Milano napoleonica

(E. Bairati – A. Finocchi)

 

L'età napoleonica in Italia

II 15 maggio 1796 l'esercito francese al comando del generale Napoleone Bonaparte entra vittorioso in Milano. L'Italia è così direttamente coinvolta nel grande processo storico originato dalla Rivoluzione francese che andava investendo tutta l'Europa, scardi­nando il vecchio assetto politico e sociale dell'ancien regime. Come in tutti i paesi europei raggiunti dagli eserciti francesi, anche in diversi stati italiani i gruppi progressisti locali risposero con la creazione di gover­ni repubblicani ispirati al modello rivoluzionario fran­cese. Troppo breve fu tuttavia in Italia questa espe­rienza repubblicana — già conclusa nel 1799 — per­ché potesse lasciare segni tangibili e duraturi nel cam­po delle arti. Merita però di essere ricordata per il suo particolare significato almeno la breve esperienza del­la Repubblica romana (1798-99). Roma era il deposito vivente dei miti, delle immagini, dei simboli che la Rivoluzione aveva fatto propri per esprimere ed esal­tare i suoi ideali. La Rivoluzione, in un gigantesco sforzo di rinnovamento dei mezzi di comunicazione per propagandare le nuove idee e imporre la propria immagine, aveva promosso e sollecitato tutti i mo­menti collettivi: le assemblee, le cerimonie pubbliche, il teatro, la festa rivoluzionaria. Quest'ultima soprat­tutto era considerata uno strumento formidabile di creazione e consolidamento del consenso: in essa tutte le tecniche e i modi espressivi — dalle arti figurative all'architettura, dal teatro alla musica alla danza — erano utilizzate in grandi azioni corali che miravano al massimo coinvolgimento dei partecipanti, eliminan­do ogni differenza tra attori e spettatori. Per poco più di un anno Roma fu teatro di un'ininterrotta serie di celebrazioni, cerimonie e feste rivoluzionarie che talora recuperavano antiche tradizioni popolari, of­frendo agli apparati effimeri gli spazi scenografici del­le sue piazze (ribattezzate spesso con nomi repubblica­ni) e i simboli presenti dei monumenti antichi. Artisti come Felice Giani e David-Pierre Humbert de Superville fissarono in dipinti e stampe l'immagine effimera della festa repubblicana. A teatro si rappresentarono Virginia di Alfieri e La morte di Cesare di Voltaire. Questi spettacoli furono di indubbio stimolo alla crea­zione di una pittura di storia che nell'episodio antico proponesse un modello di virtù per il presente, come già aveva fatto David con gli Orati. Gli stessi temi delle due tragedie furono svolti dal pittore romano Vincenzo Camuccini in due grandi dipinti, di cui La morte di Giulio Cesare fu portato a termine proprio nel 1798: lo scrupolo archeologico dell'ambientazione — per la quale l'artista ricorse ai consigli dell'archeo­logo Ennio Quirino Visconti, console della Repubbli­ca romana —, il disegno impeccabile, il robusto respi­ro compositivo, l'impronta severa dell'insieme, che nulla concede a preziosità o abbellimenti coloristici o formali, fanno della vasta tela il primo manifesto in Italia di una pittura neoclassica di oratoria civile nel senso davidiano. Con la caduta della Repubblica l'im­magine rivoluzionaria, effimera e provocatoria, ma  anche estranea perché troppo evidentemente importa­ta, scompare, né avrà più modo di manifestarsi.

 

L'iconografia napoleonica e la pittura di storia contemporanea

Ben diverso e incisivo impatto ebbe in Italia la successiva fase napoleonica. Nuovamente l'Italia è al centro dell'azione di Napoleone: se la pri­ma campagna gli era servita come trampolino di lan­cio, la nuova impresa, iniziata con l'epica del passaggio del Gran San Bernardo e della battaglia di Maren­go (14 giugno 1800), è l'avvio dell'ascesa che porterà l'ex generale rivoluzionario, ora primo console, a conquistare in pochi anni mezza Europa e a procla­marsi infine imperatore (1804).

L'arrivo in Italia dell'iconografia napoleonica, straordinariamente ricca e ancora legata, prima del­l'impero, agli ideali civili della pittura rivoluzionaria, significa l'irruzione improvvisa della contemporaneità nelle tematiche della pittura di storia. È un salto di qualità difficile da accettare per la cultura figurativa italiana. Non sono molte le opere ehe possono reggere il confronto con gli emozionanti primi ritratti napo­leonici di David o con il Napoleone ad Arcale dipinto a Milano nel 1796 da Antoine-Jean Gros e presto dif­fuso attraverso l'incisione che ne trasse Giuseppe Longhi (1798). Ma sono da ricordare il vibrante busto modellato da Canova a Parigi nel 1802 (il gesso è conservato a Possagno) e soprattutto il ritratto di Napoleone Primo Console compiuto da Andrea Appiani nel 1803: un'immagine profondamente civile e antieroica, nella quale il concetto della virtus antica — co­me sintesi delle qualità del condottiero: la dignità, il coraggio, l'autorità — è espresso in una forma tutta intcriore nella sicurezza del gesto imperativo, nello sguardo teso che scruta al di là dello spettatore.

Passando dal ritratto, dove più facilmente si espri­meva il fascino che la personalità eccezionale di Na­poleone esercitò sugli artisti, alla pittura di fatti stori­ci, il problema si amplia e più evidenti appaiono i limiti e le difficoltà dell'ambiente artistico italiano. David, il pittore della Rivoluzione, può facilmente nel Napoleone che valica il Gran San Bernardo (1800, Parigi, Malmaison) travolgere il modello classico dei bassorilievi romani nell'immediata attualità storica dell'immagine e nella penetrante verità della figura dell'eroe «moderno». Un anno dopo (1801) Canova risponde invece alla committenza del governo della Cisalpina iniziando gli studi per la statua del primo console in nudità eroica, come Marte pacificatore, ri­fiutandosi di ritrarre Napoleone in vesti contempora­nee. Non diversamente, a breve distanza di tempo (1808) Appiani raffigurerà Napoleone come Giove olimpico nell'Apoteosi dipinta in palazzo Reale a Mi­lano. La forza del modello classico, assunto come simbolo e metafora del presente, agisce in Italia come una remora alla formazione di una iconografia storica contemporanea. Ciò crea un notevole divario rispetto alla cronaca delle vicende napoleoniche dipinta da ar­tisti francesi, come Antoine-Jean Gros o Charles Meynier con intenti di restituzione realistica, scrupo­losamente documentata, del fatto storico. Si veda a confronto la qualità illustrativa delle immagini da re­portage di Giuseppe Pietro Bagetti, puntate sul reso­conto documentario piuttosto che sulla chiave eroica. Anche in un esempio notevole come // giuramento dei Sassoni a Napoleone (1812) del toscano Pietro Benve­nuti si può notare facilmente come la suggestiva ambientazione notturna mascheri l'indeterminatezza del luogo e del momento dell'azione, senza riuscire tutta­via a evitare una certa rigidezza accademica nella composizione. Il solo caso in Italia di celebrazione autenticamente storica dell'epopea napoleonica è la serie dei Fasti eseguiti a monocromo su tela da Ap­piani (1803-807) per la Sala delle Cariatidi in palazzo Reale a Milano. Opera di straordinaria forza narrati­va i Fasti rivelano la capacità di Appiani di calare i suoi modelli — i Trionfi di Cesare di Mantegna e soprattutto i rilievi della colonna Traiana — nella materia viva e scottante della storia contemporanea, dichiarando esplicitamente il suo impegno civile e la sua partecipa­zione ai fatti narrati. L'impiego di simboli o allegorie classiche non fa velo alla verità asciutta, talora cruda dei singoli episodi che si succedono con ritmo incal­zante, sostenuto da un tono epico che non cede mai all'adulazione celebrativa.

 

L'Italia napoleonica

Con la creazione del Regno d'Italia (1805) l'assetto territoriale della penisola è determinato dalla forma­zione di stati satelliti governati da parenti dell'impera­tore. Nella comune dipendenza dalla Francia vi sono casi in cui il rapporto è più stretto che altrove. In Piemonte, ad esempio, fu attuata una piena integra­zione amministrativa e culturale con la Francia, che fece di Torino una capitale dipendente da Parigi. Op­pure nel Sud, dove l'impegno riformatore del governo francese fu particolarmente intenso per cancellare la memoria della screditata monarchia borbonica. Napo­li, dove intellettuali progressisti come Colletta e Cuo­co diedero la loro collaborazione al governo, vide un grande afflusso di artisti francesi.

La gestione delle arti negli stati italiani in epoca napoleonica si innestò spesso sull'attività riformatrice promossa dai passati regimi, rinnovandola con nuovo spirito di modernità e di aggiornamento culturale. In tale attività si possono chiaramente identificare ele­menti comuni. In ogni situazione i nuovi governi po­tenziano gli istituti di cultura già esistenti, in partico­lare le accademie artistiche che tutte vengono in que­sti anni riformate, dotate di nuovi statuti, ampliate negli insegnamenti. La promozione delle arti è attuata principalmente attraverso il potenziamento dei con­corsi accademici e l'istituto delle esposizioni, che si moltiplicano nei diversi centri, a cura delle locali ac­cademie o per diretto interessamento dell'imperatore (come la mostra internazionale del 1809 in Campido­glio a Roma). Ovunque vengono incrementate, anche con la creazione di apposite scuole, le attività artigianali, potenziando le tradizioni locali. Su tale ripresa delle arti applicate si basano la fortuna e la diffusione in Italia del gusto e delle mode in voga alla corte di Francia. L'ininterrotta passione per l'antichità si esplica in attività molteplici, con effetti contraddittori, mentre schiere di archeologi, conosci­tori e architetti percorrono l'Italia da un capo all'al­tro. Da un lato si segnala la ripresa delle attività di scavo — che tocca il culmine nella gigantesca impresa per portare alla luce l'intera città di Pompei —; si moltiplicano gli studi e le pubblicazioni; si avvia l'ela­borazione di una teoria del restauro. Dall'altro il livello del mercato di antichità sale fino a toccare i vertici di un indiscriminato saccheg­gio.

Infine bisogna ricordare l'interesse per la ristruttu­razione delle città e per le grandi imprese architettoni­che, in diretta continuità con il pensiero illuminista e rivoluzionario. L'accento cade sull'edilizia civile, sul decoro urbano e insieme sulla creazione di monumen­ti altamente rappresentativi e simbolici del potere. Anche se le realizzazioni concrete furono poche, grandissimo fu comunque il patrimonio di idee dibattuto in questi anni, che si può considerare all'o­rigine del pensiero moderno sul territorio e sulla città. È anzitutto da ricordare l'enorme impegno tecnologi­co e finanziario per l'ammodernamento della rete stradale e dei canali navigabili; tra le grandi strade realizzate si contano quelle del Sempione (1800-805), del Moncenisio (1803-10), del Monginevro (1807), del­la Cisa (1809), dei Giovi (1810-21). Come l'antica strada romana quella napoleonica, oltre a essere munita di cippi miliari, di sta­zioni di posta, di dogane, si fregiava di monumenti e lapidi che ne segnavano i punti salienti (valichi, ponti, termini).

Le ipotesi di intervento sulla città si muovono at­torno a due ordini di problemi: la creazione di nuove aree urbane e gli interventi nel tessuto antico. Nel primo caso è esemplare la vicenda di Bari, dove l'otti­ma amministrazione di Gioacchino Murat avvia nel 1813 la realizzazione del progetto di un «borgo nuo­vo», già previsto dal riformismo borbonico nel 1789, usufruendo dei beni ecclesiastici espropriati. Il nuovo impianto urbano è orientato sull'asse della strada Re­gia che porta a Napoli e che marca nettamente la separazione dalla città vecchia; la razionale concezio­ne a reticolo ortogonale, nella sua flessibilità, rende il borgo nuovo suscettibile di continuo ampliamento, trasformando il piano urbanistico in uno schema di sviluppo su cui la città continuerà a crescere per tutto l'Ottocento e oltre. Lo scotto pagato fu l'emargina­zione del nucleo antico, avviato a un destino di impo­verimento e di degrado come quartiere popolare.

Per il secondo ordine di problemi le vicende urba­nistiche di Venezia in epoca napoleonica sono emblematiche del rapporto spesso traumatico che si istitui­sce tra la nuova immagine della città moderna e il tessuto della città antica, tanto ricco e stratificato in Italia e in Venezia reso più delicato della particolaris­sima situazione ambientale. La città fu dotata di una legge speciale, emanata da Napoleone nel 1807, con­temporaneamente alla creazione del catasto generale e all'avvio dell'impresa di rilevamento cartografico della città e della laguna. L'ambito dei provvedimenti previsti dalla legge era assai vasto, comportando un rinnovamento globale delle funzioni economiche di Venezia e della sua immagine urbana. Particolare attenzione fu riservata alla riattivazione dell'Arsenale, come cantiere commerciale e militare, con la sistema­zione dei canali che lo univano alle bocche di porto. Ma tutta la città è investita da una serie di interventi, articolata in opere di manutenzione e rinnovamento (dei canali, dei ponti, delle strade, dei monumenti) e in ambiziosi progetti di nuove sistemazioni. Figura centrale di questa intensa attività fu Giannantonio Selva, dal 1806 operoso nella Commis­sione di Pubblico Ornato emanata dall'accademia, al­lora sotto la presidenza prestigiosa di Leopoldo Cicognara, uomo di cultura, mecenate e collezionista, sto­rico dell'arte italiana e, in particolare, della scultura. A Selva spettano infatti i progetti (solo in parte rea­lizzati) di alcune delle maggiori imprese previste dalla legge napoleonica: il complesso dei giardini di Castel­lo (1808-12) con il collegamento alla riva degli Schiavoni tramite l'apertura della nuova via Eugenia (via Garibaldi); la grandiosa passeggiata della Giudecca, con funzioni civili e militari (piazza d'armi); il nuovo cimitero dell'isola di San Cristoforo della Pace (1808-13). Il modo di operare di Selva e il suo linguaggio, asciutto e funzionale, richiamano la lezione di Lodoli e di Temanza e lo collocano nei ranghi dei maggiori architetti del momento, da Valadier ad Antolini. Tutte le operazioni urbanistiche dì cui si è detto comportarono vaste demolizioni e altre ve ne furono, coinvolgenti preesistenze di non indifferente interesse storico. La polemica era però destinata a scoppiare in relazione agli interventi nell'area più deli­cata di Venezia, perché più carica di significati simbo­lici e rappresentativi, quella di San Marco. Oggetto dello scandalo fu la sistemazione del lato breve della piazza con la demolizione della chiesetta di San Geminiano — opera del Sansovino — per creare l'accesso agli appartamenti reali allestiti nell'ala delle Procuratic Nuove. Antolini, che lavorava al progetto dal 1806, fu rimosso dall'incarico nel 1810, a seguito di un coro di proteste cui non era però estranea l'ostilità verso di lui dell'ambiente locale. La soluzione finale — condotta con la massima discrezione possibile da Giuseppe Maria Soli — comportò ulteriori demolizio­ni, coperte però dal carattere mimetico dell'interven­to, che prosegue su tutto il braccio le forme delle Procuratie sansoviniane, conferendo, se non altro, unità visiva alla piazza.

L'intera problematica degli interventi sulla città è verificabile nella sua complessità nei due centri di maggior rilevanza politica, cioè Milano e Roma; ma bisogna ricordare che il rinnovamento investe anche, se pur in modo non omogeneo, i centri minori.

 

Elisa Baciocchi continuò e ampliò la sua azione come granduchessa di Toscana (1808) a Firenze, po­tenziando l'istituto della rinnovata accademia — che era diretta da Pietro Benvenuti e della quale Bartolini divenne nel 1812 professore onorario — e creando istituzioni per la formazione degli artigiani attivi per le manifatture di corte: il commesso in pietre dure, le gemme incise, le stoffe. Benvenuti fissò in un grande quadro documentario, destinato a Versailles, l'imma­gine di Elisa e della sua corte (1813). Anche Canova ritrasse la granduchessa quando portò a Firenze la Venere italica (1812, Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina) e in tale occasione dette la sua supervisione al programma decorativo approntato per il rinnova­mento degli appartamenti in palazzo Pitti.

 

Milano

II nuovo obiettivo dell'impegno degli ar­chitetti durante la breve età napoleonica (1796-1815) si caratterizza per la volontà di programmare la tra­sformazione urbanistica ed edilizia di Milano. Benché molte imprese siano restate allo stadio dell'ipotesi o del progetto, quelle idee ebbero il compito di propor­re la concezione, ancora tutta a venire, degli spazi pubblici e dei servizi collettivi come protagonisti della riorganizzazione della città moderna.

Durante gli anni della Repubblica cisalpina, poi italiana e, in seguito, del Regno d'Italia, Milano viene destinata al ruolo di capitale. Mentre aumenta pro­gressivamente la popolazione urbana, a fianco dell'a­ristocrazia, che ha ancora il potere, emerge l'alta bor­ghesia e si moltiplica il numero dei funzionar! gover­nativi (da un migliaio circa durante la Cisalpina a quasi ottomila nel Regno d'Italia). Si impone da un lato l'esigenza di provvedere la città delle strutture necessarie alla capitale di un territorio in espansione. Si fa strada dall'altro la volontà di valorizzare il si­gnificato simbolico non più solo della cattedrale o del palazzo reale — né bastano ormai le settecentesche istanze di «decoro» e di razionalità del tempo di Piermarini — ma dei nuovi poli della scena urbana.

In tale nuova prospettiva appare emblematico il progetto del Foro Bonaparte (vedi nota), con il quale si intende intervenire perentoriamente sulla struttura dell'intera città, rompendone l'impostazione radiocentrica con la creazione di un nuovo polo di sviluppo — destinato alle funzioni civili, politiche, amministrative e cultura­li e soprattutto mercantili — che si sarebbe contrap­posto al nucleo medievale addensato intorno al duo­mo e alla residenza dei governanti. Anche al vecchio centro urbano viene rivolta l'atten­zione in previsione del suo adeguamento monumenta­le e funzionale al nuovo ruolo di capitale assunto da Milano: ci si occupa del compimento della facciata del duomo (per il quale verrà approvato nel 1807 il progetto di Carlo Amati) e della ristrutturazione della piazza. I progetti più interessanti per la piazza sono quelli elaborati da Giuseppe Pistocchi, l'architetto faentino spinto a Milano dalle speranze repubblicane, come l'altro romagnolo, Giovanni Antonio Antolini, ideatore del Foro Bonaparte. È questi anche il re­sponsabile dell'introduzione, non certo precoce, dei richiami all'antico nei progetti per Milano, motivati dall'ormai collaudata simbologia delle antiche virtù rinate nelle contemporanee istanze repubblicane e democratiche.

Lo spirito giacobino è rappresentato a Milano da Pistocchi e Antolini che, pur nella polemica divergen­za del loro operare, si fanno portavoce delle istanze rivoluzionarie nella loro stessa concezione di architet­tura come dimostrazione di impegno politico, come mezzo dell'attuazione del progresso sociale. I loro grandiosi progetti — nessuno dei quali verrà realizza­to per la breve durata delle speranze di rinnovamento democratico svanite con la svolta conservatrice dei Comizi di Lione — nel quadro dell'architettura italia­na sono quanto di più vicino è stato ideato rispetto alle invenzioni dei cosiddetti «architetti visionari fran­cesi» — Ledoux, Lequeu, Boullée — benché nessuno abbia la programmatica carica utopistica di quelli.

All'impegno politico di Antolini e Pistocchi può essere accostato l'entusiasmo repubblicano con cui Giuseppe Bossi, il nuovo segretario dell'Accademia di Brera, si accinse nel 1801 alla sua riorganizzazione (insieme all'incremento della biblioteca e alla costitu­zione della pinacoteca). Nei suoi primi discorsi uffi­ciali domina l'illuministica esaltazione della funzione morale e civile delle Belle Arti che conducono, qualo­ra siano appropriatamente gestite dai governi, «al be­nessere e alla felicità delle nazioni» e «conservano quel sublime sentimento d'amor proprio nazionale  tanto atto a farne durare la grandezza e la prosperi­tà». Nei suoi dipinti e nei numerosi studi (disegni, acquarelli) una coerente, energica eloquenza e una vi­gorosa libertà di segno conferiscono un'accesa tensio­ne espressiva agli essenziali, geometrici schemi com­positivi cari al Neoclassicismo. Le vicende degli anni successivi tuttavia smorzarono l'iniziale entusiasmo giacobino di Bossi che, dimessosi dall'incarico nel 1807, si chiuse sdegnosamente in un aristocratico iso­lamento dedicandosi alla pittura, alla sua collezione di dipinti e agli studi tesi all'approfondimento e alla celebrazione delle glorie dell'arte italiana (da Dante ad Ariosto, da Leonardo a Raffaello). Si può ravvisa­re in questo atteggiamento una delle prime manifesta­zioni di quelle aspirazioni nazionalistiche che si affermeranno di qui a pochi anni. In particolare gli studi su Leonardo — tradotti in una serie di scritti e in una copia dell'Ultima Cena — riflettono un interesse per la tradizione del Cinquecento lombardo che caratte­rizza la cultura pittorica della Milano neoclassica.

Ciò è particolarmente riconoscibile nelle compo­nenti formative di Andrea Appiani: tale legame con la tradizione locale costituirà un valore costante nella sua opera anche quando, a contatto con l'ambiente di Piermarini e Albertolli e con quello degli scenografi della Scala come Paolo Landriani, egli aderirà ai nuo­vi indirizzi classicisti. Dopo le prime affermazioni ot­tenute con le tempere delle Storie d'Europa per casa Silva (1778 circa, ora collezione privata), con le storie di Amore e Psiche affrescate nella villa di Monza (1789), con gli affreschi per la cupola di Santa Maria presso San Gelso (1792-95) nei quali è anche avverti­bile l'eco della pittura del Correggio, Appiani rag­giunge i più alti livelli della sua produzione negli anni napoleonici, che segnano la sua maturazione insieme artistica e politica. Si moltiplicano allora le commis­sioni al premier peintre di Napoleone: quelle ufficiali culminano con gli incarichi per il palazzo reale (Fasti napoleonici, 1803-807; Apoteosi di Napoleone, 1808) e con il Parnaso nella villa reale di Milano per il viceré Eugenio di Beauharnais (1810); tra quelle pri­vate emerge la splendida sequenza dei ritratti, che possono annoverarsi tra i migliori risultati raggiunti in questo genere nella produzione europea. Una gran­de libertà e scioltezza e una magistrale padronanza dei mezzi pittorici lo conducono a cogliere con pene­trante sensibilità le fisionomie e i caratteri dei prota­gonisti della cultura e della politica del tempo: Parini, Landriani, Canova, Bodoni, la ballerina Carolina Pitrot Angiolini, la grande aristocrazia dei Belgioioso,

dei Serbelloni, dei Melzi, oppure ministri del Regno italico come Achille Fontanelli e generali dell'esercito napoleonico come Desaix e Berthier. Il ruolo di punta di Appiani è rivelato, oltre che dal tributo di onori e dall'unanimità dei consensi, dagli alti e delicati incari­chi che gli vengono affidati: dalla partecipazione ai Comizi di Lione nel 1801-802 alla collaborazione con Bossi nella rinnovata accademia e nella formazione della pinacoteca.

Negli anni napoleonici gli accademici (docenti e so­ci) di Brera sono sempre alla testa delle iniziative di interesse artistico e soprattutto urbanistico di Milano. Da questo sempre stretto legame e dal programma di globale ristrutturazione della città nasce l'iniziativa più singolare e interessante degli anni delle speranze del Regno italico: la costituzione nel 1807 della Com­missione di Pubblico Ornato (di cui facevano parte, all'inizio, L. Cagnola, G. Albertolli, G. Zanoja, P. Landriani, L. Canonica). Essa svolgeva varie funzio­ni: si occupava dei concorsi annuali di architettura dell'accademia nei quali, dopo il 1805, sono sempre più frequenti i temi dell'architettura civile e dei servizi collettivi (mercati, bagni pubblici, macelli, orfanotro­fi, cimiteri). Ma il suo compito più specifico e più importante era quello di redigere un organico piano regolatore della città e di sovrintendere a tutta la produzione edilizia in modo da evitare arbitrii, sia nel campo dell'architettura «minore» e dell'iniziativa pri­vata, sia in quello degli interventi monumentali, intesi come nodi intorno a cui organizzare la più minuta tessitura urbana. La commissione, che dimostrò nel periodo napoleonico un'esemplare efficienza, frutto di un eccezionale impegno collegiale, contribuì a de­terminare quell'omogeneità dell'architettura neoclassi­ca milanese ancor oggi riconoscibile nella ripetizione, mai stucchevole ma razionale e composta, di schemi semplici e rigorosi. La fine del regno italico impedì l'attuazione del piano regolatore — studiato sulla bel­la pianta di Milano tracciata nel 1801 da Giacomo Pinchetti — al quale tuttavia bisogna risalire quando si vogliano tracciare le origini dello sviluppo della Milano moderna e contemporanea.

Tradizionalmente considerato l'architetto per eccel­lenza della Milano napoleonica, il marchese Luigi Cagnola, «dilettante d'architettura» — come egli stesso amava definirsi e firmarsi —, nei suoi primi progetti, che sono piuttosto idee o colte esercitazioni che dise­gni esecutivi, rivela la volontà di conciliare le sette­centesche istanze di razionalismo con le nuove esigen­ze monumentali. La sua ricerca infatti è più comples­sa e problematica di quanto non appaia dalle sue più note realizzazioni, improntate alla retorica della cele­brazione imperiale. L'adozione di nitidi, semplici vo­lumi geometrici enfatizzati dalle grandi dimensioni fa pensare che i suoi punti di riferimento fossero gli architetti francesi della Rivoluzione, oltre al Palladio e all'antico. Il momento centrale della sua attività è in ogni caso quello degli anni napoleonici quando lo tro­viamo impegnato nelle più prestigiose imprese monumentali, dopo l'allontanamento di Antolini e Pistocchi. Cagnola si era imposto però fin dal 1801 con il suo progetto per un «atrio» trionfale da erigere a porta Ticinese per celebrare la vittoria di Marengo: questa sua prima prova rappresenta il migliore risulta­to dell'architettura «eroica» del periodo napoleonico per l'intonazione asciutta e severa delle forme potenti nelle quali si fondono echi palladiani e razionalisti in un'originale reinterpretazione del motivo dell'arco trionfale, che essendo in questo caso perforato anche trasversalmente permette l'intersecarsi degli assi visivi di due grandi direttrici viarie. Il progetto originario del grandioso ingresso alla città prevedeva la sistema­zione di tutta l'area urbana circostante con la rettifi­cazione del corso di porta Ticinese e la costruzione, oltre ai caselli daziari, di edifici porticati e di un pon­te monumentale sulla darsena del Naviglio. Assai più famoso a partire dall'esaltazione dei contemporanei, e ancora oggi, è tuttavia l'arco del Sempione o delle Vittorie, detto poi della Pace (vedi nota): più fasto­so sino ad apparire sovraccarico, ma anche più facile e meno coerente dell'atrio di porta Marengo, il monu­mento assolve ancora ai nostri giorni il compito di punto di riferimento visivo e simbolico nella trama della città. Costruito all'inizio della strada del Sempione che metteva in comunicazione la Francia con l'Italia, esso segnava l'ingresso alla città dalla parte del Castello Sforzesco, là dove era stato previsto il Foro Bonaparte.

Benché non realizzato secondo il piano di Antolini, il programma del rinnovamento e dell'espansione del­la città in direzione nord-ovest verso le strade di co­municazione con la Francia non venne lasciato cadere completamente, ma si decise di studiarne una possibi­le, parziale attuazione. Il problema fu affidato a Lui­gi Canonica, un altro ticinese, attento allievo di Piermarini e suo successore nel ruolo di architetto di sta­to, che aveva già partecipato nel 1801 alla prima fase della progettazione; la soluzione fu trovata nella sostituzione della committenza pubblica con quella priva­ta. Si avviava così un processo destinato a caratteriz­zare gli sviluppi dell'architettura e dell'urbanistica ot­tocentesche, non solo a Milano, e Canonica inaugura­va la figura dell'architetto professionista, artefice, in­sieme alla nuova committenza borghese, di quegli svi­luppi. La sua attività, vastissima e mul­tiforme, ma spesso in sordina, incide profondamente nella trasformazione di Milano: con gli innumerevoli interventi di ristrutturazione di edifici privati, di adat­tamento di fabbriche già di proprietà ecclesiastica a uffici del nuovo governo, di sistemazione di strade, di progetti per una serie di teatri ancor più che con le rare opere di grande rilievo, come la sistemazione del Campo di Marte — tra il Castello destinato a caserma e l'arco del Sempione — e l'adiacente Arena. In que­st'ultima, capace di 30.000 posti, la volontà celebrati­va è palese nella ripresa di una tipologia «imperiale» dell'antica Roma: vi si svolgevano infatti applauditissime corse di bighe e naumachie, oltre ad altre gare sportive e sfilate militari. Il coronamento del muro perimetrale con una cimasa di alberi alleggeriva la struttura dell'edificio e creava un collegamento con i grandi viali alberati costruiti tutt'intorno alla città, sui bastioni della cerchia delle mura spagnole, trasfor­mati in tal modo in un grande passeggio e, mediante le porte e i caselli daziari che lo pausavano, in un efficiente mezzo di controllo giuridico e commerciale. Iniziata da Piermarini a Porta Orientale questa impre­sa era stata continuata dallo stesso Canonica: realiz­zata in parte, perché abbandonata negli anni della Restaurazione, la cintura dei bastioni voleva assomi­gliare al Ring viennese o alla serie dei grandi boulevards parigini; dall'esempio delle barrières di Parigi era anche ripresa la serie di porte e caselli di sobrie forme classicheggianti.

Giuseppe Zanoja è il terzo dei protagonisti delle vicende dell'architettura a Milano nel primo Ottocen­to, che parrebbero quasi essersi accordati per dividersi i campi d'azione: Zanoja, nominato segretario del­l'Accademia di Brera nel 1807, assicurò dieci anni di conduzione moderata ma culturalmente dignitosa a un'istituzione nella quale aspirava a porsi come erede delle ben più forti personalità di Parini e di Piermarini. Tutti e tre — Cagnola, Canonica, Zanoja — furo­no attivi nella Commissione di Pubblico Ornato, ma i tempi della Restaurazione vedranno contrarsi sempre più le grandi iniziative pubbliche e diminuire a poco a poco l'importanza della Commissione. Mentre la figu­ra del professionista (Canonica) apre la strada all'atti­vità di una nuova serie di architetti, al nobile dilettan­te (Cagnola) vengono via via a mancare le possibilità di cimentarsi con le imprese monumentali e con le battaglie per il piano regolatore. Egli continuerà ad avere tuttavia prestigiosi incarichi per la corte di Vienna e il suo studio a Milano sarà molto frequenta­to da allievi e imitatori; ma la sua attività si svolgerà prevalentemente fuori Milano e i suoi interessi si ap­punteranno sull'architettura religiosa (chiesa parroc­chiale di Ghisalba, dal 1822; campanile della parrocchiale di Urgnano, 1824-29; cupola del duomo di Brescia, 1825) e sulla villa (aveva iniziato nel 1813 la sua villa a Inverigo nella quale rimeditare e cercare di fondere – non sempre riuscendovi – tutte le componenti della sua ricerca d’architetto).

 

 

Note

(E. Bairati – A. Finocchi)

 

Il Foro Bonaparte

Il 16 dicembre 1800 Giovanni Antonio Antolini presenta al comitato di governo della Repubblica cisalpina un piano per la sistemazione urbanistica della zona circostante il Castello Sforzesco di Milano, area che la legge del 30 nevoso IX (2 gennaio 1801) denomina Foro Bonaparte. In accordo con la volontà del governo di utilizzare la vasta area che le demolizioni ordinate da Napoleone nel 1800 avevano liberato dalle fortificazioni erette nel XVIe XVII secolo dagli Spagnoli, il Castello doveva perdere la funzione di presidio militare che aveva rivestito per secoli.

Il progetto (che può richiamare quello per le Saline di Chaux di Claude-Nicolas Ledoux, realizzato in parte tra 1775-79) prevedeva la costruzione di una vasta piazza circolare del diametro di m 540: al centro rimaneva l'edificio eretto dagli Sforza, trasformato però da un rivestimento di marmi e colonnati che gli avrebbe conferito un carattere classicheggiante.

Intorno al castello dovevano essere costruiti a cerchio 14 edifici — comprendenti terme, dogana, borsa, teatro, museo, pantheon, otto sale per le assemblee del popolo — tutti collegati mediante colonnati con i magazzini del pianoterra, le botteghe e le abitazioni dei negozianti. Un portico continuo serviva da passaggio coperto. Un canale navigabile circondava all'interno la piazza paralle­lamente ai portici, permettendo il passaggio delle barche con le merci dalla dogana ai magazzini e unendosi ai navigli verso porta Vercellina. L'ingresso alla piazza dall'esterno della città — al termine della grande strada di comunicazione con la Francia — era controllato dalla barriera del Sempione composta da due caselli daziari, dalle statue di Castore e Polluce simili a quelle del Quirinale e da due colonne miliari.

La geniale utopia — che conferiva ai servizi civili e alla cultura laica l'eroica monumentalità delle forme classicheggianti — desta grande interesse, anche per le scelte formali di Antolini, che predilige l'essenzialità geometrica dei grandi e nitidi volumi e l'estrema sobrietà dei partiti decorativi. Il progetto di Antolini viene diffuso tramite le incisioni raccolte nel volume Descrizione generale del Foro Bonaparte (1801), la cui pubblicazione è finanziata da una sottoscrizione a cui contribuiscono numerosi artisti italiani e stranieri. Il piano è approvato dalla Repubblica cisalpina e accettato da una commissione di esperti. Il 30 luglio 1801 in una solenne cerimonia durante i festeggiamenti della pace di Lunéville venne posta la prima pietra, ma i lavori si fermarono quasi immediatamente, soprattutto per l'altissimo costo dell'impresa; a questo si aggiungevano le motivazioni politiche, cioè la prevalen­za dell'ala conservatrice nella costituzione della Repubblica italiana.

La proposta di Antolini è accantonata e sostituita dal piano di Luigi Canonica, che prevedeva, con una spesa inferiore, la trasformazione del Castello in caserma, con aiuole e viali alberati verso la città, una vasta piazza d'armi sul retro per le esercitazioni militari, la costruzione dell'Arena (1807; cfr. fig. 525) e dell'arco della Pace (cfr. fig. 552). È comunque significativo che nella pianta di Milano disegnata dall'ingegnere cartografo Giacomo Pinchetti nel 1801 compaia il Foro Bonaparte come se fosse stato realizzato.

 

L’arco della Pace (1807-37).

Anche per gli archi i punti di riferimento sono i modelli dell'antica Roma; il motivo dell'arco è assai diffuso tanto che continua a essere usato anche nell'età della Restaurazione. Milano offre una serie illuminante di esempi: l'arco della Riconoscenza realizzato da G. Piermarini nel 1797 su incarico del governo cisalpino è il primo di una lunga serie di archi celebrativi. Molti sono progettati da L. Cagnola che deve il suo prestigio anche alla frequente attività nell'allestimento degli apparati di festa. Tra le sue opere, l'arco trionfale temporaneo in tela e gesso costruito per le nozze di Eugenio di Beauharnais e Amalia Augusta di Baviera riscuote particolare approvazione ed è richiesta la sua conversione in un monumento permanente in marmo e pietra, che non fu realizzato. Tuttavia il progetto di questo arco si inserisce come una tappa nella lunga elaborazione dell'arco del Sempione, poi chiamato arco della Pace, iniziato nel 1807 sotto Napoleone e terminato nel 1838 sotto il governo austriaco. Nella sua versione definitiva l'arco della Pace risente del gusto più monumentale che caratterizza il momento dell'impero e che si rivela anche nelle forme dell'Are du Carrousel a Parigi (1806-10), opera di C. Percier e P.F.L. Fontaine.

 

Alla ricca decorazione plastica del mo­numento collaborarono tutti i più noti scultori lombardi della prima metà del secolo: il gruppo della Sestiga, in bron­zo, sopra il fastigio, è di Abbondio Sangiorgio; le raffigurazioni dei quat­tro principali fiumi del Lombardo-Ve­neto, in marmo, sopra la trabeazione, sono di Benedetto Cacciatori e di Pompeo Marchesi; i numerosi rilievi che il­lustrano episodi delle vittorie austriache contro l'esercito napoleonico e del­la Restaurazione nel Lombardo-Veneto si devono, oltre che a Cacciatori e Marchesi, a Camillo Pacetti, Grazioso e Girolamo Rusca, Francesco Somaini, Gaetano e Claudio Monti.

 

Notevole interesse desta anche il concorso per la costruzione di una colonna commemorativa della battaglia di Marengo (1800) — da erigersi a Milano — a cui partecipano numerosi artisti; la commissione preferisce il progetto di G. A. Antolini, suscitando la protesta del suo costante antago­nista, G. Pistocchi, che definisce la colonna di Antolini, posta su un piedestallo con gradini e figure agli angoli, un insieme incoerente e sproporzionato di elementi architettonici e di figure. Pistocchi aveva presentato invece un progetto che si distingue per la combinazione di riferimenti all'antico e di forme naturalistiche, per l'aspirazione all'unità formale e per la complessa simbologia: la colonna è trasformata in un fusto di palma — allusivo alla gloria e al valore — intorno al quale si avvolge una grande fascia, interamente percorribile mediante una scala a spirale. In generale le colonne onorarie erano ispirate ai modelli romani, in particolare alla colonna di Traiano: esemplare è la colonna Vendôme a Parigi (1806-10), derivata palesemente da quella romana.