(E.
Bairati – A. Finocchi)
«Regnando la pace in Italia che non possiam
noi sperare, da che abbiamo
prìncipi di sì buon volere e di
tanta rettitudine?». Così Ludovico
Antonio Muratori (1672-1750) in una pagina del 1749 degli Annali
d'Italia esprimeva la speranza che i governanti del tempo potessero avviare una fase di concrete
trasformazioni e di rinnovamento
sociale ed economico. Questa fiducia
si appoggiava all'ottimismo generato dalla
fine delle guerre che avevano travagliato i «poveri popoli» dell'Europa e che si erano concluse con la pace di Aquisgrana (1748). L'atteggiamento di
Muratori non risponde a un'intenzione
encomiastica e cortigiana, ma suona
come un appello ai governanti da parte
di un «intellettuale» che aveva avanzato proposte di riforma per tutti gli aspetti determinanti della vita civile (dall'istruzione al diritto, dalla
religione all'economia). L'impegno
nell'elaborazione di ipotesi riformiste
di Muratori — storico ed erudito, fondatore degli studi medievalistici
in Italia — illustra chiaramente il mutato
rapporto tra intellettuali e potere.
Buona parte della potenzialità di rinnovamento
dell'Illuminismo si espresse in ipotesi di riforme che attuassero la trasformazione della società
con strumenti legislativi,
sostenute e promosse dai sovrani «illuminati»
d'Europa. L'Italia, con la pace di Aquisgrana,
pur continuando a essere soltanto una pedina nel gioco delle grandi potenze,
riceve però i vantaggi di quasi un cinquantennio di pace e di stabilità politica
e quelli del rinnovato rapporto con le altre nazioni, venendo
così coinvolta nel movimento riformista europeo. La ripresa economica e civile
dell'Italia nella seconda metà del Settecento avviene a
rimorchio dell'Europa: sono sovrani appartenenti alle grandi dinastie europee — gli Asburgo, i Borbone — a promuovere
il movimento riformatore. Anche sul piano culturale si attua un'inversione di rapporti: l'Italia, in altri
secoli all'avanguardia, è ora costretta a riconoscere la propria arretratezza. Gli intellettuali italiani sono coscienti della necessità di aggiornarsi, di
dover essere «europei» per poter
essere «moderni». Lo scarto tra
Italia ed Europa in questa fase storica inaugura quella dialettica fra tradizione (italiana) e modernità (europea) che percorrerà, con punte di
maggiore o minore drammaticità, la storia dell'Italia moderna fino alla
contemporaneità.
Scopo
dell'azione dei «buoni prìncipi» doveva essere la «pubblica
felicità» (sono sempre parole di Muratori). Tra i campi in
cui più chiaramente si individua la volontà riformatrice, un posto particolare spetta alla riorganizzazione del territorio e della
città. La novità di questa azione di rinnovamento sta nell'emergere, sia
pure in maniera embrionale, di un disegno
unitario nel quale città e campagna sono pensate nelle loro relazioni di interdipendenza. L'incremento dell'agricoltura,
anche mediante operazioni di bonifica, il
miglioramento delle vie di comunicazione, i provvedimenti amministrativi e fiscali come l'incameramento delle proprietà ecclesiastiche e la
redazione dei catasti, rispondono
allo stesso disegno che guida nelle
città le disposizioni relative al potenziamento dell'edilizia civile e assistenziale, al miglioramento delle condizioni igieniche, alla manutenzione e
regolarizzazione delle strade, alla
creazione di giardini pubblici e
viali alberati. Le intenzioni di elevare le condizioni della vita urbana si uniscono all'esigenza
del «decoro» che doveva qualificare
l'immagine della città. Questi propositi non si realizzano ovunque con la stessa portata, né approdano a risultati
omogenei; costituiscono in ogni caso
l'avvio di un processo irreversibile
di trasformazione delle antiche strutture delle città italiane i cui effetti si manifesteranno appieno a partire dall'Ottocento.
Più
incidente e più omogenea fu l'opera riformatrice nel campo delle
istituzioni civili ed educative: al grande sforzo di
innovazione dell'apparato legislativo, rivolto a esprimere un
nuovo ideale di giustizia per tutti gli strati della popolazione dello stato, si affiancavano i programmi di riforma dell'istruzione, sottratta dal nuovo stato laico al secolare
monopolio della Chiesa, dalle scuole
primarie all'università. Si può dire
che nel campo artistico il riformismo settecentesco agì soprattutto con
la formazione di strutture adibite alla
formazione degli artisti — le accademie — che gradatamente assunsero anche compiti più vasti di gestione del patrimonio artistico e di promozione
delle arti. Il fenomeno
settecentesco della moltiplicazione degli
istituti culturali — scientifici, letterari, filosofici — coinvolse anche il settore delle arti con la
nuova impostazione delle accademie. Queste perdono il carattere
élitario o cortigiano dei secoli precedenti perché sono scuole pubbliche, indirizzate alla funzione primaria della
formazione tecnica e culturale dei giovani aspiranti artisti. I
rapporti tra le diverse accademie italiane
e quelle estere, l'istituzione dei concorsi accademici e delle esposizioni
periodiche favoriscono la diffusione di esperienze internazionali e l'affermazione
di un gusto ufficiale, quel «buon gusto» di cui l'insegnamento accademico si faceva garante attraverso la proposizione
dei modelli dei grandi maestri del passato
e del presente. Altrettanta cura fu posta alla formazione degli artigiani, con la creazione di scuole spesso
integrate alle accademie e sollecitate dalla circolazione di raccolte di modelli decorativi anche stranieri; segno questo dell'illuministica attenzione
rivolta al rapporto tra arti e mestieri. Il superamento della concezione gerarchica che opponeva le «arti
maggiori» alle «arti minori» è una
delle ragioni della vitalità delle
accademie tra la fine del Settecento e il primo Ottocento.
La
particolare cura dedicata alle strutture educative dai governi illuminati affidava
all'uomo di cultura un ruolo specifico,
quello dell'educatore. Con la precisa
coscienza del significato storico, culturale e politico della loro funzione
risposero all'appello letterati e filosofi,
giuristi ed economisti. Una simile lucida coscienza è difficilmente
riscontrabile nel mondo degli artisti.
L'Italia non conosce la forte carica utopica che percorre il pensiero illuminista francese ben prima della Rivoluzione e le conseguenti ipotesi di
nuovi e rilevanti compiti affidati
all'arte e agli artisti Né l'attività
dei governi riformatori in Italia si
fece portatrice di istanze capaci di modificare sostanzialmente il
ruolo tradizionale dell'artista e le condizioni
strutturali del suo lavoro. Solo verso la fine del secolo, sotto
l'impatto congiunto dell'irruzione delle
idee rivoluzionarie e dei traumatici mutamenti politici del momento giacobino e poi napoleonico gli artisti più avanzati presero coscienza del
loro ruolo di intellettuali e della loro collocazione di classe, organica alla borghesia progressista. L'impegno
civile e politico degli artisti
«giacobini» trovò significativa conferma nel fatto che molti di essi
erano architetti, operavano cioè nel campo più strettamente connesso alle istanze di rinnovamento. Sia pure in ambiti ristretti si pone ora in termini nuovi e moderni il
ruolo delle avanguardie artistiche,
nella loro partecipazione diretta alla
vita politica e sociale del tempo.
I
limiti delle realizzazioni effettivamente operate dal
movimento riformatore risultano molto evidenti, anche se è
indubbio lo sforzo generalizzato di ammodernamento dell'Italia in campo
economico, civile e culturale. In alcuni casi, in particolare negli stati dell'orbita
asburgica — la Lombardia di Maria Teresa, la Toscana di Pietro
Leopoldo — l'azione riformatrice ebbe maggiore incisività e
continuità anche per la collaborazione degli strati più evoluti
dell'aristocrazia, dei ceti borghesi imprenditoriali, degli
intellettuali e del clero progressista. In altri casi invece
l'esperienza riformatrice fu breve — come a Parma — o risultò inceppata fin
dall'inizio — come avvenne a Napoli e nel
Sud — dalle condizioni di generale arretratezza e dalla resistenza di
strutture feudali ancora prevalenti. In
altri casi ancora — come a Venezia, a Roma e negli stati della Chiesa — l'attività riformatrice fu
minima e limitata ad alcuni settori. Anche in questa fase storica è ribadito il distacco tra l'area
centro-settentrionale e il Sud: il
divario tra modernizzazione e arretratezza
continuerà ad aggravarsi in seguito, pesando gravemente sullo sviluppo
storico dell'Italia prima e dopo l'Unità. A
ciò si aggiunga il limite intrinseco all'azione
del «dispotismo illuminato», cioè il suo carattere paternalistico e moderato.
Bisogna ancora ricordare che
l'Italia fu toccata in ritardo e marginalmente dalla diffusione delle idee della Rivoluzione (per l'Italia quindi la fatidica data del 1789 non
assunse il valore discriminante che
ha per la storia europea). La formazione intorno al 1793 di circoli
rivoluzionari — tutti definiti genericamente «giacobini» in rapporterai
movimento dominante in quel momento nello
sviluppo della Rivoluzione francese — fu fenomeno limitato al ceto
borghese e intellettuale; il salto di qualità
del triennio repubblicano e rivoluzionario (1796-99) fu il prodotto
dell'intervento delle armate francesi
più che il risultato dell'azione delle
minoranze giacobine locali. Il fallimento delle più avanzate esperienze repubblicane (Roma, Napoli) avvenne anche per
una violenta reazione controrivoluzionaria
dei ceti popolari e contadini a prova del carattere minoritario dell'ideologia giacobina.
Milano illuminista
Nel 1772 Pietro Verri scriveva a suo fratello Alessandro, allora a Parigi, che la situazione
di e Milano era passata «dal torpore al
bollimento». Egli i si riferiva alle
vicende politiche e all'attuazione del piano
di riforme già avviato negli anni precedenti dal governo austriaco; ma gli anni '70 sono appunto quelli che vedono anche l'avvio della
trasformazione della città e il
cambiamento di rotta nel campo delle arti.
Alla fine del Settecento Milano era ancora
compresa entro le mura di età
spagnola, ma solo all'interno della cerchia dei
navigli era intensamente edificata: la sua
popolazione superava di poco le 100.000 unità; nella fascia compresa tra i navigli e le mura le costruzioni si raccoglievano lungo le vie radiali che conducevano alle porte e alle strade extraurbane, mentre
la maggior parte dello spazio era
occupato dalle ortaglie e dai giardini quasi tutti di proprietà dei numerosissimi conventi. Come del resto dovunque, la maggior parte delle aree urbane e delle proprietà terriere
è nelle mani degli ordini religiosi e
dell'aristocrazia: questa alterna alla
vita nei palazzi di città e agli impegni delle cariche pubbliche i soggiorni nelle ville di campagna, non solo luoghi di agresti delizie, ma anche centri di floride aziende agricole.
La stabile presenza della corte arciducale a
Milano dal 1771 spinge l'aristocrazia milanese a rinnovare o a costruire ex nova le sue residenze per
far fronte alle necessità della vita mondana e agli obblighi di rappresentanza. Il primo atto di questo
rinnovamento è costituito dall'edificazione
— nell'area dell'antica residenza viscontea — di una nuova sede per
la corte in occasione delle nozze di
Ferdinando, figlio di Maria Teresa,
con Maria Beatrice d'Este. L'obiettivo iniziale era quello di fornire la città
di un grande complesso comprendente,
oltre alla residenza arciducale, uffici e servizi amministrativi e culturali: per questo venne chiamato nella
primavera del 1769 Luigi Vanvitelli, ormai
celebre per la sua concezione unitaria e polifunzionale di Caserta. L'amministrazione austriaca chiese però
consistenti modifiche al progetto redatto da Vanvitelli — probabilmente troppo grandioso e dispendioso — così che questi declinò l'incarico;
esso passò — verosimilmente dietro
suggerimento dello stesso Vanvitelli — a un suo allievo che aveva collaborato con lui a Caserta dal 1765 e che l'aveva
seguito a Milano. Inizia qui per
Giuseppe Piermarini — che si era
formato tra la natia Foligno e l'ambito di Vanvitelli a Roma e a Caserta — una felice carriera che in un trentennio di incessante attività lo rese
protagonista del rinnovamento
architettonico e urbanistico di Milano alla fine del secolo. Gli interventi di
Piermarini per il palazzo arciducale
furono cauti quanto a demolizioni e
rifacimenti, ma colsero con precisione
nel segno delle esigenze della corte e della città. Mantenendo infatti, per quanto era possibile, le antiche fondamenta egli lavorò su una pianta irregolare che determinava, tra due ali sporgenti, uno
spazio trapezoidale: otteneva così il
risultato di sottolineare i rapporti
dell'edificio simbolo del potere civile con il duomo e il palazzo dell'arcivescovato e, contemporaneamente, allontanando lievemente la facciata, la isolava in uno spazio nitido, aperto verso
l'esterno e facilmente utilizzabile
per le cerimonie e per il concorso del
pubblico. Nessuna ostentazione di potere o di lusso nell'esterno, scandito dal
ritmo lineare delle lesene ioniche appena enfatizzato mediante l'adozione
— un evidente ricordo vanvitelliano — di più plastiche
semicolonne e del bugnato liscio in corrispondenza dell'ingresso principale e del balcone d'onore. La sontuosità
che si addice a una reggia è riservata agli interni, a cominciare dal maestoso
scalone. Purtroppo i bombardamenti del 1943 e la successiva dispersione dei
resti dell'arredo hanno spogliato gli ambienti
del palazzo di un complesso decorativo tra i più omogenei ed eleganti d'Europa.
Gli artisti chiamati da Piermarini a
collaborare all'impresa si contano tra i protagonisti di questa felice stagione delle arti in Milano: per la pittura
— non essendo riuscito ad
assicurarsi il ricercatissimo Mengs — Martino Knoller e Giuliano Traballesi,
per la scultura Giuseppe Franchi e Gaetano Callani, per i pavimenti e i
mobili preziosamente intarsiati Giuseppe Maggiolini, per le
decorazioni in stucco e gli arredi Giocondo
Albertolli. Tra costoro Traballesi, Callani e Albertolli si erano formati nel «vivaio» dell'accademia di Parma. Il primo, fiorentino di origine, a
Milano dal 1775, nelle sue composizioni ad affresco dai colori lievi e dagli ampi spazi luminosi, resta
ancorato alle grazie pittoriche
rococò. Anche quando affronta temi
scopertamente simbolici del pensiero illuminista come La luce fuga la notte
e i geni delle tenebre nella volta
dello scalone. A Gaetano Callani, che fu a Milano tra 1774 e 1780, venne affidata la serie di 40 figure che reggevano la balconata del vastissimo
salone detto appunto delle Cariatidi
(semidistrutto anch'esso nel 1943).
Assai più fortunato fu il rapporto tra
Piermarini e Albertolli, chiamato a
Milano nel 1774: erede della secolare tradizione di stuccatori e costruttori
del Canton Ticino, questi l'aveva
aggiornata e arricchita con gli studi a Parma
dove aveva appreso da Petitot la concezione
della progettazione unitaria di architettura, decorazione e arredo e dove era
entrato in contatto con i nuovi orientamenti
artistici europei. Nel suo raffinato linguaggio decorativo si equilibrano le
suggestioni dell'antichità romana e del classicismo cinquecentesco in nome
della restaurazione di un «buon gusto» che — nelle
sue stesse dichiarazioni programmatiche —
non si propone come una radicale trasformazione di forme, quanto piuttosto come una semplificazione e razionalizzazione del repertorio
ornamentale. Pregio di questa scelta
sono la possibilità di infinite
combinazioni e l'intimo legame con l'architettura nella quale interviene
modulando sottilmente le superfici
senza incidere sui volumi. Sono questi caratteri che lo rendono particolarmente adatto a operare nei nitidi spazi delle architetture piermariniane:
ai lavori per il palazzo arciducale
seguirono gli incarichi per la villa
reale di Monza, per i palazzi Greppi,
Belgioioso, Casnedi, Arconati, nonché per il teatro alla Scala.
Mentre veniva costruito tra 1773 e 1778 il
palazzo arciducale si moltiplicavano gli incarichi all'Imperiai Regio Architetto, non solo da parte della
corte, che gli affidava nel 1776
anche la progettazione della grandiosa e serena
residenza suburbana di Monza, ma anche da
parte della committenza privata. Nel
palazzo per il principe Alberico di Belgioioso
(1772-81) i ricordi della reggia di Caserta e, più in generale, della tradizione classicista internazionale sono palesi, ma affatto nuova è la
concezione della facciata risolta in
un gioco di piani, individuati dalla
contenutissima sporgenza del corpo centrale, dalla trama delle lesene sul bugnato liscio; i marcapiano sottolineano lo svolgersi in orizzontale
dell'edificio, in stretta relazione
con l'allungata e raccolta piazza antistante, che funge da atrio d'onore del palazzo.
Ancor più evidente che nel monumentale
palazzo Belgioioso il gusto di
Piermarini per le forme semplici, razionalmente
definite da nitide superfici, da profili
netti, da sobri elementi decorativi, la preferenza per nude fasce orizzontali e verticali al
posto dei tradizionali ordini
architettonici, emerge negli altri suoi palazzi milanesi. Come quello, iniziato nel 1772, per Antonio Greppi, un ex fermiere (i fermieri erano
gli appaltatori dei servizi pubblici), rappresentante dell'ascendente potenza
della borghesia, cui la recente grande
ricchezza permette di servirsi dei prestigiosi artisti — Piermarini, Albertolli, Knoller — attivi per la
corte e l'aristocrazia. A parte le
eccezioni ancora rare, come quella di
Antonio Greppi, in quegli anni erano gli elevati redditi delle proprietà
terriere — quindi sempre
dell'aristocrazia — che stimolavano le iniziative architettoniche e promuovevano l'attività di numerosi altri architetti, tra cui Simone Cantoni,
Leopoldo Pollack, Carlo Felice Soave.
Non basterebbe tuttavia la pur intensa
iniziativa architettonica dell'aristocrazia
per poter parlare di rinnovamento del
volto di Milano: la città moderna nasce
dalle iniziative di riforma del governo austriaco. Secondo lo spirito laico dell'Illuminismo, il
governo coinvolge le energie e le
aspirazioni della nuova generazione di
intellettuali, i cosiddetti «nobili filosofi» (Beccarla, Verri, Frisi, Carli, dall'Accademia dei Pugni al «Caffè»). In questo quadro
l'iniziativa di maggior risalto e di
più vaste conseguenze sull'aspetto urbanistico ed
edilizio di Milano è il provvedimento di soppressione
di molti ordini religiosi (entro la città si contavano oltre 100 conventi e circa 160 chiese): si libera in tal modo e
viene restituito al controllo statale un enorme patrimonio di edifici e di
aree, oltre che di beni mobili e di
risorse finanziarie. Lo stato utilizza, con le modifiche necessarie per
le nuove funzioni, edifici esistenti come il
Collegio Elvetico, il convento di
Santa Margherita, la sede dei Gesuiti a Brera; ma più spesso gli antichi
edifici e le aree su cui sorgono vengono
venduti ai privati. È soprattutto l'aristocrazia milanese a fruire della possibilità di acquistare aree in città per edificare le sue nuove residenze,
ma non mancano le iniziative di
interesse pubblico. Come la
destinazione a giardini delle vaste aree presso la porta Orientale, già di proprietà dei conventi di
San Dionigi e delle Carcanine; la
sistemazione come via alberata dei vicini Boschetti, luogo prediletto per gli apparati festivi in occasione di cerimonie e
ricorrenze; la regolarizzazione e l'ampliamento della via che conduceva alla porta Orientale (e, da lì, alla strada
per Monza, la Brianza e, infine, per
l'Austria) destinata al passeggio e al
corso delle carrozze. Il «regista» di questo
intervento urbanistico è ancora Piermarini che si occupò anche della rettificazione del corso di Porta Romana, della
sistemazione di piazza Fontana e della realizzazione di via Santa Radegonda con la regolarizzazione
delle facciate delle case (queste ultime progettate in vista di dare dignità al breve percorso tra il palazzo arciducale e il teatro alla Scala). Sono
interventi che non rispondono a una
programmazione globale di
rinnovamento urbanistico, ma contengono quei prototipi di «buon gusto», quei princìpi di «decoro» e di razionalizzazione che daranno i loro
frutti di lì a poco con il piano
Antolini e con l'opera della Commissione
di Pubblico Ornato.
Gli stessi princìpi informano una serie di
altri interventi che si possono definire minori, ma che segnano l'avvio di una concezione della città che
va oltre l'utilità della classe
dominante (che pure è la prima a trame beneficio): si iniziano a costruire case
«da pigione» con botteghe al piano terreno, si infittiscono i provvedimenti igienici, si afferma l'uso
della pavimentazione delle strade con ciottoli e corsie centrali di granito
per agevolare il transito delle carrozze. Per lo stesso motivo si inizia la demolizione di porte e pusterle della cerchia medievale e molte strade
vengono allargate e rettificate,
illuminate da centinaia di lampade a olio, liberate dall'ingombro delle
colonne votive e delle croci
stazionali che si innalzavano ai crocicchi,
punti di riferimento visivo, luoghi di incontro della devozione popolare e del commercio minuto. Si moltiplicano i luoghi di ritrovo culturale e
di svago: dei numerosi attivissimi
teatri che vengono costruiti a Milano tra la fine del xvm e gli inizi del xix
secolo è ancora Piermarini a
fornire i modelli con i suoi progetti
per i teatri della Canobbiana (1777-79) e dei Filodrammatici (realizzato da
Pollack, 1798-1800) e, primo in ordine di
tempo e di importanza, il teatro alla
Scala (1776-78).
Non meraviglia riconoscere il ruolo
determinante di Piermarini anche in uno
dei settori più delicati del piano di riforme del governo austriaco, quello
dell'istruzione. In quanto
ispettore generale delle Fabbriche
di Stato in Lombardia rientrano nei suoi compiti i progetti e i lavori per la nuova Accademia di
Belle Arti di Mantova, per
l'Università di Pavia, per le Scuole Canobbiane
di Milano, per la sistemazione del palazzo
di Brera dove, una volta soppressa la Compagnia
di Gesù nel 1773, si vollero accogliere il Ginnasio e le Scuole palatine (dove
insegnava Giuseppe Parini); la biblioteca,
l'orto botanico, l'osservatorio astronomico,
i laboratori di fisica e chimica e l'Accademia di Belle Arti in un complesso che rivela il programma di un'organica riforma dei metodi e dei contenuti dei
diversi ordini e indirizzi
dell'insegnamento. Piermarini che
dirigeva la scuola di architettura fu la figura emergente e trainante dell'Accademia di Belle Arti che subito divenne uno dei più vivaci e stimolanti centri di cultura della città. Nel primo gruppo di
maestri chiamati a insegnarvi
spiccano i nomi dei principali collaboratori di Piermarini: Traballesi, poi
Knoller per la scuola di pittura, il
carrarese Giuseppe Franchi per quella
di scultura, Domenico Aspari per la scuola di elementi di disegno (un
altro degli allievi dell'accademia di Parma)
e Giocondo Albertolli per la scuola di
ornato. La scuola di architettura e
quella di ornato furono le punte avanzate e trainanti dell'accademia, in virtù dell'unità d'intenti dei loro due maestri. Merito della scuola d'ornato
inoltre fu quello di essersi proposta il compito di qualificare — sia dal punto di vista tecnico che da quello
culturale — la produzione artigiana, stimolando in particolare un settore
tipico della tradizione lombarda, quello degli stuccatori e decoratori. Ma la
frequentarono artigiani d'ogni
specie: falegnami, ricamatori, orefici. La solidità della sua figura di maestro e l'indiscutibile utilità della sua scuola, dalla quale uscirono
generazioni di decoratori, permisero
ad Albertolli di attraversare senza scosse le vicende politiche successive, dalla Repubblica cisalpina alla Restaurazione.
Non avvenne la stessa cosa per Piermarini:
l'arrivo delle armate francesi nel 1796 non segnò per lui un brusco arresto dell'attività o un forzato
allontanamento dai suoi incarichi;
con la sua disponibilità e flessibilità di «professionista» egli realizzò a
porta Orientale l'arco della
Riconoscenza per le feste in onore dell'esercito
francese nel 1797 e, sempre nello stesso anno, partecipò all'allestimento della
festa della Federazione della Repubblica cisalpina. Ma l'Imperiai Regio
Architetto, l'arbitro della cultura artistica e del rinnovamento urbano della Milano di Maria
Teresa e di Giuseppe II, non poteva
diventare ancora il protagonista di una
situazione tanto mutata: il suo ritiro dall'insegnamento
e dagli incarichi pubblici segna inevitabilmente
la fine della sua carriera e, coerentemente,
l'abbandono della città dove essa si era svolta; tornato nel 1798 a Foligno vi trascorse gli ultimi dieci anni di vita dedicandosi soprattutto a
un'appartata e silenziosa attività di studio.