Restaurazione e Romanticismo

(E. Bairati – A. Finocchi)

 

Nel 1816 ritorna a Roma la maggior parte delle opere d'arte trasferite in Francia da Napoleone in ba­se al trattato di Tolentino; Canova, che era stato il principale artefice della restituzione, ottenuta tra grandi difficoltà e con un'accorta battaglia diplomati­ca, cura personalmente che ogni opera venga ricollo­cata «nel medesimo luogo che aveva innanzi». Il ge­sto è in sé eloquente: tutto è tornato come prima, come se la vicenda napoleonica non fosse mai esistita; le opere d'arte ritornano al loro posto così come le antiche dinastie di regnanti sono «restaurate» sui loro troni nei paesi europei. In simili momenti della storia si rivela pienamente non solo il valore venale dell'ope­ra d'arte, un «bene» oggetto di contrattazione nei trattati di pace, ma soprattutto il fortissimo significa­to simbolico di cui essa viene caricata. Per Napoleone l'affermazione brutale del diritto del vincitore si era ammantata di ben evidenti motivazioni ideologiche: il bottino di guerra in opere d'arte richiamava l'esempio dei trionfi militari dell'antica Roma; d'altra parte il trasferimento di quelle opere — i grandi modelli della cultura contemporanea — significava toglierle al go­verno reazionario e oscurantista del papato per resti­tuirle all'ammirazione di tutto il mondo a Parigi, la nuova Atene, sede illuminata e internazionale della moderna cultura. Questa motivazione, dall'apparenza positiva in quanto discendeva dalla concezione illumi­nista di cultura come bene collettivo, significava però nei fatti negare il diritto dei singoli paesi alla coscien­za e alla gestione del proprio patrimonio. Per l'Italia la restituzione delle opere assume quindi in questo momento un esplicito valore di affermazione della propria identità nazionale e ciò serve in un certo sen­so a coprire la gravita del brusco salto all'indietro imposto al paese dalle decisioni del congresso di Vien­na. L'entusiasmo che accompagna le restituzioni è sfruttato al massimo dalla propaganda ufficiale dei vecchi-nuovi governanti che si presentano così come garanti del ritorno della legalità, dell'ordine, del «buon governo», del rispetto della tradizione. Basti pensare, come esempio, alla solenne cerimonia con cui il 13 dicembre 1815, alla presenza dell'imperatore Francesco I e del principe di Metternich, vengono ricollocati sulla loggia di San Marco a Venezia i famosi cavalli asportati dai Francesi nel 1797 e collocati a Parigi nel 1807 come coronamento dell'Are du Carrousel. Tutta la carica di motivazioni simboliche che accompagna i viaggi di andata e ritorno dei cavalli non deve far dimenticare che nel Veneto, come altrove, il governo austriaco si guardò bene dalPeliminare quegli elementi dell'eredità napoleonica, specie in campo amministrativo, da cui poteva trarre ampiamente profitto. A conferma del fatto che non era possibile pensare di poter fermare o riportare indietro artificiosamente il corso della sto­ria.

Il governo inglese — tramite personalità come Wil­liam Hamilton e lord Wellington — aveva dato a Ca­nova un appoggio diplomatico e finanziario determi­nante per il recupero delle opere d'arte. Nel 1815 l'artista si recò quindi a Londra per esprimere il ringra­ziamento del papa ed ebbe in tale occasione l'oppor­tunità di vedere i marmi del Partenone esposti al British Museum, di cui già si parlava mol­tissimo. Il confronto diretto con le opere di Fidia fu per Canova un'esperienza sconvolgente: di fronte a questi originali che «sono vera carne, cioè la bella natura» — così ne scrive all'amico Quatremère de Quincy — gli sembrano dure e «di convenzione» le copie di epoca romana sulle quali si era in gran parte basato lo studio dell'arte greca; ed egli è costretto a rivedere non solo le sue conoscenze e il suo concetto di antico ma anche i princìpi del suo stesso operare. Canova ritiene che se queste opere fossero state cono­sciute in precedenza l'intero corso della scultura mo­derna sarebbe stato diverso. Richiesto di un parere sull'opportunità di un restauro egli esclude categorica­mente ogni possibilità di intervento integrativo: i frammenti devono rimanere come sono. Non possia­mo che trovarci d'accordo con la sensibilità e la mo­dernità della posizione di Canova, ma bisogna sottoli­neare che essa denuncia chiaramente la fine delle cer­tezze e dell'ottimismo della cultura neoclassica nell'interpretazione dell'antico e la caduta della tensione ideale che ne aveva animato i momenti più alti. La rinuncia di Canova mette in crisi soprattutto la prati­ca comunemente diffusa del restauro integrativo, ma la sua posizione non era total­mente condivisa. Proprio negli stessi anni il suo emu­lo-rivale Thorwaldsen attua un restauro integrale delle statue del tempio di Egina ricomponen­done i frontoni nel nuovo museo di Monaco realizza­to appositamente da Leo von Klenze dal 1816. L'in­tento di Thorwaldsen era quello di rendere pienamen­te comprensibile il valore del complesso, mettendone in luce lo stile e ricuperandone l'originaria situazione compositiva. A questa volontà didattica e filologica si sovrappone tuttavia molto evidentemente una forzatu­ra interpretativa che è indice anch'essa di un modo diverso di considerare l'antico. L'accentuazione «pu­rista» dei caratteri di queste opere — le prime a far conoscere all'Europa l'arte arcaica greca — è rivelatrice di una sensibilità «romantica» per le manifesta­zioni arcaiche e primitive dell'arte, secondo una linea di valorizzazione della loro pretesa qualità di ingenua e incorrotta purezza che assumerà negli anni dell'af­fermazione del Romanticismo varie declinazioni. Le esperienze divergenti dei due scultori indicano quindi una direzione comune, l'affermazione cioè della con­tinuità della cultura classicista pur nelle sue trasfor­mazioni. Una problematica, questa, forse più impor­tante in Italia che altrove, che si intreccia nei primi decenni dell'Ottocento con l'emergere di nuove pro­poste e continua a essere presente anche dopo l'affer­mazione delle istanze romantiche.

 

Restaurazione, conservazione, restauro

II ritorno delle opere recuperate dalla Francia sollecitò nuova attenzione e interesse per i musei di Roma e per i problemi della tutela del patrimonio artistico. Le ope­re erano state restituite con la precisa condizione che fossero destinate «a pubblica e generale utilità» e Ca­nova si impegnò per l'ampliamento e l'abbellimento dei musei vaticani; egli commissionò, tra l'altro, a proprie spese 15 lunette da affrescarsi nel nuovo mu­seo Chiaramonti con soggetti che illustrano le benemerenze di Pio VII verso le arti e affidò a giovani scultori la realizzazione di busti celebrativi di grandi artisti e letterati italiani da collocare al Pantheon.

Non è certo una coincidenza il fatto che i due momenti cruciali per la storia della tutela delle opere d'arte a Roma cadano in corrispondenza di due fasi di restaurazione: la prima dopo la fine della repub­blica giacobina, la seconda dopo il crollo dell'impe­ro napoleonico. Gli anni tra il 1800 e il 1802, che avevano visto l'impegno di Carlo Fea, commissario alle antichità, e di Canova, ispettore generale delle antichità e belle arti, si erano chiusi con la pubblica­zione del chirografo (atto amministrativo sottoscritto dall'autorità che lo emana) di Pio VII, prima legge di ampia portata sulla tutela, il cui estensore fu appunto Fea. La fase dopo il 1815, che vede ancora l'attività di Canova in primo piano, culmina nel 1820 con la pubblicazione dell'editto del cardinal Pacca che sulla base della legge del 1802 costituì il più completo e articolato strumento legislativo nel campo della tutela, tanto che rimase in vigore anche dopo l'unità d'Italia fino alla nuova legislazione de­gli inizi del Novecento. Ambedue questi momenti sono accompagnati da grandi realizzazioni museali: prima la sistemazione del museo Chiaramonti (1807-10) curata da Canova e poi il Braccio Nuovo (1817-22), solenne e rigorosa opera di Raffaello Stern, tra i migliori esempi dell'architettura museale europea dell'epoca.

Come fondamento della legislazione pontificia, la più completa e avanzata d'Italia, modello — anche se non sempre adeguatamente recepito — di analoghe iniziative in altri stati della penisola, si colloca il pen­siero sull'arte elaborato dal Settecento in avanti — da Winckelmann a Lanzi a Quatremère de Quincy — in cui aveva preso forma il concetto della storicità dei prodotti artistici e del loro inscindibile legame con il contesto territoriale e culturale di cui sono espressio­ne. L'esigenza della conservazione non muove però solo da motivazioni ideali o utilitarie ma anche da precise motivazioni politiche, nel momento in cui lo stato «restaurato» ribadisce la propria autorità di ge­stione sul suo più prezioso patrimonio. Gli scossoni subiti dal patrimonio artistico come contraccolpo ine­vitabile del processo di liquidazione dei privilegi dell'ancien regime negli anni rivoluzionari avevano pro­vocato dispersioni e vendite a basso prezzo di cui avevano approfittato soprattutto gli agenti e traffi­canti inglesi, con la piena collaborazione dei mercanti italiani. A fronte di quelle cento opere selezionate dalle collezioni papali che presero la via di Parigi, questo fu un ben più grave saccheggio, continuato nel tempo e con in più l'aggravante che le opere passate in Inghilterra finivano in collezioni private e non in musei pubblici come in Francia. Al di là quindi di ogni affermazione politica o propagandistica, è l'im­prorogabile necessità di porre un freno alla continua dispersione del patrimonio artistico che spiega negli editti papali da un lato la minuziosa, fin pedantesca, elencazione di tutti i beni sottoposti a tutela e dall'al­tro il carattere coercitivo e poliziesco delle misure adottate per impedire l'esportazione delle opere e sottoporre a controllo il mercato e anche il collezionismo privato.

In questa ottica di conservazione non poteva man­care un'attenzione particolare per la tutela e il restau­ro dei monumenti di Roma: gli anni tra il 1806 e il 1830 appaiono infatti determinanti per la storia delle metodologie del restauro architettonico e conseguentemente del modo di considerare i monumenti antichi nel loro rapporto con la città moderna. Un confronto illuminante può essere istituito tra due interventi di restauro alla più celebre delle architetture antiche di Roma, il Colosseo. Nel 1806, a riparare i danni di un terremoto, Raffaello Stern attua sull'ala orientale un geniale intervento di consolidamento: un grande sperone di mattoni crea una struttura di rinforzo nella quale i conci di pietra sono fissati nel loro stato di crollo, con le crepe, le fratture, gli slittamenti di un'architettura in rovina. Con questa «fantasia» alla Piranesi si raggiunge il duplice scopo di dichiarare esplicitamente l'intervento moderno e di rispettare la condizione del monumento antico. A confronto appare molto più convenzionale il restauro attuato vent'anni dopo (1826) da Valadier sul lato opposto del Colosseo: una sobria ripresa in mattoni delle forme delle antiche strutture in traverti­no. Ma in quei vent'anni erano successe molte cose; soprattutto si era spenta quell'intelligenza critica, quella fantasia e audacia creativa che avevano segnato il rapporto tra architetti e antichità a Roma nell'età del Neoclassicismo. Valadier aveva in quegli anni compiuto il restauro dell'arco di Tito (1819-21) suben­trando nei lavori a Stern, precocemente scomparso nel 1820, ma soprattutto aveva subito una cocente sconfitta nella polemica insorta intorno alla ricostru­zione della basilica di San Paolo fuori le Mura semidistrutta da un incendio nel 1823. Il restauro dell'arco di Tito, spesso additato come esemplare ancora oggi, non manca invece di aspetti discutibili: noi non accettiamo più il principio — tipi­co dell'estetica classica — dell'isolamento del monu­mento, ottenuto con la distruzione del suo pittoresco contesto; d'altro canto sia la tecnica di ricomposizio­ne mediante pezzi originali recuperati dalle rovine, sia la reintegrazione delle parti mancanti con materiale diverso (travertino al posto del marmo) ma di colore simile sono tecniche poi largamente impiegate nel re­stauro moderno.

Ma il segno del cambiamento dei tempi appare in modo irreversibile nella soluzione data al problema della ricostruzione della basilica di San Paolo. Vala­dier aveva elaborato due progetti di ricostruzione to­tale, proponendo sobrie e solenni forme classiciste, ispirate alle terme romane. Il «partito» degli archeo­logi e degli eruditi, con lo zelante commissario Carlo Fea in testa, scatenò contro questa ipotesi una violen­tissima polemica, conclusa nel 1825 da un chirografo papale che imponeva i criteri della ricostruzione: «Niuna innovazione dovrà dunque introdursi nelle forme e proporzioni architettoniche, niuna negli orna­menti del risorgente edificio...». È l'atto programmatico di nascita del restauro «in stile» largamente pra­ticato lungo tutto l'Ottocento. Esso trae le sue moti­vazioni non solo dai nuovi interessi storicisti proposti dalla cultura romantica, ma da precisi orientamenti ideologici: non si era perdonato a Valadier il disprezzo palese per l'architettura «barba­ra» dei primi secoli del cristianesimo, che ora veniva invece esaltata e ammirata, coerentemente all'affer­mazione del filone «religioso» del Romanticismo so­stenuto dalla restaurata autorità del passato. Ma la sconfitta di Valadier si carica anche di altri significati: unico architetto di valore rimasto in Roma dopo la morte di Stern, compromesso con il passato regime napoleonico, in lui si intendeva colpire il pensiero utopico dell'architettura rivoluzionaria e negare insie­me la possibilità stessa di un'architettura moderna nelle forme e nella tecnica. Per i «signori Scalpellini e Architetti» — secondo le sprezzanti parole di Fea — non c'è più spazio a Roma: gli eruditi e i conservatori hanno ormai partita vinta.