MICHELE SOAVI | PROFILE

 

La tendenziosa rivisitazione dei luoghi dell’horror, la fluida mobilità della macchina da presa, il repertorio cinefilico e pittorico, l’impeto al fantastico, sono tra gli aspetti costitutivi di questo straordinario Esteta della messa in scena. Il Peter Pan del cinema del fantastico. L’Alchimista della new wave horror degli anni ’90. Uno dei pochi registi italiani in grado di danzare con la macchina da presa, affascinato dai suoi movimenti, dalle ottiche e dalle prospettive. Ha fatto sua la lezione “artigiana” di tanto cinema italiano (oggi rivalutato) e degli eccessi visionari di due grandissimi autori  (Argento e Gilliam). Si è poi distaccato dai “maestri” procedendo a delineare una poetica personalissima, nera, fantastica, romantica.

Bravo direttore di attori perché attore lui stesso. Ed in ogni suo personaggio c’è un che della sua malinconia. Il suo è cinema della seduzione visiva, sovraccarico di suggestioni oniriche, di angolazioni depalmiane, di forze esoteriche, di pittura filmata.

E’ l’autore di due importanti svolte: una cinematografica, l’altra televisiva. La prima con Dellamorte Dellamore in cui ha ridefinito i confini e le contaminazioni dell’horror, caricandolo di houmor, di ambiguità, di surrealismo sempre in bilico del fantastico, portando avanti la (re)visione del Genere operata anni prima dal geniale Sam Raimi, autore a lui più vicino per cultura, stile, generazione, tematiche; la seconda con la fiction Uno Bianca, forse (e stranamente) il più “argentiano” dei suoi film (ed  uno dei migliori prodotti tv nostrani degli ultimi dieci anni), in cui ha saputo egregiamente coniugare e rinnovare i tempi televisivi, ingenui e dilatati, di certa fiction italiana, con il suo aberrante talento visionario, il suo stile suadente, frenetico, virtuoso. Ed ha anche saputo riscattarsi (e ancora rinnovarsi) in maniera intelligente dando prova di una profonda sensibilità verso temi toccanti e concreti che assillano da tempo il nostro Paese.

Ma è all’estero che Soavi ha ottenuto l’accoglienza e l’attenzione che merita, che lo ha fin da Deliria, suo primo film, riconosciuto ed identificato come uno dei più interessanti autori emergenti. Un genio del calibro di Tarantino deve a Soavi più di quanto non abbia esplicitamente ammesso (si confronti a tal proposito Pulp Fiction con Deliria) e non è un caso che lo stesso regista americano gli avesse affidato la regia di “Dal tramonto all’alba”, poi rifiutata.

Manierista, iconoclasta. Attento a luci ed ombre. Teorico della composizione visiva dell’inquadratura. Composizione che ha derivazione fortemente pittorica e fumettistica (Bosch, Vallejo, Ernst, Magritte e Bocklin) sintomo dei suoi primi interessi artistici.

L’eroe e il suo doppio negativo, l’antieroe, ritornano nei suoi titoli ciclicamente a contrapporsi fino ad una consacrazione, evidente e sintetica, nel personaggio sclaviano di Francesco Dellamorte. Gli animali giocano un ruolo fondamentale nella sua filmografia (il barbagianni presente in tutti i suoi film da Deliria, i cavalli dei Templari in La Chiesa, il coniglio de La Setta…), compendio di simbolismi e di allegoriche identificazioni. Così come ricorrenti sono le tematiche della “ricerca” e della “scoperta” (un restauratore scopre una insolita scultura e scatena le forze del male in una cattedrale; Miriam comprende il suo destino nella ricerca dell’identità del suo misterioso ospite; Francesco Dellamorte vuole scoprire com’è il resto del mondo) che si concludono sempre nella definizione  e costruzione (che è concezione) di mondi chiusi, universi bloccati, labirinti senza uscita come il teatro-trappola di Deliria,  la cattedrale-prigione de La Chiesa (entrambi quasi un implicito omaggio al Bunuel de L’Angelo Sterminatore) fino all’amara consapevolezza che il “resto del mondo” non esiste e che tutto finisce (e tutto comincia) al di la di quel tunnel.

 

Federico Mauro

 

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