(E.
Bairati – A. Finocchi)
Alla fine del Cinquecento l'attenzione è
nuovamente
puntata su Roma, capitale dell'unico stato italiano di importanza europea e di un vasto territorio, che con l'annessione di Ferrara (1598) raggiungeva a
nord il Po, e centro del
cattolicesimo rinnovato dalla Controriforma
e consolidato dall'arretramento su posizioni di difesa del protestantesimo.
L'ambiziosa
consapevolezza del suo ruolo si traduce nell'imponente piano
di rinnovamento urbanistico avviato da papa Sisto V (1585-90) e
affidato alla direzione di Domenico Fontana. Lo spirito della
restaurazione
cattolica informa di sé la crescita di Roma e la sua trasformazione nella più grande città europea del tempo: per
realizzare l'obiettivo di «facilitar la strada a quelli che, mossi da devotione, o da voti sogliono visitare
spesso i più santi luoghi della Città di Roma, et in particolare le sette Chiese tanto celebrate per le grandi indulgentie, e reliquie, che vi sono» vennero aperte — come scrive lo stesso Fontana — «molte strade amplissime e dirittissime, talché può
ciascuno a piedi, a cavallo, e in
cocchio partirsi di che luogo si voglia di Roma e andarsene per
dirittura alle più famose devotioni». Fu necessario lo sventramento di alcuni quartieri medievali per realizzare questi
assi viari rettilinei che crearono
una nuova, più organica struttura
alla città nella quale vennero inglobati gli interventi urbanistici e architettonici del Rinascimento e del passato
più lontano, che divennero così punti di riferimento concettuale e visivo della città moderna. La stessa funzione venne affidata alle
fontane e agli obelischi sormontati dai simboli
cristiani (Domenico Fontana realizzò la «mostra» dell'Acqua Felice, 1587;
trasportò l'obelisco egizio in piazza San Pietro nel 1586 e ne eresse
un altro nel 1589 in piazza del
Popolo). Si pongono in tal modo le basi di una nuova concezione dello
spazio urbano fondata, piuttosto che sui
«nodi» isolati della cattedrale
medievale o dell'edificio rinascimentale, sulla continuità monumentale e
scenografica delle strade e delle piazze, in cui palazzi, fontane, monumenti divengono punti di convergenza prospettica
ed elementi di qualificazione formale e prestigiosa dell'ambiente urbano circostante.
Non v'è dubbio che il «monumento» più importante per
concentrazione di valori simbolici e per grandiosità resta in Roma San Pietro,
che vide negli anni di Sisto V la
conclusione della costruzione della cupola: le salve dei cannoni di Castel
Sant'Angelo annunciarono alla città
la posa dell'ultima pietra il giorno di Natale del 1589 (ma
i lavori finirono soltanto nel 1593, sempre sotto la direzione
di Giacomo Della Porta che vi lavorava dal 1573).
Negli edifici degli
architetti che avviano la trasformazione di
Roma tra gli anni di Sisto V e quelli di Paolo V (1605-21) si consumano fino all'esaurimento le forme tardocinquecentesche e si apre la strada
alle novità che si affermeranno di lì
a pochi anni. L'intensa attività di
Domenico Fontana, di Giacomo Della Porta, della famiglia dei Longhi, di
Flaminio Ponzio, di Carlo Maderno,
nipote di Domenico Fontana, tutti di
origine lombarda, se non ha il rilievo dei grandi interventi del Cinquecento,
ha però il merito indiscutibile di
avere diffuso un linguaggio dignitoso e colto, pienamente aderente alla
concezione urbanistica che si andava
allora affermando. Il volto di Roma «moderna» si deve in considerevole misura all'attività che potremmo chiamare
«collettiva» di questi e di altri architetti.
Se è difficoltosa l'individuazione delle
diverse personalità nei grandi complessi (palazzo del Laterano, palazzo
del Quirinale, palazzo del Collegio Romano) per il sovrapporsi
delle «mani» e per le successive trasformazioni,
sembra più agevole rintracciare nei palazzi residenziali delle
famiglie aristocratiche (palazzo Mattei di Carlo Maderno, 1598-1618; palazzo
Borghese dove lavorarono Martino Longhi il
Vecchio alla fine del secolo e Flaminio Ponzio, cui si deve l'arioso cortile, ai primi del Seicento) la ricerca di
articolazione in profondità degli spazi che si va sostituendo al blocco compatto con il cortile centrale dello
schema rinascimentale e che, bisogna
ricordarlo, aveva avuto un importante
punto di partenza nei progetti michelangioleschi
per palazzo Farnese.
Questa ricerca ha modo di precisarsi e di
maturare nelle soluzioni adottate per palazzo Barberini (iniziato nel
1625 da Maderno) nel quale le ali laterali sporgenti dal blocco
centrale, traforato dal portico d'ingresso e dalle logge,
manifestano la volontà di interazione tra edificio e spazio
urbano: e l'asse longitudinale del percorso da esterno (città) a interno
(palazzo e giardino retrostante) rivela l'intenzione di collegare
più strettamente anche il palazzo urbano alla natura, come
già era avvenuto per la villa. Nelle ville dei dintorni di Roma vediamo infatti
proseguire l'indirizzo definitosi alla metà del Cinquecento
con la villa del cardinal Montalto (non ancora Sisto V),
costruita da Domenico Fontana nel 1570 (distrutta), con quella
per gli Aldobrandini a Frascati costruita da Giacomo Della Porta
e da Domenico Fontana con l'edificio residenziale in posizione centrale e rilevata
che emerge lungo l'asse longitudinale
principale del complesso; o ancora nel gusto archeologico della villa del
cardinale Scipione Borghese al Pincio,
costruita, dopo la morte di Ponzio
cui era stata dapprima affidata, da Giovanni Vasanzio (1613-15). Questi, un
incisore e intagliatore di Utrecht, si
specializzò a Roma nell'architettura dei giardini, delle fontane, dei
padiglioni per ville e per palazzi e piazze cittadine. • Un campo,
questo, in cui si distinguono anche Giacomo
Della Porta e Domenico Fontana,
ponendo le premesse per la definitiva trasformazione del cinquecentesco giardino all'italiana — dapprima geometrizzato e concluso, poi arricchito
dai «capricci» e dalle «licenze» manieristiche — in un più dilatato sistema di spazi, di percorsi e di
assi visivi, di mobili piani d'acqua,
di lunghe prospettive che conducono
all'infinito.
Gli stessi problemi spaziali emergono anche
dall'analisi dei contemporanei edifici di culto, nei quali assistiamo a un
progressivo abbandono dello schema rinascimentale
della pianta centrale non solo in favore della riproposizione dello
sviluppo longitudinale proposto dalla
Controriforma, ma in favore di un'integrazione
tra schemi longitudinali e centrali e di una più manifesta relazione tra
chiesa e ambiente urbano.
Il
modello della chiesa della Controriforma, il Gesù di Roma, che già proponeva
una fusione tra sviluppo longitudinale e centrale con
l'alta cupola in funzione di polo accentratore, influenza molti
edifici religiosi tra Cinquecento e Seicento. Del resto la
stessa continuità degli architetti giustifica tali legami:
Giacomo Della Porta, che aveva realizzato la facciata del Gesù, è
l'autore di Santa Maria dei Monti (1580) e forse del primo
progetto di Sant'Andrea della Valle.
Un'interessante soluzione planimetrica svolta
sull'integrazione di un asse longitudinale e di uno schema
a croce greca intorno al perno di un'alta cupola è proposta da Rosato Rosati in
San Carlo ai Catinari (1612-20), in cui compare un altro spunto destinato a grandi
sviluppi nel corso del Seicento, quello della pianta ellittica, qui adottata
nelle cappelle laterali. Anche lo spunto dell'ellisse trova i suoi
punti di riferimento nell'architettura del secondo
Cinquecento, ancora una volta nel Vignola dell'Oratorio di
Sant'Andrea e della chiesa di Sant'Anna dei Palafrenieri; e
sono i suoi seguaci, come Francesco da Volterra in San
Giacomo degli Incurabili (1590, terminata da Maderno nel
1595-1600), a proseguirne l'elaborazione.
Anche nelle facciate delle chiese, destinate a
vivere in un sempre più stretto rapporto con lo spazio urbano,
si fa strada il progressivo superamento delle forme
tardocinquecentesche: la realizzazione più interessante
dei tempi è la facciata di Santa Susanna (1597-1603) di Carlo
Maderno che dovette apparire ai contemporanei un
«avvenimento» di eguale portata innovatrice delle grandi
imprese pittoriche degli stessi anni. Egli parte dallo
schema di facciata a due ordini sovrapposti, declinato in innumerevoli varianti
alla fine del secolo (e basterà ricordare gli esempi di Giacomo
Della Porta del Gesù e di San Luigi dei Francesi) e
lo supera sviluppandolo nel senso di una graduale concentrazione
di plasticità dai lati verso il centro, modulata sulla
progressione dei risalti di lesene, semicolonne e colonne intere.
L'accentuazione dei valori chiaroscurali verso il centro della
facciata si ripete nell'ordine superiore, dando organica unità
alle tensioni che la governano, persine nei particolari delle
volute contratte verso l'interno della struttura o nella soluzione
della balaustra terminale che smorza la durezza geometrica del profilo del
timpano in un'aerea mediazione tra edificio e atmosfera.
Appare
evidente a questo punto che Carlo Maderno, il cui nome compare
in tutte le imprese architettoniche più importanti e più critiche e
innovatrici rispetto al linguaggio dell'ultimo Cinquecento, è
la figura chiave di questi anni intermedi, quella che apre la strada
ai nuovi indirizzi dell'architettura romana. La sua importanza
sarà riconosciuta da Bernini e da Borromini, ben più
genialmente innovatori; ed è un altro segno del posto di rilievo che Maderno
seppe conquistarsi in Roma la scelta del suo progetto nel
concorso del 1607 per il completamento della fabbrica di San Pietro,
che nel campo dell'architettura fu l'avvenimento più rilevante negli
anni di Paolo V. Il concorso venne preceduto — e seguito — da interminabili discussioni
sull’ormai secolare problema dell'alternativa tra pianta
centrale e pianta basilicale. Neppure l'autorità di
Michelangelo valse a rispettare l'originaria concezione a pianta centrale; a
Maderno, che aderì alla riproposta dello schema longitudinale, toccò
la responsabilità — non certo invidiabile — di intervenire in
una situazione così delicata. Nessuna presunzione in
lui di «misurarsi» con l'opera del grande predecessore,
verso la quale dimostra un atteggiamento di cauto rispetto: la navata
che prolunga il corpo dell'edificio è molto correttamente risolta
come un percorso introduttivo alla struttura centralizzata preesistente e al
gran vano della cupola. All'esterno però il problema era più
difficile poiché il prolungamento della navata comprometteva
irrimediabilmente la visione della cupola dalla piazza antistante
e lo sviluppo in piano della facciata non poteva che appiattire e disgregare
i valori dinamici e chiaroscurali dell'organismo di Michelangelo.
Va
tuttavia riconosciuto a Maderno di aver fatto il maggiore
sforzo possibile per attenuare il divario veramente insuperabile
tra la concezione di «monumento» come forma simbolica, isolata e
assoluta, espressa da Michelangelo (in linea con Bramante), e quella
della chiesa della Controriforma, luogo del culto, rivolta ai fedeli
e alla città.
Il «difetto» della facciata non sta
nell'eccessivo sviluppo in lunghezza: senza le campate alle
estremità laterali, previste come basamento di due campanili che
non vennero realizzati, le proporzioni della facciata sono corrette e il suo
profilo orizzontale è l'unica soluzione che permetta di vedere
ancora la cupola; l'adozione dell'ordine gigante desunto dal
progetto michelangiolesco rivela tutta l'intelligente cautela del modo
di operare di Maderno, che si sforza di ravvivare i ritmi, di
graduare il plasticismo senza riuscire
peraltro
a imprimere uno scatto vitale a una struttura prevista per
svilupparsi in profondità e qui tradotta su un piano. Per ridare
vita a San Pietro era però necessario misurarsi con Michelangelo:
è quello che farà Bernini di qui a poco.
I tempi dell'architettura non sono ancora
maturi in questo inizio di secolo, sospeso fra tradizione e rinnovamento.
Non mancano in questo periodo anche le forme più tradizionali
della pianta centrale basata sul quadrato e coperta da
cupola, come nelle due grandi cappelle pontificie di Santa Maria
Maggiore, la Sistina (o cappella del Santissimo Sacramento)
eretta per Sisto V da Domenico Fontana e la Paolina (o Borghese)
compiuta nel 1611 da Flaminio Ponzio. Il segno del mutare dei tempi
è dato in questa grandiosa cappella dal nuovo gusto decorativo che
vi si impone: il rivestimento in marmi policromi (in gran
parte tratti da edifici antichi nella cappella di Sisto V,
in accordo con il suo programma di trasformazione della Roma antica
e pagana nella nuova Roma cristiana e trionfante sull'eresia), la
simbiosi di architettura, statue, rilievi in marmo e stucco,
pitture.
Né del resto va dimenticato il ruolo della
decorazione pittorica e plastica in tutti gli edifici sinora
citati e, come nell'architettura, la mobilitazione di un gran
numero di artisti e artigiani spesso associati in imprese collettive,
coordinate dai maestri più affermati del momento, quali
Federico Zuccari, Gerolamo Muziano, i toscani Cesare Nebbia,
Passignano e il Cigoli, l'instancabile Cavalier d'Arpino. La
consuetudine del lavoro d'equipe non è certo una novità;
qui va sottolineato che l'imminenza dell'anno giubilare del
1600, unita ai grandi progetti di Sisto V, incrementa il fervore
delle imprese decorative nelle chiese di Roma e che la
richiesta di artisti vi richiama pittori da tutte le regioni e dai
paesi stranieri. L'ambiente romano così vivace e variato, così
fortemente «concorrenziale» è il più adatto in tutta Italia
a favorire e generare un rinnovamento: vi si assiste
infatti, oltre che alla confluenza di tutte le possibili
declinazioni dell'ultimo Manierismo, al loro superamento
che, se ha gli episodi più sensazionali nell'opera di Annibale Carracci
e del Caravaggio, si rivela anche nei dipinti degli altri protagonisti.
Non si dimentichi tuttavia che il gran fervore
dell'ambiente romano di questi anni, il clima trionfalistico
del Giubileo e l'ormai attenuato rigore della Chiesa nei confronti delle arti
non significano un decollo in senso progressista dello stato
della Chiesa: basterebbero a ricordarcelo la degradazione dell'agricoltura nella
campagna laziale da un lato e, dall'altro, il rogo in Campo dei Fiori dove
trovò la morte, proprio nel 1600, l'«eretico» Giordano Bruno.