta la liberazione del socio illimitatamente responsabile con possibile
pregiudizio degli interessi dei creditori, i quali al momento in cui è stata
contratta l'obbligazione potrebbero aver fatto legittimo affidamento sulla
responsabilità illimitata dei debitori, è stata estesa, con un recentissimo
intervento della Corte costituzionale, anche all'ipotesi di fusione (11). L'art.2503
c.c., nel testo modificato dall'art.10 del D.lgs. 16 gennaio 1991 n.22 di
attuazione delle direttive CEE 78/855 e 82/891 in materia di fusioni e
scissioni societarie, prevedeva che i creditori potessero opporsi alla
fusione entro due mesi dall'iscrizione della delibera nel registro delle
imprese o dalla sua pubbligazione nella Gazzetta Ufficiale, salva la facoltà
per il Tribunale di dare efficacia egualmente alla fusione ove, nonostante
l'opposizione dei creditori, fosse stata prestata idonea garanzia da parte
della società. Poteva
allora verificarsi, come non di rado è in effetti accaduto, che una società
di persone con un consistente passivo venisse incorporata, magari dopo lo
spostamento della sua sede nella circoscrizione di un distante Tribunale, da
una società a responsabilità limitata con capitale irrisorio, senza che i
creditori della prima potessero rendersi conto dell'evento loro
pregiudizievole in tempo utile per la proposizione dell'opposizione. Al
riguardo, la giurisprudenza di merito, se da un lato escludeva che mediante la fusione potesse conseguirsi la
liberazione dei soci illimitatamente responsabili per le obbligazioni
contratte anteriormente sulla base di un consenso dei creditori meramente
presunto, in analogia al disposto di cui all'art.2499 c.c., dall'altro
riteneva altresì inammissibile l'applicazione analogica di tale norma onde
poter considerare normativamente imposta, anche in caso di fusione, la
comunicazione personale ai creditori della relativa delibera, implicante
esplicita richiesta individualizzata del consenso di ciascuno di essi e
determinante un'effettiva loro conoscenza
dell'atto di fusione (12) Ritenuta
essenziale la più ampia garanzia dettata dall'art.2499 c.c., ove gli effetti
pregiudizievoli della trasformazione si prosucono solo con il decorso del
termine di trenta giorni dal ricevimento della raccomandata con cui è
comunicata la delibera di trasformazione senza che sia proposta opposizione,
in luogo di quella stabilita dal suddetto art.2503 c.c., ove gli effetti
eventualmente pregiudizievoli della fusione si producono in capo ai
creditori direttamente a seguito
della scadenza del termine di due mesi dall'iscrizione della delibera di
fusione nel registro delle imprese anche se i creditori non ne sono venuti
effettivamente a conoscenza, la disposizione è stata dichiarata
incostituzionale nella parte in cui non prevede che la liberazione dei soci
illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali assunte
anteriormente alla fusione consegua esclusivamente al consenso espresso o
presunto nei modi e nel termine di cui all'art.2499 c.c. dei creditori della
società di persone partecipante alla fusione. Con
ciò la disposizione contenuta nell'art.2499 c.c. va a costituire quindi
uniforme ed essenziale disciplina, a tutela degli interessi dei creditori, di
ogni mutamento del tipo di organizzazione sociale e di configurazione
giuridica societaria. 3) La relazione di stima del patrimonio
sociale Elemento
essenziale del negozio di trasformazione è la relazione di stima del
patrimonio sociale, compiuta dall'esperto nominato dal presidente del Tribunale
ai sensi dell'art.2343 del codice civile (13). La
stima, necessaria anche se il patrimonio sociale sia costituito
esclusivamente in denaro (14), concerne la determinazione del netto
patrimoniale da considerare come capitale della nuova società e deve perciò
includere e valutare sia le poste attive che quelle passive, detraendo le
seconde dall'ammontare delle prime, affinché il patrimonio sociale presente
al momento iniziale della vita della società derivante dalla trasformazione,
inteso come plusvalenza attiva, non sia inferiore di oltre un quinto rispetto
alla misura indicata come capitale sociale nominale. Da
una parte, si sostiene che la relazione di stima consista nella valutazione
della consistenza patrimoniale della società, dalla quale risulti che il
patrimonio sociale non è inferiore al capitale sociale che alla società, a
seguito della trasformazione, viene attribuito (15), mentre da altri si
ritiene necessaria una valutazione descrittiva, e non complessiva e globale,
dell'intero patrimonio, sia in ragione di quanto sancito dall'art.2343 c.c.,
richiamato dall'art.2498 secondo comma c.c., sia in considerazione del fatto
che la relazione serve a preparare la futura attività sociale ed a costituire
la base per le integrazioni di legge e per le conversioni dei conferimenti,
nonché per l'emissione eventuale delle azioni se trattasi di società
azionarie (16); da altri ancora si assume che sia l'oggetto della relazione,
concernente tutto il patrimonio dell'ente trasformato, sia la sua funzione,
diretta ad impedire l'attribuzione al patrimonio netto di un valore superiore
rispetto al capitale della società derivante dalla trasformazione, inducono a
ritenere che la stima giurata debba descrivere e valutare i beni costituenti
il patrimonio sociale in modo analitico e dettagliato (17). La
giurisprudenza, al riguardo, ha precisato che il patrimonio della società, se
in fase di costituzione è formato, almeno normalmente, dai soli beni che
costituiscono l'oggetto dei singoli conferimenti, nell'ipotesi di trasformazione
esso risulta invece da una serie di elementi attivi e passivi, di tal che la
stima deve concernere la determinazione del netto patrimoniale da considerare
come capitale della nuova società e, pertanto, al fine di ricavare il
patrimonio netto, deve ricomprendere e valutare sia i rapporti attivi che
quelli passivi, detraendo questi ultimi dall'ammontare dei primi, senza
limitarsi ad indicare il semplice valore dei beni conferiti in società (18). Ai
sensi del terzo comma dell'art.2343, richiamato dall'art.2498 comma secondo
c.c., gli amministratori e i sindaci debbono effettuare il controllo delle
valutazioni contenute nella stima, affinché sia disposta la riduzione del
capitale nel caso in cui il valore dei beni e crediti conferiti risulti
inferiore di oltre un quinto. In
difetto della stima prescritta, la deliberazione di trasformazione è
illegittima e non può essere efettuata perciò l'iscrizione nel registro delle
imprese (19), il che esclude che il nuovo ente possa sorgere ed assumere gli
obblighi della società originaria (20). La
relazione di stima costituisce pertanto elemento essenziale del negozio di
trasformazione, quale vera e propria condictio
sine qua non per l'efficacia e la validità del cambiamento del tipo
sociale. L'art.2629
n.4 c.c. punisce, con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da
lire quattrocentomila a quattromilioni, gli amministratori che, agli effetti
della relazione di stima, esagerano fraudolentemente il valore del patrimonio
della società di persone da trasformare in società di capitali. Ad
integrare l'elemento soggettivo del reato è sufficiente il dolo generico
costituito dall'intenzione fraudolenta che accompagna la coscienza della
supervalutazione (21). 4) Cessione dell'azienda a società di
capitali costituita dagli stessi soci della società di persone cessata. Il
fallimento della società in liquidazione. Allorquando
il patrimonio sociale non sia sufficiente a costituire il netto patrimoniale
da considerare come capitale della nuova società, non è pertanto possibile
ricorrere all'istituto della trasformazione. Al
fine di conseguire un risultato pressoché analogo è allora frequente il
ricorso alla costituzione di nuova società di capitali identica, per oggetto
e denominazione, a quella di persone, accompagnata dalla cessione alla prima
dell'azienda della seconda e dalla contestuale messa in liquidazione della
società a base personale Tale
sistema, da una parte, consente la continuazione della medesima attività
svolta dalla società di persone sotto il più favorevole regime della
responsabilità limitata per le obbligazioni sociali a carico dei soci e,
dall'altra, implica l'accollo automatico dei debiti a carico della società
cessionaria (infra, p.18, n.80). E'
noto invero che, ai sensi dell'art.2560 c.c., in mancanza di consenso da
parte dei creditori, tale accollo non determina la liberazione dell'alienante
dalla responsabilità per le obbligazioni assunte, che va ad aggiungersi a
quella dell'acquirente, producendo così soltanto un ampliamento della
garanzia dei creditori. Né il
fallimento della società cedente posta in liquidazione subito dopo la
cessione potrebbe essere escluso in ragione della desunta cessazione
dell'esercizio effettivo della propria attività commerciale e del decorso del termine stabilito dall'art.10
L.F. (22). Laddove
se ne ammette la rilevanza anche in ambito societario (23), è infatti
opinione decisamente prevalente che il termine di cui all'art. 10 L.F.
decorra non dalla cessazione dell'attività d'impresa esercitata in forma
collettiva, ma dalla effettiva chiusura della fase liquidatoria necessaria
all'estinzione(24). Ciò
naturalmente sempreché si sostenga che la fase di liquidazione possa
ritenersi conclusa con il procedimento formale di estinzione e cancellazione
della società, a prescindere dalla eventuale sussistenza di altri debiti
residui (25) , dato che soltanto in questo caso tale disposizione potrebbe
avere un senso logico ed una reale portata applicativa in quanto, ove si
assuma invece che, malgrado la cancellazione, la società resta giuridicamente in vita sino alla definizione
dell'ultimo rapporto obbligatorio (26), l'assoggettabilità a fallimento
sarebbe sempre possibile, mentre la soddisfazione dell'ultimo credito, da una
parte determinerebbe l'effettiva estinzione della società, e dall'altra
renderebbe del tutto superflua la disposizione dell'art.10 L.F., non
essendovi più obbligazioni inadempiute che potrebbero causare la
dichiarazione di fallimento. Di
recente la S.C. ha ribadito l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale
dell'art.147 L.F. in relazione all'art.3 Cost., precisando che la diversità
della disciplina applicabile nell'ipotesi di impresa individuale e di
società, per quanto riguarda la rilevanza della decorrenza del termine di cui
all'art.10 L.F., appare giustificata dalla diversità giuridica o di fatto
delle due situazioni comparate, altro essendo l'impresa individuale, legata
all'esistenza in vita ed all'attività dell'imprenditore persona fisica, altro
essendo invece l'impresa collettiva, la cui estinzione effettiva
giuridicamente rilevante dipende esclusivamente dalla risoluzione dell'intero
complesso dei rapporti intersoggettivi che ne sono alla base (27). 5) Il fallimento della società trasformata e
dei soci illimitatamente responsabili Del pari,
in ipotesi di trasformazione di società di persone in società di capitali,
dato che ciò non determina la nascita di un nuovo ente in luogo di altro che
si estingue, i soci illimitatamente responsabili della società trasformata
sono dichiarati falliti a seguito del fallimento dell'ente dotato di
personalità giuridica derivante dalla trasformazione, sempreché non vi sia
stata liberazione da parte dei creditori sociali ai sensi dell'art.2499 c.c.
e lo stato di insolvenza risalga ad un momento anteriore alla trasformazione
stessa (28). Pur
non essendo incontroversa la questione, dato che da alcuni si nega
l'estensibilità del fallimento della società derivante dalla trasformazione
alla società trasformata (29) mentre da altri la si ammette nel solo caso in
cui, in difetto di consenso dei creditori alla trasformazione, lo stato
d'insolvenza concerna il periodo precedente all'iscrizione della
trasformazione nel registro delle imprese e non sia decorso un anno da essa
(30), così come anche una parte della stessa giurisprudenza esclude tale
estensibilità ritenendo norma di carattere eccezionale l'art.147 L.F. (31) ed
ammette la sola possibilità di assoggettare i soci illimitatamente
responsabili ad esecuzione forzata ai sensi dell'art.2304 c.c. nel caso in
cui mediante la procedura concorsuale non sia stato possibile soddisfare i
creditori sociali (32), l'orientamento che sostiene l'estensibilità del
fallimento ai soci della società trasformata appare dominante. E'
stata anzi di recente affermata l'estrema tesi secondo la quale non avrebbe
rilievo il fatto che l'esistenza di obbligazioni anteriori alla
trasformazione non integri uno stato d'insolvenza esistente a tale momento,
dovendo essa sussistere all'epoca della dichiarazione di fallimento e non già
al tempo dei debiti insoluti più remoti; sarebbe allora sufficiente, ai fini
dell'estensione del fallimento della società trasformata ai soci
illimitatamente responsabili, la sussistenza di obbligazioni sorte
antecedentemente alla trasformazione e rimaste inadempiute, anche in difetto
di qualsiasi efficienza causale tra l'inadempimento di dette obbligazioni e
l'insorgere dello stato d'insolvenza della società derivante dalla
trasformazione (33). Secondo
quest'orientamento, pertanto, il fallimento dei soci illimitatamente
responsabili sarebbe automatica conseguenza del fallimento della società
trasformata, senza che rilevi ogni tipo di indagine volta da individuare una
relazione tra il dissesto finanziario finale della società derivata dalla
trasformazione e le obbligazioni preesistenti rimaste inadempiute, anche nel
caso in cui queste ultime risultassero di modestissima entità ed a
prescindere dal loro numero, sia pure nell'ipotesi in cui si trattasse di un
unico ed esiguo debito Al
riguardo, si è perciò sostenuto che, in ipotesi di fallimento di società di
persone trasformata in società di capitali, si avrebbe un unico fallimento
con due masse attive, rispettivamente concernenti il patrimonio di ciascun
socio illimitatamente responsabile e quello proprio della società fallita,
argomentandosi di conseguenza che sulla prima massa concorrerebbero solo i
titolari dei crediti sorti prima della trasformazione e sulla seconda
concorrerebbero invece tutti gli altri creditori successivi (34). 6) Considerazioni conclusive ordine alla
responsabilità dei soci illimitatamente responsabili. Note fiscali in tema di
trasformazione societaria e cessione d'azienda Così
stando le cose, è evidente che né in ipotesi di cessione d'azienda alla
neocostituita società di capitali, con contestuale messa in liquidazione
della originaria società di persone cedente, tantomeno in caso di
trasformazione da società personale in società di capitali può conseguirsi il
risultato di escludere la responsabilità illimitata dei soci per i debiti già assunti nel corso
dell'attività svolta in forma collettiva organizzata a base personalistica. Nel
primo caso, la società di persone, pur in stato di liquidazione, potrebbe
sempre esser dichiarata fallita per
lo stato d'insolvenza concernente obbligazioni assunte prima della cessione,
mentre nel secondo opererebbe il suddetto principio di estensibilità del
fallimento alla società trasformata ed ai soci illimitatamente responsabili. Né
l'assoggettamento alla procedura concorsuale potrebbe essere escluso per
l'eventuale decorso del termine di cui all'art.10 L.F. dalla trasformazione,
dato che quest'ultima, come si è rilevato, non produce il sorgere di un nuovo
ente collettivo in luogo di altro che si estingue e non determina pertanto
alcuna cessazione di attività che possa rilevare ai fini della citata
disposizione (35) Nemmeno
la dichiarazione di fallimento potrebbe esser esclusa, nei rispetti dei soci
eventualmente receduti o esclusi, per l'eventuale decorso dell'anno dallo
scioglimento del vincolo sociale, in applicazione della suindicata
disposizione, dovendo ritenersi consentita l'assoggettabilità a fallimento
del socio illimitatamente responsabile alle sole condizioni che l'insolvenza
della società sia riferibile ad obbligazioni sorte nel periodo in cui era in vita
il rapporto sociale, a prescindere dalla scadenza del suddetto termine (36),
rilevante esclusivamente in ipotesi di imprenditore individuale (37), nonché
dalla circostanza che detto stato d'insolvenza sia sia manifestato
successivamente alla fuoriuscita del socio dalla società (38). Tuttavia,
se deve escludersi che le suddette operazioni di trasformazione societaria o
di cessione d'azienda ad altro ente dotato di personalità giuridica
appositamente costituito possano consentire il venir meno della responsabilità
dei soci illimitatamente responsabili per le obbligazioni già assunte, esse
consentono la continuazione della stessa attività commerciale da parte dei
medesimi soggetti a condizioni più vantaggiose, quanto meno per tutte quelle
obbligazioni che, pur originate da rapporti continuativi già in essere,
andrebbero a costituirsi in epoca successiva alla trasformazione od alla
cessione d'azienda nei soli rispetti della nuova società di capitali. Inoltre,
l'automatica assunzione dei rapporti in essere da parte del nuovo ente dotato
di personalità giuridica, connaturale alla struttura stessa dell'istituto
della trasformazione, ove infatti non vi è distinzione tra società
trasformata e società derivata dalla trasformazione, e normativamente sancito
dall'art.2558 c.c. in caso di cessione d'azienda, pur non determinando alcun
effetto liberatorio per gli originari contraenti delle obbligazioni non
soddisfatte, non pregiudicherebbe la possibilità di un'eventuale novazione di
queste ultime con la sostituzione, previo consenso dei creditori, del nuovo
ente debitore dotato di personalità giuridica a quello originario di essa
sprovvisto e la conseguente sua liberazione. Sul
piano fiscale, l'art.122 del D.P.R. 22 dicembre 1986 n.917, stabilisce in
particolare che la trasformazione non costituisce realizzo né distribuzione
delle plusvalenze o minusvalenze di beni e che il reddito compreso tra
l'inizio del periodo di imposta e la data in cui ha effetto la trasformazione
(39), si determina secondo le disposizioni applicabili prima della
trasformazione, sulla base delle risultanze del conto dei profitti e delle
perdite. Inoltre,
ai sensi dell'art.2 comma terzo, lettera f), del D.P.R. 26 ottobre 1972
n.633, il pasaggio dei beni a seguito della trasformazione è considerato cessione
e quindi assoggettato all'imposta sul valore aggiunto. La
trasformazione non costituisce invece atto imponibile ai fini INVIM, come
previsto dall'art.2 D.P.R. 26 ottobre 1972 n.634. Non
determinando la creazione di un nuovo e distinto soggetto giuridico, ma
risolvendosi invece la trasformazione soltanto in una modifica dell'atto
costitutivo della società, che non implica perciò alcun effettivo
trasferimento di beni, alla voltura catastale, ai sensi dell'art.10 secondo
comma del D.lgs. 31 ottobre 1990
n.347, si applica l'imposta in misura fissa e non quella proporzionale
concernente i normali atti di compravendita (40). Entro
quattro mesi dalla data in cui ha effetto la trasformazione, vi è infine obbligo,
ai sensi dell'art.113 comma primo del D.P.R. 29.09.1973 n.600, di presentare
apposita dichiarazione relativa alla frazione di esercizio compresa tra
l'inizio del periodo di imposta e la data di efficacia della trasformazione. Ai
sensi dell'art.54 comma quinto TUIR, la cessione d'azienda implica, com'è
noto, la tassazione della plusvalenza realizzata, da riferirsi non ai beni
considerati nella loro individualità, ma all'intero compendio aziendale
ceduto (41), comprese le merci, nonostante esse di solito generino ricavi, ai
sensi del precedente art.53, e non plusvlaenze (42). La
plusvalenza da assogettare a tassazione risulta dalla differenza tra il
valore di base fiscalmente accertato ai sensi dell'art.54 citato ed il valore
attuale dell'azienda (43). L'art.2
terzo comma lettera b) del D.P.R. 26 ottobre 1972 n.633 esclude poi il
negozio di cessione dal campo di applicazione dell'IVA, salvo si tratti di
alienazione non del compendio ma di singoli cespiti aziendali, restando
soggetto soltanto a registrazione in termine e misura fissi ai sensi degli
articoli 1,2 e 7 della prima parte della tariffa allegata al Testo Unico
delle disposizioni concernenti l'Imposta di Registro D.P.R. 26 aprile 1986
n.131. La
cessione determina poi l'insorgere della responsabilità solidale, sia pure
non oltre il biennio antecedente l'acquisto, per i debiti erariali contratti
dal cedente, come stabilito dagli articoli 66 e 80 del D.P.R. 29 settembre
1973 n.602 per le imposte dirette e dall'art.19 della legge 7 gennaio 1929
n.4, applicabile in forza del richiamo contenuto nell'art.75 del D.P.R. 26
ottobre 1972 n.633, per l'imposta sul valore aggiunto. 7) La bancarotta dei soci illimitatamente
responsabili Così
configurato, sotto il profile civilistico e fiscale, il quadro normativo di
riferimento delle fattispecie in discussione, dal lato penale, non può
escludersi che sia ravvisabile a carico dei soci della società a base
personale il reato di bancarotta fraudolenta, allorquando venga ad essi
esteso il fallimento della società di capitali che sia derivata dalla
trasformazione della società personale o che risulti cessionaria dell'azienda
della società di persone e costituita al solo scopo di sottrarre ai creditori
le loro legittime garanzie. Si
sostiene prevalentemente, infatti, che l'oggetto giuridico del reato previsto
dall'art.216 L.F. sia proprio quello del diritto alla garanzia che i
creditori hanno sul patrimonio del debitore (44) e concerna esattamente non
solo i loro diritti veri e propri, ma in genere anche tutti i loro interessi
patrimoniali (45). Tra
le condotte incriminate dalla norma vi è per l'appunto quella della
"dissimulazione" parziale o totale dei beni dell'impresa costituita
da ogni nascondimento del patrimonio realizzato non con mezzi materiali (46),
ma attraverso negozi giuridici simulati (47). Quanto
all'elemento psicologico, mente in dottrina per taluni è sufficiente il dolo
generico (48) e per altri è invece necessario il dolo specifico costituito
dalla presenza della finalità dell'agente di trarre profitto per sé o per
altri dai fatti commessi con pregiudizio dei creditori (49), la
giurisprudenza oscilla tra più soluzioni, in alcune delle quali si ritiene
sufficiente la sola consapevole volontà dell'agente di realizzare una o più
delle tipiche immutazioni patrimoniali previste (50), mentre in altre si
esige anche la consapevolezza del danno o della possibilità di esso per la
massa dei creditori (51) o dell'accettazione del risultato della condotta
criminosa da parte dell'agente (52), in altre ancora si giunge a richiedere
la consapevole finalizzazione dei fatti incriminati alla prevista insolvenza
e alla probabile conseguente dichiarazione di fallimento (53) ed in alcune
altre infine si ritiene di dover distinguere tra loro le ipotesi criminose di
esposizione o riconoscimento di passività inesistenti, per le quali si esige
la sussistenza del dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori, quelle
inoltre concernenti la tenuta delle scritture contabili di cui al comma
primo, n.2, dell'art.216 L.F. per le quali anche si esige il dolo specifico,
sia pure costituito non dall'intenzione di arrecare danno ai creditori ma di
impedire invece la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari
(54) e quelle di distrazione e occultamento di beni per le quali si ritiene
la sufficienza del dolo generico (55). Non
vi è pertanto dubbio che, provata la simulata costituzione della società di
capitali e la cessione ad essa del compendio aziendale della originaria
società personale posta in liquidazione, quali atti in frode ai creditori, il
sopravvenuto fallimento di quest'ultima in via diretta o mediante estensione
del fallimento dell'ente a responsabilità limitata, vi sono i presupposti per
dar spazio al reato di bancarotta fraudolenta, da ascrivere a carico dei soci
dell'ente originario in concorso con i soci di quello nuovo, se in tutto o in
parte diversi dai membri dell'altro. Ciò
in forza dell'art.221 L.F., che espressamente prevede l'applicabilità
dell'art.216 L.F. ai soci illimitatamente responsabili della fallita loro
società personale, includendoli nella stessa posizione in cui si trova il
fallito, quale imprenditore individuale, e non già considerandoli alla
stregua di soggetti diversi da quest'ultimo, cui possono egualmente
applicarsi le pene stabilite dall'art.216 citato, come prevede il successivo
art.223 L.F. per gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i
liquidatori delle società capitalistiche dichiarate fallite. Al
riguardo è stato, da una parte, sostenuto che, ai sensi dell'art.222 L.F., i
soci illimitatamente responsabili risponderebbero soltanto dei fatti commessi
sul proprio patrimonio personale e non su quello della società, dato che
detta norma avrebbe la funzione di evitare che tali soci, in quanto non
qualificabili come inprenditori individuali, possano sfuggire alla
responsabilità penale sancita dagli articoli 216 e 217 L.F. per i fatti
illeciti commessi dall'imprenditore commerciale sul proprio patrimonio. Dei
fatti compiuti sul patrimonio della società, secondo questa tesi, detti soci
potrebbero rispondere esclusivamente in base agli articoli 223, 224 e 232
L.F. ove abbiano agito in veste di amministratori o terzi (56). 8) La dichiarazione di fallimento come
condizione essenziale del reato di bancarotta ed elemento pregiudiziale del
procedimento penale In
ogni caso, presupposto essenziale per il ricorrere del reato di bancarotta a
carico dei soci illimitatamente responsabili è l'avvenuta dichiarazione di
fallimento della società personale e dei soci. Alla
validità della tesi che pone la sentenza dichiarativa di fallimento quale
elemento costitutivo del reato di bancarotta o comunque come condizione
indispensabile per l'esistenza stessa dell reato, non può essere di ostacolo
il fatto che l'art.238 secondo comma L.F. ammette l'esercizio dell'azione
penale a prescindere dalla sussistenza di un fallimento giudizialmente
dichiarato. Apparendo
evidente la responsabilità penale dall'avvenuta commissione dei fatti
costitutivi di bancarotta o da gravi indizi, ancor prima della sentenza dichiarativa
di fallimento, la norma citata consente, nei casi da essa tassativamente
previsti, che l'autorità giudiziaria inquirente promuova l'azione penale,
contestualmente richiedendo al Tribunale fallimentare, ove non sia già stata
proposta istanza da altri, la
pronuncia di fallimento. In
difetto di quest'ultima, nonostante la condotta criminale risulti già portata
a compimento, l'azione penale suddetta, esercitata in sede preliminare ed a
carattere istruttorio, in specie al fine di assicurare le fonti di prova e di
limitare le conseguenze del reato, non potrà esser più proseguita. Nel
sistema del previgente codice di commercio era generalmente esclusa la
pregiudizialità della sentenza dichiarativa di fallimento, sostenendosi la
piena ed assoluta autonomia dell'indagine penale rispetto ad essa (57), ma
dopo le prime critiche che evidenziavano come un tale orientamento potesse
sopratutto determinare il concreto pericolo di un conflitto di giudicati
(58), si è andata consolidando sempre di più la tesi che la pronuncia
giudiziale del fallimento costituisce elemento pregiudiziale del procedimento
penale di bancarotta (59). Nel
regime del precedente codice di rito si sosteneva che la sentenza
dichiarativa di fallimento fa stato nel procedimento penale per bancarotta
sull'esistenza degli estremi soggettivi, come la qualità di imprenditore
commerciale, di socio illimitatamente responsabile e lo status di fallito,
nonché sull'esistenza degli estremi oggettivi, quali lo stato d'insolvenza
rilevante ai fini del fallimento o delle altre procedure concorsuali (60),
tanto che in ipotesi di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento
il procedimento penale per bancarotta doveva essere sospeso sino al passaggio
in giudicato della sentenza del tribunale fallimentare (61) e che la revoca
della sentenza di fallimento intervenuta dopo la sopravvenuta condanna penale
di bancarotta avrebbe costituito ipotesi di revisione ai sensi dell'art.544
c.p.p. (62). Più
vicino alla tesi contraria (63) si sono posti i principi ispiratori del nuovo
codice di procedura penale che, all'art.2, ha affermato la regola
dell'autonoma cognizione del giudice penale, sia pure temperata dall'espressa
riserva che fa salva ogni ipotesi in cui sia diversamente stabilito e che
consente al giudice di sospendere il processo, ove la decisione dipenda dalla
risoluzione di una controversia sullo stato di famiglia o di cittadinanza,
purché la questione sia seria e sia già pendente il relativo procedimento
civile. In
forza del disposto di cui al primo comma del citato art.2, correlato al
successivo art.479 c.p.p., è perciò attribuita al giudice penale la mera
facoltà, e non più l'obbligo, di sospendere il processo ove debbano
pregiudizialmente decidersi questioni civili o amministrative, diverse da
quelle di stato, ai fini della pronuncia in sede penale. Normativamente
escluso perciò l'obbligo di sospendere il processo penale per bancarotta in
caso di controversia sulla qualità di fallito attribuita all'imputato, è
stato tuttavia sostenuto che la sentenza dichiarativa di fallimento
costituisce in ogni caso il presupposto indispensabile per la sussistenza del
reato di bancarotta fraudolenta e che pertanto ogni questione relativa quanto
meno all'accertamento dello stato di insolvenza, si configura come pregiudiziale
e vincolante per la pronuncia penale, il che sembrerebbe non valere invece
per le altre questioni concernenti il presupposto soggettivo della qualità di
imprenditore commerciale da parte del soggetto agente (64). Al
riguardo si è affermato che la sentenza dichiarativa di fallimento, anche se
oggetto di opposizione o non ancora passata in giudicato, dato che essa è
provvisoriamente esecutiva ai sensi dell'art.16 L.F. da vita all'intera
procedura concorsuale ed integra così il reato di bancarotta, essendo
attribuita al giudice penale la facoltà di sospendere il processo, ai sensi
dell'art.479 c.p.p., allorché sussistano elementi per ritenere che
l'opposizione alla sentenza dichiarativa del fallimento potrà essere accolta
(65). E'
stato inoltre rilevato che la competenza esclusiva del magistrato civile
rispetto a quella del giudice penale si ricaverebbe dalla stessa lettera
degli articoli 216 e 217 L.F., dovendo trarsi dall'inciso "se è
dichiarato fallito" in essi contenuto, la conclusione della necessità
della declaratoria di fallimento ai fini della punibilità, non potendosi
considerare sufficiente solo il fatto che sia palese l'insolvenza e che siano
state compiute le azioni delittuose descritte dalla norma. Ed al
riguardo si è argomentato che, costituendo le disposizioni penali in materia
fallimentare un corpus normativo
speciale, non avrebbe su di esse potuto incidere la lex posterioris generalis del nuovo codice di procedura penale
nel senso di escludere, per l'integrazione del reato di bancarotta, che il fallimento sia accertato con
sentenza del tribunale civile, la quale rimane perciò presupposto
indefettibile anche dopo l'entrata in vigore del nuovo codice di rito (66). Ormai
superata la risalente tesi della sentenza dichiarativa di fallimento quale
condizione di procedibilità del reato di bancarotta (67), nonostante il
diverso avviso della prevalente dottrina e di una parte della giurisprudenza
che attribuiscono alla pronuncia giudiziale di fallimento la natura di
condizione obiettiva di punibilità (68), si è andato consolidando, specie in
giurisprudenza, l'orientamento che definisce la sentenza dichiarativa di
fallimento come elemento costitutivo del reati di bancarotta (69). Dalla tesi deriva che il compimento delle
azioni criminose delineate dalle disposizioni degli articoli 216 e 217 L.F.
diviene penalmente rilevante soltanto con la pronunzia di fallimento e,
allorquando la condotta dell'agente si esaurisca prima di quest'ultima, il
momento consumativo del reato si perfeziona al momento e nel luogo della
pronuncia medesima e non nel tempo e nel luogo eventualmente diversi in cui è
stata realizzata l'azione delittuosa (70). Tuttavia,
anche accogliendo l'opinione che attribuisce alla dichiarazione di fallimento
la natura di condizione obiettiva di punibilità, non sfugge, nei casi di
bancarotta prefallimentare, la peculiarità di tale condizione che, non
potendo configurarsi come estrinseca per il suo indubbio valore assolutamente
determinante nell'economia del medesimo, risulta talmente inerente al fatto
criminale da rappresentare un elemento stesso del reato (71), definito talora
come necessario (72) ed in altri casi come costitutivo di esso (73) od
incidente in via causale sulla sua esistenza (74) ovvero come vera e propria
condizione del reato stesso (75). E'
infatti indubitabile che soltanto il fallimento nel suo aspetto sostanziale,
quale insolvenza giudizialmente accertata, imprime ai comportamenti
incriminati dalla legge fallimentare il carattere della illiceità, risultando
altrimenti il compimento di tali atti penalmente indifferente (76), quale
esercizio di un diritto del debitore sul proprio patrimonio consistente in
un'attività che l'ordinamento consente od in ordine alla quale, nei casi in
cui la ritiene illecita, assicura soltanto strumenti di tutela di carattere
civilistico a salvaguardia delle garanzie patrimoniali creditorie rimaste
offese od appresta altra tutela, diversa da quella sancita dalla legge
fallimentare. Mentre
prima della dichiarazione di fallimento l'offesa agli interessi dei creditori
resta alla stato potenziale ed eventuale, non potendosi escludere, almeno in
astratto, che il debitore trovi il modo di adempiere le sue obbligazioni,
dopo la pronuncia del Tribunale fallimentare tale offesa diviene effettiva e
rilevante (77), costituendosi una situazione giuridica del tutto nuova, nella
quale si trasformano, in senso tendenzialmente peggiorativo, i diritti dei
creditori e muta, dall'eventualità
alla attualità, l'offesa inerente al
reato; ciò implica che la dichiarazione di fallimento, lungi dal
configurarsi come estrinseca al fatto delittuoso, integra il reato al punto
che prima di essa il reato non esiste ovvero non è perfetto. Quanto
alla configurabilità del tentativo nell'ipotesi di bancarotta
prefallimentare, essa è decisamente esclusa da coloro che, considerando la
dichiarazione di fallimento come condizione obiettiva di punibilità
estrinseca al reato di bancarotta,
fanno leva sulla tesi che non consente la punibilità del tentativo nei
reati condizonati (78), mentre la si ammette da parte di chi, invece, ritiene
la pronuncia giudiziale di fallimento quale elemento costitutivo o condizione
obiettiva di punibilità intrinseca del reato di bancarotta, sempreché il tipo
di azione concretamente imputata all'agente non integri reato di pura
condotta dipendente da un atto unisussistente o reato in cui condotta ed
evento coincidono (79) e sebbene da una parte si sostenga che comunque anche
la bancarotta tentata, integrati gli elementi costitutivi del reato
fallimentare con la disposizione dell'art.56 c.p., non potrebbe prescindere
dal verificarsi della condizione di punibilità costituita dal fallimento
(80). 9) L'appartenenza del socio illimitatamente
responsabile alla società fallita e la dichiarazione del fallimento nei suoi
confronti, quali elementi necessari per la configurabilità del reato E'
evidente che del reato di bancarotta fraudolenta potranno essere chiamati a
rispondere i soci illimitatamente responsabili della società trasformata
soltanto nel caso in cui venga ad essi esteso, quali membri dell'originario
nucleo sociale a base personale, il fallimento della società di capitali
derivata dalla trasformazione e venga perciò in essere, con la sostanziale
estensione della dichiarazione di fallimento all'ente privo della personalità
giuridica esistente prima della trasformazione, il presupposto indefettibile
per l'integrazione del reato fallimentare ascrivibile a carico dei soci di
essa. Del
pari, in ipotesi di avvenuta cessione d'azienda alla neocostituita società di
capitali da parte della società di persone posta poi in liquidazione al fine
di sottrarre ai creditori le loro legittime garanzie, l'incriminazione dei
soci di quest'ultima per bancarotta fraudolenta non potrà prescindere
dall'avvenuta dichiarazione di fallimento della società di persone. In
quest'ultimo caso si verifica in effetti uno sfasamento tra la società a base
personale resa inattiva e la nuova società di capitali, costituita in tutto o
in parte dagli stessi soci della società di persone, che serve puramente da
etichetta per la sostanziale continuazione dell'attività, a condizioni più
vantaggiose, da parte degli stessi soci illimitatamente responsabili, previo
svuotamento del patrimonio del loro originario ente collettivo, in vista
delle probabili azioni esecutive dei creditori. Si
sostiene, al riguardo, che il fenomeno si risolverebbe sostanzialmente in una
trasformazione tacita della società (81), dovendosi ritenere operante la
società a base personale in luogo di quella capitalistica apparente e che
comunque, sia che si accetti la tesi della trasformazione tacita sia che si
ravvisi invece l'esistenza di due distinti enti societari (82), il fallimento
deve investire la società effettivamente operante, con conseguente fallimento
dei soci illimitatamente responsabili (83). Allorquando
i soci di una società decidono di costituire altro e distinto ente
collettivo, sia pure per continuare in diverso regime la stessa identica
attività, vengono comunque a crearsi distinti microcosmi giuridici, per cui
il fallimento di uno di essi non potrà determinare automaticamente il
fallimento dell'altro e tanto meno dei soci di esso ilimitatamente
responsabili. L'unica
reazione normativa che il fallimento di una società produce sull'altro
distinto ente collettivo, sia pure ad essa collegato o composto in tutto o in
parte dagli stessi soci della prima, è l'esclusione di diritto dei soci
dichiarati falliti ai sensi dell'art.2288 del codice civile, così come la
dichiarazione di fallimento dell'imprenditore individuale che abbia conferito
la propria azienda in società di persone, la cui responsabilità per le
obbligazioni preesistenti sussiste solo nei limiti stabiliti dal secondo
comma dell'art.2560 c.c., certo non determina anche il fallimento della
società da esso costituita o in cui è
entrato a far parte, causando soltanto la sua esclusione dalla compagine
societaria ed eventualmente lo scioglimento della società per sopravvenuta
impossibilità di conseguire l'oggetto sociale, mentre viceversa il fallimento
dell'ente collettivo sarebbe sempre causa anche del fallimento
dell'imprenditore di esso divenuto socio. Il
fenomeno è particolarmente evidente nell'ambito delle società collaterali,
ove dalla circostanza che tra i soci di una società di capitali sia
configurabile una collaterale società personale con attività coincidente ed
interscambio di supporti organizzativi non consegue che la seconda cessi, per
ciò solo, di essere un centro di imputazione di atti e di attività nettamente
diverso dalla prima, con distinti elementi di rischio e distinte eventualità
di dissesto. A ciò
pertanto consegue che il manifestarsi dello stato di insolvenza risulta
idoneo a determinare il fallimento della società collaterale, in quanto
dipenda dalla propria autonoma attività e dal passivo che ad essa si ricollega,
senza che la collateralità possa considerarsi di per sé sufficiente a
determinare una sovrapposizione o una confusione di imprese, ovvero un'
osmosi di situazioni passive, salvo la possibilità di responsabilità
cumulative riguardo a particolari obbligazioni derivanti da affari specifici
assunti in comune o da specfiche prestazioni di garanzie (84). Da
tutto ciò si ricava che, in ipotesi di collegamento sotto qualsiasi forma tra
diverse società, il fallimento dell'una non può essere autonoma conseguenza
della dichiarazione di fallimento dell'altra e che pertanto il fallimento del
socio illimitatamente responsabile può derivare esclusivamente dal fallimento
della società a base personale di cui egli faccia parte e non di altra
seppure ad essa connessa (85). Ciò implica pertanto che il reato di
bancarotta potrà essere ascritto a carico soltanto del socio illimitatamente
responsabile della società dichiarata fallita. Per
l'incriminazione dei soci illimitatamente responsabili è inoltre necessario,
non solo, come abbiamo osservato, che sia dichiarato il fallimento della
società di cui sono e risultano membri, ma anche che sia esplicitamente
dichiarato il loro diretto fallimento, dato che soltanto con la dichiarazione
di fallimento di ciascuno dei soci si realizzano, nei confronti di questi,
tutti gli elementi costitutivi necessari per l'integrazione della fattispecie
penale. La
stessa collocazione sistematica dell'art.222 L.F. nel capo I titolo VI,
intitolato "Reati commessi dal fallito" fa infatti inequivocabilmente
ritenere che la responsabilità penale, diversamente da quella dell'art.223,
concerna esclusivamente persone di cui è stato dichiarato il fallimento. Oltre
a ciò, la ratio medesima della disposizione pare essere quella di consentire
l'estensione a soggetti che si trovano in una particolare posizione, quali
soci illimitatamente responsabili, di una responsabilità penale che
altrimenti sarebbe stata dubbia, considerato il riferimento della normativa
fallimentare al solo imprenditore, e inoltre il rinvio operato dalla norma
alle disposizioni precedenti lascia intendere che anche rispetto a tali
soggetti necessita un'apposita dichiarazione di fallimento (86) Nel
caso in esame, escluso ogni automatismo tra la dichiarazione di fallimento
della società di capitali e il fallimento della società di persone,
l'estensione del fallimento della società cessionaria alla cedente messa in
liquidazione implica una specfica dichiarazione giudiziale che potrebbe
tuttavia restare esclusa, nonostante l'evidenza dell'intento fraudolento e la
prova del compimento dei fatti criminali, dal fatto che gli inadempimenti
determinanti la declaratoria di fallimento dell'ente cessionario risultino
attinenti ad obbligazioni contratte esclusivamente da quest'ultimo dopo la cessione. Così
come, in ipotesi di trasformazione, l'estensione del fallimento della società
derivata dalla trasformazione ai soci illimitatamente responsabili dell'ente
originario potrebbe essere impedito dal fatto che l'insolvenza risulti
sussistente soltanto in epoca successiva alla trasformazione stessa,
sempreché naturalmente si aderisca alla tesi che consente l'estensione del
fallimento ai soci della società trasformata nel solo caso in cui
l'insolvenza risalga ad un momento precedente alla trasformazione (87). Nonostante
quindi la prova dell'intento fraudolento e del compimento dell'azione
delittuosa (88), in difetto di dichiarazione di fallimento della società alla
quale appartengono i soci illimitatamente responsabili, come osserva il
G.I.P. del Tribunale di Pisa, difetta il presupposto dell'imputazione, dal
momento che l'atto dispositivo incriminato non risulta riferibile alla
società fallita. NOTE: (1) Granzotto, La
trasformazione di società personali in società di capitali e la persistente
responsabilità dei soci, in "Dir.fall.", 1993, II, p.560; Gasperoni, La
trasformazione delle società, Milano, 1952; Simonetto,
Trasformazione e fusione delle società, in Commentario al codice civile di
Scialoja e Branca, Bologna - Roma , 1976; Simonetto, Trasformazione
societaria, responsabilità ed assegnazione di quote, in
"Arch.civ.", 1986, p.241; Paschi Pesucci,
Trasformazione, fusione e scioglimento, in "Riv.soc.", 1983, p.671 Rescigno,
Trasformazione di società e responsabilità dei soci, in "Riv.trim.dir.proc.civ.",
1950; Ferri, Manuale di
diritto commerciale, Torino, 1972, p.476 e s.; Tantini,
Trasformazione e fusione di società, in Trattato di diritto commerciale e
diritto pubblico dell'economia Galgano, VIII, Padova, 1985.
Nonostante il codice
preveda solo l'ipotesi di trasformazione di società di persone in società di
capitali, è ammessa anche l'ipotesi inversa: Cass., 9 novembre 1988, n. 6026,
in "Soc.", 1989, 132. Trattandosi di
modificazione dell'atto costitutivo, al socio dissenziente spetta il diritto
di recesso ai sensi dell'art.2437 c.c. e la deliberazione, approvata
dall'assemblea straordinaria con maggioranza qualificata, è soggetta a
omologazione, iscrizione e pubblicazione nel BUSARL: Tribunale di Torino, 28
giugno 1956, in "Giur.it.", 1956, I, 2, 1038; Appello Venezia, 19
maggio 1970, in "Dir.fall.", 1971, 2, 331. Contra: Tribunale di
Biella 29 agosto 1955, "Dir.fall.", 1955, 2, 744; Tribunale di
Padova, 1 marzo 1970, "Dir.fall.", 1971, 2, 331: ove si richiede
l'unanimità dei consensi stante il diritto del socio a non rinunciare alla
limitatezza della sua responsabilità. (3) Cass., 15 novembre
1985, n.5602, in "Giust.civ.Mass.", 1985, 1693. (4) Appello Milano, 22
novembre 1980, n.1311, in "Giur.comm.", 1981, II, 960. (5) Messineo, Manuale di
diritto commerciale, Milano, 1954, p.554; Ferri, Manuale,
op.cit., p.476; Ferrara-Corsi, Gli
imprenditori e le società, Milano, 1987, p.729-730; Cottino, Diritto
commerciale, I, Padova, 1987, p.632 e s.; Simonetto,
Trasformazione e fusione, op.cit., p.11 e s.; Tantini,
Trasformazione e fusione, op.cit., p.188 e s.; Serra, La
trasformazione e la fusione delle società, in Trattato di diritto privato
Rescigno, Torino, 1985, 17, p.303 e s.; De Gregorio,
Imprenditori e società, Città di Castello, 1970, p.369. Cass., 30 luglio
1992, n.9124, in "Giust.civ.Mass.", 1992, Fasc.7; Cass., 24 luglio
1992, n.8924, in "Fall.", 1993, 48; Cass., 12 luglio
1990, n.7250, in "Riv.dir.comm.", 1991, II, 213; Cass., 3 agosto 1988, n.4825, in "Foro
it.", 1989, 1176. (6) Cass., 9 aprile
1987, n.3481, in "Giust.civ.Mass.", 1987, fasc.7; Cass., 14 gennaio
1982, n.198, in "Giust.civ.Mass.", 1982, fasc.1; Cass., 20 gennaio
1978, n.260, in "Giust.civ.", 1978, I, 654. (7) Cass., ,n16 aprile
1986, n.2697, in "Giust.civ.Mass.", 1986, fasc.4. Cass., 4 ottobre
1985, n.4813, in "Lav.e prev.oggi", 1985, 2428; (8) Comm.centr.imp.,
Sez.XXII, 5 dicembre 1990, n.3278, in "Dir.e prat.trib.", 1991, II,
1408; Comm.imp.prov.le,
Sez.VI, Roma, 24 febbraio 1990, in "Boll.trib.", 1990, 932; TAR Campania, Sez.I,
Napoli, 17 gennaio 1990, in "Foro amm.", 1990, 2887. (9) Cass., 3 aprile
1987, n.3218, in "Giust.civ.", 1987, I, 1678 Contra:Appello
Milano, 24 dicembre 1974, in "Giur.comm.", 1976, II, 114: ove si
sostiene la non più prevalente tesi della novazione, salvo che la
trasformazione avvenga tra tipi omogenei di società. (10) Si ritiene che la
raccomandata con cui è data notizia dell'avvenuta trasformazione debba
contenere la copia del verbale della relativa delibera: Tribunale di Lecce,
22 febbraio 1990, in "Foro it.", 1990, I, 2042. (11) Corte cost., 8 febbraio 1995, n.47, in
"Il fisco", 1995, 2651. (12) Tribunale di Milano,
4 gennaio 1990, in "Riv.dir.comm.", 1991, II, 65; Tribunale di Milano,
5 ottobre 1989, in "Giur.it.", 1990, I, 2, 452. (13) Cass., 5 agosto
1987, n.6718, in "Giust.civ.". 1987, I, 2788; Tribunale di Ascoli
Piceno, 31 maggio 1988, in "Soc.", 1988, 1178; Tribunale di Roma,
18 settembre 1986, in "Soc.", 1987, 422. (14) Tribunale di Napoli,
12 gennaio 1987, in "Soc.", 1987, 737; Tribunale di Ancona,
3 aprile 1979, in "Giur.comm.", 1980, II, 210. Contra: Appello
Ancona, 5 aprile 1979, in "Giur.comm.", 1980, II, 220. (15) Graziani, Diritto
delle società, Milano, 1962, p.515 e s.. (16) Simonetto,
Trasformazione e fusione, op.cit., p.150. (17) Serra, La
trasformazione, op.cit., p.332. (18) Cass., 5 agosto
1987, n.6718, cit.; Tribunale di Roma,
27 gennaio 1984, in "Soc.", 1985, 296; Tribunale di Roma,
11 dicembre 1981, in "Soc.", 1982, 302. (19) Tribunale di
Cassino, 12 aprile 1991, in "Riv.not.", 1991, II, 1075; Tribunale di Roma,
18 settembre 1986, cit.; Tribunale di Roma,
27 gennaio 1984, cit.. (20) Cass., 3 maggio
1967, n.827, in "Dir.fall.", 1967, II, 879. (21) Cass., 29 novembre 1968,
in "Giur.it.", 1969, 321. (22) Tribunale di Torino,
15 aprile 1994, in "Fall.", 1994, 1296; Tribunale di Torino,
19 marzo 1990, in "Fall.", 1990, 1128; Tribunale di Verona,
5 ottobre 1989, in "Fall.", 1990, 329; Tribunale di
Perugia, 27 ottobre 1987, in "Fall.", 1987, 1268; Tribunale di Milano,
6 maggio 1985, in "Fall.", 1985, 883; Appello Milano, 13
marzo 1984, in "Fall.", 1984, 1032; Tribunale di Milano,
7 giugno 1979, in "Fall.", 1980, 130; Tribunale di Torino,
24 febbraio 1974, in "Giur.comm.", 1974, II, 1564; Cass., 10 agosto
1979, n.4644, in "Giust.civ.", 1980, I, 2256; Cass., 22 giugno
1972, n.2067, in "Foro
it.", 1973, I, 504; Cass., 10 agosto
1965, n.1921, in "Giust.civ.", 1965, I, 1959. Contra: Tribunale di
Venezia, 12 settembre 1962, in "Banca,borsa e tit.cred.", 1963,II,
137; Tribunale di Roma, 29 marzo 1954, in "Dir.fall.", 1954, II,
269. (23) In senso decisamente
contrario: Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1986;
Pellegrino, I presupposti soggettivi del fallimento sociale, Padova, 1982,
p.139. (24) Cass., 24 luglio
1992, n.8924, cit.; Cass., 20 dicembre
1988, n.6953, in "Fall.", 1989, 510; Cass., 25 gennaio
1986, n.495, in "Fall.", 1986, 747; Tribunale di
Venezia, 25 settembre 1987, in "Fall.", 1988, 273; Tribunale di Milano,
3 ottobre 1986, in "Dir.fall.", 1987, II, 731. Contra in dottrina:
Jorio, Gli artt. 10 e 11 della legge fallimentare, in "Riv.soc.",
1969, p.293; Buonocore, Fallimento e impresa, Napoli, 1969, p.251; Valcavi, Se
l'art.10 legge fallimentare sia applicabile alle società imprenditrici, in
"Dir.fall.", 1952, II, p 463. (25) Tribunale di Varese,
21 maggio 1990, in "Foro pad.", 1991, 198; Tribunale di Milano,
7 giugno 1980, in "Fall.", 1980, 130. (26) Tribunale di Sulmona,
14 marzo 1992, in "Dir.fall.", 1993, II, 560; Appello Bari, 22
aprile 1988, in "Fall.", 1988, 821. (27) Cass., 24 luglio
1992, n.8924, cit.; Cass., 25 gennaio
1986, n.495, cit.. (28) Cass., 24 luglio
1992, n.8924, cit.; Cass., 22 maggio
1990, n.4626, in "Fall.", 1991, 125; Cass., 6 novembre
1985, n.5394, in "Giur.fall.", 1985, 137; Cass., 7 settembre
1970, n.1287, in "Foro it.", 1970, I, 2826; Appello Firenze, 28
gennaio 1988, in "Dir.fall.", 1988, II, 951; Tribunale di
Sulmona, 14 marzo 1992, cit.; Tribunale di Verona,
6 novembre 1990, in "Giur.it.", 1991, II, 586; Tribunale di Lecce,
22 febbraio 1990, in "Riv.not.", 1990, 152; Tribunale di Udine,
21 giugno 1984, in "Dir.fall.", 1985, II, 218; Tribunale di
Vicenza, 7 febbraio 1983, in "Fall.", 1984, 324; Tribunale di Milano,
25 maggio 1973, in "Dir.fall.", 1974, II, 383. Candian, Società
trasformata e fallimento dei soci, in "Riv.dir.comm.", 1935, I,
p.518; Jorio, Il
fallimento, IV, in Giust.sist.civ.comm., Torino, 1979, p.779 (29) Ferri, Le società,
in Tratt. Vassalli, vol.X, tomo III, Torino, 1987, p.573; Azzolina, Il
fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino, 1953, p.242; Maffei Alberti,
Trasformazione di società di persone in società di capitali e procedure
concorsuali, in "Riv.dir.civ.", 1977, II, p.638. (30) Cuneo, Le procedure
concorsuali, Milano, 1988, p.135; Galgano-Bonsignori,
Il fallimento delle società, in Tratt. Galgano, vol.X, Padova, 1988, p.75. (31) Cass., 20 settembre
1984, n.4810, in "Fall.", 1985, 620. (32) Cass., 4 settembre
1984, n.4752, in "Dir.fall.", 1984, II, 936. (33) Tribunale di Genova,
18 maggio 1994, in "Fall.", 1995, 301; Tribunale di Genova,
25 ottobre 1984, in "Giur.comm.", 1987, II, 368; Tribunale di Genova,
1 giugno 1982, in "Giur.comm.", 1984, II, 106. Contra, nel senso
che il fallimento della società di capitali trasformata possa estendersi ai
soci nel caso in cui le obbligazioni che hanno concorso a determinare lo
stato di insolvenza siano sorte prima della trasformazione: Cass., 6 novembre
1985, n.5394, cit.; Tribunale di Verona, 6 novembre 1990, cit.; Tribunale di
Belluno, 27 febbraio 1990, in "Fall.", 1990, 760. Sia pure in
relazione all' ipotesi del recesso del socio, si è sostenuto, per ammetterne
il fallimento, che l'insolvenza si sia
già verificata al momento dello scioglimento particolare del vincolo:
Cass., 22 maggio 1990, n.4626, cit.; Cass., 17 ottobre 1986, n.6087, in
"Fall.", 1987, 572. Nel senso che le
obbligazioni inadempiute debbano essere invece determinative dello stato di
insolvenza: Cass., 6 novembre 1985, n.5394, cit.; Cass., 11 maggio 1981,
n.3095, in "Giur.comm.", 1982, II, 463. Nel senso che
l'assoggettamento alla procedura concorsuale dei soci della società
trasformata sia subordinato alla circostanza che l'insolvenza si sia
determinato in capo alla società di persone: Cass., 22 maggio 1990, n.4626,
cit.; Appello Firenze, 28 gennaio 1988, cit.; Tribunale di Bologna, 19
gennaio 1988, in "Dir.fall.", 1989, II, 724; Tribunale di Milano,
29 maggio 1986, in "Fall.", 1986, 497; Tribunale di Udine, 13
novembre 1984, in "Dir.fall.", 1985, II, 509. (34) Mazzocca,
L'insolvenza dei soci nella trasformazione della società, in
"Dir.fall.", 1988, I, 563. (35) Tribunale di
Sulmona, 14 marzo 1992, cit. (36) Satta, Istituzioni
di diritto fallimentare, Roma, 1964, p.372; Provinciali,
Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, IV, p.2055; Pajardi, Manuale di
diritto fallimentare, Milano, 1986, p.681. Cass., 6 ottobre
1988, n.6403, in "Soc.", 1988, 129; Cass., 17 ottobre
1986, in "Giur.fall.", 1986, 96; Cass., 21 novembre
1983, n.6934, in "Giur.fall.", 1983, 149; Tribunale di Torino,
8 novembre 1984, in "Giur.piemontese", 1985, 143; Tribunale di Ascoli
Piceno, 23 ottobre 1986, in "Dir.fall.", 1987, II, 1055; Tribunale di Foggia,
24 novembre 1983, in "Dir.fall.", 1984, II, 318; Tribunale di Napoli,
22 marzo 1980, in "Dir.e giur.", 1987, 731; Appello Milano, 11
maggio 1985, in "Fall.", 1986, 55; Appello Genova, 9
giugno 1978, in "Giur.comm.", 1980, II, 648. (37) Ferrara, Il
fallimento, Milano, 1988, p.678; Mazzocca, Manuale di
diritto fallimentare, Napoli, 1980, p.525. (38) Appello Bologna, 20
novembre 1993, in "Fall.", 1994, 645; Cass., 6 ottobre
1988, n.6403, cit.; Appello Milano, 11
maggio 1985, cit.; Tribunale di Napoli,
1 settembre 1984, in "Dir.fall.", 1985, II, 613. (39) Risoluzione n.9/802
del Ministero delle Finanze Direz.Gen. Imposte. Comm.centr.imp.,
Sez.I, 17 ottobre 1986, n.7851, in "Riv.not.", 1988, 756. La trasformazione ha
effetto dalla data di iscrizione nel registro delle imprese della società
risultante dalla trasformazione. Contra:
Comm.trib.centr., Sez.VI, 15 novembre 1993, n.3110, in "Italia Oggi
Gazzetta", Ins.n.3/94 del 11 febbraio 1994, 19 : ove si ritiene che la
trasformazione ha effetto dalla data dell'atto pubblico. (40) Comm.trib.centr., 13
gennaio 1986, n.145, in "Comm.trib.centr.", 1986, 9; Comm.trib.II°Grado
di Alessandria, 10 marzo 1994, n.59, in "Corr.trib.", 1994, 1658. Comm.trib.I°Grado di
Rimini, 30 novembre 1992, n.1059, in "Corr.trib.", 1993, 1205; Comm.trib.I°Grado di
Udine, 29 settembre 1992, n.7, in "Corr.trib.", 1993, 288; Comm.trib.I°Grado di
Salerno, 29 gennaio 1990, n.177, in "Il fisco", 1990, 6837; Circolare
ministeriale 11 luglio 1991, n.37/350346, in "Il fisco", 1991,
4841. Contra:
Comm.trib.II°Grado di Treviso, Sez.II, 26 ottobre 1993, in
"Rass.trib.", 1995, n.1, 126; Comm.trib.I°Grado di Pescara, 22
marzo 1994, in "Rass.trib.", 1995, n.1, 129. (41) Cass., 12 ottobre
1973, n.2574, in "Mass.", 1974; Cass., 9 giugno
1973, n.1668, in "Mass.", 1973. (42) Risoluzione n.9/199,
8 febbraio 1979, Ministero delle Finanze, in Codice Imposte Dirette, IPSOA,
Sez.24, art.34, n.6. (43) Cass., 24 ottobre
1987, n.7837, in "Corr.trib.", 1987, 3137. (44) Longhi, Bancarotta
ed altri reati in materia commerciale, Milano, 1930, p.91: (45) Conti, La
responsabilità patrimoniale: evoluzione dei principi della tutela penale, in
Prospettive della riforma della legge fallimentare, Atti del convegno di
Mantova 21-23 ottobre 1988, Milano, 1989, p.105 e s.; Conti, Diritto
penale commerciale, vol.II, I reati fallimentari, Torino, 1967, p.88; Pajardi, Manuale,
op.cit., p.841; Allegri, La tutela
penale dei creditori nel fallimento, in "Fall.", 1986, p.226; Scalera, Teoria
generale del reato di bancarotta, Milano, 1982, p.23 e s.. Giuliani, La
concezione patrimoniale della bancarotta, in Annali della Facoltà di
Giurisprudenza dell'Università di Genova, 1972, p.59. Cass., 26 febbraio
1986, in "Giust.pen.", 1987, II, 227; Cass., 10 luglio
1985, in "Cass.pen.", 1987, 824. Cass., 12 novembre
1974, in "Riv.pen.", 1975, 105. (46) In tal caso infatti
si avrebbe "occultamento" e non "dissimulazione". In tal
senso cfr.: Cass., 29 giugno 1983, in "Cass.pen.", 1984, 2058. In contrario, nel
senso che invece il termine "occultamento" si riferisce ad ogni
forma di nascondimento attuato con mezzi materiali o giuridici: Conti,
Diritto penale, op.cit., p.158; Pajardi, Manuale, op.cit., p.863-864. Cass.,
15 aprile 1969, in "Dir.fall.", 1970, II, 379. (47) Antolisei, Manuale
di diritto penale. Leggi complementari, Milano, 1987, p.57-58; Nuvolone, Il diritto
penale del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Milano, 1955,
p.212; La Monica, I reati
fallimentari, Milano, 1972, p.239; Mangano, Disciplina
penale del fallimento, Milano, 1987, p.41. Cass., 13 marzo
1974, in "Cass.pen.Mass.", 1975, 959. (48) Punzo, Il delitto di
bancarotta, Torino, 1953, p.103 e s.; Pajardi, Manuale,
op.cit., p.865. (49) Antolisei, Manuale,
op.cit., p.61 e s.; Nuvolone, Il diritto
penale, op.cit., p.63 e s.. (50) Cass., 6 febbraio
1984 in "Riv.pen.", 1985, 145; Cass., 25 maggio
1983, in "Riv.pen.", 1984, 218; (51) Cass., 24 aprile
1987, in "Riv.pen.", 1988, 200; Cass., 13 marzo 1980
in "Riv.pen.", 1980, 888; Cass., 23 ottobre
1978, in "Giust.pen.", 1979, II, 356. (52) Cass., 27 novembre
1985, in "Fall.", 1986, 913; Cass., 10 settembre
1985, in "Fall.", 1986, 337. (53) Cass., 25 febbraio
1977, in "Giust.pen.", 1978, 11. (54) Cass., 22 gennaio
1992, in "Riv.pen.econ.", 1992, 572. Contra: Cass., 18
febbraio 1992, in "Riv.pen.econ.", 1992, 575; Cass., 8 ottobre
1991, in "Giust.pen.", 1992, II, 287. (55) Cass., 27 febbraio
1992, in "Riv.pen.econ.", 1992, 585; Cass., 26 aprile
1984, in "Riv.pen.", 1985, 145; Cass., 16 novembre
1982 in "Giust.pen.", 1983, II, 428; Cass., 12 maggio
1980, in "Giust.pen.", 1981, II, 295; Cass., 25 febbraio 1977,
cit;.. (56) Pagliaro, Il delitto
di bancarotta, Palermo, 1957, p.61; Romano, Società di
persone e oggetto materiale della bancarotta del socio illimitatamente
responsabile, in Studi in onore di Biondi, III, Milano, 1965, p.363 e s.. Contra: Conti, Diritto
penale, op.cit., p.258 e s.; Giuliani-Balestrino, La bancarotta e gli altri
reati concorsuali, Milano, 1991, p.258; La Monica, I reati, op.cit., p.421 e
s.. Cass., 18 settembre
1970, in "Cass.pen.Mass.", 1971, 2712; Cass., 18 febbraio 1968, in
"Giust.pen.", 1968, I, 694. Nel senso che
dovrebbe aversi riguardo soltanto ai fatti commessi sul patrimonio della
società: Punzo, La bancarotta impropria e gli altri reati previsti dalla
legge fallimentare, Padova, 1957, p.15; Antonioni, La bancarotta semplice,
Napoli, 1962, p.56. (57) Cuzzeri, Del
fallimento, in "Il codice di commercio italiano commentato, Verona,
1883, p.690; Carrara, Programma
di diritto criminale, vol.II, Firenze, 1912, p.1417. (58) Bolaffio, Bancarotta
e piccoli fallimenti, in "Temi veneta", 1895, p.91. (59) Bonelli, Del
fallimento, vol.I, Milano, 1923, p.387; Azzolina, Il
fallimento, op.cit.; Punzo, Postilla in
tema di successione di leggi in relazione ai delitti di bancarotta, in
"Giur.pen.", 1953, II, 301; Conti, Diritto
penale, op.cit.; Conti, Opposizione a
sentenza dichiarativa di fallimento, in "Giur.it.", 1952, II, 61; Conti, Sulla natura
pregiudiziale della sentenza dichiarativa di fallimento e sospensione del
procedimento penale per bancarotta, in "Giur.it.", 1953, II, 251; Allegra, La
dichiarazione di fallimento nella struttura del reato di bancarotta, in
"Giur.cass.pen.", 1950, 158; Carnelutti,
Interpretazione evolutiva in tema di rapporto tra il processo civile di
fallimento e il processo penale di bancarotta, in "Riv.proc.pen.",
1960, II, 118. Cass., 9 novembre
1953, in "Giur.cass.pen.", 1953, VI, 367; Cass., 27 ottobre
1952, in Giur.cass.pen.", 1952, III, 679; Cass., 31 maggio
1952, in Giur.cass.pen.", 1952, II, 463; Cass., 18 gennaio
1967, in "Giust.pen.", 1968, II, 686; Cass., 12 aprile
1967, in "Cass.pen.Mass.", 1968, 206; Cass., 5 luglio
1967, in "Cass.pen.Mass.", 1968, 653; Cass., 26 gennaio
1968, in "Cass.pen.Mass.", 1969, 39; Cass., 8 marzo 1968,
in "Cass.pen.Mass.", 1969, 994; Cass., 18 marzo
1968, in "Arch.pen.", 1969, II, 277; Cass., 30 gennaio
1969, in "Giust.pen.",
1969, II, 1098; Cass., 25 marzo
1971, in "Giust.pen.", 1972, II, 184; Cass., 15 febbraio
1974, in "Riv.pen.", 1974, 1102; Cass., 16 maggio
1975, in "Cass.pen.Mass.", 1976, 577. (60) Antolisei, Manuale,
op.cit., p.240; Conti, Diritto
penale, op.cit., p.467; Pajardi, Manuale,
op.cit., p.834 e s.. Cass., 28 febbraio
1992, in "Riv.pen.econ.", 1992, 589; Cas., 12 maggio
1989, in "Riv.pen.", 1990, 551; Cass., 18 aprile
1988, in "Giust.pen.", 1989, II, 340; Cass., 12 giugno
1984, in "Riv.pen.", 1985, 216; Cass., 21 agosto
1984 in "Riv.pen.", 1985,533; Cass., 28 maggio
1982, in "Cass.pen.Mass.", 1983, 2097. (61) Cass.Sez.Un., 29
novembre 1958, in "Riv.it.dir.proc.pen.", 1959, 624; Cass., 30 settembre 1982,
in "Giust.pen.", 1984, 695; Corte cost., 16
luglio 1970, n.141, in "Giur.cost.", 1970, 569. (62) Cass., 12 maggio
1982, in "Giust.pen.", 1983, III, 371. (63) Giuliani, La
bancarotta e gli altri reati concorsuali, Milano, 1974, p.80 e s.; Allegri, La
dichiarazione di fallimento come condizione obiettiva di punibilità dei reati
di bancarotta fallimentare, in "Fall.", 1982, p.481 e s.. Tribunale di Novara,
13 gennaio 1978, in "Foro it.", 1978, II, 380; Tribunale di Milano,
2 aprile 1974, in "Mon.trib.", 1975, 155. (64) Cass., 1 dicembre
1990, n.1167, in "Giust.pen.", 1991, III, 503, 131. (65) Tribunale di
Pordenone, 19 luglio 1991, in "Giur.merito", 1992, 1261. (66) Conti, Relazione in
Atti del Convegno SISCO di Treviso del 13 aprile 1991. Cass., 4 maggio
1993, in "Cass.pen.", 1619. (67) Manci, La bancarotta
e il nuovo codice di commercio, in "Scuola pos.", 1927, p.206; Taraschi, La
bancarotta, Napoli, 1929, p.47; Massari, Le
condizioni di punibilità, in "Riv.it.dir.pen.", 1929, II, 494; De Gennaro, La
bancarotta, Napoli, 1930, p.164; Visco, Il carattere
pregiudiziale della sentenza dichiarativa di fallimento nel procedimento per
bancarotta fraudolenta, in "Riv.it.dir.pen.", 1937, p.403. (68) Battaglini, Diritto
penale. Parte generale, Padova, 1949, p.291; Lordi, Il fallimento
e le altre procedure concorsuali, Napoli, 1958, p.162; Noto-Sardegna, I
reati in materia di fallimento, Palermo, 1945, p.162; Pannain, Manuale di
diritto penale, vol.I, Torino, 1950, p.355; Grispigni, La
bancarotta e la legge in preparazione sul fallimento, in
"Riv.dir.comm.", Padova, 1941, p.135 e s. Antolisei, Manuale,
op.cit., p.30 e s.; De Semo, Diritto
fallimentare, Padova, 1967, p.583; Conti, Diritto
penale, op.cit., p.105; Conti, I reati
fallimentari, Torino, 1955, p.86; Pajardi, Manuale,
op.cit., p.863. Tribunale di
Trieste, 15 maggio 1954, in "Arch.pen.", 1956, II, 20; Tribunale di
Bologna, 27 novembre 1954, in "Giur.it.", 1955, II, 89. Tribunale di
Bergamo, 13 maggio 1955, in "Rep.Giur.it.", 1955, 336, n.27; Tribunale di
Benevento, 2 aprile 1962, in "Giur.it.", 1962, II, 225; Tribunale di
Firenze, 12 dicembre 1967, in "Giur.it.", 1968, II, 364; Tribunale di Roma, 19
settembre 1969, in "Arch.pen.", 1970, II, p.382; Tribunale di Milano,
26 novembre 1973, in "Rep.Giur.it.", 1974, 320, n.8; Tribunale di Roma,
14 ottobre 1980, in "Giur.di merito", 1981, 1345. (69) Cass., 19 ottobre
1992, in "Cass.pen.Mass.", 1993, fasc.3, 51; Cass., 7 luglio
1992, in "Cass.pen.Mass.", 1992, fasc.12, 120; Cass., 15 gennaio
1990, in "Mass.UDA Cass.pen.", 183026; Cass., 15 febbraio
1989, in "Mass.UDA Cass.pen.", 180525; Cass., 9 novembre
1981, in "Giust.pen.", 1983, 430; Cass., 6 ottobre
1979, in "Foro it.", 1980, II, 6; Cass., 26 dicembre
1977, in "Giust.pen.", 1978, II, 426. Tribunale di
Sulmona, 7 maggio 1991, in "Giur.merito", 1992, 663. Alla tesi, pur in
fattispecie concernente la sola bancarotta semplice, ha aderito anche la
Corte costituzionale: Corte cost., 27 luglio 1982, n.146, in
"Giur.cost.", 1982, I, 1277. (70) Cass., 7 luglio
1992, cit.; Cass., 2 luglio
1991, in "Cass.pen.", 1992, 2821; Cass., 25 dicembre
1988, in "Giust.pen.", 1990, II, 279. Cass., 12 maggio
1986, in "Giur.fall.", 1986, 52; Cass., 27 aprile
1981, in "Giur.fall.", 1981, 149; Cass.,Sez.Un., 25
gennaio 1958, in "Giust.pen.", 1958, II, 513. (71) Cass., 4 marzo 1952,
in "Riv.pen.", 1952, II, 686. (72) Cass., 15 marzo
1950, in "Giust.pen.", 1950, III, 400. (73) Cass., 29 gennaio
1957, in "Giust.pen.", 1957, II, 290. (74) Cass.,Sez.Un., 3o
maggio 1953, in "Giur.it.", 1954, II, 73. (75) Cass., 28 dicembre
1954, in "Riv.pen.", 1955, II, 760. (76) Cass., 28 gennaio
1976, in "Riv.pen.", 1976, 978; Cass., 29 ottobre
1975, in "Giust.pen.", 1976, II, 503; Cass., 10 aprile
1974, in "Giust.pen.", 1975, II, 152; Cass., 6 aprile
1973, in "Giust.pen.", 1974, II, 433; Cass., 21 febbraio
1972, in "Giust.pen.", 1973, II, 106; Cass., 6 febbraio
1969, in Giust.pen.", 1969, II, 1098; Cass., 13 dicembre
1968, in "Giust.pen.", 1969, II, 427; Cass., 22 novembre
1968, in "Cass.pen.Mass.", 1970, 192; Cass., 19 giugno
1968, in "Cass.pen.Mass.", 1969, 990; Cass., 8 maggio
1968, in "Cass.pen.Mass.", 1969, 995. (77) Corte cost., 27
giugno 1972, n.110, in "Foro it.", 1972, I, 1902; Cass., 26 giugno
1990, in "Riv.it.", 1992, 1142. Pajardi, Manuale,
op.cit., p.837-838; Lanzi, Le
responsabilità penali nelle procedure concorsuali: legislazione attuale e
prospettive di riforma, in "Riv.it.", 1987, p.495. (78) Nuvolone, Il diritto
penale, op.cit., p.481; Vannini, Il problema
giuridico del tentativo, Milano, 1952, p.162; Provinciali,
Trattato, op.cit., p.2622; Scalera, Teoria,
op.cit.; Pagliaro, Il
delitto, op.cit., p.150. Cass., 12 settembre
1967, in "Giust.pen.", 1968, II, 190; Appello Firenze, 26
agosto 1971, in "Rep.Giur.it.", 1972, 336, n.63. (79) Pajardi, Manuale,
op.cit., p.85. (80) Alimena, Le
condizioni di punibilità, Milano, 1938, p.72 e s.; Antolisei, Manuale, op.cit.,
p.158; Conti, Diritto
penale, op.cit., p.300 e s.; Pagliaro, Il
delitto, op.cit., p.150; Punzo, Il delitto,
op.cit., p.277; Pajardi, Manuale,
op.cit., p.851; Giuliani-Balestrino,
La bancarotta, op.cit., p.741. (81) Ferrara, Società
etichetta e società operante, in "Riv.dir.civ.", 1956, p.650. (82) Cass., 13 aprile
1964, in "Foro it.", 1964, I, 1158; Cass., 3 aprile
1959, in "Foro it.", 1959, 1158; Cass., 23 settembre
1958, in "Foro it.", 1959, I, 1143; Tribunale di Roma,
10 aprile 1964, in "Foro it.", 1964, II, 274. (83) Ferrara, Il
fallimento, Milano, 1995, p.710. (84) Cass., 10 agosto
1990, n.8154, in "Giur.it.", 191, I, 1, 591; Cass., Sez.Un.,
19 novembre 1981, n.6151, in
"Foro it.", 1982, I, 2897. (85) Ferrara, Il fallimento, op.cit., p.711. Tribunale di Roma, 6
maggio 1961, in "Dir.fall.", 1962, II, 418. (86) Cass., 1 febbraio
1994, in "Cass.pen.", 1994, 1621; Cass., 17 gennaio
1978, in "Giust.pen.", 1978, II, 359; Cass., 21 febbraio
1972, in "Foro it.", 1973, II, 7. In mancanza di
dichiarazione di fallimento del socio illimitatamente responsabile della
società fallita, la responsabilità penale per bancarotta potrà delinearsi
soltanto ai sensi dell'art.223 L.F., concernente i reati commessi da persone
diverse dal fallito, nel caso in cui il socio abbia agito in veste di
amministratore della società fallita: Cass., 11 ottobre 1994, n.12496, in
"Guida al diritto. Il Sole 24Ore", 1995, n.10, 71. (87) Vedasi dottrina e
giurisprudenza citata alla precedente nota 28. (88) Ai fini del delitto non è necessario
l'effettivo conseguimento dello scopo criminale, né rileva che il mezzo
materiale o giuridico utilizzato per il compimento dell'azione delittuosa si
sia rivelato davvero utile al
conseguimento della finalità antigiuridica: Cass., 19 aprile 1988, in
"Giust.pen.", 1989, II, 397.
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