I Trionfi della Carne

La sensualità di Tiziano, le pelli seriche il trattenuto delirio dell’Eros letti da Flavio Caroli

di Flavio Caroli



Tiziano Vecellio è l’uomo che più di ogni altro, nella storia del mondo, incarna l’idea della Pittura. Nemmeno Velázquez ha attinto tanta inevitabilità; e lo spagnolo, in ogni caso, non avrebbe solcato il suo oceano senza il faro delle opere sparse da Tiziano nelle collezioni spagnole. Ma che cos’è la Pittura? Che cosa può o deve o tenta di esprimere la Pittura? Da Tiziano in poi la risposta, o una risposta, è chiara. Tanto forte può essere la volontà di un solo uovo che impone il suo carisma ai posteri. La Pittura è la pelle seconda e delegata della realtà; ne è l’epidermide trasposta sulla tavola o sulla tela; è un epitelio sottratto al tempo, infinitamente più vero di ciò che è affidato alla consunzione delle cellule; un distillato di bellezza che raccoglie i miracoli del visibile, e li conserva in una teca sontuosa e rarefatta che attizzerà per sempre i sensi di chi la ammira; è un effluvio di capelli, di cieli, di ori, di capezzoli, di ombelichi, di frasche, di tramonti, di forme, di tinte, di luci, di tutto ciò che il mondo miracolosamente offre a noi che lo accarezziamo con lo sguardo. Tutto questo si chiama Pienezza, e Felicità, e Classicità. In sessant’anni di lavoro, Tiziano porta sulle spalle sostantivi che appartengono più agli Dei, o al Mito, che al destino degli uomini. Lo fa mentre l’Europa vacilla, poi frana, poi si sgretola, intorno al suo egotismo di montanaro disceso verso la civiltà lagunare. Lo fa anche quando l’ispirazione pare svolgere in tragedia, perché pur sempre di tragedia “greca” si tratta, chiusa in se stessa, o irraggiungibile nella lontananza simbolica di entità che non si ripetono. Lo fa finché la fine della vita, o la sua immediata preveggenza, gli impone di non farlo più. E basta un attimo, quest’attimo, perché l’uomo che insegnato la superficialità al mondo, si immetta da dominatore nell’alveo di un’idea della Pittura lontanissima dalla sua, un’idea che ha cominciato a raccogliersi per sparsi rivi, nel fiume della modernità. Una pittura, questa, sostanziata di vita e di morte, di inquietudini risolutive e di dubbi assoluti. Una pittura che Tiziano, nell’atto stesso di assumerla, conduce a deliqui e vaneggiamenti shakespeariani. La pelle della realtà, il Vecellio la sfiora con impareggiabile larghezza, diciottenne, già negli affreschi nel Fondaco dei Tedeschi che segnano un inconfondibile scarto rispetto alla capziosità sognante di Giorgione, E’ la macchia cromatica ad allargarsi. Una macchia cromatica che divora decimetri di pittura (invece dei millimetri belliniani o carpacceschi) con il passo di un jet che sostituisce diligenze e cavalli. Una macchia cromatica che si contorce, si avviluppa, si drammatizza, nel recitativo rigato e sanguinolento, nonché sostenuto da un paesaggio che controcanta le sceneggiate degli umani, ed è perciò ormai “paesaggio-stato d’animo”, degli affreschi di Padova, ovulo fecondato di tutta la pittura “di storia” che verrà. Poi tocca al cosiddetto “Amor sacro e Amor profano”. La prima donna è bellissima e opulenta, radiosa in quel pieno fulgore della carne che esclude ogni minimo cenno di celluliti o smagliature: come dimostra il corpo che si rilassa – a gambe largamente, elegantemente aperte – sotto la sconfinata corsa dell’abito argentato, con la ricca, attillata manica color melograno. Tutto daremmo, per vederla nuda! Gli occhi seri e concentrati di chi sta per conoscere il piacere, il naso greco, la fossetta che introduce a labbra rosate e tumide come un piccolo fiore di carne, sono incorniciati dalla musica di capelli biondi che hanno profumo di vento di primavera, e si sciolgono in treccine finissime, spiumate sul campo indescrivibile del petto, del quale non si potrà dire altro che è bianco come quando la pelle è bianca. Campo delimitato, che apre le dighe del colore sulla cascata del vestito. Centimetri e centimetri di pittura che riversano un Niagara di neve preziosa, azzurrata come nelle giornate di sole, a marzo, sopra Pieve di Cadore, o ad aprile, più su, alle Tre Cime di Lavaredo, quando il rosa dei fiori sui frutti macchia il ghiaccio di una tinta locale simile a quella, abbiamo detto melograno, che Tiziano ha saputo inventare per il suo cosiddetto Amor sacro; o Profano. Daremmo tutto… E veniamo appagati spostando lo sguardo di un metro sulla destra. E’ sempre lei, o la sorella gemella, il concentrato di pura sensualità e mera carnalità in corpo di fanciulla poco più che ventenne che si offre senza capricci nell’atto apparentemente naturale, in realtà rivoluzionario, di parlare con la congiunta. Conosce gli uomini, Tiziano. Sa quello che vogliono: e per la prima volta nella storia della pittura – cinematograficamente – li soddisfa. Lei, la gemella, aprendosi al dialogo, ha lasciato scivolare sulla spalla un immenso drappo sostanziato nella materia più preziosa mai prodotta dalla pittura, che è proprio il “Rosso Tiziano”, alchimia di vermigli striati di aranci; e ha avuto però cura di conservare sul punto più specifico della femminilità un piccolo drappo come di latte coagulato, celestiale culotte che ha il compito di fornire riposo a un viaggio dello sguardo altrimenti insostenibile per chiunque. Perché il resto è – appunto – carne. Carne che, da quella fermata provvidenziale, risale nelle praterie glabre che avvolgono l’ombelico, poi s’inerpica trepidamente su colline morbide e misurate (cantando a voce spiegata sulle due vette rosa-paglierino dei capezzoli), per inoltrarsi nella gola lunghissima che doppia il collo e raggiunge l’orecchio. Carne che si modella nelle gambe possenti e caste, sculture di velluto, colonne con profumo di epidermide. E fin qui potremmo essere ancora all’interno di un boudoir o di un night-club. No: la nostra vertigine deve essere totale. Il supremo atto di voyeurismo sarà compiuto al cospetto del tardo pomeriggio di tarda primavera più estenuante di questo mondo. Un’ultima luce bassa sta per abbandonare la vetta della “torre antica” che domina un paesaggio più nordico, “cadorino”, di quello bassaiolo e giorgionesco. La macchia ombrosa di una quercia è tramite per il punto dove il sole va a dormire. E là, succede di tutto. Striature di uovo pallido delirano su un cielo in cui combattono cumuli e cirri, un campanile beve umidità e aria della sera, l’acqua di un laghetto passa dal cobalto al piombo, un cespuglio fiorito incenerisce nella penombra ormai spiegata sul mondo. Siamo un passo prima dell’ “Assunta” dei Frari, con la Volta Sistina il più colossale shock che colpisce l’occhio cinquecentesco. Nelle cascate rampanti di sudori cromatici che scrosciano per sette metri verticali di sensualità allo stato puro, negli spiazzi tonali che fanno squillare la musica assordante ma accordatissima di granate attenuate, di olive ingiallite, di viola purpurei, di bianchi tormentati quel tanto che basta perché non ulcerino un tappeto infinitamente ricco nella sua impensabile naturalezza, nell’epidermide baciata dalla luce di puttini soffici come poppanti, è posseduto l’oscuro oggetto del desiderio della pittura di tutti i tempi. La larghezza e la regalità di un’arte che non ha limiti né reticenze, e può ricoprire il mondo con un vello ancor più goloso delle sue già meravigliose apparenze. Voliamo fra i cirri meridiani del breve cielo dell’“Assunta”, e già scorgiamo, all’orizzonte, i tramonti incandescenti, striati di vino, di cenere e di latte, della Pala di Ancona e del Polittico Averoldi di Brescia. Tappe parziali. Traguardi volanti. Tiziano sale ancora. La tenerissima “Madonna col coniglio” del Louvre, probabile omaggio alla defunta consorte Cecilia (ecco un brivido di umanità), prepara alla “Venere di Urbino” e poi alla “Danae” di Capodimonte, le più poderose espressioni di sensualità (non di erotismo” di un secolo) di un secolo e di una civiltà. E’ incredibile come Tiziano tradisca un voyeurismo pantagruelico, e sappia tuttavia segregarlo in un ordito formale che lo trasporta in alcove apollinee, troppo perfette perché il desiderio ne sia sollecitato. Per far sognare un adolescente, val più un sospiro del Correggio di tutti gli abbandoni scosciati di Tiziano. Carni, e coltri, e penombre, e monete che piovono su Danae, si fondono in una doviziosità olimpica che chiama pensieri non più che esterrefatti, incantati. E non è certo un caso che quando Tiziano, nell’altra “Danae”, quella del Prado, si lascia tormentare da nuovi rovelli formali, e abbandona finalmente (siamo costretti a dire così) la sua imperturbabilità; non è un caso che negli occhi rovesciati, nella nudità appena più magra e rilasciata, nella gestualità allusa ma esplicita, sentiamo per la prima volta la pulsazione riconoscibilissima del sangue. E’ qui, ed ora, che la vita penetra nella pelle della pittura tizianesca. La cosiddetta “crisi manieristica”, e il confronto con Michelangelo (possono ignorarsi i pesi massimi delle due più potenti “organizzazioni” artistiche del pianeta?), son voluti da un’ "astuzia della ragione” intrinseca al destino della pittura.