di
Ceno Pampaloni
Il
mutamento all'interno della fede
L'itinerario
poetico di Lorenzo de' Medici e il trionfo dell'uomo umano
Il
volgare, lingua 'abundante e pulitissima'
«ldque
Fiorentie»: con questo orgoglioso sigillo Marsilio Ficino
destinava alla sua città il titolo nobiliare di capitale della
nuova età dell'oro, che aveva visto rifiorire e risplendere
tutte le arti, grammatica, eloquenza, pittura, architettura,
scultura, musica. L'orgoglio era forse tardivo; quando il
Ficino lo esprimeva, verso il declinare del secolo, quella che oggi diciamo
attualità culturale aveva già cominciato ad allontanarsi
dalle rive dell'Arno, verso la bottega di Magonza ove si era pubblicata la
prima opera stampata con caratteri
mobili, o verso le coste di Spagna, da cui stavano per salpare le caravelle di
Cristoforo Colombo (e del resto dal
suo stesso elenco delle arti erano escluse quelle attinenti alle tecnologie, embrioni di future scienze, in
molte delle quali si stava cimentando
il fiorentino Leonardo); ma non era
certamente, quell'orgoglio, ingiustificato. Il seme della nuova cultura era stato gettato a Firenze, e
l'Europa moderna vi avrebbe trovato
il suo primo modello. Sebbene sia astratto,
antistorico e in definitiva impossibile costringere in un disegno unitario le difformi e
contraddittorie linee di un intero secolo, percorso da una molteplicità di
impulsi, conflitti, mutazioni e osmosi, di carattere tanto socio-economico, quanto religioso e spirituale, filosofico,
scientiPico e letterario, appare
indubbio che il grandioso sincretismo in cui si manifesta la creatività degli uomini del Quattrocento ha il suo
fondamento negli studia humanitalis, nella riscoperta del patrimonio di
valori accumulato nei secoli della 'classicità',
eredità preziosa, in gran parte, sino ad allora, non ancora verificata, valutata e
messa a frutto.
Gli
studia humanitatis ebbero per centro Firenze, e 1''irraggiamento'
della sua cultura (la parola è di Eugenio Garin, il più accreditato
studioso contemporaneo di quell'epoca) segnò
indiscutibilmente la fisionomia del secolo. Almeno per la prima metà il
Quattrocento fu fiorentino, e l'Umanesimo fu la condizione e la premessa di un momento
di innovazione radicale, di ricerca, di invenzione, che
testimoniò in misura eccezionale la creatività umana. Il XV secolo fu un
secolo intellettuale (nel senso alto, vale a dire capace di riflessione sul significato del proprio operare proiettato sullo sfondo universale della natura e
del destino umani, un secolo
'filosofico'; nonché nel senso minore dell'apprezzamento
e divulgazione degli studi), quale nella storia dell'Occidente furono il V e il IV secolo a.C. in Grecia e il XVIII secolo nell'Europa
illuminista. Ammoniva Leon Battista
Alberti: «E vorrei io vedere e' giovani nobili più spesso col libro in mano che collo sparviere». Ma un simile invito allo studio non contrastava, o
per lo meno non era inconciliabile,
con l'affermazione del primato della vita
attiva sulla contemplativa, «voluntatem intellectui praeferendo » (secondo la formula di Coluccio Salutati), che fu dibattuta e sostenuta con vigore dalla prima
generazione quattrocentesca di
Firenze. La radice comune era «in
disseminandis litteris», come
diceva il Guarino, illustre educatore.
La
pianta uomo ha una struttura che la storia via via rivela ma
non può alterare («perché gli uomini [...] nacquero vissero e morirono sempre
con uno medesimo ordine»); e lo avrebbero dimostrato di lì a non molto proprio
altri due fiorentini, Machiavelli e Guicciardini; eppure, se l'idea di 'uomo
nuovo' non viene imposta dall'esterno, strumento totalitario di propaganda
e demagogia (e il nostro secolo ne conosce purtroppo bene le
forme) ma viene vissuta dall'interno di una cultura come tensione etica,
convinzione di vita, finalità esistenziale (e nel Quattrocento in molti
casi fu così), allora anche il ritorno agli antichi non ha più il significato
di un'imitazione, e sostanzialmente diviene l'itinerario verso una nuova
identità. «E necessario essere latino chi vuoi essere buon
toscano», scrisse il Landino, e noi suggeriamo proprio quella proclamazione
d'identità come insegna dell'Umanesimo quattrocentesco.
La
linfa vitale la portò la diffusione della conoscenza del greco,
e l'inizio del secolo possiamo retrodatarlo di qualche anno,
al 1396, quando arriva a Firenze Manuele Crisolora, e
vi apre una scuola di greco (sarà poi il traduttore della Repubblica di
Piatone). Cominciò così un trafPico intenso di codici tra Oriente e
Occidente, favorito dai frequenti rapporti d'affari, dalla
'fuga dei cervelli" dall'Oriente causata dalla pressione turca
attorno a Costantinopoli (che infatti cadrà nel 1453) e dal trasferimento a Firenze,
nel 1439, del Concilio di Basilea. Il Concilio, che sancì la riunificazione,
sia pur provvisoria, delle Chiese d'Occidente e d'Oriente, ebbe
un'importanza decisiva per lo sviluppo dell'Umanesimo fiorentino.
Vi intervenne anche l'imperatore di Costantinopoli Giovanni Vili Paleologo, con un
imponente seguito di dotti (pare 500), che si aggiungevano a
quelli della corte del papa Eugenio IV, reduci dall'aver rovistato
con fortuna nei conventi di Svizzera e Germania alla ricerca di testi
latini ivi sepolti e dimenticati. Tra i dotti orientali di lingua greca c'era
il futuro cardinale Bessarione, il quale sguinzagliò i suoi
inviati in tutto il Mediterraneo alla ricerca di testi
greci, mentre i Medici finanziarono, con lo stesso scopo, due
viaggi del bizantino Giano Lascaris. La nuova cultura nacque dunque come una biblioteca. «Murare
e riunire libri» era l'ideale dichiarato di papa Niccolo V (1447-1455),
«dotto e protettore dei dotti», il pisano Tomaso Parentucelli
che aveva collaborato, a Firenze, alla costituzione della Biblioteca di S. Marco
e che, da papa, arricchì straordinariamente la Biblioteca
Vaticana: vi trovò, nel 1447, tre opere in lingua greca, e la lasciò,
nel 1455, con trecentocinquanta. Attorno alla nuova biblioteca sorsero
nuove professioni. Gli scopritori di codici, anzitutto: a Poggio Bracciolini,
per fare un solo esempio, che fu Cancelliere della
Repubblica fiorentina (dal 1453 al 1459) e Priore delle Arti, si deve
tra l'altro il ritrovamento del testo completo del De Oratore
ciceroniano, di Lucrezio (De rerum natura), di
Quintiliano, di Valerio Fiacco, di Columella. Si trattava, dunque,
di una vera e propria rifondazione, come oggi si usa dire troppo spesso e anche
futilmente, della cultura, che imponeva non soltanto di affinare gli strumenti
di lettura e verifica dei testi (onde la crescita, in
quantità e qualità, di traduttori, filologi, grammatici, glossatori),
ma imponeva altresì di istituire nuovi parametri di valutazione dei valori
umani: «l'uomo umano», osservò Giovanni Gentile, fu il tema dell'Umanesimo quattrocentesco,
così come il secolo successivo avrebbe sviluppato il
tema dell'uomo nella natura. Ed è stato giustamente notato
(Tatèv) che il Quattrocento, secolo che abbiamo definito 'filosofico', non
esprime la sua filosofia in un sistema, e piuttosto la indirizza verso una
definizione della sapienza, arte del vivere, «uomo umano». Elemento fondamentale di
tale via alla sapienza, che ha il suo chilometro O nella 'virtù' degli antichi,
è la riscoperta del tempo, una sorta di stereoscopia nella visione
della storia. Ciò spiega come nel XV secolo maturi il passaggio dalla cronica medievale,
bassorilievo graffito a luce ferma e radente,
alla moderna storiografia. Ma c'è
qualcosa di ancor più importante da aggiungere.
Al di sotto degli entusiasmi eruditi, del fanatismo per la filologia classica, affiora, inquietante e sublime, rivelatrice e misteriosa, la memoria storica, la
coscienza della incessante creazione
di segni che via via l'uomo imprime
nel suo passaggio nel tempo; memoria storica che non è soltanto razionale misura, ma una dimensione della vita. Così
l'antichità, da terminus a quo, si trasforma in un terminus ad quem, che coinvolge
e impegna il destino. L'imitazione, ci piace ripetere, conduce a una nuova identità
del proprio essere. Attorno ai codici
nacque un mercato. Giovanni Aurispa fu il
dotto mercante che portò in Occidente, tra l'altro, l’Iliade, Eschilo,
Sofocle, l'Antologia palatina, molto Piatone. Niccolo Niccoli fondò nuove biblioteche. Ed è
chiaro che qui si trascrivono solo i nomi di alcuni personaggi emblematici, ma
l'elenco sarebbe foltissimo. Si rinnovò la professione del libraio, con
aspetti già quasi industriali. Il più famoso
libraio fiorentino, che aveva bottega davanti al Bargello, Vespasiano da Bistìcci, si servì di ben quarantacinque copisti, scriptores, per consegnare
alla costituenda Biblioteca di S. Marco duecento testi in meno di due anni; su
commissione di Federico da Montefeltro, realizzò per Urbino una splendida biblioteca di ottocento
codici; tutti manoscritti, annota, «e
non uno a stampa». Ma i tempi erano
maturi per un'editoria più democratica, consentita appunto dalla stampa tipografica; e già verso il
1470 si pubblicava anche a Firenze
un'opera a stampa, il commento di
Servio a Virgilio.
Peraltro,
gli umanisti rimasero a lungo una sorta di aristocrazia,
caratterizzata da un entusiasmo profondo per la renovatio
di cui gli umanisti stessi si sentivano i protagonisti;
ma anche da un geloso orgoglio del proprio sapere. Verso
la metà del secolo alla conoscenza del latino e del greco
si aggiunse quella della lingua ebraica. L'uomo ideale,
completo, fu l'homo trilinguis, in grado di accostarsi direttamente
a Cicerone, a Piatone e alla Bibbia. La nuova cultura consolidò il
carattere di universalità, che era del resto presente sia in Dante
sia nel Petrarca, e finì con l'abbattere le distinzioni tra pagano e cristiano,
tra laico e religioso, dando inizio, per questo aspetto, al mondo moderno.
Ma il secolo fu piuttosto demiurgico che democratico. La fine della
Repubblica fiorentina (1434) e l'inizio, in varie forme, della Signoria
dei Medici sancirono questa realtà, socio-culturale prima che politica. I grandi
ideali di pacificazione e di armonia sociale, la stessa 'eudemonia' dell'Alberti,
che illuminarono il secolo, sono più un preannuncio di utopia che di
egualitaria giustizia sociale in senso moderno. Non solo Firenze
ma l'Europa intera era uscita stremata dalle guerre, dalle carestie e dalle
pestilenze del XIV secolo; il livello demograPico era arrivato al suo
punto più basso (l'Europa non superava i 100 milioni di abitanti;
Firenze, che prima della peste del 1348 contava 110 mila abitanti, si ridusse
a 50 mila, e risalì faticosamente sino ai 65 mila
della fine del Cinquecento); incombeva la minaccia turca; la Chiesa era ancora scossa dalla lunga
crisi degli scismi; in molti Paesi,
Boemia, Transilvania, Austria, Slovenia,
serpeggiavano malcontenti e rivolte, che facevano seguito alle tensioni della jacquerie (1358)
e dei Ciompi (1378). In tale situazione socialmente depressa gli umanisti rappresentavano un'isola privilegiata e fatalmente
cortigiana. La nuova cultura,
fondata sulla dispendiosa ricerca dei
testi antichi e sull’otium necessario per studiarli, commentarli e divulgarli, aveva bisogno di mecenati,
e anche l'umanista intellettualmente
più intrepido si assoggettava di
necessità ai compromessi con il potere. Il beffardo spirito popolare fiorentino si faceva gioco di tutto quel
trafPico di dotti, filologi, grammatici, accademici, della esaltazione quasi maniacale per codici e ritrovamenti. Il
barbiere poeta detto il Burchiello
punzecchiava impietosamente la moda del
viaggio in Grecia: «Questi ch'andaron già a studiare a Atene - scriveva in uno
dei suoi mordaci sonetti - vorrebbonsi
mandare in Balordìa ».
E
tuttavia il moto della storia era più forte della pur giustificata
ironia popolare. Per uno dei non insoliti suoi paradossi, all'omologazione
della cultura europea promossa dall'Umanesimo corrisponde, ex contrario, l'avviarsi,
con l'eccezione dell'Italia, verso il consolidamento delle individualità
e unità nazionali; dalla Francia, che conclude (1453) la
guerra dei Cent'anni, alla Russia di Ivan III, alla Boemia di Jan Hus,
all'Olanda, ove la Lega Anseatica ha in questo secolo il momento di
massimo splendore. Le nuove Università, a Lipsia (1409),
a Lovanio, a Basilea, a Uppsala, ad Alcalà (1499), radicano la
cultura universalizzante dell'Umanesimo nel terreno delle
culture nazionali. Siamo ancora nella logica
dell'imitazione per l'identità.
Lo
stesso accade per le lingue nazionali, la cui funzione espressiva
si rafforza proprio nella distinzione dalla koinè dotta rappresentata
dal latino. Il preriformatore Jan Hus e il tradizionalista san
Bernardino predicano entrambi ne loro rispettivi volgari
(quest'ultimo teorizza addirittura la necessità del parlare «
chiarozo chiarozo » e prende in giro le smanie per il latino rifacendo il verso a
chi dice: « Hoc est corpusso meusso » ).
Secondo
la celebre condanna del Croce, il Quattrocento fu un secolo «senza poesia»; ma,
come vedremo, la lingua poetica italiana raggiunge, con il Poliziano -
soprattutto nelle Stanze che rappresentano una preziosa fusione
fra il poemetto della latinità decadente e la narrazione in ottave
di giostre e feste tipica della letteratura volgare - vertici di magica
eleganza che hanno riscontro nella pittura del Botticelli.
La diffusione
dell'istruzione fu dunque, ai diversi livelli, fenomeno europeo. Qualche
decennio più tardi (ma il fenomeno ha
radici nel XV secolo) Rabelais poteva osservare che ormai anche briganti
e palafrenieri erano più dotti dei dottori e
dei predicatori di una volta.
Alla diffusione
dell'istruzione aveva contribuito il formidabile sviluppo delle banche. E qui
dobbiamo addentrarci in una delle molte contraddizioni, o spinte dialettiche,
che animano il panorama del Quattrocento.
Il XV secolo, oltre che 'filosofico', fu un secolo mercantile. Luca Pacioli, il
matematico autore del De divina
proportione, il famoso trattato di geometria che ebbe il privilegio
di essere illustrato da Leonardo,
riassunse nella Summa de aritbmetica, geometria, proportioni et
proportionalità (1494) tutte le cognizioni, pratiche oltre che concettuali,
utili agli uomini del suo tempo,
compreso l'uso della contabilità a partita doppia, eredità del Trecento. L'usura fu uno dei temi più dibattuti nelle dispute morali e religiose: se
fosse compatibile con la morale
cristiana, se il prestito a interesse fosse da condannare in assoluto o soltanto oltre certi tassi. Un santo, Bernardino, concluse laicamente che, essendo
l'attività economica utile alla comunità, erano legittimi i suoi strumenti,
compresi prestiti e banche. Il motto diffuso nella vecchia società agricola, nummus non parit nummos, era ormai
definitivamente superato. Le conseguenze negative del crollo di grandi banche (come quello dei Peruzzi, travolti
dai prestiti a Edoardo III d'Inghilterra, verso la metà del XIV secolo)
consigliarono l'istituzione di banche pubbliche:
il primo esempio fu la Taula de canvi a Barcellona (1401). L'intreccio tra economia e politica era
ormai stretto, nel senso che il
potere aveva bisogno, per finanziarsi, del denaro dei banchieri, e i
banchieri ponevano loro uomini accanto ai potenti, nelle 'stanze dei bottoni'
dell'epoca. Tra i clienti dei banchieri
fiorentini figurano papi, re e duchi (di Sicilia, di Borgogna, di Francia, d'Inghilterra). Jacques Coeur (1395-1456), il grande banchiere francese,
il re dell'argento, la cui carriera, se pur breve ed effimera, va in parallelo
con quella di Cosimo de' Medici, fu membro del consiglio reale ed ebbe dal papa Niccolo V il comando di una flotta
spedita a difendere Rodi dai Turchi. Una parte non trascurabile della
fortuna dei Medici si deve al monopolio del commercio dell'allume, prodotto
chiave nell'industria tessile (per fissare
i colori delle stoffe), specie dopo la scoperta delle miniere di Tolfa,
vicino a Roma; e così della loro decadenza, quando il papa Sisto IV revocò a
Lorenzo quel monopolio e ne sequestrò i magazzini di Civitavecchia.
Le
grandi banche erano organismi molto complessi, le cui funzioni
non si limitavano ai prestiti di denaro, ma si estendevano al commercio
e all'industria, ai trasporti e alle relative assicurazioni,
configurandosi altresì come agenzie d'informazione. Il loro
spazio era naturalmente europeo: sedi e filiali erano dislocate sia nell'area
mediterranea sia nel Nord, a Bruges, Londra, Ginevra, Parigi, Lione, Anversa. Anche la struttura organizzativa si
modernizza: se le banche del XIV
secolo si fondavano su una struttura centralizzata, articolata su succursali
vincolate a Firenze, nel XV ci si
avvia a un razionale decentramento, con filiali relativamente autonome. Lo storico R. de Roover ha paragonato la banca dei Medici a una holding contemporanea
e se si osserva un poco lo schema
organizzativo da lui pubblicato, la sua modernità appare
impressionante. Dal capo della firm (Cosimo) e dal direttore generale
dipendono sia le attività industriali
tessili sia la Banca Internazionale, cui fanno capo le filiali italiane e straniere; alla filiale di Roma è affidato
il compito, delicato e importantissimo, di tenere i rapporti con il papato, cliente privilegiato. La finanza europea è sostanzialmente in mano fiorentina, e la
finanza moderna ha a Firenze la sua prima realtà. Se mi sono dilungato un po' su questo argomento,
non è stato per indulgere alla 'storia materiale', come
oggigiorno si usa e abusa, ma piuttosto per
mettere in evidenza il contrappunto
continuo che nel XV secolo dobbiamo riscontrare
tra il momento disinteressato, della incontaminata purezza delle idee-valore, e il momento pragmatico, volto
all'utile. Ciò che qui si è accennato a proposito della contraddizione biblioteca-banca dovremo ripeterlo molte altre volte: a proposito di arte e tecnologia, scienza
e magia, razionalità e misticismo, utopia e ingegneria, sullo sfondo dell'inesauribile dibattito tra Aristotele e
Piatone. Provo ad anticipare una
conclusione, partendo dal «si vuole
fare per ragione» che un cronista fiorentino considerava qualità
essenziale dell'attività commerciale. La natura della 'ragione'
quattrocentesca è complessa e per così dire bipolare. È una ragione ecumenica e
onnipresente sul piano storico, od
orizzontale, in quanto investe di sé, come strumento ordinatore, o del 'fare',
tutti gli aspetti della vita. Ma è una ragione limitata nel senso verticale, o
della spiritualità, in quanto il suo potere è insufficiente a raggiungere i valori dell'essere. Il contrasto, l'alternanza,
la dialettica tra il fare e l'essere,
che è uno dei crocevia più frequentati e inevitabili nella storia umana, ebbe
nel Quattrocento uno dei momenti di
maggiore intensità e autenticità. E ciò spiega lo splendore, la drammaticità e la necessità dell'arte del secolo.
Il
mutamento all'interno della fede
Se
il Medioevo fondava la sua cultura sulla fiducia negli assoluti, e Dante poteva
teorizzare Papato e Impero come i due soli che traggono
dalla volontà di Dio la loro legittimità di potere, l'uno
spirituale l'altro politico, nel Quattrocento il processo di
laicizzazione del potere avanza rapidamente insieme con l'articolazione in
Stati nazionali, Signorie, Città-stato e altre forme di autonomia. La sacralità
del papa e dell'imperatore diviene sempre più un ricordo. Atene, e non più Roma o
Costantinopoli, è la vera capitale della classicità, mentre altre capitali
emergono nel tumultuoso scenario europeo. Ha
un sapore patetico il tentativo di ridare
vita alle Crociate, dopo quasi quattrocento anni dalla prima, compiuto
da Pio II, il papa umanista, galante, mecenate geniale, liberale e scettico,
il papa meno guerriero che si possa immaginare: la sua morte ad Ancona, in procinto di salpare per la Terra Santa, è come il
panneggio di un sipario che si chiude
su uno spettacolo di disfatta. La crisi
della Chiesa si prolunga ben oltre la fine della cattività avignonese (1377) e la composizione dello scisma
d'Occidente (1417). I pontefici si
distinguono come protettori delle
arti e uomini di dottrina laica, non certo per fervore religioso. Ma il
Papato è messo sotto accusa non soltanto sul
terreno del costume, bensì anche nella sua autorità. Jean Charlier, detto Gerson, rappresentante
dell'Università di Parigi al
Concilio di Costanza, gli oppone il primato del Concilio, in una visione quasi federalista della Chiesa. All'elezione di Martino V partecipano infatti i
delegati delle Chiese nazionali. Il cardinale Zabarella, che per la
grande dottrina era detto il re del diritto
canonico, secondo uno storico francese, il Delumeau, arrivò ad affermare
che «la pienezza del potere [della Chiesa]
risiede nella massa dei fedeli». La Riforma non è lontana; come non è
lontana neppure la Controriforma, se è del 1483 l'istituzione della
Inquisizione spagnola a opera di Tomàs de Torquemada. Il secolo corre tra due roghi: Jan Hus, il riformatore boemo, viene bruciato a Praga nel 1415, e la stessa
sorte tocca a Firenze a fra' Girolamo Savonarola nel 1498. Ma la durezza repressiva non argina e non copre né le
istanze riformatrici da un lato, né la devozione popolare dall'altro. Se Hus era
dottrinalmente avverso al magistero cattolico di Roma, il Savonarola era 'il predicatore dei disperati',
e le sue severe rampogne volgevano soprattutto a un evangelico rigorismo morale di stampo popolare. Si
moltiplicano libri e pamphlets contro la simonia, vizio
evidentemente molto diffuso, e contemporaneamente il libro più letto del secolo
è l'Imitazione di Cristo, parola di
pura e ardente pietà. Al di là della
contrapposizione tra il dovere della povertà e il lusso della curia di Roma, della quale san
Francesco era stato il suscitatore e al tempo stesso, in qualche misura,
il moderatore (cercando di far rifluire lo
spirito della povertà e della carità evangelica entro la Chiesa), ciò
che si deve registrare è un mutamento
profondo, di natura culturale, all'interno stesso dell'universo della
fede. Non sono novità del XV secolo le
inflessioni che oggi diremmo populistiche (la Bibbia dei poveri), né quelle mistiche (l'ars moriendi); ma è nuovo, o in mutamento, il rapporto tra
gerarchia e credenti. La guida del clero si fa sempre meno indispensabile per il fedele, così come il 'fedele' fa
sempre maggiore spazio al 'cittadino'; la fede acquista sempre più i
caratteri della testimonianza personale: e in una simile dimensione
esistenziale noi cogliamo l'annuncio del mondo moderno. In corrispondenza dello
sviluppo socio-economico (ciò è ben noto, ma
non è inutile ricordarlo) le figure chiave dell'organizzazione ecclesiastica medievale erano state prima l'abate, sovrano del mondo monacense e rurale,
remoto e 'separato', poi il vescovo,
protettore e guida del popolo delle città; e il corrispettivo
architettonico-urbanistico era stato di
grandiosa evidenza, il passaggio dall'abbazia alla cattedrale.
Ora viene in primo
piano la figura del santo, di colui cioè che vive esemplarmente la pienezza
della propria fede. Il processo di
interiorizzazione dell'esperienza religiosa, che aveva avuto espressione
splendidamente attuale nel Secretum del Petrarca, ha nel
Quattrocento un momento di accelerazione;
ed è importante prenderne nota, in quanto quel processo, pur attraverso un
itinerario accidentato, si svilupperà sino ai giorni nostri, e proprio
nel Novecento avrà, e ha tuttora, una parte
non trascurabile nell'inquietudine
spirituale dell'uomo contemporaneo. «Meglio amare che conoscere», scriveva il già citato Jean Gerson, contraddicendo nell'intimo il secolo che pure
fondatamente abbiamo descritto come
secolo intellettuale, il primo 'secolo
dei lumi' dell'Europa moderna. Dobbiamo allora stupirci ricordando che nel mondo degli umanisti adoratori del
classico, da cui siamo partiti per questa rapida scorribanda, Dio aveva i nomi di Giove, Pan, Pallade, Cielo e altri
simili, che non credo irriverente definire come 'nomi d'arte' di Dio?
Torniamo
ancora una volta al nostro assunto. Come accade nei periodi di più creativo mutamento, le
contraddizioni si intrecciano in continuità.
Il XV secolo scopre Piatone e scopre
il Nuovo Mondo di là dall'Atlantico. Ma non solo: a quelle
contraddizioni fa da contrappeso la ricerca di un sincretismo conciliatore, di
una mediazione delle compresenze. L'unità
dell'uomo cristiano ha in questo secolo la sua ultima trincea.
L'orgoglio
intellettuale più impervio e adamantino risplende nel sonetto (da
Domenico De Robertis giudicato, con ragione, il più bel sonetto di tutto il
Quattrocento) che Filippo Brunelleschi
scrisse in risposta a Giovanni Gherardo
da Prato, il quale criticava come visionario, velleitario e 'impossibile' il progetto brunelleschiano della
cupola di S. Maria del Fiore. È il caso di trascriverlo per intero.
«Quando
dall'alto ci è dato speranza, / o tu c'hai efigia d'animai
risibile, / perviensi all'uom, lasciando il corruttibile,
/ e ha da giudicar Somma Possanza. Falso giudicio perde la baldanza,
/ che sperienza gli si fa terribile: / l'uom saggio
non ha nulla d'invisibile, / se non quel che non è, perc'ha
mancanza.
E
quella fantasia d'un senza scola, / ogni falso pensier non vede
l'essere / che l'arte da quando natura invola. Adunque
i versi tuoi convienti stessere, / c'hanno rughiate in
falso la carola, / da poi che 'l mio 'impossibil' viene all'essere
».
Il
dettato, denso e concettoso, non è facile a prima lettura, anche
se il vigore espressivo è di immediata evidenza. Il Brunelleschi
sferza subito il suo avversario, accusandolo di avere soltanto l'effigie,
non la sostanza di uomo (l'uomo è, aristotelicamente, 'risibile', cioè capace
di ridere, ciò che lo distingue dagli altri animali); e lo chiama subito a
un confronto ultimativo. La speranza, egli dice, allorché è concessa
da Dio, impegna l'uomo in ciò che egli ha di essenziale;
e le opere dell'ingegno umano, che sono appunto l'essenziale, hanno per
giudice supremo e unico Dio stesso. Gli sciocchi come te, aggiunge, sono
destinati a delusioni e fraintendimenti terribili di fronte alla prova dei
fatti. Per l'uomo vero, invece, niente è 'invisibile'; il suo ingegno
non conosce impedimenti alla conoscenza di ciò che è; e soltanto
l'inesistente gli è sconosciuto. Quanto poi alla tua fantastica
accusa di 'impossibile' rivolta alla mia cupola, incalza il Brunelleschi, è
un'accusa che nasce proprio dalla tua incapacità di riconoscere ciò che è, e
in questo caso è ciò che l'arte crea,
fa essere, rubando alla natura il segreto della vita. Il sonetto, che ha nella prima delle terzine la sua acme poetica, si chiude con un'altra sferzata, e con
un'ultima impennata d'orgoglio: disfa i tuoi versi,
Giovanni, la tua musica è un grugnito,
e la mia cupola, anziché 'impossibile',
in realtà è stata costruita, ed è. Al di là della mirabile potenza della concisione espressiva, l'importanza
di questo sonetto sta nella risoluta
affermazione ontologica dell'opera
d'arte: l'opera d'arte si oggettiva in un essere che si aggiunge, con pari dignità, alla natura; essa
rientra nei moduli di una filosofia
dell'essere, nella dimensione ontologica, degli assoluti. È noto l'entusiasmo
di Leon Battista Alberti pur la cupola brunelleschiana: «erta sopra e cicli,
ampia di coprire con sua ombra tucti e popoli toscani, facta sanza alcuno aiuto
di travamenti o di copia di legname [...] così forse appresso gli antichi fu non saputo né conosciuto».
E se consideriamo che il grande architetto fu a suo modo anche grande umanista, studiando
accanitamente «il modo di murar degli
antichi e le loro simmetrie [...] e le
loro proporzioni musicali», secondo la testimonianza di Antonio Manetti (andava
con amici e allievi a scavare nel Campo
Vaccino a Roma per trovare frammenti e testimonianze architettoniche, sì che
la gente li chiamava 'quelli del
tesoro', credendo appunto che cercassero qualche tesoro sepolto), dovremo concludere che la sua era
una ricerca congiunta dell'innovazione tecnologica e dell'armonia misterica della classicità, e che aveva come
esito un realismo supremo offerto, in
un confronto quasi paritetico, al
giudizio di Dio: un realismo che non imita ma ripete o continua o arricchisce il mondo creato, e non è
molto lontano dall'idea dell'uomo come
mortalis deus teorizzata di lì a poco da Giannozzo Manetti e in seguito
condannata dalla Chiesa. È questo un
aspetto essenziale dell'antropocentrismo
quattrocentesco, ed è il segno più chiaro del distacco dalla cultura medievale, ispirata al de contemptu mundi.
Leonardo ricordava all'uomo che c'era motivo di rallegrarsi
soltanto nel « conoscere il fine di quelle cose che sono disegnate dalla mente
tua ». Persine nel favore diffuso per l'astrologia e la
magia si affaccia, come vedremo, un'ispirazione antropocentrica.
Ma
per non allontanarci troppo, per ora, dal mondo brunelleschiano
e da quell' «essere / che l'arte da quando natura invola», occorre
ripetersi che il realismo supremo raggiunto nei capolavori
architettonici del Quattrocento è il risultato di una
prodigiosa compresenza di scienza e utopia, il XV secolo è il secolo delle
'macchine' leonardesche e delle città
ideali disegnate secondo numeri e geometria,
il secolo della tecnologia e di Piatone. In Olanda, a seguito della gravissima inondazione del novembre
1421 (la notte di santa Elisabetta),
si costruirono pochi anni dopo le
prime dighe a protezione contro la furia delle onde, e si prosciugarono i polder, le terre situate
sotto il livello del mare. La
Repubblica di Venezia bonificò, verso la metà del secolo, le paludi tra il Piave e il Brenta. Gli
Sforza fecero scavare il canale
della Martesana, congiungendo le acque di Milano con l'Adda. Oltre l'idraulica, l'ingegneria militare fece progressi decisivi, così come la balistica.
Si può dire, per farla breve, che non
ci sia settore di attività ove l'inventiva
non abbia lasciato il segno di un fervore intellettuale e pragmatico vivissimo. Della tipografia si
è già detto; ma sono da ricordare le novità delle armi da fuoco (verso la metà
del secolo capaci di scagliare il proiettile anche a un chilometro di distanza), la navigazione oceanica, i ruotismi che permisero la fabbricazione di orologi
portatili, per arrivare a tecniche contabili anticipatrici e a sistemi di assicurazione marittima adeguati all'intensificarsi dei
traffici commerciali. Emblematico di una simile proliferazione di 'invenzioni' ci sembra il fatto che prima della
fine del secolo prenda grande
sviluppo la legislazione sui brevetti, a ratifica di un'inarrestabile diversificazione tecnologica. Ma se scienza
e tecnologia premono verso il futuro, l'urbanistica progetta il ritorno all'Età dell'oro. Gran parte dell'urbanistica, disciplina che istituzionalmente coniuga
l'estetico e il sociale, la bellezza e la giustizia, la fantasia e
l'ordine, nel Quattrocento è di natura
utopica. Il principale ispiratore della
nuova città ideale fu Piatone, di cui all'inizio del secolo, come si è detto, il Crisolora aveva
tradotto in latino La Repubblica. Della città platonica non solo si ripete la pianta radiale, e più in generale la struttura
geometrica, ma se ne insegue il disegno ideale, il disegno utopico di un'armonia totale che la ragione guida persine al di là
di se stessa, verso la oltreumana
musica delle sfere. L'utopia si specchia,
mediatore il numero, nella perfezione degli assoluti («Tolte le idee di Piatone l'assoluto si perde », osserverà il Leopardi ragionando attorno all'essere). La più
tipica, e perciò irrealizzabile, città utopica fu la Sforzinda, progettata dal Filarete a immagine del cosmo e del suo
ordine immortale; progettata con il
compasso, si direbbe, un poligono a sedici lati inscritto in un cerchio. Pio
II commise al genio del Rossellino la
costruzione di Pienza sul vecchio borgo
di Corsignano, suo paese natale; e in un arco incredibilmente breve di anni fece sorgere una città
la cui magica e serena bellezza (vera
incarnazione della 'eudemonia' idealizzata
dall'Alberti) ha conservato il suo fascino intatto nei secoli. Il
Brunelleschi studiò con cura grandissima le prospettive
visuali della sua cupola, sia nel sistema viario (la via dei Servi convergente, con l'attuale via
Ricasoli, verso il Duomo, ne impone
l'aereo e potente volume a chi viene da Piazza della SS. Annunziata, da
lui stesso disegnata nell'elegantissimo portico) sia nell'arco dei colli
dominati da Fiesole. Ma forse il caso più esemplare della progettualità demiurgica che ispirò gli uomini del Quattrocento
è quello della villa medicea di
Poggio a Caiano, che Giuliano da Sangallo costruì ma che porta il segno,
appunto demiurgico, di Lorenzo il
MagniPico. In una sintesi armonica convergono tutti gli elementi costitutivi:
dalla positura nel paesaggio (dal
poggio che si affaccia verso la piana di Firenze sono sensibili le presenze
della quinta scura di Monte Morello, della striscia lucente - un tempo!
- dell'Ombrane, dell'ondulato colle di Artimino,
della sagoma ardua e familiare della cupola del Brunelleschi) alla sobria
compattezza delle strutture, ai materiali, alla sperimentazione di un nuovo tipo di agricoltura
razionale attuata nel terreno circostante, al gioco festoso di acque e fiori nel parco (il recente restauro della Primavera
del Botticelli ha consentito di
identificare non so quante decine di piante e fiori che il pittore aveva
riprodotto dalla realtà dei prati
attorno alla villa). Si ha insomma la possibilità, a Poggio a Caiano, di
riconoscere la mobilità del confine tra natura
e cultura al di là del quale si apre per l'arte del Quattrocento l'ardua
possibilità dell'essere. L'ispirazione primaria, più ancora che la sapienza
urbanistica e architettonica, è un progetto di vita.
L'itinerario
poetico di Lorenzo de' Medici e il trionfo dell'uomo umano
Secondo una ben nota
pagina del Machiavelli, in Lorenzo de' Medici convivevano due persone, l'una
dedita alla vita ‘voluttuosa', l'altra alla
vita 'grave'. Con lieve mutamento di accento, un corrispondente di Pico della
Mirandola, il dotto Ermolao Barbaro
confessa: «Duo agnosco dominos, Christum et litteras». Eccoci
di fronte a un'altra ambivalenza della cultura quattrocentesca, e che è
quasi irresolubile nella figura del principe mediceo che dominò la vita culturale italiana nella seconda metà del secolo.
« Corrotto e corruttore [...] cristiano e platonico in astratto e a scuola, in realtà epicureo e indifferente; [...]
maneggiava il dialetto con quella facilità che governava il popolo; [...]
divenute le feste e la stessa
letteratura mezzi di governo»: così lo dipinge il De Sanctis in un ritratto tanto suggestivo quanto tendenzioso. Si è anche dibattuto a lungo se la
sua vocazione primaria fosse la
politica o la poesia. Chi ci ha seguiti sin qui non si stupirà se esprimiamo il parere che proprio nel suo
raffinato eclettismo Lorenzo interpretava l'animo del suo secolo. L'eclettismo in lui faceva
ampiamente aggio sul presunto
dilettantismo (il tasso di dilettantismo è piuttosto scarso nel nostro
secolo; rimane memorabile la sentenza di
Leon Battista Alberti, per cui non v'è alcuna arte «anche minima, che non
ricerchi tutto l'uomo» - oggi diremmo 'che non impegni'; ma quel
'ricerchi' è stupendo: da il senso della
visitazione, dell'investigazione, della perquisizione e potremmo dire
dell'ossessione che l'ideale dell'arte opera nell'animo dell'artista). La sua
poesia sarà più 'scenica' che lirica, come
vogliono critici illustri; ma quand'anche si dovesse considerarla un gioco, si
tratterebbe pur sempre di un gioco tutto professionale, disciplinatissimo e perfezionistico. Del resto, nella sua
breve vita, Lorenzo fece in tempo a convivere con i grandi umanisti di seconda generazione (l'Alberti, Marsilio Ficino) e
con quelli della terza (Pico della
Mirandola, il Poliziano), con Savonarola
e con il giovane Michelangelo, per non dire della schiera innumerevole di grandi artisti che popolavano Firenze.
Il suo itinerario poetico può disegnarsi come un itinerario ad perfectionem scandito
in tre tempi quasi in progressione dialettica. Il primo tempo si pone sotto
l'influenza di quel poeta estroso e malinconico che fu Luigi Pulci, da cui
trasse il gusto per l'estroversione poetica popolaresca e spettacolare. Il secondo è dominato da Marsilio Ficino, il quale incarnò « l'ideale della
missione sacerdotale del filosofo» e,
nel segno di Platone, predicò «l'unità del tutto, l'armonia universale, la centralità dell'uomo, l'animazione e la vita del cosmo, l'amore e la
bellezza, la musica delle sfere: tutti
i grandi temi e le aspirazioni di una stagione eccezionale della civiltà» (Garin). Nel terzo il modello è il Poliziano, il poeta in cui l'Umanesimo
raggiunge la perfezione formale, e
l'universo della poesia si fa inattingibile
dalla storia. Il Poliziano è figura centrale nell'Umanesimo
quattrocentesco; quando noi leggiamo i famosi versi
delle Stanze dedicati al bosco del regno di Venere, che si aprono con un verso che faceva impazzire di
ammirazione, sulla cattedra di S.
Marco a Firenze, Giuseppe De Robertis («cresce l'abeto schietto e
senza nocchi») per la compatta
nitidezza, la cadenza insieme sobria e squillante, l'assenza totale del
non detto e, per magico contrasto, un alitare di misteriose presenze dietro
quell'immagine assoluta; e proseguono: «Surge
robusto el cerro, et alto el faggio,
/ nodoso el cornio, e 'l salcio umido e lento; / l'olmo fronzuto, e 'l frassin
pur selvaggio; / el pino alletta con suoi fischi il vento. / L'avorniol
tesse ghirlandette al maggio, / ma l’acer d'un color non è contento; / la lenta
palma serba pregio a' forti, / l'ellera va carpon co' pie distorti, ...», se
pure non conoscessimo i legami del poeta con
i pittori coevi, non esiteremmo un attimo a ritrovarci qui nell'aura preziosa, magica, nel realismo translucido di trascendente
delle tele botticelliane. Il
Poliziano fu la coscienza critica della letteratura, e possiamo dire:
della cultura, dell'Umanesimo; la sua
filologia e le sue letture critiche di poesia certificano e codificano la
raffinata complessità della sua fantasia. Ma proprio per questo egli è il
teorico della separatezza della letteratura. fl secolo quasi simbolicamente si
chiude con la pubblicazione a Venezia, per i tipi di Aldo Manuzio, nel 1499, della Hypnerotomachia
Poliphili, che è una sorta di summa della cultura classica rivissuta
in un gioco di assaporamenti verbali astratti sino al delirio, il trionfo dell'irrealtà agghindata da letteratura.
« Alcuna fiata dagli temperati spirari di ventuli il leve
indumento impulso [ = sospinto] accusava la pudica e scitula
formula [ = leggiadra forma]»
si legge nella descrizione delle vesti che coprivano e rivelavano il melodioso corpo della divina vergine
Polia; confrontiamo questo sospiroso erotismo ascetico
con l'erotismo tutto gaudente e anche verbalmente goloso dell'Hermaphroditus
di Antonio Beccadelli detto il Panormita (1425), che pure è anch'esso un
gioco letterario; e dovremo concludere, con le parole del De Robertis
jr., Domenico, che con l’Hypnerotomachia
assistiamo «ai funerali di
un'intera cultura».
Il fatto è che, se la poesia dell'Umanesimo si compie celebrando
la propria inattingibilità dalla storia, la storia invece 'tocca'
e galoppa. Cade definitivamente Costantinopoli (1453), e si recide per
sempre, dall'influenza italo-europea, l'area orientale del Mediterraneo, mentre i
grandi navigatori forzano le colonne d'Ercole, il Capo Verde e la linea
dell'Equatore, anticipando la fine dell'egemonia o centralità del Mediterraneo,
che sarà ratificata dopo i viaggi transatlantici di Colombo. L'Europa degli
Stati nazionali trova i suoi Re Magi,
secondo una pittoresca immagine di Francesco Bacone, nei re Luigi di Francia,
in Enrico VII d'Inghilterra e in Ferdinando il Cattolico in Spagna; si
ha un nuovo assetto (anche la Russia si
avvia all'unificazione con Ivan III, signore di tutte le Russie), nel
quale l'Italia divisa sarà ben presto tradizionale terra di conquista e di scambio. La nuova finanza europea sorge Oltralpe,
all'ombra degli Asburgo, e passa
dalle mani dei fiorentini a quelle della
famiglia Fugger, tessili e argentieri. La cultura umanistica, proprio allorché si era data, con il
Ficino, una filosofia, con Lorenzo
Valla una filologia e con Flavio Biondo
una storiografia (come al solito, noi sciaboliamo semplificando), era in realtà una cittadella
assediata. «Cosa ferma non è sotto la luna», annotava in
un bel verso Pico della Mirandola. E
tuttavia, prima che il mutamento si rivelasse in tutti i suoi esiti,
all'interno di quella cittadella superba e
moritura, la vitalità degli ingegni, rinvigorita dal serrato confronto con il mondo classico, celebrava
splendidi trionfi, e l'uomo umano'
portava le frontiere di quell'ingegno
sino ai misteri del cosmo e della materia, nell'orgogliosa presunzione dichiarata dal Brunelleschi
che «l'uom saggio non ha nulla d'invisibile», oppure nella
presunzione meno severa, anche se più seriosamente espressa, di «philosophica facere quae sunt amatoria» (ascrivere
alla filosofia anche le cose d’amore), come voleva Pico della Mirandola.
Pico della Mirandola nacque conte di Concordia, e in pochi casi il nomen fu
omen come nel suo. «Egli è capo della concordia
— scrisse Marsilio Ficino — perché riconcilia i giudei con i cristiani,
i peripatetici con i platonici, i greci con i
latini». La «concordanza omnium religionum in Christo» è il fondamento e il fine del suo pensiero. In ciò egli rappresenta
come forse nessun altro la tensione sincretistica
del secolo; forzando un po' il vocabolario nel senso dell'attualità, ma ricordando la considerazione che di lui ebbero
spiriti liberi come Tommaso Moro ed Erasmo, si potrebbe dire che Pico è un antesignano della cultura del dialogo e delle contrapposizioni ideologiche. La
sua figura e il suo nome sono passati in proverbio per la straordinaria memoria
e la conseguente erudizione; e in effetti a soli 23 anni presentò a Roma novecento Conclusiones philosophicae, cabalisticae et theologicae. Anche in ciò egli è l'emblema del secolo,
che fu, lo sappiamo, erudito, ecumenicamente
erudito. Ma per quello che riguarda il nostro discorso, due sono i punti
essenziali da segnare: la 'dignità dell'uomo', miraculum magnum, capace
di congiungersi a Dio, e quasi di
identificarsi con lui, per virtù d'intelletto (teorie come queste gli procureranno
la condanna della Chiesa, anche se a fondamento Pico ne poneva l'Incarnazione
di Cristo, restitutrice all'uomo della sua libertà); e soprattutto il tentativo di riunificare in una suprema concordantia il pur articolato e multiforme universo della ricerca umana della
verità. Non solo; Pico coniugò gli studi biblici con la cabala, la tradizione evangelica con la mistica ebraica,
il commento al Genesi e ai Salmi con il neoplatonismo dello Pseudo-Dionigi. Si è certo esagerato
nel mitizzare la sua figura come una specie di mago; ma sembra indubbio
che nella sua vorace e insaziabile ricerca della dimensione unificatrice del sapere (e del ruolo dell'uomo nell'universo) anche l'occultismo, la magia, le
suggestioni ermetiche in genere
ebbero parte di rilievo. Se la gloria e la felicità dell'uomo, dono di Dio, consistono in «id habere quod optat, id esse quod velit » (avere ciò che desidera, essere ciò che vuole)
la «philosophia perennis » è uno
spazio senza limiti. In ciò Pico si pone naturalmente nel cuore del secolo, che fu un secolo della
ragione e insieme dell'inquietudine
della ragione. Il filosofo è il grande
mediatore tra ragione e mistero, sposa la terra al ciclo «come l'agricoltore
sposa l'olmo alla vite». Si può forse
arrischiarci anche oltre; l'attenzione all'occulto non è, nel Quattrocento, superstizione, ma un altro
aspetto dell'utopia, l'utopia di
porre l'uomo all'incrocio, nella compresenza, di 'micro' e 'macro', di
esaltarne le potenzialità, lui, granello di polvere, di farsi signore
dell'universo. In questo senso anche
l'astrologia (contro la quale Pico si dichiarò nettamente; e più tardi
Erasmo ironizzerà su coloro che scambiano
il ciclo per una biblioteca, e gli astri per libri) ha una sua giustificazione. Non per nulla volte, pareti e
miniature raffigurano ora così spesso soli, pianeti, congiunzioni astrali. La conoscenza della posizione,
dei movimenti e degli influssi
degli astri, oggi si direbbe delle forze cosmiche, consente all'uomo di
esorcizzare i colpi più duri del
destino, di apprestare le difese della ragione umana contro ciò che può schiacciarla. Presso a poco lo
stesso si può dire dell'alchimia, sostituendo la materia al firmamento.
Astrologia e alchimia offrono un linguaggio simbolico capace di decodificare il
mistero.
Ancora una volta il fermento utopico rinvia a Piatone, e anche al Piatone
filtrato attraverso i libri ermetici del Trismegisto
o dei Neopitagorici. Siamo ricondotti per altra via a una conclusione ormai nota: le contraddizioni
nascono dal profondo della ricerca dell'unità.
Il
volgare, lingua 'abundante e pulitissima'
L'evento
poetico più importante del secolo, il Testamento di Francis Villon, non appartiene al Quattrocento, ma vi risale
dalle notturne scaturigini medievali, dalle taverne ribalde, dalle strade rese insicure dai briganti, dalle passioni
sanguigne certo non ingentilite dalla filosofia. Per il resto, il giudizio, già ricordato, del Croce, che dalla
morte del Boccaccio (1375) seguì un secolo senza poesia, è un giudizio irrefutabile; anche se (o forse proprio per
questo) era di moda mettere tutto in poesia, con una frenesia enciclopedica nobilitata dal verso. Nel contempo, e ancora
una volta a Firenze, la letteratura prefigura le proprie istituzioni future. Nel 1441 davanti a S. Maria del Fiore si
celebrò il primo premio letterario
dell'età moderna: una gara poetica in volgare sul tema della 'vera amicizia'.
Il titolo del concorso era solenne e
classicheggiante, Certame coronario, ma nelle intenzioni dei promotori, in prima linea l'Alberti, quel concorso doveva sancire le possibilità espressive
del volgare, lingua che, se «limata
et polita», poteva competere con il
latino. (Per la cronaca, il premio non fu assegnato; né ci fu una seconda edizione). Nel 1477 Lorenzo il
MagniPico inviò a Federico d'Aragona
la cosiddetta Raccolta aragonese, che è la prima antologia della poesia
in volgare condotta con seri criteri critici e filologici, come testimonia
l'epistola accompagnatoria, opera, sembra ormai ai più, del Poliziano, e anch'essa volta alla difesa e oggi si
direbbe alla promozione, della « abundante e pulitissima » lingua volgare, nonché
della sua già ricca tradizione poetica. Anche il popolare nasce dall'erudito; né poteva essere diversamente, nel secolo dell'Umanesimo; ma ciò conferma, da un
altro punto di vista, la costante aspirazione all'unità, alla conciliazione, alla coesistenza, che caratterizza la
cultura del Quattrocento: se potente
è la spinta alla transizione, non meno
potente l'ancoraggio al passato. Un felice riscontro lo troviamo in un elegantissimo poeta umanista, lo
spagnolo Inigo Lopez de Mendoza, marchese di Santillana, largamente
debitore degli italiani, che alterna raffinati petrarchismi a sfondo mitologico con la raccolta dei proverbi ripetuti dalle
vecchiette attorno al fuoco. Ma il secolo fu più filosofia) che poetico: e
l'Europa intera pullula di
dissertazioni, disputationes, dialoghi, orationes, invectivae, nonché delle consuete vite dei santi e gesta dei re. Che poi accanto a una simile orgia di
dottrinari, tra i quali peraltro
altissimi ingegni, corresse una vena plebea e ridanciana (il ricordato
Burchiello, la favola di Geta e Birria,
il celebre Pievano Arlotto), o satirico-moraleggiante (la cui forma letteraria era la 'frottola'), ciò è
del tutto fisiologico e normale. Vorremmo soltanto segnalare come, ai margini di quel filone, si collochi la novella del
Grasso Legnaiuolo, attribuita ad Antonio di Tuccio Manetti e ispirata dal Brunelleschi: un racconto
letteratissimo, vero capolavoro di realismo allucinatorio (la perdita di
identità del Grasso cui la burla
degli amici finisce con il far sospettare
di essere veramente Matteo ha connotati più inquietanti e moderni della novella boccaccesca di
Calandrino). Verso la fine del secolo
la poesia si ridesta; nella direzione dell'eleganza
erudita e insieme musicalissima, di cui il Poliziano è l'emblema e il vertice, e di cui una suadente replica ci è data da Jacopo Sannazzaro (la sua Arcadia non
per nulla catalizzò per secoli le
nostalgie classicistiche); e nella direzione
di una nuova narrativa, che rifulge nel Pulci e soprattutto in Matteo Maria Boiardo. Morgante, dell'uno, e Angelica, dell'altro, sono due personaggi che
irrompono con irresistibile freschezza
nel repertorio del mondo. Il Boiardo
giovane, quello del Canzoniere, era poeta di finissima tessitura (« bianco ligustro,
bianchissimo ziglio... »: che bel
verso d'amore!); ma il meglio di sé lo dette nel pur diseguale e
frammentario e puristicamente non irreprensibile
Orlando innamorato; ove è proprio la discontinuità del fluire narrativo, il procedere del poema per
episodi, quadretti, intermezzi,
flash, a dare il senso tutto moderno di un raccontare figurativamente incisivo, di un urgere quasi drammatico
di figure e vicende che sentiamo più vicino a noi
che agli stereotipi della classicità. Analoghe osservazioni si possono fare per il Novellino di
Masuccio Salernitano: il grande
modello è il Boccaccio, ma la temperata, sapiente, sinfonica ironia del modello si sfrangia in
figurazioni sfrenatamente cupe e
ossessive ove anche il satirico ha un suono
stridulo, sinistro, presago di angoscia. Del resto, accanto alle
stilizzazioni erudite e ai moltissimi omaggi
al canone dell'imitazione degli antichi, corre frequente una vena
realistico-narrativa entro la quale anche una rapida spigolatura darebbe
piacevoli frutti. Penso alle Istorie
fiorentine di Giovanni
Cavalcanti, e, per esempio, alla descrizione di una battaglia nel caldo
soffocante dell'estate, che copriva i
combattenti di polvere e sudore. Erano così stanchi e assetati, quei
combattenti, che « mettevano per li
vasi [ = nei secchi d'acqua]
il viso; e co' denti mordevano
l'acqua, come fa il veltro quando per lunga cacciagione ha corso il fuggente animale». Penso a quel grande narratore naturale che fu Poggio Brecciolini, alla sua scoperta, nel Monastero di San Gallo, in
Svizzera, di un codice di
Quintiliano, abbandonato « in teterrimo quodam et obscuro carcere, fundo scilicet unius turris»; o alla gustosissima descrizione dei bagni di
Baden, il malizioso stupore per la
promiscuità di uomini e donne, queste ultime «verenda et nates
hominibus ostentantes». I
carteggi, si sa, contengono tesori in ogni tempo. Ma è giusto non dimenticare,
fra tante carte ove si disputa attorno alla fama, alla virtù, al primato di questa o quell'arte, anche le voci umane del narratore occasionale, che rimodella la propria
esperienza secondo un gusto
concreto della realtà.
Come
era naturale in una società aristocratica, teoria e pratica
dell'educazione furono aristocratiche e finalizzate alla mentalità e ai bisogni di una classe dirigente il cui ideale era comprensivo tanto dei piaceri della cultura
quanto dell'esercizio del potere.
Nel passaggio dal Medioevo all'Umanesimo, l'istruzione si diffonde; ma si sposta
verso i ceti alti. Ancora una volta, l'ideale di armonia, che è la
costante culturale del secolo, ha per esito una scissione. L'uomo nuovo è un
uomo completo, ma al tempo stesso è un
privilegiato. Nella 'Casa giocosa' che Vittorino da Feltre aprì a Mantova,
e che inaugura per molti aspetti la pedagogia
moderna, si insegnava tutto, dal greco alla ginnastica, dalle arti del trivio e del quadrivio alla
caccia; era così ben articolata che
non poteva essere che per pochi. Coltivava razionalmente pensiero e azione, conoscenze aggiornate in ogni campo dello scibile e socialità; ma partiva dal presupposto che la sua cultura fosse quella di una società perfetta da perpetuarsi. Ciò risponde alla
profonda ispirazione, che possiamo dire primaria, della cultura
dell'Umanesimo, «lpse
Deus laeto spectat mortalia vultu»; l'ottimismo di Giovanni Fontano ne è quasi un'insegna,
anche se il celebre comandamento di
Leon Battista Alberti: «investigando,
misurando, considerando e disegnando» ne costituisce il necessario momento sperimentale. La pax philosophica, l'acquisizione di una fondamentale certezza, sembra un obiettivo
possibile, se anche la filosofia è pia philosophia, avendo teorizzato la conciliazione dell'uomo con Dio, liberatrice
del nuovo laicismo dai cupi terrori medievali.
Nel pensiero di Nicola da Cues, o Cusano, uno dei maestri del secolo (religioso tedesco di
formazione italiana: amico di Paolo
Toscanelli, la cui celebre carta nautica fu ben presente a Cristoforo Colombo, e amico anche di Vittorino da Feltre), alla filosofia è subordinata
anche la scienza, poiché soltanto
alla filosofia è dato di concepire l'infinità di Dio, inaccessibile alla
ragione. Anche secondo un altro maestro del
secolo, Marsilio Ficino, la lezione di Aristotele
è limitata alle scienze fisiche, mentre alla nuova filosofia spetta il compito ben più arduo ed
essenziale di «sorprendere il fondo
misterioso dell'essere» (Garin). Il vero
specchio dell'universo è l'uomo, il quale « si innalza a guardare quel volto di Dio che dentro all'anima
risplende ». Il simbolo, e si
direbbe lo strumento culturale di una simile ispirazione supremamente conciliativa, fu Piatone, con tutto ciò che di religiosità cosmica Piatone
portava con sé e con tutto ciò che
poteva essergli attribuito di presagio cristiano.
Un altissimo irenismo, ove confluivano la Grecia, la Bibbia, i Vangeli, i Libri ermetici, il numero e
l'utopia, illumina la cultura del secolo, che fu l'ultimo a tentare una sintesi totale nel segno del Cristianesimo. Nel
contempo, il risveglio intellettuale
e il progresso scientiPico ed economico
aprivano contraddizioni e incrinature in quel sogno di perfezione. All'aprirsi del XVI secolo Erasmo
riassumerà le visioni di quel sogno
con una malinconia che ha già risonanza
di epicedio. Ma intanto l'estrema tensione di una cultura che aveva
ostinatamente cercato di comporre la propria
identità e unità ricostruendola a partire dal modello dei classici si era espressa in forme tra le più
splendide della storia dell'umanità. Tutti i secoli, è ovvio, tutto il
corso del tempo e della storia sono momenti
di transizione. Ciò che fa singolare
il XV secolo non è la consueta tensione tra rinnovamento e tradizione, anche se in esso ebbe straordinario
impulso e vigore; ciò che fa singolare il XV secolo è una diversa tensione, tra rinnovamento e perfezione, tra il mutevole fare storico controllato dalla ragione e
l'essere alla cui conoscenza l'uomo
tende con le sue più profonde forze creative.
Ad essa si deve, credo, una parte essenziale nel miraculum magnum che fu l'arte del Quattrocento.