(E.
Bairati – A. Finocchi)
Nella seconda metà del xvi secolo e fin verso il 1620
Milano gode di una relativa floridezza. Scrive uno storico
milanese, Paolo Morigia, giusto allo scadere del Cinquecento: «Si
trovano... in questa famosa Città un numero grandissimo d'artisti di tutte
le professioni d'arti, e credo che niuna
Città d'Europa habbia così gran
numero d'artiggiani, né che sia così copiosa
di varietà di mestieri come Milano... ci sono molte arti in Milano, che non si trovano altrove. E nell'eccellenza di trovare nuove inventioni sono
molto industriosi, e speculativi». Al di là della comprensibile faziosità dettata dall'orgoglio municipalistico
è vero che il declino delle attività
manifatturiere e commerciali non si
profila che con il nuovo secolo e che negli ultimi decenni del
Cinquecento le botteghe milanesi sono
ancora molto prospere: esse producono soprattutto oggetti di lusso (armi e armature da parata, stoffe intessute d'oro e d'argento, gioielli,
intagli in pietre dure e in cristallo
di rocca) destinati a una clientela
élitaria di principi italiani e soprattutto stranieri. E anche la
nobiltà lombarda nonostante l'austerità e la
deprecazione di ogni forma di mondanità profana predicata da Carlo Borromeo (cfr. voi. II, cap. xxv)
continua a compiacersi di collezionare oggetti
di pregio, di organizzare feste, di far costruire e decorare ville e
palazzi.
Manca tuttavia una
corte principesca in Lombardia e il ruolo di
guida della politica artistica e più in genere culturale viene assunto dall'autorità ecclesiastica, che ha un considerevole peso nei confronti del potere spagnolo; che è la maggiore proprietaria di
terre; che nel passaggio da Carlo al cugino Federico dopo il breve intervallo
di un vescovato Visconti sembra quasi
assumere i modi di una continuità ereditaria.
Se a ciò si aggiunge il fervore controriformista nel campo dell'arte sacra apparirà ancora più evidente la necessità di rivolgersi alle grandi
fabbriche religiose come ai luoghi-chiave della produzione artistica del tempo. Nel gran cantiere del Duomo, che riceve
nuovo impulso dalla sistemazione del presbiterio voluta
da Carlo Borromeo
come emblematico «cuore» della chiesa dei nuovi tempi, si succedono
generazioni di scalpellini, scultori
e architetti, tra cui emergono — oltre
al prediletto Tibaldi — Annibale Fontana e Francesco Brambilla. La loro attività sarà proseguita nel nuovo
secolo da una schiera di altri
scultori che popolano la mole architettonica
di rilievi, statue, pinnacoli.
Il
culto mariano ha il suo fulcro nel santuario di Santa Maria
presso San Gelso dove Martino Bassi, succeduto a Galeazze
Alessi, accentua nella facciata gli effetti plastici e
decorativi. Anche qui il nome di maggior rilievo tra gli
scultori è quello di Annibale Fontana cui si devono gran parte dei
rilievi e delle statue dell'ornatissima facciata e numerosi
interventi nell'interno: egli si libera dall'ascendente delle tensioni
manieristiche di Tibaldi per aderire con le sue figure
sobriamente composte e pateticamente atteggiate (si pensi
alla celebre Assunta) ai princìpi dell'arte della Controriforma.
Alla ricca decorazione pittorica del
santuario partecipano molti dei protagonisti della scena artistica lombarda
tra Cinquecento e Seicento.
Se bisognerà attendere i primi decenni del
Seicento per assistere a una stagione di singolare creatività della
pittura lombarda, non bisogna dimenticare che quella fioritura affonda le sue radici
non soltanto nella grande tradizione locale cinquecentesca, ma anche in quegli ultimi anni del secolo che vedono
intrecciarsi a Milano esperienze
molteplici e certo stimolanti per la
nuova generazione. Bisogna innanzitutto pensare alla «maniera grande» del Tibaldi degli anni di Carlo Borromeo, che lo aveva però impegnato soprattutto con le commissioni architettoniche. E insieme
all'affermazione dei Campi cremonesi, dei Semino genovesi, dei Procaccini da
Bologna, del bergamasco Peterzano,
delle devote immagini del piemontese Moncalvo; alla ricchezza infine degli
scambi con il Manierismo nordico
(Spranger, ad esempio) e dell'Italia centrale, di cui è prova anche
l'interesse per l'opera di Barocci, che
continua ad avere fortuna in molti centri italiani non ancora coinvolti
dal rinnovamento avviato dalle esperienze
romane.
Tra
i milanesi i più interessanti sono Giovan Paolo Lomazzo, che
ormai cieco non dipingeva più ma che rimaneva una figura
molto influente nella cultura artistica contemporanea, soprattutto per mezzo
dei suoi scritti teorici (Trattato dell'arte della pittura, 1584;
Idea del tempio della pittura, 1590)
e il suo allievo Giovanni Ambrogio Pigino.
Molti stimoli deve
aver fornito alla ricerca di nuove e
dinamiche strutture compositive condotta dai pittori lombardi del primo
Seicento l'impetuoso avanzare verso lo spettatore del cavallo della pala di
Pigino con Sant'Ambrogio che sconfigge
gli ariani (1590-91, per la cappella del palazzo dei Mercanti). Lomazzo e
Pigino bene esprimono il clima culturale della fine del secolo in cui
l'attività pittorica è strettamente connessa alla produzione letteraria e
teorica. L'attività nel campo dell'arte
devozionale impegna i pittori non meno
della ritrattistica per una società che ha ormai adottato i costumi spagnoleschi; e sempre maggiore è l'interesse
per la natura morta nel quadro di un collezionismo
aulico e prestigioso (basterà ricordare l'ammirazione di Federico Borromeo per Jan Brueghel il Vecchio, che fu suo ospite a Roma e al quale commissionò numerosi dipinti di fiori intorno al
1595).
Non
emerge, del resto, dallo stimolante intreccio di tendenze di
questi anni, un unitario orientamento pittorico, cosa che parrebbe
contraddittoria rispetto a quanto si è detto sulla funzione storica, morale e culturale di Carlo. In questi anni però gli artisti e
la cultura lombarda assimilano lo spirito del suo impegno — nonché la
coscienza della tradizione pittorica che
hanno alle spalle — così che l'arte che fiorisce all'inizio del nuovo secolo è profondamente legata a lui, ai valori morali del suo episcopato e alla
sua figura di protagonista.
II ruolo di Federico Borromeo Non
vanno sottovalutati in tutto ciò il peso avuto nella
definizione dell'iconografia carliana dalle celebrazioni
della beatificazione (1602) e della santificazione
(1610) e la sapientissima «regia» dell'eredità della pietas
di Carlo condotta dalla politica culturale del cugino Federico (che tenne la sede episcopale dal 1595 al 1631).
Sintesi mirabile di tale operazione
sono le due serie di teleri (quanto oggi ancora resta dei grandiosi
apparati allestiti a Milano e a Roma) con i
Fatti della vita del beato
Carlo (1602-604) e con i Miracoli
di san Carlo (1610): grandi
tempere che come cartelloni didattici illustrano gli episodi più noti
della vita del santo con un gusto narrativo
che si diffonde nei particolari realistici e quotidiani, rivelando tutto il
programmatico impegno celebrativo delle virtù di Carlo e dei valori della fede che egli rappresenta, senza che venga
meno — nei migliori dipinti dei due
cicli, e sono quelli del Cerano — un
profondo senso della verità storica e un'intima, sincera adesione a quei
valori. Nell'abilità con cui il culto dei
milanesi per un «loro» santo viene inserito
nell'eredità delle tradizioni popolari si rivela tutta la sapienza della gestione di Federico. Questi non ha la stessa carica morale di Carlo, ma mette
al servizio della celebrazione e del
potenziamento dell'impegno de propaganda fide tutta la sua
raffinata cultura e la sua abilità politica
nei rapporti con il potere spagnolo
e con la popolazione lombarda. Collezionista di opere d'arte, legato
alla cerchia bolognese del cardinal
Paleotti e al clima culturale di Roma, dove
fu tra i promotori e i protettori dell'Accademia di San Luca, Federico fondò a Milano la Biblioteca Ambrosiana (1609) che
rapidamente arricchì con larghezza
di mezzi tanto che alla sua morte essa possedeva circa 30.000 libri a stampa e 15.000 manoscritti. Alla Biblioteca erano annesse una stamperia e una scuola per lo studio delle lingue classiche e
orientali; negli anni seguenti si aprivano anche la Pinacoteca e l'Accademia
(1618) dove Federico chiamò a insegnare gli artisti più significativi del tempo.
Testimonianza della vivacità culturale degli
anni di Federico sono gli interventi architettonici nella città.
Uno degli architetti più apprezzati dal cardinale fu Fabio Mangone,
chiamato a dirigere i lavori del duomo
(1617) e la scuola di architettura dell'Accademia (1620), autore, tra l'altro, del grande e sobrio
cortile del Collegio Elvetico
(istituito da Carlo per la formazione
del clero svizzero, ora Archivio di stato), iniziato nel 1608, che deve la sua
aulica maestosità al doppio ordine di colonnati dorici e ionici:
un'evidente dichiarazione di severo
classicismo, che egli ribadisce nella
facciata di Santa Maria Pedone (dal 1626), memore dello schema palladiano nel
motivo «a tempio». Più vicina alle
sperimentazioni di nuove planimetrie che
si andavano conducendo anche altrove ai primi del secolo è la soluzione
proposta da Lorenzo Binago in
Sant'Alessandro (iniziata nel 1601 e compiuta in tempi lunghissimi): una compenetrazione di due schemi a croce greca che
generano uno sviluppo longitudinale,
il quale ha tuttavia il suo nodo centrale sotto la cupola maggiore.
Più interessanti i risultati ottenuti nella ricerca di nuovi organismi spaziali da Francesco Maria
Richino, il più dotato degli
architetti del tempo di Federico che,
consapevole di ciò, lo inviò a Roma per completare la sua formazione iniziata sotto la guida del padre, un ingegnere militare, e di Binago. Nella
piccola chiesa di San Giuseppe a
Milano (iniziata nel 1607) Richino risolse il problema posto da Binago, combinando
due spazi a pianta centrale, di differente altezza, ma unificati dallo stesso
ordine composito che scandisce l'apparente semplicità di un raffinato gioco di assi diagonali e di rapporti tra spazi maggiori
e spazi secondari. Da questa
originale soluzione di Richino
discenderà una lunga serie di varianti e di ulteriori sviluppi degli effetti dinamici e scenografici, soprattutto nell'Italia del Nord e fin entro il XVIII
secolo. Anche nel tentativo di
risolvere la facciata come organismo
unitario e contemporaneamente di raccordarla alla struttura dell'edificio, Richino ha il merito di essere tra i primi a tornire una proposta di
grande interesse.
Colle Poco resta delle numerose
chiese costruite da Richino in Milano, nelle quali egli sperimentò
più volte anche la pianta ovale. Ma restano molte testimonianze
della sua attività nell'architettura civile: tra le sue cose
migliori
vanno considerate la facciata del collegio
Elvetico (dal 1627) e il palazzo di Brera (dal 1651). La prima
propone con la sua concavità un nuovo modello alla seicentesca ricerca di interazione tra
spazio esterno e interno e di dinamica delle forme, qui già accennata nella
contrapposizione tra concavità della parete e convessità della
balaustra del balcone. Nel palazzo di Brera, allora collegio dei
Gesuiti, spiccano le soluzioni del solenne cortile a
doppio ordine di arcate su colonne binate, sulla scia di
Tibaldi e di Alessi, e dello scenografico scalone a doppia
rampa. L'opera di Richino, altrettanto significativa — e forse più
geniale — di quella di Maderno a Roma, restò dopo la sua morte
(1658) senza continuatori di rilievo a Milano. Ancor
prima si era conclusa la stagione della pittura, aperta
all'inizio del secolo con il Cerano, con il Morazzone, con Giulio Cesare
Procaccini. Tutti e tre partecipano all'impresa dei «quadroni» di san
Carlo e si dedicano all'elaborazione delle nuove tipologie della
pala d'altare, animati da un sincero ardore per i contenuti
religiosi del tempo e stimolati dall'atmosfera di intensa
operosità che li spinge in una gara senza gelosie a precisare
vigorosamente le loro caratteristiche individuali, mentre
intorno a loro turbina un'attivissima schiera di pittori e
artigiani.
La personalità di maggior rilievo è senza
dubbio Giovan Battista Crespi detto il Cerano, dal nome del paese
nel novarese dove si pensa che sia nato: in primo luogo per lo
spessore culturale della sua formazione compiuta entro il
vivace intreccio culturale della fine del Cinquecento,
arricchito dall'esperienza di Roma dove fu al seguito di
Federico e conobbe tutto il percorso della pittura del secolo da
Raffaello a Barocci. E soprattutto per la sua profonda
comprensione del momento storico: è infatti il Cerano
quello che più di ogni altro sa intendere e interpretare con commossa partecipazione
quel miscuglio di spagnolesco sussiego e di
devota contrizione, di martirio e di trionfo,
di apparenze popolari e di sostanza aristocratica della Lombardia governata
dagli Spagnoli e dalla superba humilitas
dei Borromeo. Grande pittore di storia,
il Cerano non si perde mai in lambiccati intellettualismi perché non
gli viene mai meno la coscienza della qualità
umana, reale e dolorosa, degli eventi che raffigura; né mai si perde nei dettagli minuti della cronaca perché sostiene i suoi racconti — pur
scrupolosamente fedeli, come nelle storie di san Carlo, alla testimonianza delle fonti — con un'impetuosa, convincente eloquenza, con sapienti invenzioni
compositive e cromatiche. Pittore
ufficiale di Federico, che lo chiama anche a dirigere la scuola di pittura
dell'Accademia Ambrosiana (1621), il
Cerano approda nell'ultima fase
della sua attività alla più concitata drammaticità di opere come la Messa
di san Gregario (1617 circa, Varese,
San Vittore) o il Battesimo di sant'Agostino (1618, Milano, San Marco),
come pure al severo arcaismo della Crocifissione
(1628, per San Protaso ad Monachos
di Milano, ora Venegono, Seminario Arcivescovile).
Non si può fare a meno di immaginare,
come retroterra di queste e di altre inquietanti scene contemporanee, lo svanire del clima di entusiasmo celebrativo del primo decennio del secolo
tutto incentrato sulla figura di san
Carlo, sotto l'urto dei drammatici
avvenimenti degli anni successivi: i compromessi tra potere spagnolo e Chiesa lombarda, il peso dei contributi
fiscali richiesti dalla Spagna per far
fronte alla guerra dei Trent'anni, il coinvolgimento in questa vicenda del ducato di Milano contro i
Grigioni (1624-26), fino agli orrori
del «sacro macello» dei luterani in
Valtellina.
L'altro
protagonista della pittura degli anni di Federico è Giulio Cesare
Procaccini, fratello minore di Camillo, che esprime una sorta di
alternativa all'appassionata e severa religiosità del Cerano:
Giulio Cesare predilige atmosfere più intime, talvolta languide, rese
con una pittura ariosa, dominata da tonalità calde e da serici
cangiantismi memori delle gamme di Barocci e rinforzati,
dopo il soggiorno genovese (1618), dagli impasti densi e
luminosi di Rubens.
Attivo anche a Milano, ma soprattutto nella
provincia a nord, tra Varese e Como, Pier Francesco
Mazzucchelli detto il Morazzone, dal suo paese d'origine,
anch'egli formatosi tra Lombardia e Roma, caratterizza la sua
pittura con una predilezione per i colori accordati in vivaci contrappunti, per
l'enfasi delle sue grandi composizioni affollate di personaggi i cui
atteggiamenti teatrali sono sottolineati dallo sventolare
e frusciare degli ampi panneggi serici. Il gusto scenografico del
Morazzone si dispiega nell'attività di frescante per i Sacri
Monti di Varallo, Varese, Orta (cfr. scheda 7 e anche voi. II, p.
343).
Grande interprete di tale clima è il
valsesiano Antonio d'Enrico detto Tanzio da Varallo, forse
il più inquieto tra gli artisti lombardi contemporanei. La sua
pittura reca, sulla matrice lombarda da Gaudenzio al Cerano e sulle ormai
consuete influenze del colore veneto, l'impronta determinante della
realtà caravaggesca conosciuta in un non documentato ma certo
viaggio a Roma, che lo portò, probabilmente nella scia del Caravaggio,
anche a Napoli. Dalla fusione di questa esperienza con il realismo illusionistico della tradizione dei plasticatori valsesiani — di
cui suo fratello Giovanni è uno dei
più alti rappresentanti (cfr. scheda 7) — nasce la sua inconfondibile sigla pittorica che conferisce alla concretezza e al
realismo, spesso crudo, delle sue
immagini, gli accenti di un'allucinata tragicità: sia che pietrifichi la
splendida adolescenza dei suoi David
nella fierezza e insieme nell'orrore
della violenza del gesto compiuto, sia che fissi in tutta la sua funerea teatralità la processione del Santo Chiodo, un episodio della peste del 1576-77
tradotto in toni di visionaria
apparizione.
Tocca a Daniele Crespi, di una generazione più
giovane, concludere questa prima fase del Seicento lombardo
con l'asciutto realismo delle sue immagini: famosissima sopra tutte,
e a buon diritto, la tela con il Digiuno di san Carlo (1625
circa, Milano, Santa Maria della Passione). L'ascendente del Cerano
e l'intonazione moralistica, la volontà didascalica di offrire al
fedele esemplari spunti di riflessione sono componenti più forti,
in tale realismo, che non la lezione del Caravaggio. Questi accenti
di concreta evidenza, persino illusionistica, fanno pensare alla contemporanea pittura
degli Spagnoli, in particolare a Zurbaràn. La breve, intensa
carriera di Daniele si conclude con la grande impresa degli affreschi della
certosa di Garegnano alle porte di Milano (1629-30): nel luglio 1630 muore con tutta la sua famiglia nella nuova
orrenda pestilenza portata in
Lombardia dai Lanzichenecchi, i mercenari
dell'esercito tedesco discesi nell'Italia del Nord per la guerra del Monferrato, un'altra appendice della guerra dei Trent'anni.
Neh" ormai irreparabilmente degradata
situazione degli anni che seguono, morti — non solo per la peste —
tutti i protagonisti di rilievo (tranne Richino), non vi
sarà più posto, svanito ormai il rigore morale dell'età borromea, che per i
modi eleganti e garbati, ma senza problemi, di Carlo Francesco
Nuvolone o per la torbida, allucinata sensualità e per i
virtuosismi cromatici di Francesco Cairo, il pittore più in
vista del tempo, che Amedeo I di Savoia convinse nel 1633 a trasferirsi
a Torino in qualità di pittore di corte.