Documento
e immaginazione:
l'interpretazione dell'antico in Piranesi
(E.Barati – A. Finocchi)
Nel 1748 esce a Roma una la
edizione di Antichità romane de' tempi della repubblica e de'primi imperatori di
Giovan Battista Piranesi (cui seguirà nel 1756 la più famosa, monumentale raccolta in 4 volumi di Antichità romane). Piuttosto che ai repertori archeologici già citati questa prima serie di incisioni di monumenti romani di Piranesi è legata al gusto della veduta; tuttavia, benché non si proponga come «manifesto» teorico dello studio dell'antico, essa ha egualmente — a una data così precoce — un alto valore programmatico. I rigidi schemi di certa
storiografia artistica hanno
incontrato difficoltà nella «classificazione» di questo personaggio: nato a
Mojano di Mestre nel 1720 ma, dopo il 1740, vissuto quasi sempre a Roma dove muore nel 1778; avviato allo
studio dell'architettura ma, benché
ami firmarsi «architetto veneziano»,
dedito soprattutto all'incisione; sospeso tra primo e secondo Settecento, tra la tradizione della veduta e i nuovi orientamenti classicisti.
Il primo Settecento sopravvive nella sua
opera nel descrittivismo del vedutista, nel gusto per i
tagli scenografici alimentato, oltre che
dalla tradizione dei Bibiena, dalla
conoscenza dell'attività romana di Juvarra come scenografo. D'altro canto la
qualità documentaria delle sue
vedute di Roma antica e moderna appartiene di diritto al mondo della razionalità illuminista. Quello che soprattutto
caratterizza l'opera di Piranesi è
l'interpretazione in chiave drammatica dei soggetti che incide. Le
invenzioni da visionario delle Carceri (la
ed. 1745; ed. definitiva 1761)
rivelano appieno il tono esaltato dell'oratoria piranesiana: contro la logica prospettica dell'accademia, contro la razionale necessità di definire un
centro spaziale da cui partire per
misurare lo spazio stesso e per
individuarne l'ordine globale, Piranesi disegna spazi immensi e
impossibili, disarticolati e frammentari.
Questa intonazione drammatica, sottolineata dai chiaroscuri intensi e severi, non appartiene soltanto al mondo fantastico delle Carceri, ma
informa di sé anche il rapporto di
Piranesi con l'antichità, in antitesi
rispetto all'olimpica visione di Winckelmann. Nelle tavole delle Antichità al
rigore documentario si unisce — ed
emerge — lo sbigottimento di fronte alla grandezza ineguagliabile dei monumenti antichi, di fronte a un passato che non può rivivere, ma che si
può soltanto rievocare attraverso le
sue rovine.
Dal rapporto con questo mondo morto, con la
monumentalità dei ruderi, con la casualità dei frammenti di iscrizioni o di fregi, con tombe e
sarcofagi nasce insieme allo
sbigottimento l'esaltante sentimento del rapporto
dell'uomo con la storia e con il tempo. Il tema
della meditazione sul valore evocativo dei sepolcri percorre con accenti diversi la cultura tra la fine del Settecento e gli inizi dell'Ottocento: in
Italia si va dalla precoce e
significativa interpretazione di Piranesi
a quella di Canova, ai Sepolcri di Foscolo.
In una delle opere-chiave della sua
produzione, // Campo Marzio dell'Antica Roma (1762) — dedicato all'inglese
Robert Adam, spesso compagno di Piranesi nelle ricognizioni tra le rovine — la volontà, tutta illuminista, di restituire l'immagine e la storia di
una vasta e cruciale zona di Roma
mediante analisi minuziose della topografia e dei resti, si intreccia
in maniera esemplare con il drammatico
impatto con le testimonianze dell'antico.
Questo si fa evidente quando Piranesi, isolando dal contesto i singoli
edifici, attribuisce loro uno sconvolgente
potere evocativo. Il punto d'approdo di questo percorso si può collocare nelle acquaforti dei templi di
Paestum (1777-78; completate dal figlio Francesco),
nelle quali l'ultima riflessione di Piranesi sull'antico, l'ultimo confronto tra un uomo e il passato trova un emozionante mezzo espressivo
nell'intensità degli effetti chiaroscurali, nella potente incisività del segno, nelle straordinarie inquadrature che
spingono obliquamente i colonnati
verso il primo piano.
Nell'unica opera architettonica realizzata da
Piranesi, la ristrutturazione del complesso della piccola chiesa di Santa Maria
del Priorato di Malta sull'Aventino con la
piazzetta antistante (iniziata nel 1764), si
traduce la complessità della sua percezione di Roma. I trofei di armi e di emblemi, gli
obelischi, i festoni, le targhe che
campeggiano sul muro di recinzione della
piazzetta, l'ingresso alla villa del Priorato, la stessa facciata della chiesa sembrano composti con frammenti di antichi marmi, con relitti della
città antica aggregati in maniera
apparentemente casuale, in un brulicante
accavallarsi in cui solo la lettura analitica permette di distinguere i motivi
pagani da quelli cristiani, di individuare
collegamenti o di isolare simboli, spesso difficilmente decifrabili.
La decorazione invade anche la bianca
facciata della chiesa, ma la scelta
delle limpide forme geometriche e dei distesi piani di fondo indica il superamento della predilezione per i valori plastici e pittorici
dell'architettura tardobarocca. Nel
luminoso interno i richiami al Borromini
di San Giovanni in Laterano, negli stucchi e nella concezione di
rinnovamento di una precedente struttura
architettonica, indicano un altro polo della ricerca formale e storica di Piranesi. Nella complicata «macchina» dell'altare, dove si assommano
l'assoluta purezza geometrica della
sfera e brani decorativi e figurativi,
Piranesi ribadisce l'atteggiamento che caratterizza le sue raccolte d'incisioni: rigore razionale e volontà di ordine ed equilibrio non riescono a
imporsi e a dominare il mondo del
frammentario, del casuale, dell'informe.