Tiziano Vecellio è l’uomo che più di ogni altro, nella storia del mondo,
incarna l’idea della Pittura. Nemmeno Velázquez ha attinto tanta
inevitabilità; e lo spagnolo, in ogni caso, non avrebbe solcato il suo oceano
senza il faro delle opere sparse da Tiziano nelle collezioni spagnole. Ma che
cos’è la Pittura? Che cosa può o deve o tenta di esprimere la Pittura? Da Tiziano
in poi la risposta, o una risposta, è chiara. Tanto forte può essere la
volontà di un solo uovo che impone il suo carisma ai posteri. La Pittura è la
pelle seconda e delegata della realtà; ne è l’epidermide trasposta sulla
tavola o sulla tela; è un epitelio sottratto al tempo, infinitamente più vero
di ciò che è affidato alla consunzione delle cellule; un distillato di
bellezza che raccoglie i miracoli del visibile, e li conserva in una teca
sontuosa e rarefatta che attizzerà per sempre i sensi di chi la ammira; è un
effluvio di capelli, di cieli, di ori, di capezzoli, di ombelichi, di
frasche, di tramonti, di forme, di tinte, di luci, di tutto ciò che il mondo
miracolosamente offre a noi che lo accarezziamo con lo sguardo. Tutto questo
si chiama Pienezza, e Felicità, e Classicità. In sessant’anni di lavoro,
Tiziano porta sulle spalle sostantivi che appartengono più agli Dei, o al
Mito, che al destino degli uomini. Lo fa mentre l’Europa vacilla, poi frana,
poi si sgretola, intorno al suo egotismo di montanaro disceso verso la
civiltà lagunare. Lo fa anche quando l’ispirazione pare svolgere in tragedia,
perché pur sempre di tragedia “greca” si tratta, chiusa in se stessa, o
irraggiungibile nella lontananza simbolica di entità che non si ripetono. Lo
fa finché la fine della vita, o la sua immediata preveggenza, gli impone di
non farlo più. E basta un attimo, quest’attimo, perché l’uomo che insegnato
la superficialità al mondo, si immetta da dominatore nell’alveo di un’idea
della Pittura lontanissima dalla sua, un’idea che ha cominciato a
raccogliersi per sparsi rivi, nel fiume della modernità. Una pittura, questa,
sostanziata di vita e di morte, di inquietudini risolutive e di dubbi
assoluti. Una pittura che Tiziano, nell’atto stesso di assumerla, conduce a deliqui
e vaneggiamenti shakespeariani. La pelle della realtà, il Vecellio la sfiora
con impareggiabile larghezza, diciottenne, già negli affreschi nel Fondaco
dei Tedeschi che segnano un inconfondibile scarto rispetto alla capziosità
sognante di Giorgione, E’ la macchia cromatica ad allargarsi. Una macchia
cromatica che divora decimetri di pittura (invece dei millimetri belliniani o
carpacceschi) con il passo di un jet che sostituisce diligenze e cavalli. Una
macchia cromatica che si contorce, si avviluppa, si drammatizza, nel
recitativo rigato e sanguinolento, nonché sostenuto da un paesaggio che
controcanta le sceneggiate degli umani, ed è perciò ormai “paesaggio-stato
d’animo”, degli affreschi di Padova, ovulo fecondato di tutta la pittura “di
storia” che verrà. Poi tocca al cosiddetto “Amor sacro e Amor profano”. La
prima donna è bellissima e opulenta, radiosa in quel pieno fulgore della
carne che esclude ogni minimo cenno di celluliti o smagliature: come dimostra
il corpo che si rilassa – a gambe largamente, elegantemente aperte – sotto la
sconfinata corsa dell’abito argentato, con la ricca, attillata manica color
melograno. Tutto daremmo, per vederla nuda! Gli occhi seri e concentrati di
chi sta per conoscere il piacere, il naso greco, la fossetta che introduce a
labbra rosate e tumide come un piccolo fiore di carne, sono incorniciati
dalla musica di capelli biondi che hanno profumo di vento di primavera, e si
sciolgono in treccine finissime, spiumate sul campo indescrivibile del petto,
del quale non si potrà dire altro che è bianco come quando la pelle è bianca.
Campo delimitato, che apre le dighe del colore sulla cascata del vestito.
Centimetri e centimetri di pittura che riversano un Niagara di neve preziosa,
azzurrata come nelle giornate di sole, a marzo, sopra Pieve di Cadore, o ad
aprile, più su, alle Tre Cime di Lavaredo, quando il rosa dei fiori sui
frutti macchia il ghiaccio di una tinta locale simile a quella, abbiamo detto
melograno, che Tiziano ha saputo inventare per il suo cosiddetto Amor sacro;
o Profano. Daremmo tutto… E veniamo appagati spostando lo sguardo di un metro
sulla destra. E’ sempre lei, o la sorella gemella, il concentrato di pura
sensualità e mera carnalità in corpo di fanciulla poco più che ventenne che
si offre senza capricci nell’atto apparentemente naturale, in realtà
rivoluzionario, di parlare con la congiunta. Conosce gli uomini, Tiziano. Sa
quello che vogliono: e per la prima volta nella storia della pittura –
cinematograficamente – li soddisfa. Lei, la gemella, aprendosi al dialogo, ha
lasciato scivolare sulla spalla un immenso drappo sostanziato nella materia
più preziosa mai prodotta dalla pittura, che è proprio il “Rosso Tiziano”,
alchimia di vermigli striati di aranci; e ha avuto però cura di conservare
sul punto più specifico della femminilità un piccolo drappo come di latte
coagulato, celestiale culotte che ha il compito di fornire riposo a un
viaggio dello sguardo altrimenti insostenibile per chiunque. Perché il resto
è – appunto – carne. Carne che, da quella fermata provvidenziale, risale
nelle praterie glabre che avvolgono l’ombelico, poi s’inerpica trepidamente
su colline morbide e misurate (cantando a voce spiegata sulle due vette
rosa-paglierino dei capezzoli), per inoltrarsi nella gola lunghissima che
doppia il collo e raggiunge l’orecchio. Carne che si modella nelle gambe
possenti e caste, sculture di velluto, colonne con profumo di epidermide. E
fin qui potremmo essere ancora all’interno di un boudoir o di un night-club.
No: la nostra vertigine deve essere totale. Il supremo atto di voyeurismo
sarà compiuto al cospetto del tardo pomeriggio di tarda primavera più
estenuante di questo mondo. Un’ultima luce bassa sta per abbandonare la vetta
della “torre antica” che domina un paesaggio più nordico, “cadorino”, di quello
bassaiolo e giorgionesco. La macchia ombrosa di una quercia è tramite per il
punto dove il sole va a dormire. E là, succede di tutto. Striature di uovo
pallido delirano su un cielo in cui combattono cumuli e cirri, un campanile
beve umidità e aria della sera, l’acqua di un laghetto passa dal cobalto al
piombo, un cespuglio fiorito incenerisce nella penombra ormai spiegata sul
mondo. Siamo un passo prima dell’ “Assunta” dei Frari, con la Volta Sistina
il più colossale shock che colpisce l’occhio cinquecentesco. Nelle cascate
rampanti di sudori cromatici che scrosciano per sette metri verticali di
sensualità allo stato puro, negli spiazzi tonali che fanno squillare la
musica assordante ma accordatissima di granate attenuate, di olive
ingiallite, di viola purpurei, di bianchi tormentati quel tanto che basta
perché non ulcerino un tappeto infinitamente ricco nella sua impensabile
naturalezza, nell’epidermide baciata dalla luce di puttini soffici come
poppanti, è posseduto l’oscuro oggetto del desiderio della pittura di tutti i
tempi. La larghezza e la regalità di un’arte che non ha limiti né reticenze,
e può ricoprire il mondo con un vello ancor più goloso delle sue già
meravigliose apparenze. Voliamo fra i cirri meridiani del breve cielo
dell’“Assunta”, e già scorgiamo, all’orizzonte, i tramonti incandescenti,
striati di vino, di cenere e di latte, della Pala di Ancona e del Polittico
Averoldi di Brescia. Tappe parziali. Traguardi volanti. Tiziano sale ancora.
La tenerissima “Madonna col coniglio” del Louvre, probabile omaggio alla
defunta consorte Cecilia (ecco un brivido di umanità), prepara alla “Venere
di Urbino” e poi alla “Danae” di Capodimonte, le più poderose espressioni di
sensualità (non di erotismo” di un secolo) di un secolo e di una civiltà. E’
incredibile come Tiziano tradisca un voyeurismo pantagruelico, e sappia
tuttavia segregarlo in un ordito formale che lo trasporta in alcove
apollinee, troppo perfette perché il desiderio ne sia sollecitato. Per far
sognare un adolescente, val più un sospiro del Correggio di tutti gli
abbandoni scosciati di Tiziano. Carni, e coltri, e penombre, e monete che
piovono su Danae, si fondono in una doviziosità olimpica che chiama pensieri
non più che esterrefatti, incantati. E non è certo un caso che quando Tiziano,
nell’altra “Danae”, quella del Prado, si lascia tormentare da nuovi rovelli
formali, e abbandona finalmente (siamo costretti a dire così) la sua
imperturbabilità; non è un caso che negli occhi rovesciati, nella nudità
appena più magra e rilasciata, nella gestualità allusa ma esplicita, sentiamo
per la prima volta la pulsazione riconoscibilissima del sangue. E’ qui, ed
ora, che la vita penetra nella pelle della pittura tizianesca. La cosiddetta
“crisi manieristica”, e il confronto con Michelangelo (possono ignorarsi i
pesi massimi delle due più potenti “organizzazioni” artistiche del pianeta?),
son voluti da un’ "astuzia della ragione” intrinseca al destino della
pittura.
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