Milano illuminista

(E. Bairati – A. Finocchi)

 

Premessa: l'Italia dei lumi

«Regnando la pace in Italia che non possiam noi sperare, da che abbiamo prìncipi di sì buon volere e di tanta rettitudine?». Così Ludovico Antonio Mura­tori (1672-1750) in una pagina del 1749 degli Annali d'Italia esprimeva la speranza che i governanti del tempo potessero avviare una fase di concrete trasfor­mazioni e di rinnovamento sociale ed economico. Questa fiducia si appoggiava all'ottimismo generato dalla fine delle guerre che avevano travagliato i «po­veri popoli» dell'Europa e che si erano concluse con la pace di Aquisgrana (1748). L'atteggiamento di Mu­ratori non risponde a un'intenzione encomiastica e cortigiana, ma suona come un appello ai governanti da parte di un «intellettuale» che aveva avanzato proposte di riforma per tutti gli aspetti determinanti della vita civile (dall'istruzione al diritto, dalla religione al­l'economia). L'impegno nell'elaborazione di ipotesi riformiste di Muratori — storico ed erudito, fondato­re degli studi medievalistici in Italia — illustra chiara­mente il mutato rapporto tra intellettuali e potere.

Buona parte della potenzialità di rinnovamento dell'Illuminismo si espresse in ipotesi di riforme che attuassero la trasformazione della società con stru­menti legislativi, sostenute e promosse dai sovrani «il­luminati» d'Europa. L'Italia, con la pace di Aqui­sgrana, pur continuando a essere soltanto una pedina nel gioco delle grandi potenze, riceve però i vantaggi di quasi un cinquantennio di pace e di stabilità politica e quelli del rinnovato rapporto con le altre nazioni, venendo così coinvolta nel movimento riformista eu­ropeo. La ripresa economica e civile dell'Italia nella seconda metà del Settecento avviene a rimorchio del­l'Europa: sono sovrani appartenenti alle grandi dina­stie europee — gli Asburgo, i Borbone — a promuo­vere il movimento riformatore. Anche sul piano cul­turale si attua un'inversione di rapporti: l'Italia, in altri secoli all'avanguardia, è ora costretta a ricono­scere la propria arretratezza. Gli intellettuali italiani sono coscienti della necessità di aggiornarsi, di dover essere «europei» per poter essere «moderni». Lo scarto tra Italia ed Europa in questa fase storica inau­gura quella dialettica fra tradizione (italiana) e mo­dernità (europea) che percorrerà, con punte di maggiore o minore drammaticità, la storia dell'Italia mo­derna fino alla contemporaneità.

Scopo dell'azione dei «buoni prìncipi» doveva es­sere la «pubblica felicità» (sono sempre parole di Mu­ratori). Tra i campi in cui più chiaramente si indivi­dua la volontà riformatrice, un posto particolare spet­ta alla riorganizzazione del territorio e della città. La novità di questa azione di rinnovamento sta nell'emergere, sia pure in maniera embrionale, di un dise­gno unitario nel quale città e campagna sono pensate nelle loro relazioni di interdipendenza. L'incremento dell'agricoltura, anche mediante operazioni di bonifi­ca, il miglioramento delle vie di comunicazione, i provvedimenti amministrativi e fiscali come l'incame­ramento delle proprietà ecclesiastiche e la redazione dei catasti, rispondono allo stesso disegno che guida nelle città le disposizioni relative al potenziamento dell'edilizia civile e assistenziale, al miglioramento delle condizioni igieniche, alla manutenzione e regola­rizzazione delle strade, alla creazione di giardini pub­blici e viali alberati. Le intenzioni di elevare le condi­zioni della vita urbana si uniscono all'esigenza del «decoro» che doveva qualificare l'immagine della cit­tà. Questi propositi non si realizzano ovunque con la stessa portata, né approdano a risultati omogenei; co­stituiscono in ogni caso l'avvio di un processo irrever­sibile di trasformazione delle antiche strutture delle città italiane i cui effetti si manifesteranno appieno a partire dall'Ottocento.

Più incidente e più omogenea fu l'opera riforma­trice nel campo delle istituzioni civili ed educative: al grande sforzo di innovazione dell'apparato legislativo, rivolto a esprimere un nuovo ideale di giustizia per tutti gli strati della popolazione dello stato, si affian­cavano i programmi di riforma dell'istruzione, sot­tratta dal nuovo stato laico al secolare monopolio del­la Chiesa, dalle scuole primarie all'università. Si può dire che nel campo artistico il riformismo settecente­sco agì soprattutto con la formazione di strutture adi­bite alla formazione degli artisti — le accademie — che gradatamente assunsero anche compiti più vasti di gestione del patrimonio artistico e di promozione del­le arti. Il fenomeno settecentesco della moltiplicazione degli istituti culturali — scientifici, letterari, filosofici — coinvolse anche il settore delle arti con la nuova impostazione delle accademie. Queste perdono il ca­rattere élitario o cortigiano dei secoli precedenti per­ché sono scuole pubbliche, indirizzate alla funzione primaria della formazione tecnica e culturale dei gio­vani aspiranti artisti. I rapporti tra le diverse accade­mie italiane e quelle estere, l'istituzione dei concorsi accademici e delle esposizioni periodiche favoriscono la diffusione di esperienze internazionali e l'afferma­zione di un gusto ufficiale, quel «buon gusto» di cui l'insegnamento accademico si faceva garante attraver­so la proposizione dei modelli dei grandi maestri del passato e del presente. Altrettanta cura fu posta alla formazione degli artigiani, con la creazione di scuole spesso integrate alle accademie e sollecitate dalla circolazione di raccolte di modelli decorativi anche stra­nieri; segno questo dell'illuministica attenzione rivolta al rapporto tra arti e mestieri. Il superamento della concezione gerarchica che opponeva le «arti maggio­ri» alle «arti minori» è una delle ragioni della vitalità delle accademie tra la fine del Settecento e il primo Ottocento.

La particolare cura dedicata alle strutture educati­ve dai governi illuminati affidava all'uomo di cultura un ruolo specifico, quello dell'educatore. Con la pre­cisa coscienza del significato storico, culturale e poli­tico della loro funzione risposero all'appello letterati e filosofi, giuristi ed economisti. Una simile lucida co­scienza è difficilmente riscontrabile nel mondo degli artisti. L'Italia non conosce la forte carica utopica che percorre il pensiero illuminista francese ben prima della Rivoluzione e le conseguenti ipotesi di nuovi e rilevanti compiti affidati all'arte e agli artisti Né l'attività dei governi riformatori in Italia si fece portatrice di istanze capaci di modificare so­stanzialmente il ruolo tradizionale dell'artista e le condizioni strutturali del suo lavoro. Solo verso la fine del secolo, sotto l'impatto congiunto dell'irruzio­ne delle idee rivoluzionarie e dei traumatici mutamenti politici del momento giacobino e poi napoleonico gli artisti più avanzati presero coscienza del loro ruolo di intellettuali e della loro collocazione di classe, or­ganica alla borghesia progressista. L'impegno civile e politico degli artisti «giacobini» trovò significativa conferma nel fatto che molti di essi erano architetti, operavano cioè nel campo più strettamente connesso alle istanze di rinnovamento. Sia pure in ambiti ri­stretti si pone ora in termini nuovi e moderni il ruolo delle avanguardie artistiche, nella loro partecipazione diretta alla vita politica e sociale del tempo.

I limiti delle realizzazioni effettivamente operate dal movimento riformatore risultano molto evidenti, anche se è indubbio lo sforzo generalizzato di ammo­dernamento dell'Italia in campo economico, civile e culturale. In alcuni casi, in particolare negli stati del­l'orbita asburgica — la Lombardia di Maria Teresa, la Toscana di Pietro Leopoldo — l'azione riformatri­ce ebbe maggiore incisività e continuità anche per la collaborazione degli strati più evoluti dell'aristocrazia, dei ceti borghesi imprenditoriali, degli intellettuali e del clero progressista. In altri casi invece l'esperienza riformatrice fu breve — come a Parma — o risultò inceppata fin dall'inizio — come avvenne a Napoli e nel Sud — dalle condizioni di generale arretratezza e dalla resistenza di strutture feudali ancora prevalenti. In altri casi ancora — come a Venezia, a Roma e negli stati della Chiesa — l'attività riformatrice fu minima e limitata ad alcuni settori. Anche in questa fase sto­rica è ribadito il distacco tra l'area centro-settentrio­nale e il Sud: il divario tra modernizzazione e arretra­tezza continuerà ad aggravarsi in seguito, pesando gravemente sullo sviluppo storico dell'Italia prima e dopo l'Unità. A ciò si aggiunga il limite intrinseco all'azione del «dispotismo illuminato», cioè il suo ca­rattere paternalistico e moderato. Bisogna ancora ri­cordare che l'Italia fu toccata in ritardo e marginal­mente dalla diffusione delle idee della Rivoluzione (per l'Italia quindi la fatidica data del 1789 non as­sunse il valore discriminante che ha per la storia euro­pea). La formazione intorno al 1793 di circoli rivoluzionari — tutti definiti genericamente «giacobini» in rapporterai movimento dominante in quel momento nello sviluppo della Rivoluzione francese — fu feno­meno limitato al ceto borghese e intellettuale; il salto di qualità del triennio repubblicano e rivoluzionario (1796-99) fu il prodotto dell'intervento delle armate francesi più che il risultato dell'azione delle minoranze giacobine locali. Il fallimento delle più avanzate esperienze repubblicane (Roma, Napoli) avvenne anche per una violenta reazione controrivolu­zionaria dei ceti popolari e contadini a prova del ca­rattere minoritario dell'ideologia giacobina.

 

Milano illuminista

Nel 1772 Pietro Verri scriveva a suo fratello Alessandro, allora a Parigi, che la situazione di e Milano era passata «dal torpore al bollimento». Egli i si riferiva alle vicende politiche e all'attuazione del piano di riforme già avviato negli anni precedenti dal governo austriaco; ma gli anni '70 sono appunto quelli che vedono anche l'avvio della trasformazione della città e il cambiamento di rotta nel campo delle arti.

Alla fine del Settecento Milano era ancora compre­sa entro le mura di età spagnola, ma solo all'interno della cerchia dei navigli era intensamente edificata: la sua popolazione superava di poco le 100.000 unità; nella fascia compresa tra i navigli e le mura le costru­zioni si raccoglievano lungo le vie radiali che condu­cevano alle porte e alle strade extraurbane, mentre la maggior parte dello spazio era occupato dalle ortaglie e dai giardini quasi tutti di proprietà dei numerosissi­mi conventi. Come del resto dovunque, la maggior parte delle aree urbane e delle proprietà terriere è nelle mani degli ordini religiosi e dell'aristocrazia: questa alterna alla vita nei palazzi di città e agli impe­gni delle cariche pubbliche i soggiorni nelle ville di campagna, non solo luoghi di agresti delizie, ma anche centri di floride aziende agricole.

La stabile presenza della corte arciducale a Milano dal 1771 spinge l'aristocrazia milanese a rinnovare o a costruire ex nova le sue residenze per far fronte alle necessità della vita mondana e agli obblighi di rappre­sentanza. Il primo atto di questo rinnovamento è co­stituito dall'edificazione — nell'area dell'antica resi­denza viscontea — di una nuova sede per la corte in occasione delle nozze di Ferdinando, figlio di Maria Teresa, con Maria Beatrice d'Este. L'obiettivo iniziale era quello di fornire la città di un grande complesso comprendente, oltre alla residenza arciducale, uffici e servizi amministrativi e culturali: per questo venne chiamato nella primavera del 1769 Luigi Vanvitelli, ormai celebre per la sua concezione unitaria e polifunzionale di Caserta. L'amministrazione austriaca chiese però consistenti modifiche al progetto redatto da Vanvitelli — probabilmente troppo grandioso e di­spendioso — così che questi declinò l'incarico; esso passò — verosimilmente dietro suggerimento dello stesso Vanvitelli — a un suo allievo che aveva collaborato con lui a Caserta dal 1765 e che l'aveva segui­to a Milano. Inizia qui per Giuseppe Piermarini — che si era formato tra la natia Foligno e l'ambito di Vanvitelli a Roma e a Caserta — una felice carriera che in un trentennio di incessante attività lo rese pro­tagonista del rinnovamento architettonico e urbanisti­co di Milano alla fine del secolo. Gli interventi di Piermarini per il palazzo arciducale furono cauti quanto a demolizioni e rifacimenti, ma colsero con precisione nel segno delle esigenze della corte e della città. Mantenendo infatti, per quanto era possibile, le antiche fondamenta egli lavorò su una pianta irrego­lare che determinava, tra due ali sporgenti, uno spa­zio trapezoidale: otteneva così il risultato di sottoli­neare i rapporti dell'edificio simbolo del potere civile con il duomo e il palazzo dell'arcivescovato e, contemporaneamente, allontanando lievemente la faccia­ta, la isolava in uno spazio nitido, aperto verso l'e­sterno e facilmente utilizzabile per le cerimonie e per il concorso del pubblico. Nessuna ostentazione di po­tere o di lusso nell'esterno, scandito dal ritmo lineare delle lesene ioniche appena enfatizzato mediante l'a­dozione — un evidente ricordo vanvitelliano — di più plastiche semicolonne e del bugnato liscio in corri­spondenza dell'ingresso principale e del balcone d'onore. La sontuosità che si addice a una reggia è riser­vata agli interni, a cominciare dal maestoso scalone. Purtroppo i bombardamenti del 1943 e la successiva dispersione dei resti dell'arredo hanno spogliato gli ambienti del palazzo di un complesso decorativo tra i più omogenei ed eleganti d'Europa.

Gli artisti chiamati da Piermarini a collaborare al­l'impresa si contano tra i protagonisti di questa felice stagione delle arti in Milano: per la pittura — non essendo riuscito ad assicurarsi il ricercatissimo Mengs — Martino Knoller e Giuliano Traballesi, per la scul­tura Giuseppe Franchi e Gaetano Callani, per i pavi­menti e i mobili preziosamente intarsiati Giuseppe Maggiolini, per le decorazioni in stucco e gli arredi Giocondo Albertolli. Tra costoro Traballesi, Callani e Albertolli si erano formati nel «vivaio» dell'accade­mia di Parma. Il primo, fiorentino di origine, a Mila­no dal 1775, nelle sue composizioni ad affresco dai colori lievi e dagli ampi spazi luminosi, resta ancorato alle grazie pittoriche rococò. Anche quando affronta temi scopertamente simbolici del pensiero illuminista come La luce fuga la notte e i geni delle tenebre nella volta dello scalone. A Gaetano Callani, che fu a Mi­lano tra 1774 e 1780, venne affidata la serie di 40 figure che reggevano la balconata del vastissimo salo­ne detto appunto delle Cariatidi (semidistrutto an­ch'esso nel 1943).

Assai più fortunato fu il rapporto tra Piermarini e Albertolli, chiamato a Milano nel 1774: erede della secolare tradizione di stuccatori e costruttori del Canton Ticino, questi l'aveva aggiornata e arricchita con gli studi a Parma dove aveva appreso da Petitot la concezione della progettazione unitaria di architettu­ra, decorazione e arredo e dove era entrato in contat­to con i nuovi orientamenti artistici europei. Nel suo raffinato linguaggio decorativo si equilibrano le sug­gestioni dell'antichità romana e del classicismo cin­quecentesco in nome della restaurazione di un «buon gusto» che — nelle sue stesse dichiarazioni program­matiche — non si propone come una radicale trasfor­mazione di forme, quanto piuttosto come una sempli­ficazione e razionalizzazione del repertorio ornamen­tale. Pregio di questa scelta sono la possibilità di infinite combinazioni e l'intimo legame con l'architet­tura nella quale interviene modulando sottilmente le superfici senza incidere sui volumi. Sono questi carat­teri che lo rendono particolarmente adatto a operare nei nitidi spazi delle architetture piermariniane: ai la­vori per il palazzo arciducale seguirono gli incarichi per la villa reale di Monza, per i palazzi Greppi, Belgioioso, Casnedi, Arconati, non­ché per il teatro alla Scala.

Mentre veniva costruito tra 1773 e 1778 il palazzo arciducale si moltiplicavano gli incarichi all'Imperiai Regio Architetto, non solo da parte della corte, che gli affidava nel 1776 anche la progettazione della grandiosa e serena residenza suburbana di Monza, ma anche da parte della committenza privata. Nel palazzo per il principe Alberico di Belgioioso (1772-81) i ricordi della reggia di Caserta e, più in generale, della tradizione classicista internazio­nale sono palesi, ma affatto nuova è la concezione della facciata risolta in un gioco di piani, individuati dalla contenutissima sporgenza del corpo centrale, dalla trama delle lesene sul bugnato liscio; i marcapiano sottolineano lo svolgersi in orizzontale dell'edifi­cio, in stretta relazione con l'allungata e raccolta piazza antistante, che funge da atrio d'onore del pa­lazzo.

Ancor più evidente che nel monumentale palazzo Belgioioso il gusto di Piermarini per le forme sempli­ci, razionalmente definite da nitide superfici, da pro­fili netti, da sobri elementi decorativi, la preferenza per nude fasce orizzontali e verticali al posto dei tra­dizionali ordini architettonici, emerge negli altri suoi palazzi milanesi. Come quello, iniziato nel 1772, per Antonio Greppi, un ex fermiere (i fermieri erano gli appaltatori dei servizi pubblici), rappresentante dell'a­scendente potenza della borghesia, cui la recente gran­de ricchezza permette di servirsi dei prestigiosi artisti — Piermarini, Albertolli, Knoller — attivi per la cor­te e l'aristocrazia. A parte le eccezioni ancora rare, come quella di Antonio Greppi, in quegli anni erano gli elevati redditi delle proprietà terriere — quindi sempre dell'aristocrazia — che stimolavano le iniziati­ve architettoniche e promuovevano l'attività di nume­rosi altri architetti, tra cui Simone Cantoni, Leopoldo Pollack, Carlo Felice Soave.

Non basterebbe tuttavia la pur intensa iniziativa architettonica dell'aristocrazia per poter parlare di rinnovamento del volto di Milano: la città moderna nasce dalle iniziative di riforma del governo austriaco. Secondo lo spirito laico dell'Illuminismo, il governo coinvolge le energie e le aspirazioni della nuova gene­razione di intellettuali, i cosiddetti «nobili filosofi» (Beccarla, Verri, Frisi, Carli, dall'Accademia dei Pu­gni al «Caffè»). In questo quadro l'iniziativa di mag­gior risalto e di più vaste conseguenze sull'aspetto urbanistico ed edilizio di Milano è il provvedimento di soppressione di molti ordini religiosi (entro la città si contavano oltre 100 conventi e circa 160 chiese): si libera in tal modo e viene restituito al controllo stata­le un enorme patrimonio di edifici e di aree, oltre che di beni mobili e di risorse finanziarie. Lo stato utiliz­za, con le modifiche necessarie per le nuove funzioni, edifici esistenti come il Collegio Elvetico, il convento di Santa Margherita, la sede dei Gesuiti a Brera; ma più spesso gli antichi edifici e le aree su cui sorgono vengono venduti ai privati. È soprattutto l'aristocra­zia milanese a fruire della possibilità di acquistare aree in città per edificare le sue nuove residenze, ma non mancano le iniziative di interesse pubblico. Come la destinazione a giardini delle vaste aree presso la porta Orientale, già di proprietà dei conventi di San Dionigi e delle Carcanine; la sistemazione come via alberata dei vicini Boschetti, luogo prediletto per gli apparati festivi in occasione di cerimonie e ricorrenze; la regolarizzazione e l'ampliamento della via che con­duceva alla porta Orientale (e, da lì, alla strada per Monza, la Brianza e, infine, per l'Austria) destinata al passeggio e al corso delle carrozze. Il «regista» di questo intervento urbanistico è ancora Piermarini che si occupò anche della rettificazione del corso di Porta Romana, della sistemazione di piazza Fontana e della realizzazione di via Santa Radegonda con la regolariz­zazione delle facciate delle case (queste ultime proget­tate in vista di dare dignità al breve percorso tra il palazzo arciducale e il teatro alla Scala). Sono inter­venti che non rispondono a una programmazione glo­bale di rinnovamento urbanistico, ma contengono quei prototipi di «buon gusto», quei princìpi di «de­coro» e di razionalizzazione che daranno i loro frutti di lì a poco con il piano Antolini e con l'opera della Commissione di Pubblico Ornato.

Gli stessi princìpi informano una serie di altri in­terventi che si possono definire minori, ma che segna­no l'avvio di una concezione della città che va oltre l'utilità della classe dominante (che pure è la prima a trame beneficio): si iniziano a costruire case «da pi­gione» con botteghe al piano terreno, si infittiscono i provvedimenti igienici, si afferma l'uso della pavi­mentazione delle strade con ciottoli e corsie centrali di granito per agevolare il transito delle carrozze. Per lo stesso motivo si inizia la demolizione di porte e pusterle della cerchia medievale e molte strade vengono allargate e rettificate, illuminate da centinaia di lam­pade a olio, liberate dall'ingombro delle colonne voti­ve e delle croci stazionali che si innalzavano ai crocic­chi, punti di riferimento visivo, luoghi di incontro della devozione popolare e del commercio minuto. Si moltiplicano i luoghi di ritrovo culturale e di svago: dei numerosi attivissimi teatri che vengono costruiti a Milano tra la fine del xvm e gli inizi del xix secolo è ancora Piermarini a fornire i modelli con i suoi pro­getti per i teatri della Canobbiana (1777-79) e dei Filodrammatici (realizzato da Pollack, 1798-1800) e, primo in ordine di tempo e di importanza, il teatro alla Scala (1776-78).

Non meraviglia riconoscere il ruolo determinante di Piermarini anche in uno dei settori più delicati del piano di riforme del governo austriaco, quello dell'i­struzione. In quanto ispettore generale delle Fabbri­che di Stato in Lombardia rientrano nei suoi compiti i progetti e i lavori per la nuova Accademia di Belle Arti di Mantova, per l'Università di Pavia, per le Scuole Canobbiane di Milano, per la sistemazione del palazzo di Brera dove, una volta soppressa la Compa­gnia di Gesù nel 1773, si vollero accogliere il Ginnasio e le Scuole palatine (dove insegnava Giuseppe Parini); la biblioteca, l'orto botanico, l'osservatorio astrono­mico, i laboratori di fisica e chimica e l'Accademia di Belle Arti in un complesso che rivela il programma di un'organica riforma dei metodi e dei contenuti dei diversi ordini e indirizzi dell'insegnamento. Piermarini che dirigeva la scuola di architettura fu la figura emergente e trainante dell'Accademia di Belle Arti che subito divenne uno dei più vivaci e stimolanti centri di cultura della città. Nel primo gruppo di mae­stri chiamati a insegnarvi spiccano i nomi dei princi­pali collaboratori di Piermarini: Traballesi, poi Knoller per la scuola di pittura, il carrarese Giuseppe Franchi per quella di scultura, Domenico Aspari per la scuola di elementi di disegno (un altro degli allievi dell'accademia di Parma) e Giocondo Albertolli per la scuola di ornato. La scuola di architettu­ra e quella di ornato furono le punte avanzate e trai­nanti dell'accademia, in virtù dell'unità d'intenti dei loro due maestri. Merito della scuola d'ornato inoltre fu quello di essersi proposta il compito di qualificare — sia dal punto di vista tecnico che da quello cultura­le — la produzione artigiana, stimolando in particola­re un settore tipico della tradizione lombarda, quello degli stuccatori e decoratori. Ma la frequentarono ar­tigiani d'ogni specie: falegnami, ricamatori, orefici. La solidità della sua figura di maestro e l'indiscutibile utilità della sua scuola, dalla quale uscirono genera­zioni di decoratori, permisero ad Albertolli di attra­versare senza scosse le vicende politiche successive, dalla Repubblica cisalpina alla Restaurazione.

Non avvenne la stessa cosa per Piermarini: l'arrivo delle armate francesi nel 1796 non segnò per lui un brusco arresto dell'attività o un forzato allontana­mento dai suoi incarichi; con la sua disponibilità e flessibilità di «professionista» egli realizzò a porta Orientale l'arco della Riconoscenza per le feste in onore dell'esercito francese nel 1797 e, sempre nello stesso anno, partecipò all'allestimento della festa della Federazione della Repubblica cisalpina. Ma l'Imperiai Regio Architetto, l'arbitro della cultura artistica e del rinnovamento urbano della Milano di Maria Teresa e di Giuseppe II, non poteva diventare ancora il prota­gonista di una situazione tanto mutata: il suo ritiro dall'insegnamento e dagli incarichi pubblici segna ine­vitabilmente la fine della sua carriera e, coerentemente, l'abbandono della città dove essa si era svolta; tornato nel 1798 a Foligno vi trascorse gli ultimi dieci anni di vita dedicandosi soprattutto a un'appartata e silenziosa attività di studio.