Nascita del Neoclassicismo in Italia
(E.Barati – A. Finocchi)
Roma: «la grande scuola del mondo»
Nella seconda metà del Settecento, da Winckelmann («È Roma... la grande scuola di tutto il
mondo») a Goethe («la magia con la quale
Roma ci incatena»), viaggiatori più o
meno illustri, amatori d'arte, artisti, intellettuali di tutta Europa
alimentano con ininterrotta passione il
mito di Roma. La città, culturalmente inerte e in palese decadenza
politica ed economica, si offriva alle esperienze degli stranieri nella spettacolare e unica stratificazione delle sue
testimonianze storiche. Per gli intellettuali europei Roma diventava una dimora d'elezione, la patria perduta e ritrovata, dove acquisire nel colloquio diretto
con la storia gli elementi di una
nuova «rinascita» nella coscienza
individuale e nell'ipotesi di una rigenerazione collettiva del mondo presente. La continuità dell'ideale classico, dall'antichità a Raffaello a Poussin,
rappresentava una sorta di cerchio
magico che esercitava un irresistibile
richiamo. L'esperienza dell'antico era in
Roma una realtà tangibile e verificabile: e insieme poteva alimentare una
visione mitica — la proiezione dalla
Roma reale a una Grecia sognata — o ancora suscitare più inquietanti risposte a livello esistenziale. Si può così comprendere la coesistenza di molte e diverse vie del ritorno all'antico: la grandiosità
insieme gloriosa e funerea delle
rovine descritte dall'occhio
visionario di Tiranesi, lo sbigottimento e il senso di dolorosa insufficienza di Fussli davanti a una
grandezza irrimediabilmente perduta; all'opposto il modello etico di austero rigore morale proposto da
David per il mutamento rivoluzionario
del presente; o ancora, su un altro
versante di positività, l'interpretazione di un antico rassicurante, vivibile nell'esperienza quotidiana, fornita da Robert Adam; o infine la
conciliazione di bello di natura e
bello ideale nella grazia intellettuale
e sottile dell'opera di Canova.
Non solo per chi da Roma traeva stimoli tanto profondi e determinanti per il proprio
operare, ma per le tante e svariate
categorie di viaggiatori era desiderio vivissimo portare con sé al ritorno dal
viaggio immagini e oggetti che
ricordassero l'esperienza vissuta nella città. Il «museo di Roma» di cui parla
l'intellettuale francese
Quatremère de Quincy — composto «di statue, di colossi, di templi, di
obelischi, di colonne trionfali, di
terme, di circhi, di anfiteatri, di archi di
trionfo, di tombe, di stucchi, di affreschi, di bassorilievi» ma anche «di luoghi, di paesaggi...,
di strade, di vie antiche..., di memorie, di tradizioni locali, di usanze ancora in vita» — alimentava una
produzione intensissima di dipinti, stampe, disegni di vedute della
città, dei suoi monumenti e delle opere più famose. Lo
smercio dell'immagine di Roma — a livelli superiori a ogni
altra città, Venezia compresa — abbinato alla vendita di calchi,
copie e falsi di pezzi antichi e moderni prodotti a getto
continuo da botteghe specializzate costituiva un'attività
commerciale sempre più rilevante e redditizia. Ogni amateur avrebbe
voluto possedere una «galleria immaginaria» di memorie romane
del tipo di quelle dipinte da Pannini per l'ambasciatore di
Francia. Uguale successo arrideva a interpretazioni
dell'immagine di Roma tanto diverse come quella insieme
lucidissima e drammatica di Piranesi e quella affabile e
popolaresca proposta da Bartolomeo Pinelli. Nelle raccolte di stampe di
quest'ultimo, dedicate a una Roma «minore», ove l'antico si
mescola
al pittoresco delle feste, dei mestieri, dei costumi popolari, prende vita quell'immagine colorita e chiassosa di una Roma grande e miserabile che avrà
grande fortuna lungo l'Ottocento fino all'estrema banalizzazione della cartolina illustrata o di una
certa cinematografia di «costume».
I
teorici
Poco
dopo la metà del Settecento a Roma tra le infinite
occasioni di incontro e di scambio una se ne verificò di
importanza determinante per l'orientamento della ricerca
artistica: l'incontro tra due tedeschi, Anton Raphael Mengs e
Johann Joachim Winckelmann. Il rapporto di amicizia e di intenso
scambio intellettuale tra Mengs — figlio di un pittore,
portato dal padre a Roma già nel 1741 a formarsi su Raffaello e
sulla grande tradizione classicista — e Winckelmann — figlio
di un ciabattino, giunto finalmente a Roma nel 1755 dopo aver per
anni alimentato
con la lettura di testi classici la sua passione per l'antico — si sviluppò sotto l'egida del più grande collezionista e cultore dell'antichità del
momento, il cardinale Alessandro
Albani. La qualità del legame tra il
mecenate e artisti e intellettuali del suo circolo trova espressione di grande evidenza simbolica nel
luogo stesso eletto per i loro incontri: la villa-museo del cardinale sulla via Salaria (vedi nota). «Ci andiamo la sera — racconta Winckelmann —, e passeggiamo col Cardinale...». Questo passeggiare conversando,
di poche sceltissime personalità, tra le opere
di statuaria antica scelte e disposte con appassionata cura e finissimo gusto dal cardinale, sullo
sfondo dei lauri, dei mirti, dei cipressi
del parco, va al di là dell'ambizione
intellettualistica di ricreare la villa antica; e supera i limiti eruditi dello studio antiquario per fare
dell'antico, amato con autentica e totale passione,
una realtà viva e storicamente operante nel presente. La stima e la liberalità del cardinal Albani permisero a Winckelmann di realizzare il sogno
lungamente accarezzato di una vita
dedicata allo studio e alla ricerca
dell'antico, di scrivere i suoi saggi più significativi, di acquisire infine
quella fama universalmente
riconosciuta che gli fruttò nel 1763 l'incarico di commissario delle antichità
di Roma. Dal 1757 villa Albani è il
suo regno: segue con autorità le fasi conclusive dei lavori («non si fa nulla
che io non approvi»), sovrintende alle collezioni del cardinale, svolge
un incarico di bibliotecario che in realtà è
in funzione esclusiva dei suoi studi.
Mengs
era già a uno stadio avanzato della sua elaborazione teorica (contenuta nei Pensieri
sulla bellezza, pubblicati a Zurigo nel 1762 con dedica a
Winckelmann) quando nella realizzazione del Parnaso a
villa Albani (1760-61; cfr. fig. 453) volle programmaticamente
dare forma al pensiero dell'amico; questi, impegnato in quegli
anni alla sua opera fondamentale, Storia dell'arte
presso gli antichi, sarà a sua volta profondamente colpito
dallo scritto di Mengs. In un momento in cui il contributo
italiano alla teoria dell'arte è praticamente nullo, il tedesco
romanizzato Mengs, «pittore-filosofo», si assume il compito
di recuperare la grande tradizione italiana, in una nuova sintesi, collocandola
nuovamente nell'ambito della cultura europea. Riallacciando i fili interrotti
della teoria classicista italiana — Bellori in particolare
(cfr. p. 58) — Mengs ricompone un percorso che collega idealmente
l'«età d'oro» degli antichi alla nuova «età d'oro» di Leone X — incarnata
in Raffaello — per giungere, attraverso i maestri del
classicismo seicentesco, al nuovo classicismo di cui egli stesso si fa
portavoce. In evidente contrapposizione con gli aspetti ambigui e
irrazionali del gusto rococò, Mengs propone come «esempi
d'imitazione» i grandi maestri per poter
giungere alla bellezza, che «è dipendente
dalla ragione», che non esiste «perfetta» nella natura ma lo diventa nell'arte attraverso la scelta di quanto in natura è «il meglio e il più utile».
La fama internazionale di Mengs,
pittore ufficiale di Carlo III a Madrid
(1761-71; 1774-77), eletto principe dell'Accademia di San Luca a Roma (1771) e direttore onorario di quella di Madrid (1774), assicurò alle sue
teorie una larga diffusione e
fortuna; esse furono tuttavia rapidamente
assimilate dall'ambiente accademico in un'accezione
dogmatica e riduttiva che ha a lungo pesato negativamente sulla valutazione —
come pittore e come teorico — del loro autore.
Meno compiuto e sistematico rispetto alla
teorizzazione di Mengs, sulla
quale pure influì direttamente, il
pensiero di Winckelmann è tuttavia più ricco di potenzialità e la sua importanza dal punto di vista metodologico travalica l'ambito di studio cui
è principalmente dedicato, cioè
l'arte antica. Winckelmann, può essere infatti
a buon diritto considerato il fondatore
della «storia dell'arte» in senso moderno. Nella sua opera lo studio dell'antichità supera di slancio l'arida erudiziene archeologica per attingere
al più elevato livello della
dimensione storica e della definizione
estetica. È ancora la ragione illuminista che regge il limpido disegno della Storia dell'arte presso gli antichi: in essa per la prima volta le opere «dell'antichità» cessano di essere
accomunate in un tutto indistinto e vengono inserite in una compiuta
dimensione storica, articolata in
diverse fasi che si succedono dalle
origini dell'arte greca ai secoli dell'impero romano. Sequenze cronologiche e
raggruppamenti di opere sono
costruiti da Winckelmann secondo un metodo nuovo e moderno, quello dell'analisi stilistica. Il fatto che egli lavorasse — senza saperlo — per la
maggior parte su copie romane e non
su originali greci non infirma la
validità del metodo. Non era però solo un'esigenza
storicista che animava Winckelmann: nell'arte greca egli ricercava le
leggi di una bellezza universale, le leggi
da proporre ai suoi contemporanei perché
attraverso «l'imitazione degli antichi» potessero «divenire grandi e, se possibile, inimitabili». Attraverso lo studio dell'antico, Winckelmann si proponeva quindi la fondazione di un'estetica per il
mondo moderno. Nulla c'è che
maggiormente tradisca la potenzialità
e la ricchezza delle sue proposte quanto la loro riduzione accademica al solo principio dell'imitazione di un modello assoluto di perfezione. Vero è che in tutte le sue opere — dai Pensieri
sull'imitazione dell'arte
greca (1755) ai Monumenti
antichi inediti (1767) — Winckelmann ha attuato un'idealizzazione mitica dell'arte greca, attraverso un continuo,
appassionato vagheggiamento della bellezza. Questa visione estetica non è tuttavia mai pura rievocazione
estetizzante: lo sguardo
retrospettivo si attualizza nel presente
e si finalizza nel futuro: la Grecia è proposta a modello perché in essa si
verificò la coincidenza di Bellezza e
Verità, di Bellezza e Virtù, di Bellezza e Ragione. L'ideale estetico viene così a coincidere con l'ideale etico e politico.
Molti dei princìpi del pensiero illuminista
sono alla base delle teorie di Mengs
e di Winckelmann. L'aspetto più
rigorosamente razionalista trova un evidente riflesso nell'opera di un altro teorico del nuovo classicismo, Francesco Milizia. Giunto a Roma nel
1761, egli entrò presto in
contatto con la cerchia di artisti e letterati
attorno a Winckelmann e si legò d'amicizia con
Mengs, che ammirò come pittore e di cui più tardi
riprese, forzandoli per intransigenza polemica, i princìpi teorici (Dell'arte di vedere nelle belle arti secondo i principi di Sulzer e di Mengs, 1781). L'importanza del contributo di Milizia alla
formazione dell'estetica del nuovo
classicismo risiede soprattutto nel suo prevalente e costante interesse per
l'architettura (da Le vite de 'più
celebri architetti..., 1768 ai Principi di architettura
civile, 1781). Milizia si riallaccia sicuramente
al filone razionalista degli scritti settecenteschi sull'architettura, al funzionalismo di un Lodoli o al classicismo di un Algarotti (cfr. cap. xra), ma
la sua posizione è assai più risoluta
e il suo tono ben più aggressivo. La diffusa polemica contro il Barocco e il Rococò non aveva ancora raggiunto gli accenti di quasi fanatica violenza che animano le pagine di
Milizia (cfr. anche p. 44). Il
rigorismo funzionale («quanto è in
rappresentazione ha da essere in funzione») e le scelte formali («lo stile semplice e grande» dell'architettura greca) non giungono tuttavia a
configurare un sistema teorico
coerente; il pensiero di Milizia, anche
per la forma in cui si esprime, più da libello che da trattato, è piuttosto empirico che non sistematico e normativo. Per Milizia l'architettura è la
più nobile delle arti perché il suo
fine è l'utile, è il bene della
comunità civile, «la pubblica felicità»; la «magnificenza» delle nuove città, le forme semplici e nobili degli edifici dovranno esprimere ed esaltare
il valore civico e la pubblica
destinazione. L'intransigenza di
Milizia è un atteggiamento morale prima ancora che estetico o, meglio,
in lui le scelte formali si coniugano
strettamente alla coscienza civile e alle attese politiche. L'architettura fu grande in Grecia e nella Roma repubblicana (Milizia condanna il
monumentalismo dell'architettura imperiale) perché vi fioriva la libertà; la polemica contro la Roma barocca si
unisce alle critiche alla Roma
pontificia del momento. Anche in Milizia quindi ritroviamo quella tensione
verso il futuro, quell'attesa del
mutamento rivoluzionario che sostanziano
gli aspetti più impegnati e propositivi del nuovo classicismo. Ma Milizia non potè mettere in pratica le sue aspirazioni politiche: morì infatti
nello stesso anno (1798) della
fondazione della Repubblica romana.
Dalla teoria alla conservazione e alla tutela
del «patrimonio artistico» Villa Albani
era stata costruita in funzione delle
opere che conteneva: essa è testimonianza del
mutamento che si andava attuando nei criteri delle
raccolte e anche nel modo stesso di considerare
i pezzi antichi. Si pone in questa fase il problema del restauro come attività specifica sulla base di princìpi
teorici («restauri» erano già stati eseguiti nei secoli precedenti) e si forma la figura professionale del
restauratore, ben presto ricercatissimo e profumatamente pagato. Ancora una volta è l'autorità di Winckelmann a orientare i criteri del restauro
delle sculture antiche: egli seguiva
e indirizzava a villa Albani
l'attività dell'equipe guidata da Bartolomeo Cavaceppi, il più noto
restauratore del momento, scultore,
collezionista e mercante di antichità. Il lavoro di restauro si svolgeva infatti in un rapporto
diretto tra restauratore e
archeologo-conoscitore, il cui parere era
tenuto nel massimo conto (Canova, che non eseguì mai restauri direttamente, era molto richiesto come consulente ed esperto). Lo scopo del restauro
era di restituire all'opera la sua
unità formale ricostituendone l'integrità; ciò avveniva con un processo
«mimetico», attraverso la profonda assimilazione dei modi dello scultore antico, come per «proseguirne»
l'opera interrotta, con l'evidente
orgoglio di essere in grado di
eguagliarne l'abilità. Questa concezione — superata poi dai diversi
orientamenti del restauro moderno — rispondeva allora a precise esigenze:
l'integrazione era guidata e
giustificata dallo studio dei caratteri storici e stilistici della statuaria antica e a sua volta l'opera, restituita alla sua interezza, andava ad
arricchire il corpus di opere già noto e diventava strumento per la
ricerca e lo studio. Ma esistevano anche motivazioni meno scientifiche: una
statua mutila o in cattive condizioni
era deprezzata sul mercato; e il mercato d'arte — non solo di pezzi
antichi — aveva ormai assunto a Roma
dimensioni tali da costituire un settore di primaria importanza nell'economia
cittadina. Certo esisteva anche il
vastissimo mercato marginale di opere minori,
oggetti, frammenti, reperti di ogni tipo; così come esisteva negli operatori del campo una notevole disinvoltura professionale tanto che i limiti tra
attività di restauro e produzione di
copie e falsi non sono sempre
facilmente definibili.
Nel 1762, proprio al momento della conclusione
dei lavori di villa Albani,
Winckelmann deve assistere con dolore a una
«impensata disgrazia»: Giorgio III d'Inghilterra acquista i 17 volumi di
disegni dall'antico ordinati dal grande
collezionista del Seicento Cassiano Dal Pozzo
(cfr. p. 50), che erano passati nel 1714 nelle
collezioni Albani. Come tutti i grandi collezionisti
aristocratici anche il cardinale Albani, tra debiti e dissesti finanziari, vendeva — spesso per poi fare nuovi acquisti — pezzi singoli o intere parti
delle sue raccolte. Già nel 1733 papa
Clemente XII era intervenuto per
evitare un'altra dispersione, acquistando
un gruppo di opere che aveva collocato nel nuovo Museo Capitolino, aperto al pubblico nel 1734. L'affermarsi, da questo momento, in Roma del concetto illuminista di museo pubblico rappresenta il
contraltare della concezione élitaria,
raffinata e aristocratica della raccolta privata, come villa Albani.
L'iniziativa papale in questo settore dichiara con evidenza gli intenti e le funzioni delle nuove
istituzioni museali. Esse assolvono in
primo luogo a compiti didattici,
offrendo alla conoscenza e allo studio il loro patrimonio di opere antiche e moderne: il Museo Capitolino, ad
esempio, primo museo pubblico di Roma,
viene arricchito da Benedetto IV della Pinacoteca (1749) e vi viene
istituita l'Accademia del Nudo. Ma i musei
erano anche la risposta alle dispersioni, con vendite soprattutto all'estero, delle grandi collezioni principesche e private, che già dal Seicento avevano paurosamente impoverito il patrimonio artistico italiano.
L'iniziativa dei pontefici tentava di porre
un argine al dilagante mercato di
opere antiche e moderne ed è molto
significativo che la formazione dei musei avvenga in rapporto con i primi tentativi di attuare
provvedimenti di tutela del patrimonio
artistico. I primi editti per il controllo
dell'esportazione e vendita delle opere d'arte
(1733, 1750) e l'istituzione (1758) di un organo amministrativo adibito a tale
controllo — il Commissariato per le antichità romane — sono i precedenti della
maggiore creazione museale di fine secolo: il Museo Pio-Clementino in Vaticano (1771-93) voluto dai
pontefici Clemente XIV e Pio VI. Alla realizzazione del museo furono
interessati Winckelmann, Bartolomeo Cavaceppi
come restauratore, l'architetto Michelangelo Simonetti (autore dei nuovi
ambienti, tra cui la sala Rotonda) e per la collocazione delle opere
Giovanni Battista Visconti e il figlio
Ennio Quirino, autore dello splendido catalogo scientifico delle collezioni
(1782-1807). L'istituzione del museo è
commemorata in un affresco di Mengs
(1772-73) che svolge una complessa allegoria: la Fama in volo diffonde nel mondo la celebrazione della nuova istituzione; la Storia, ai cui piedi è
il Tempo, scrive ascoltando le parole di Giano, il dio bifronte che guarda insieme al passato e al futuro e indica
l'ingresso del Museo Clementino.
(E.Barati – A. Finocchi)
Il complesso di villa Albani sorse nelle
immediate vicinanze di Roma, poco fuori dalla porta Salaria. Committente della
villa fu il cardinale Alessandro Albani (1692-1779), nipote di papa Clemente
XI, una delle figure di maggiore spicco del mondo culturale romano del
Settecento: egli fu l'ideatore dell'intero complesso — villa, giardino ed
edifici minori — valendosi per la realizzazione dell'opera dell'architetto
Carlo Marchionni. Il più antico disegno per la villa di mano di Marchionni è
del 1751, ma non pare che la costruzione dell'edificio principale sia iniziata
prima del 1756, probabilmente a causa delle alterne fortune economiche di
Alessandro Albani. La sistemazione degli interni si protrasse fino al 1763,
mentre fontane e fabbricati minori nel giardino vennero completati intorno al
1765.
Nel
complesso di villa Albani architettura e sistemazione ambientale si fondono
armoniosamente, legate dal filo conduttore rappresentato dai reperti
archeologici della ricca collezione del cardinale: davanti all'edificio
principale, dalla vasta facciata classicheggiante, si distende il giardino
all'italiana, fittamente popolato di sculture antiche. In esso trovano posto
l'emiciclo del Coffeehouse, il tempietto diruto, il biliardo, oltre a numerose
fontane e al tempietto all'antica. Piuttosto arduo stabilire quanto, di ciò che
è stato realizzato, sia da attribuire a Marchionni e quanto al cardinale
stesso: pare infatti che l'architetto sia stato relegato al ruolo di esecutore
del proposito del cardinale di realizzare un sontuoso scrigno per le sue ricche
raccolte d'arte classica; l'edificio insomma non doveva svolgere un'effettiva
funzione residenziale, ma conservare ed esporre un tesoro, consentendone il
godimento al ristretto circolo culturale gravitante attorno all'Albani.
Le idee del cardinale
presero forma in modo eccezionalmente spregiudicato e moderno: l'antico, cioè,
venne liberamente e coscientemente inserito nelle espressioni della sensibilità
contemporanea. Questo particolare modo di operare si manifesta sia negli
esterni che dentro la villa. Per la costruzione e la decorazione degli interni
furono abbondantemente usati pezzi originali, ad esempio colonne provenienti
dagli scavi, come del resto era da sempre consuetudine a Roma; con ben più
grande libertà e fantasia i pezzi antichi, steli funerarie e bassorilievi,
vennero accostati al moderno, inseriti nella decorazione settecentesca.
Spicca, nella volta della
galleria, il Parnaso dipinto da Anton Raphael Mengs, che, con la sua volontà
programmatica e la sua compassata eleganza, decretò la fortuna del tema nella
pittura del classicismo.