Il Concilio di Trento e l'arte religiosa

Adattamento per il web, ad esclusivo uso interno ai Corsi di Storia dell’Arte tenuti dal prof. arch. Mauro A. Di Salvo, dal Capitolo ottavo di A. Blunt, Le teorie artistiche in Italia dal Rinascimento al Manierismo, Einaudi, Torino 1966.

 

Con il termine «manierismo» vengono di solito indicati generi di pittura assai dissimili. Le singole regioni italiane, il cui grado di evoluzione era diverso e che erano state colpite in vario modo dalle sciagure politiche del XVI secolo, diedero origine, come già era avvenuto nel corso del Quattrocento, a stili differenti l'uno dall'altro. Nell’opera tarda di Michelangelo si esprime l’aspetto drammaticamente mistico del manierismo; il Vasari rappresenta invece quella versione aristocratica dello stile che si addiceva alla corte medicea. In questa parte esamineremo lo stile ufficiale dell'arte religiosa, nato sotto l’influenza di Roma e di Trento, e le riflessioni teoriche ad esso relative. Le diverse forme di manierismo differiscono tra loro in vari modi ma, in confronto all'arte del Rinascimento maturo, hanno molto in comune l’uno con l’altra, perché sorgono tutte sullo sfondo della generale atmosfera di reazione politica e religiosa determinatasi dopo il 1530 in conseguenza dell'alleanza del papato con la Spagna. Prima di proseguire sarà quindi necessario considerare questa situazione storica, dalla quale sorse il manierismo.

 

Paradossalmente, le conseguenze ultime degli avvenimenti che risalivano al sacco di Roma dovevano rafforzare piuttosto che indebolire il potere del papato in Italia. Clemente VII, quasi più atterrito dalla rivolta avvenuta a Firenze che dal sacco stesso, comprese che la resistenza contro Carlo V era inutile e che la sua unica via di salvezza era riposta nell'alleanza con la Spagna. Le vecchie fondamenta su cui era stata costruita la grandezza italiana erano crollate. Le gloriose repubbliche mercantili, come Firenze e Venezia, erano state condannate fin dalla caduta di Costantinopoli, la scoperta dell’America aveva distrutto il prevalere del Mediterraneo sopra ogni altra via di commercio e Roma stessa era minacciata dallo scisma nella Chiesa. Appariva evidente che l’Italia, per mantenere una qualche posizione in Europa, doveva adottare nuovi sistemi: e l’alleanza con la Spagna sembrava offrire le migliori possibilità.

Dopo il 1530 il papato era ancora lo stato italiano più potente, ma era in sostanza mutato perché politicamente soggetto al nuovo alleato. Ora, in confronto alle repubbliche italiane o agli stati dell'Europa nordoccidentale, la Spagna era socialmente e politicamente arretrata. Essa era ancora in gran parte feudale e incominciava appena ad assumere la fisionomia di uno stato moderno. Con il suo mutamento d'indirizzo politico verso il 1530 il papato, quindi, passò da una posizione di guida fra gli stati italiani più progrediti a una posizione reazionaria. Aspirava ancora al dominio di tutta la penisola, ma si accingeva a farlo non con l’aiuto di mercanti e di banchieri, ma con quello di una potenza straniera dai metodi e dalla mentalità pressoché feudali.

Lo scopo della politica papale nella seconda meta del sedicesimo secolo non era quello di rafforzare lo stato di cui i pontefici del primo quarto del Cinquecento avevano gettato le fondamenta, ma di estendere il più possibile l’assolutismo ecclesiastico in Italia; per raggiungere tale scopo tutti i mezzi, buoni o cattivi che fossero, potevano servire. Nei suoi risultati finali l’atto più funesto del pa­pato in questo periodo fu forse l’introduzione del rovinoso sistema spagnolo d'imposte, perché si affretto così il crollo economico che in ogni caso avrebbe dovuto presto travolgere l’Italia. Ma da un punto di vista più generale la principale caratteristica del periodo precedente la Con­troriforma fu il tentativo di ritornare a quel predominio ecclesiastico raggiunto durante il Medioevo.

Nel campo intellettuale ciò significò una tendenza ad opporsi a tutte le conquiste dell'umanesimo rinascimentale. Il razionalismo individuale dell'umanesimo era quindi anatema per i controriformisti, che si proponevano di distruggere tutto ciò che il Rinascimento aveva conquistato e ritornare a uno stato di cose feudale e medievale. Si trattava quindi tanto di un Controrinascimento che di una Controriforma, e ci si accinse a distruggere la scala di valori umani in cui gli umanisti avevano creduto sostituendola ancora una volta con una scala di valori teologici, com'era avvenuto nel Medioevo.

Uno dei primi obiettivi dei controriformisti fu di abolire il diritto del singolo a risolvere tutti i problemi di pensiero o di coscienza secondo il proprio criterio personale e la propria ragione. Essi vollero invece ristabilire il principio di autorità, quello stesso che gli umanisti erano riusciti a distruggere. Si può meglio comprendere l’atteggiamento dei controriformisti considerando le armi usate per imporre le loro idee: le più potenti erano quelle dell’Inquisizione e della Compagnia di Gesù. L'Inquisizione si basava sul presupposto che non si poteva concedere alcuna libertà nel campo dogmatico e che bisognava seguire ciecamente le deliberazioni prese in tal senso dalla Chiesa. La Compagnia di Gesù aveva un'organizzazione modellata su quella militare e si fondava su una rigorosa, indiscussa disciplina. La conseguenza di simili istituzioni e dello spirito che le animava fu la distruzione del pensie­ro individuale. Come è stato detto, “si richiedeva il sacrificio dell'intelletto, non la sua consacrazione“, e quindi quei pochi pensatori che erano abbastanza coraggiosi per proseguire i loro studi si dedicavano ad argomenti del tutto innocui e astratti, oppure, come Giordano Bruno, venivano in conflitto con le autorità. Questo naturalmente è soltanto il lato negativo della Controriforma; quello po­sitivo (se vogliamo proprio trovane uno, mads) consiste nell'acceso desiderio di uomini come il Caraffa di riformare la Chiesa e nell'appassionata e disinteressata devozione dei gesuiti per propagare ciò che ritenevano fosse la verità.

Le conseguenze della Controriforma sulle arti furono analoghe a quelle sugli altri rami della cultura e del pen­siero. Dopo il 1530 circa la corrente umanistica di pittura fiorita in Roma all'inizio del secolo decadde a poco a poco. Gli artisti non fanno più scoperte nuove sul mondo esterno. La loro opera è ampiamente controllata dalla Chiesa e persino quando essi dispongono di una certa libertà sembrano aver perduto ogni interesse per quanto li circonda. Non si preoccupano più della ricostruzione del mondo visibile, ma dello sviluppo di nuovi metodi di disegno e di composizione. Non conquistano nuove terre, ma sfruttano piuttosto quelle che i predecessori avevano scoperto per loro e volgono tali scoperte a nuovi scopi. Abbandonano gli ideali rinascimentali dello spazio razionale e delle proporzioni regolari, e si servono liberamente, quasi quanto gli artisti medievali, della costruzione arbitraria e delle forme volutamente allungate. Invece del colore modulato del Rinascimento, usano tonalità che agiscono immediatamente, più sul sentimento che sull'intelletto. Sotto vari aspetti infatti i manieristi sono più vicini agli artisti del Medioevo che ai loro immediati predeces­sori. E questo è esatto non soltanto per quanto riguarda la tecnica, ma anche per i soggetti che gli artisti sembrano prediligere. All'epoca del Rinascimento maturo si preferivano i soggetti di vasta attrazione. Anche quando dipingevano scene religiose, gli artisti erano capaci di trovarne alcune, come la Sacra Famiglia, che potevano quasi essere trattate, accentuandone il carattere umano, come temi profani. I manieristi, invece, preferiscono soggetti in cui possono mettere in rilievo gli aspetti teologici o sovrannaturali.

Avremo occasione in seguito di tornare a più riprese sulle caratteristiche della pittura o della teoria manieriste, che si possono comprendere soltanto ricollegandole alla reazione in corso, durante la seconda metà del Cinquecento, contro il pensiero religioso e politico rinascimentale: le due cose sono infatti inscindibili e la reazione nell'ambito della Chiesa era soltanto un'altra manifestazione del movimento sociale e politico che l'accompagnava.

Nel loro tentativo di emendare la Chiesa dagli abusi, i protestanti corsero il rischio di negare nel modo più assoluto il valore di qualsiasi tipo d'arte religiosa. Immagini e dipinti puzzavano d'idolatria, mentre la decorazione delle chiese e il solenne rituale della messa erano esempi di quella atmosfera mondana in cui Satana aveva trascinato la Chiesa cattolica. Appena quindi la Chiesa romana abbandonò il suo tentativo di compromesso con i prote­stanti e seguì la via di consolidare le dottrine e i metodi tradizionali sfidando Lutero e Calvino, fu necessario che i teologi puntellassero le fondamenta su cui era costruita l’arte religiosa e dimostrassero che, lungi dall'essere idolatre, le immagini sacre costituivano un incitamento alla devozione e un mezzo di salvezza. Perciò nei primi trattati d'arte prodotti dalla Controriforma riaffiorano e so­no volti contro i protestanti tutti gli argomenti in precedenza usati dai teologi nelle lotte contro gli iconoclasti.

Vecchi aforismi, come la definizione data da Gregorio Magno della pittura religiosa, «la Bibbia degli analfabeti», riappaiono e ricorrono in ogni scrittore che si occupi d'arte nella seconda meta del secolo sedicesimo; e prima della fine del Concilio di Trento non solo l’arte era salva per la religione, ma era riconosciuta come una delle sue più valide armi di propaganda.

Nel dicembre del 1563, quando il concilio discusse nel­la sua ultima sessione il problema dell'arte religiosa, si giunse alle seguenti conclusioni1:

«Imagines porro Christi, Deiparae Virginis et aliorum Sanctorum, in templis praesertim habendas et retinendas eisque debitum honorem et venerationem impertiendam, non quod credatur aliqua in iis divinitas vel virtus, propter quam sint colendae; vel quod ab eis sit aliquid petendum, vel quod fiducia in imaginibus sit figenda, veluti olim fiebat a Gentibus quae in idolis spem suam collocabant; sed quoniam honos, qui eis exhibetur, refertur ad prototypa, quae illae repraesentant: ita ut per imagines, quas osculamur et coram quibus caput aperimus et procumbimus, Christum adoremus, et Sanctos, quorum illae similitudinem gerunt, veneremur. Id quod Conciliorum, praesertim veto secundae Nicenae Synodi decretis contra imaginum oppugnatores est sancitum.

«Illud veto diligenter doceant Episcopi, per historias mysterium nostrae redemptionis, picturis vel aliis similitudinibus expresses, erudiri et confirmari populum in articulis fidei commemorandis et assidue recolendis: turn vero ex omnibus sacris imaginibus magnum fructum percipi, non solum quia admonetur populus beneficiorum et munerum quae a Christo sibi collata sunt, sed etiam quia Dei per Sanctos miracula et salutaria exempla oculis fidelium subjiciuntur, ut pro iis Deo gratias agant, ad Sanctorumque imitationem vitam moresque suos componant, excitenturque ad adorandum ac diligendum Deum et ad pietatem colendam2.

Ma, avendo deciso che le immagini dovessero essere conservate e avendole difese dall'accusa d'idolatria, la Chiesa doveva permettere soltanto il tipo giusto di dipinti e sculture religiose, vigilando affinché non si trovasse nulla di dipinto o scolpito che potesse traviare i cattolici o fornire ai protestanti un'arma contro la Chiesa di Roma. Ci si preoccupò quindi molto di eliminare dalle chiese tutti i dipinti eretici o profani e tutti quelli che potevano offrire il destro all'accusa di profanità o di sconvenienza.

L'atteggiamento della Chiesa nei riguardi dei dipinti eretici era variato secondo i periodi, ma era stato in genere sorprendentemente tollerante prima della Controriforma. Nel Medioevo la Chiesa era così potente che poteva concedersi una certa rilassatezza. Piuttosto di rischiare l’esclusione di fedeli dal suo sodalizio, preferiva permettere alle aspirazioni popolari di esprimersi nella facile comicità delle sacre rappresentazioni e nella fantasiosa libertà della scultura gotica. Essa permise che fossero recitati o dipinti anche argomenti leggendari o inventati, purché non prendessero di mira la pratica o la dottrina ecclesiastiche. La stessa tolleranza prevalse durante il Rinascimento. Dottrine e simboli pagani erano incorporati nei cristianesimo, e il ritorno agli ideali classici non soltanto fu permesso, ma attivamente incoraggiato dalla maggioranza dei pontefici, da Nicola V a Clemente VII. Così completa era la fusione degli ideali classici e cristiani che non sorprese alcuno che Raffaello ritraesse gli antichi poeti e gli antichi filosofi di fronte ai teologi cristiani in una delle stanze più importanti del Vaticano.

Durante il secolo XV e l’inizio del XVI è noto soltanto un caso in cui furono presi provvedimenti ufficiali contro un dipinto eretico: si trattava dell'Assunzione delta Vergine del Botticini, ora alla National Gallery di Londra, che si fondava sulle teorie di Matteo Palmieri e si supponeva contenesse alcune eresie derivate da Origene e ripetute nella Città di Vita del Palmieri stesso. Le autorità ecclesiastiche, a quanto sembra tra il 1485 e il 1500, ordinarono che il quadro fosse coperto, e la cappella in cui era appeso era ancora sotto l’interdetto ecclesiastico alla metà del XVIII secolo3.

Tali casi tuttavia dovettero essere molto rari nel periodo rinascimentale e fu solo verso la metà  del Cinquecento che la Chiesa decise di accertarsi che tutti i dipinti religiosi fossero rigorosamente ortodossi. L'irrigidimento della dottrina e della disciplina fu una delle principali conseguenze delle decisioni del Concilio di Trento e si verificò in questo come in qualsiasi altro campo; negli Atti del Concilio leggiamo: «Nullae falsi dogmatis imagines et rudibus periculosi erroris occasionem praebentes statuantur...»4. È caratteristico del saldo controllo che la Chiesa intendeva esercitare in questo periodo il fatto che subito dopo si aggiunga: «Haec ut fidelius observentur statuit sancta Synodus nemini licere ullo in loco, vel Ecclesia... ullam insolitam ponere vel ponendam curare imaginem, nisi ab Episcopo approbata fuerit»5.

Questa decisione, come la maggior parte di quelle re­lative all'arte religiosa, fu ripetuta e diffusa da quel gruppo di scrittori che si facevano un dovere di pubblicare quanto il Concilio aveva stabilito. Per san Carlo Borromeo nulla doveva essere in disaccordo con le Sacre Scritture o la tradizione della Chiesa6. II cardinale Gabriele Paleotti, arcivescovo di Bologna, interdice tutto ciò che e superstizioso, apocrifo, falso, futile, nuovo o insolito7. Il fiammingo Molanus esige che siano distrutti persino i dipinti o le immagini degli eretici8.

Ma non bastava che l’artista evitasse di associare ai suoi dipinti eresie già accertate, era anche obbligato ad attenersi strettamente al soggetto biblico o tradizionale che stava trattando e a non permettere alla sua fantasia ornamenti che lo rendessero più attraente. Erano ugualmente condannati i particolari pittoreschi o di carattere domestico, di cui i pittori gotici gremivano le loro opere, e gli scenari solenni in cui i veneti situavano i loro soggetti biblici. L'artista deve concentrare la sua attenzione nel descrivere nel modo più chiaro ed esatto possibile il soggetto. È consono a questo punto di vista l’atteggiamento del Concilio di Trento verso la musica religiosa, da cui furono eliminati l’elaborato contrappunto, gli «improvvisi» e i «diminuendo», che rendevano inintelligibili le parole della messa e facevano della musica un gioco di pazienza del suono. Lo scopo della musica ecclesiastica non doveva essere quello di produrre «un vano diletto per l’orecchio», ma di fornire composizioni atte a «rendere intelligibili a chiunque le parole». Per quanto riguarda la pittura, si rinnova la stessa richiesta di chiarezza nell'importanza annessa ad alcuni particolari esteriori con cui si potevano rappresentare le figure. Gli angeli devono avere le ali, i santi l’aureola e i loro attributi specifici, o, se questi non sono chiari, può persino essere necessario scrivere i loro nomi al di sotto delle figure per evitare equivoci9. Se si ricorre all'allegoria, questa dev'essere semplice e intelligibile, perché, come dice Gilio da Fabriano, «la cosa tanto è bella, quanto è chiara et aperta»10.

Tutti i diretti divulgatori dei decreti tridentini che abbiamo già menzionato sottolineano la necessità dell'esattezza nella rappresentazione dei soggetti religiosi, e ad essi altri se ne aggiungono il cui interesse principale è la pittura, ma che dimostrano quanto lontano si fosse estesa I'influenza del concilio durante la seconda meta del secolo XVI. Per esempio, Raffaello Borghini, nel Riposo, pubblicato nel 1584, si augura che l’artista voglia «l'invenzione dalla sacra Scrittura derivante semplicemente e puramente dipignere»11, e altri scrivono con gli stessi intenti. Questi autori sono tutti costretti ad ammettere che l’artista non si può limitare in modo assoluto agli episodi biblici, che vi possono essere vuoti che egli è costretto a colmare e particolari che deve aggiungere per rendere comprensibile il racconto. Ma essi sono unanimi nell'esortarlo sempre a riflettere se ogni particolare aggiunto è adatto e indispensabile alla composizione12, e, quando si giunge all'elenco delle concessioni che sono disposti a fargli, si nota che sono abbastanza poche. Per esempio, Gi­lio da Fabriano nel suo dialogo Degli Errori de' Pittori ammette che non muta «il senso dell’istoria» rappresentare i farisei presenti in un determinato episodio in numero maggiore o minore della realtà, o raffigurare «i lumi che portavano, le sorti dell’arme, le case de Pilato, di Caifa, d'Anna, d'Erode più bell'e più ornate che per aventura non erano»13. Questo tipo di concessione non dà molta libertà all'artista, e vedremo in seguito che in vari casi non gli fu consentito di oltrepassare il limite dell'accuratezza. Sono ammesse, tuttavia, alcune altre licenze. Molanus e Gilio concordano nel dire che l’artista può introdurre nei suoi dipinti avvenimenti o concetti «verosimili», cioè quelli fondati sull'autorità «de' dotti e savi uomini»14. In generale, anche, e concesso agli artisti l’uso dell’allegoria, ma soltanto a condizione che la verità da essa espressa sia in stretto accordo con gli articoli di fede della Chiesa15.

L'eccezionale interesse che critici e teologi hanno per i particolari dei dipinti religiosi può meglio risaltare dalle censure fatte da Gilio da Fabriano al Giudizio Universale di Michelangelo o dai commenti del Borghini sui dipinti manieristi fiorentini, in particolare sugli affreschi del Pontormo in San Lorenzo. Le critiche di Gilio sfiorano il ridicolo più ancora di quelle del Borghini; essendo un sacerdote e un esperto di teologia egli si preoccupava vivamente soltanto degli errori dottrinali, ma il Borghini gli è molto vicino e dimostra come anche i laici fossero profondamente influenzati dalle riforme tridentine. Alcune obiezioni di Gilio al Giudizio Universale meritano forse di essere citate per rendere soprattutto il tono del suo dialogo. Michelangelo, egli dice, ha rappresentato gli angeli senza ali. Alcune figure hanno le vesti sconvolte dal vento, quantunque il giorno del Giudizio il vento e la bufera cesseranno. Gli angeli con le trombe sono rappresentati insieme, mentre è scritto che saranno inviati ai quattro angoli della terra. Tra i morti che si sollevano dal suolo alcuni sono ancora scheletri spogli, mentre altri sono già rivestiti di carne, benché, secondo la versione biblica, la Resurrezione avverrà simultaneamente per tutti (nel dialogo questa opinione è elaboratamente discussa, ma infine accettata)16. Gilio protesta inoltre per il fatto che Cristo è raffigurato in piedi, invece che seduto sul suo trono di gloria. Uno degli interlocutori giustifica ciò con  il pretesto del simbolo, ma la sua difesa è respinta da chi dirige il dibattito con una frase che compendia tutto il significato del dialogo:  «Chi misticamente et allegoricamente interpretar volesse le parole del testo evangelico, potrebbe questa vostra opinione passare; ma prima si deve prendere il sentimento letterale, quando propriamente dar si possa, e poi gli altri, e salvare la lettera quanto più possibil sia»17.

Tutto ciò non rappresenta soltanto l’atteggiamento di Gilio verso Michelangelo, bensì l’atteggiamento di tutta la sua generazione verso i grandi artisti di trenta anni prima. Il Caraffa combatte i riformatori liberali, come il Contarini e il Pole, che tentarono di portare uno spirito nuovo nella Chiesa senza curarsi dell'interpretazione letterale del dogma; i fautori del Concilio di Trento combatterono Michelangelo, che sviluppò una nuova arte spiritualizzata e preferì a volte un'allegoria di carattere mo­rale a un'interpretazione letterale della Bibbia. Di fronte alla minaccia protestante, sia il Pole che Michelangelo avrebbero potuto fornire un'arma contro la Chiesa di Roma e non potevano quindi essere tollerati.

I controriformisti, tuttavia, non si preoccupavano soltanto di liberare l’arte religiosa dalle inesattezze teologiche: era almeno altrettanto importante eliminare da es­sa tutto ciò che era profano o pagano. Ancora una volta l’azione relativa alla pittura e alla scultura si svolge parallelamente all'epurazione nel campo della musica ecclesiastica. All'inizio del XVI secolo era consuetudine cantare parti della messa su motivi popolari e talvolta accadeva, persino nel coro papale, che fosse consentito a una delle voci del coro di usare le parole di solito associate a quel motivo, mentre le altre voci si servivano delle pa­role della messa. Le regole prescritte dal Concilio di Trento e dalla Commissione dei cardinali che si occupava della musica ecclesiastica proibirono nel 1564 tutte queste pratiche, insistendo sul fatto che parole e musica dovessero essere interamente religiose. Parimenti la Chiesa esigeva che i dipinti nelle chiese fossero del tutto esenti da elementi profani, in particolare da tracce di paganesimo greco e romano.

Sono stati già spiegati i motivi per cui i controriformisti dovevano temere il culto dell'antichità classica, e non sorprende quindi che Gilio da Fabriano biasimi Michelangelo per avere introdotto Caronte nel Giudizio Universale18. Nel dialogo si ammette che Michelangelo si era basato sull'autorità di Dante, ma questa giustificazione non è ritenuta valida, ed è caratteristico dello spirito mutato della Chiesa che ciò che non sarebbe stato oggetto di critiche al tempo di Dante fosse considerate troppo arrischiato nel 1560.

I moralisti più austeri vanno oltre non permettendo che le immagini e i dipinti di soggetto pagano fossero conservati neppure nelle case private. Secondo il Possevino, la vista di immagini pagane ripugna ai santi in pa­radiso, e Pio V e Sisto V avevano quindi ragione di tentare di togliere e di distruggere le statue antiche o di adattarle ad usi cristiani19. Molanus sostiene che le statue pa­gane non devono piacere ai cristiani, ma che quelle che costituiscono una buona lezione morale secondo l’etica cristiana possono essere proficuamente conservate20.

È nondimeno evidente che questi atteggiamenti estremisti non erano accettati da tutti e che la Chiesa era disposta a fare qualche concessione. L'antichità classica era penetrata cosi profondamente nell'abito mentale degli itallani che nulla l’avrebbe potuta sradicare completamente. La Chiesa quindi si accinse ad eliminare soltanto le forme più pericolose d'influenza classica e ad escogitare pretesti adeguati per permettere il resto. San Carlo Borromeo, per esempio, nelle sue norme per la costruzione di chiese consente l’uso degli ordini classici «pro fabricae firmitudine»21. In genere tuttavia la Chiesa decise che la parte innocua del classicismo fosse la sua mitologia. I sistemi filosofici classici, che potevano condurre a un serio conflitto con i principi cristiani, la spaventavano, ma la mitologia era un mezzo abbastanza innocuo di appagare il romantico sentimento degli itallani per l’antichità.

Nella seconda metà del Cinquecento sono comuni quin­di i cicli di affreschi di soggetto mitologico, ma non sono più trattati con lo spirito con cui Raffaello li aveva dipinti. Il classicismo e il simbolismo sopravvivono nelle storie rappresentate, ma è scomparso il rigore umanistico che le accompagnava al tempo del Rinascimento maturo. Questo razionalismo, che nella Scuola d'Atene si fondeva perfettamente con il classicismo, era il vero spauracchio della Chiesa perchè conduceva alle riforme protestanti e al libero pensiero; una volta separate da questo, una volta srazionalizzato, il classicismo diveniva innocuo. Perfino un critico cosi severo come Gilio non interdiceva affatto la pittura mitologica, poiché divide i pittori in tre categorie, storici, poetici e misti22, ed evidentemente intende includere nella categoria poetica quelli che trattano scene mitologiche, dato che allude alla decorazione della Farnesina ad opera di Raffaello.

Nella pittura religiosa la Chiesa non si limitò a escludere elementi classici e pagani. Essa disapprova sotto qualsiasi forma l’introduzione dell'elemento profano. Abbiamo la fortuna di conoscere in tutti i particolari un epi­sodio in cui essa agì in questo senso contro un artista, e merita darne il resoconto dettagliato poiché getta luce in modo particolare sul punto di vista delle gerarchie e sulle convinzioni di un certo numero d'artisti. Nel luglio del 1573, Paolo Veronese fu citato davanti al tribunale dell’Inquisizione per difendere il suo quadro raffigurante il Convito in casa di Levi, eseguito per il refettorio del convento dei Santi Giovanni e Paolo e ora alle Gallerie dell’Accademia di Venezia23. Le principali accuse mosse dagli inquisitori al dipinto si basavano sul fatto che il Veronese vi aveva introdotto cani, nani, un buffone con un pappagallo, uomini armati alla tedesca, e un servo che perde sangue dal naso: tutti particolari che non sono menzionati nell'episodio biblico e non si addicono a un quadro religiose. Il Veronese dapprima controbatte abilmente che Levi era ricco e senza dubbio aveva al suo servizio domestici, soldati e nani, ma è rapidamente costretto alla vera spiegazione. Quando gli fu chiesto chi supponeva avesse in realtà partecipato al convito, rispose: «Credo che si trovassero Cristo con li suoi Apostoli; ma se nel quadro li avanza spacio io l’adorno di figure, secondo le inventioni». E ancora: «La commission fu di ornar il quadro secondo mi paresse, il quale grande e capace di molte figure, si come a me pareva». Le sue giustificazioni furono respinte e gli fu ordinato di modificare alcuni particolari, cosa che egli debitamente eseguì. È sintomatico dei metodi della Controriforma che in questo caso l’Inquisizione si accontenti di alcuni cambiamenti apportati ai particolari che lasciavano al quadro lo stesso carattere profano che aveva in precedenza. Ma ancora più istruttive sono le risposte del Veronese. Le sue idee sono completamente quelle rinascimentali. Egli pensa in termini di bellezza, non di verità spirituale, e il suo scopo era di creare un quadro, splendido e fastoso, non di illustrare un episodio religioso. Ciò si spiega considerando che, paragonata con la maggior parte delle altre regioni itallane, Venezia era stata solo sfiorata dalla fase tridentina della Controriforma. I gesuiti non vi si erano mai solidamente affermati e l’Inquisizione era soggetta al controllo dello stato. Alcuni pittori, come il Tintoretto, assorbirono le nuove idee e i loro dipinti sono pervasi dalla tumultuosa spiritualità dei controriformisti, ma essi erano una minoranza e nel tardo Cinquecento era ancora possibile ad artisti come Paolo Veronese o Andrea Palladio lavorare in base a principi che sono fondamentalmente quelli del Rinascimento.

L'ultimo problema connesso con la pittura religiosa di cui si occupò la Chiesa fu quello della decenza. Prima del Concilio di Trento tale questione non era mai stata di grande importanza. Nel Medioevo la Chiesa accordava piena libertà sia alla comicità che alle leggende popolari, ed entrambe si espressero nell'ambito dell'arte religiosa. Nel XV secolo e all'inizio del XVI si registrano alcune critiche mosse ad opere d'arte perché contrarie alla decenza. Jehan Gerson, cancelliere dell'università di Parigi all'inizio del XV secolo, protestò contro le conseguenze del nudo nella decorazione delle chiese24, e in Italla il Savo­narola fece sì che tutti i dipinti sensuali di cui poté impadronirsi fossero bruciati, benché, come abbiamo visto, egli non disapprovasse in genere le arti purché si attenessero ai principi della religione. Il Vasari narra che un San Sebastiano di fra' Bartolomeo dovette essere rimosso da una chiesa perché aveva ispirato pensieri impuri in alcuni fedeli25, e che il Sodoma passò dei guai ma soltanto dopo avere deliberatamente dipinto un episodio osceno per irritare i monaci presso i quali lavorava26.

Tuttavia questi sono casi isolati, ed è evidente dal frequente ricorrere del nudo nei dipinti religiosi fino alla meta del XV secolo che, prima della Controriforma, la Chie­sa non aveva preso alcun provvedimento in proposito, limitandosi a controllare che nulla di grossolanamente sconveniente fosse introdotto nella decorazione ecclesiastica. Ma dopo il Concilio di Trento la situazione mutò radicalmente e si vigilò con scrupolo sulla decenza dei dipinti religiosi come sulla loro ortodossia. La deliberazione tridentina a questo proposito è molto generica: «Omnis denique lascivia vitetur ita ut procaci venustate imagines non pingantur nee ornentur»27. Ciò fu oggetto di lunghi e particolareggiati commenti a opera dei divulgatori delle riforme. II Borromeo e il Paleotti si limitarono a svolgere l’argomento aggiungendo che si deve evitare l’indecenza non soltanto nelle chiese ma anche nella decorazione delle abitazioni private28. Gilio da Fabriano esamina in alcuni particolari il problema del nudo, concludendo che, anche quando è evidente dalla narrazione biblica che le figure erano svestite, l’artista deve ricoprirle almeno con un perizoma29. Molanus è scandalizzato dal­la rappresentazione del Bambino Gesù nudo30, e il Possevino inorridisce al pensiero che un nudo appaia in qualsiasi dipinto posto in qualsiasi luogo, poiché «siquis honesti attquid in corde retineat, vix se ipsum conspicere audeat nudum»31.

Come nelle controversie sull'eresia, così in quelle sulla decenza il Giudizio Universale di Michelangelo fu oggetto degli attacchi più violenti. Il fatto che l’opera si trovasse nella cappella Sistina le diede un'importanza tale da farla divenire un esempio tipico, ed essa fornì ampio materiale alla discussione sul problema del nudo. Il Giudizio Universale non fu soltanto esposto alle critiche degli scrittori: in più occasioni corse il rischio di essere completamente distrutto e si salvò a prezzo di una grave mutilazione. Ancor prima che fosse terminato, il maestro di cerimonie di Paolo III, Biagio da Cesena, protestò contro l’affresco, ma il pontefice appoggiò l’artista che si prese una facile rivincita ritraendo il suo oppositore nel sembiante di Minosse all'inferno. Paolo IV minacciò di distruggere tutto l’affresco e ordinò infine a Daniele da Volterra di ricoprire con drappeggi alcune figure. Pio IV, non ancora soddisfatto, aumentò il numero delle figure ricoperte, mentre a Clemente VIII fu impedito di distruggere completamente l’opera soltanto dagli appelli dell'Accademia di San Luca32. La violenza degli attacchi suscitati dal capolavoro di Michelangelo è dimostrata da una critica fiorentina citata dal Symonds, in cui l’artista è descritto come «inventor delle porcherie»33. Gli scritto­ri ecclesiastici ufficiali avevano un linguaggio meno impetuoso e, come si vedrà in seguito, gli unici altri critici che parlassero senza ritegno non erano disinteressati nei loro attacchi.

La Chiesa esercitò lo stesso controllo sulla letteratura, ma ancor più metodicamente. II papato nel XV secolo era prudente ma di mentalità aperta. Sisto IV proibì la pubblicazione di qualsiasi libro prima dell'approvazione delle autorità ecclesiastiche, ma poco di più fu fatto fino agli ultimi anni di Paolo III quando, sotto l’influenza del Caraffa, fu perseguito penalmente chiunque stampasse, vendesse o possedesse un libro proibito. La prima lista ufficiale di tali libri fu pubblicata a Roma nel 1564, in conformità alle deliberazioni tridentine. Le norme esposte in questo Index Expurgatorius e nelle successive edizioni dell'opera erano analoghe a quelle stabilite dal Concilio per la pittura: divieto di tutti gli argomenti eretici, troppo profani e contrari al pudore e di qualsiasi attacco alla supremazia pontificia. Come nel caso della pittura, le au­torità ecclesiastiche si preoccupavano più della lettera che dello spirito e furono costrette a fare qualche concessione per i classici. Esse inoltre si accanivano molto di più contro gli scrittori anticlericali che contro quelli immorali, come si può constatare dalle cosiddette edizioni espurgate, approvate dalla congregazione, di autori come il Bandello e il Folengo34. Le autorità pontificie, quindi, mostrarono la stessa bizzarra mescolanza di devozione e diplomazia tanto riguardo alla letteratura che alla pittura, e lo sviluppo del movimento che condusse all'Index si svolse parallelamente all'irrigidimento del controllo sull'arte re­ligiosa.

Quasi tutti gli autori finora citati in rapporto alle riforme nell'arte religiosa erano sacerdoti o uomini sottoposti al controllo ecclesiastico. Ma, sia che essi le approvassero o meno in cuor loro, non vi è dubbio che gli artisti della seconda meta del Cinquecento furono colpiti dalle decisioni di Trento e costretti in generate ad adeguarvisi. Per esempio, quando Durante Alberti fu eletto nel 1598 presidente dell'Accademia di San Luca, portò seco alla prima seduta un gesuita che esortò gli accademici a dipingere «cose honeste, e laudabili, e fuggire ogni lascivia, e dishonestà »35. Si è gia parlato della spiritualità di alcuni dipinti manieristi; ma anche nelle opere che esprimono un sentimento meno spirituale i pittori del tardo Cinquecen­to osservavano formalmente le leggi del pudore. Nell'arte religiosa di questo periodo non si trovano quasi mai figu­re nude e anche quelle parzialmente svestite sono molto rare. Si dà infatti il caso di un artista che mostrava un orrore così accentuato per il nudo da superare quello dei critici ecclesiastici. Si tratta dello scultore Bartolomeo Ammannati, che nel 1582 inviò una lettera ai membri della Accademia del disegno di Firenze per rinnegare tutte le statue di nudi virili e muliebri eseguite negli anni precedenti: non potendo distruggere queste opere, desiderava fare pubblica ammenda per averle scolpite. Alla fine egli esortava i colleghi a dipingere e scolpire figure completamente vestite che, come prova dell'abilita dell'artista, sono altrettanto belle e valide36. Successivamente egli scrisse al granduca Ferdinando chiedendo il permesso di apportare modifiche a tutte le statue nude che aveva eseguito per il padre di lui, ricoprendole o trasformandole in allegorie cristiane37. Una conversione cosi radicale era indubbiamente insolita, ma più o meno quasi tutti gli artisti del tempo furono influenzati dall'atmosfera della Controriforma38.

L'atteggiamento dei critici del periodo manierista nei confronti del problema del nudo investe completamente i rapporti tra Manierismo e Rinascimento. Sembra che i controriformisti più rigidi fossero del tutto insensibili di fronte alle doti di serietà dell'arte rinascimentale; la situazione muta nel caso di critici come Gilio da Fabriano, che non solo riconosce i meriti di Michelangelo, ma ne fa elogi entusiastici. Michelangelo, egli afferma, ha ridato alla pittura la magnificenza esteriore e Gilio auspica che le sia ridata anche nel trattamento dei soggetti religiosi39. Sul Giudizio Universale scrive che Michelangelo vi «ha dimostrato ciò che può e sa far l’arte». Ammette quindi che, sul piano della riuscita esclusivamente artistica, Mi­chelangelo è impareggiabile. Ma ritiene che su un piano ancor più elevato Michelangelo è meritevole di condanna, perché «più s'è voluto compiacere de l’arte, per mostrare quale e quanta sia, che de la verita del soggetto»40. Infatti «lo fo molto più ingenioso quello artefice che accomoda l’arte a la verità del soggetto, che quello che ritorce la purità del soggetto a la vaghezza dell'arte»41. Secondo Gilio quindi Michelangelo dev'essere biasimato perché non tratta con sufficiente serietà il soggetto ed egli, del tutto ingiustamente, lo accomuna a quei suoi seguaci manieristi accusati spesso d'introdurre quanti più nudi potevano nei loro dipinti al solo scopo di mostrare la loro abilita nel disegno42. Non possiamo accusare critici come Gilio di non riconoscere l’abilita tecnica e formale dell'opera di Michelangelo, possiamo soltanto rammaricarci della loro cecità di fronte alla profonda serietà che la ispirò, ma che a uomini della loro generazione era nascosta da errori teologici in particolari di importanza assolutamente secondaria per la mentalità umanistica del Rinascimento.

 

I critici implicati nelle dispute sull'arte religiosa non fondarono sempre le loro teorie appellandosi direttamente alla moralità o all'autorità ecclesiastica. Si servirono talvolta di una teoria, quella del «decoro», elaborata per scopi del tutto diversi. Ci siamo già imbattuti in questa teoria negli scritti di Leonardo, per il quale essa costituisce una parte necessaria nella rappresentazione realistica di un soggetto. Nel XVI secolo è applicata in un modo più complesso; essa esige che ogni cosa in un dipinto debba adattarsi sia alla scena rappresentata che all’ambiente a cui l’opera è destinata. Le figure, cioè, devono essere abbigliate conformemente alla loro importanza e al personaggio che rappresentano, i loro gesti devono essere appropriati, deve essere scelto lo scenario adatto e l’artista deve sempre tener presente se sta eseguendo un'opera per una chiesa o per un palazzo, per un edificio pubblico o per una dimora privata.

Nella pittura religiosa la teoria del decoro fornisce un’altra ragione per esigere precisione nei particolari, ma in alcune circostanze sembra anche costituire una prova più importante dell'esattezza letterale. Per esempio Gilio se ne serve per giustificare la sua condanna della figura di Cristo nell'affresco di Michelangelo con la Conversione di san Paolo, nella cappella Paolina. Uno degli interlocutori del dialogo sostiene che questa figura, precipitando dal cielo, simboleggia la forza irresistibile e improvvisa della grazia. Ma Gilio risponde che ciò è privo d'importanza paragonato al fatto che la figura del Cristo manca della dignità che le si addice43.

 

La teoria del decoro è applicata tuttavia più ampiamente in un altro attacco a Michelangelo sferrato nel medesimo periodo, di cui dobbiamo ancora parlare. È stato lasciato da parte fino a questo momento perché deve es­sere accuratamente distinto da tutte le critiche ispirate dal Concilio di Trento. L'attacco in questione fu promosso dall'Aretino e proseguito a nome suo dall'amico Lodovico Dolce. Fu ispirato da motivi del tutto personali e non era in alcun modo connesso con le critiche serie e di carattere religioso fatte al Giudizio Universale, benché successivamente, a quanto sembra, Gilio da Fabriano abbia attinto argomenti dall'opera del Dolce. La storia dei rapporti dell'Aretino con Michelangelo è stata narrata dettagliatamente da diversi scrittori44 e occorre solo riassumerla. L'Aretino ammirava molto Michelangelo e fece di tutto per ottenerne la benevolenza; ma le sue lettere adulatrici in cui chiedeva un disegno rimasero senza risposta e il suo tentativo di indicare all'artista come dovesse dipingere il Giudizio Universale fu accolto con insultante evasività. L'Aretino perseverò per dieci anni, ma nel 1545 perdette la pazienza e scrisse a Michelangelo quella lettera sul Giudizio Universale ormai famosa come esempio di ipocrita verecondia. Sembra strano udire da un uomo come l’Aretino quelle parole di appassionata indignazione di fronte alle nudità del Giudizio Universale, che sgorgavano con molta più violenza che dalla bocca di Gilio o di qualsiasi sacerdote in buonafede. Il dialogo del Dolce, L'Aretino, pubblicato nel 1557, ripete tutte le argomentazioni dell'Aretino con la medesima violenza e, poiché i due scrittori erano amici intimi, è più che verosimile che abbiano lavorato in collaborazione. Non occorre esaminare in particolare le loro accuse, essendo per lo più le stesse mosse da Gilio: ciò che importa è che l’Aretino e il Dolce le fondano su premesse diverse da quelle del Gilio. Quest'ultimo critica per motivi etici, l’Aretino e il Dolce per opportunismo, anche se spesso si appellano alla teoria del decoro. Non sono scandalizzati dall'opera di Michelangelo in quanto immorale, ma perché si trova in un luogo importante come la cappella Sistina: «Chi ardirà di affermar che stia bene nella chiesa di San Pietro prencipe degli apostoli, in una Roma ove concorre tutto il mondo, nella cappella del pontefice, il quale, come ben dice il Bembo, in terra ne assembra Dio, si veggano dipinti tanti ignudi che dimostrano disonestamente dritti e riversi?»45.

Questo tema della sconvenienza del dipinto in rapporto al luogo in cui si trova ritorna nel Dolce e ci fa sospettare che le sue opinioni non si basino soltanto sulla morale. Questo sospetto è confermato da un brano straordinario del dialogo. Fabrini, il secondo interlocutore, biasima la lascivia di un gruppo di incisioni eseguite da Marcantonio su disegno di Giulio Romano, per cui l’Aretino stesso aveva scritto una serie di sonetti nel suo stile più licenzioso. L'Aretino, nonostante ciò, trasferisce il biasimo da Giulio Romano all'incisore, sostenendo che il primo non aveva mai avuto intenzione di rendere pubblici i suoi disegni e aggiunge: «Né si disconviene al pittore di fare alle volte per giuoco simili cose, come gia alcuni poeti antichi scherzarono lascivamente, in grazia di Mecenate, sopra la imagine di Priapo per onorare i suoi orti. Ma in publico... si dee aver sempre risguardo alla onestà »46. Questa difesa di ciò che è stato sempre ritenuto una serie di incisioni intenzionalmente pornografiche, seguendo immediatamente il verecondo disgusto dell'Aretino per i nudi del Giudizio Universale, non lascia dubbio alcuno sul fatto che lo scrittore fu mosso da rancore personale e non da elevati principi morali. Tutto l’attacco dell'Aretino e del Dolce, infatti, non ha nulla a che vedere con la questione dell'arte religiosa al tempo della Controriforma, ma poiché il dialogo del Dolce ebbe vasta diffusione e di esso si servirono specialmente gli scrittori francesi del secolo successivo, non lo si può in ogni caso ignorare47. Ci siamo già imbattuti in un tardo epigono dell'età rinascimentale implicato in una disputa sull'arte religiosa, cioè il Veronese. Un altro personaggio quasi altrettanto lontano dallo spirito delle riforme tridentine era il Vasari, benché si rendesse conto di quanto stava accadendo e di solito evitasse di compromettersi troppo. In fatto di dipinti eretici egli è un po’ ambiguo. Parlando dell'Assunzione del Botticini, afferma che la gente deprecava che contenesse idee eretiche e aggiunge: «il che se è vero o non vero, non se ne aspetta il giudizio a me; basta che le figure che... vi fece, veramente sono da lodare... e scorci e vedute in diversi modi diversamente; e tutto condotto con buon disegno»48. Questo equivale a dire che i particolari di carattere religioso non sono di sua competenza ed egli li abbandona ai teologi. È più esplicito invece sulla decenza in pittura. Naturalmente è entusiasta del Giudizio Universale e in genere non è affatto pudibondo, benché condanni le incisioni di Marcantonio difese dall'Aretino. Nella vita di fra' Angelico fa un'esposizione completa delle sue opinioni affermando che «devono coloro che in cose ecclesiastiche e sante s'adoperano, essere ecclesia­stici e santi uomini», e biasimando chi considera «il goffo ed inetto, devoto; e il bello e buono, lascivo», poiché santi dovrebbero essere «tanto più belli della natura mortale, quanto avanza il cielo la terrena bellezza ». Egli accusa anche quelli che sono eccessivamente sensibili in materia di pudore nei dipinti di scoprire «l’animo loro infetto e corrotto, cavando male e voglie disoneste di quelle cose, delle quali se e' fussino amatori dell'onesto, come in quel loro zelo sciocco vogliono dimostrare, verrebbe loro disiderio del cielo»49. Tutto ciò si trova nella edizione del 1550 e rientra in pieno nello spirito del Rinascimento. Ma quando nel 1568 fu pubblicata la seconda edizione, la disputa sul Giudizio Universale aveva raggiunto una fase più critica, e quantunque il Vasari lasci intatti i brani sopra citati e anzi ne aggiunga altri di uguale significato, inserisce anche, a propria giustificazione, un paragrafo in cui si tutela appellandosi alla teoria del decoro: «Ma non perciò vorrei che alcuni credessero, che da me fussero approvate quelle figure che nelle chiese sono dipinte poco meno che nude del tutto: perché  in cotali si vede che il pittore non ha avuto quella considerazione che doveva al luogo»50. È difficile dire quanto l’autore sia sincero in questo brano, ma in ogni modo è evidente che egli non aveva mutato sostanzialmente il suo atteggiamento nei riguardi dell'arte religiosa.

Fino a questo punto gli effetti delle decisioni del Concilio di Trento che abbiamo esaminati sono stati soprattutto quelli negativi, e poiché la Controriforma fu dapprima un movimento a carattere epurativo è logico che l’impulso positivo impresso da essa alla pittura e all'architettura dovesse essere meno immediato della sua influenza limitatrice. Ma elementi d'insegnamento positivo si possono trovare nei divulgatori delle deliberazioni del Concilio di Trento.

Gli stessi decreti del Concilio sottolineano il valore delle immagini dipinte e scolpite come incitamenti alla devozione; e questo tema è sviluppato dal Paleotti, il quale sostiene che la rappresentazione visibile rimane più vivacemente impressa della parola nella mente di molte persone51, e da Gregorio Comanini, canonico lateranense, che indica quali dipinti possano in una chiesa attirare lo sguardo persino di una persona oziosa e distratta52. Com'è stato già detto, Gilio da Fabriano e altri scrittori considerano più importante che l’artista rappresenti fedelmente il soggetto, piuttosto che la sua bellezza esteriore e fisica. Quindi, nella rappresentazione dei martiri o delle sofferenze di Cristo e dei santi, soggetti adatti a suscitare devozione, l’artista non deve alterare la realtà dipingendo una scena di serena, scultorea bellezza, con nudi fisicamente perfetti: deve invece mostrare tutto l’orrore e la drammatica truculenza dell’episodio narrato. Se dipinge la Flagellazione, non ne farà uno studio di euritmia, come Sebastiano del Piombo nell'affresco per San Pietro in Montorio, aspramente disapprovato dai controriformisti; deve mostrare Cristo «afflitto, sanguinoso, pieno di sputi, depelato, piagato, difformato, livido e brutto»53. Se vorrà mostrare una bellezza più serena, dovrà scegliere un soggetto più sereno, come il Battesimo, o un tema più sublime, come la Trasfigurazione. In tali casi la bellezza esteriore dovrà essere incoraggiata, perché e adatta al caso.

Di solito sia i consigli positivi che quelli negativi dei seguaci del Concilio di Trento sono importanti per la loro meticolosità piuttosto che per l’impiego di argomentazioni a carattere genericamente sentimentale come quelle del Possevino. Ciò è particolarmente esatto per il Molanus, che dedica gli ultimi due libri del suo trattato a istruzioni dettagliate per dipingere qualsiasi figura o sce­na di soggetto religioso. È preso in considerazione ogni particolare - quali persone fossero presenti, come fossero abbigliate, dove si trovassero, in quale atteggiamento debbano essere ritratte - cosicché era impossibile che il pittore commettesse errori sotto la sua guida. Si vedrà in seguito che i critici manieristi applicavano esattamente lo stesso metodo sia alle scene classiche e mitologiche che ai soggetti religiosi.

Non meno scrupoloso è san Carlo Borromeo, l’unico autore che applichi al problema dell’architettura il decreto tridentino. Le sue Instructions Fabricae et Supellectilis Ecclesiasticae, composte subito dopo il 1572, trattano con straordinaria meticolosità tutti i problemi relativi agli edifici ecclesiastici. Il libro si basa su una convinzione, caratteristica della Controriforma, che doveva assumere un significato anche più importante nei diciassettesimo secolo: cioè che la Chiesa stessa e le funzioni che vi si celebrano devono essere il più possibile maestose e solenni, cosicché la loro magnificenza e il loro tono religioso possano imporsi persino a uno spettatore occasionale. Il fatto che i protestanti, reagendo contro il carattere mondano delle cerimonie della Chiesa di Roma, andassero all’estremo opposto negando qualsiasi importanza all'aspetto esteriore degli uffici divini, deve aver fornito un motivo ai controriformisti per rendere sempre più splendide le loro funzioni religiose; essi però devono anche aver compreso l’effetto emotivo che l’imponenza di una cerimonia religiosa può esercitare sui fedeli. Nel prologo alle Instructiones il Borromeo elogia l’antica tradizione di magnificenza ecclesiastica e chiede che sacerdoti e architetti cooperino per mantenerla.

Egli comincia col raccomandare che la chiesa sia costruita in una località elevata, possibilmente su un'altura, e in ogni caso sia munita di una scalinata di accesso per­ché possa dominare su quanto la circonda54. La facciata deve essere adorna di figure di santi e di «gravibus ac modestis ornamentis »55. All'interno si deve porre molta attenzione all'altar maggiore, che deve essere sollevato su gradini56 e situato in un presbiterio abbastanza spazioso perché il sacerdote possa officiarvi dignitosamente57. La sacrestia deve comunicare con la parte principale della chiesa, non direttamente col presbiterio, cosicché il sacer­dote possa compiere una vera e propria processione recandosi all'altar maggiore58. I transetti possono essere trasformati in cappelle con altri grandi altari per funzioni particolari59. Ricchi paramenti sacerdotali aggiungono dignità a una funzione religiosa60 e, poiché essa deve essere convenientemente illuminata, le vetrate della chiesa de­vono in genere essere munite di vetri non colorati61.

 

 

 

Tutto ciò deve essere ottenuto con mezzi appropriati, senza vana pompa e soprattutto senza nulla di profano o pagano62. Tutto deve ricollegarsi rigorosamente alla tradizione cristiana: la pianta della chiesa deve essere a forma di croce, non circolare secondo l’uso pagano63. Incidentalmente il Borromeo raccomanda la pianta a croce latina piuttosto di quella a croce greca, eliminando cosi la for­ma prediletta nel Rinascimento. Indubbiamente egli pensava al nuovo tipo di pianta a croce latina che era stato gia attuato dal Vignola nella chiesa del Gesù e che idealmente appagava il gusto della Controriforma per gli effetti spettacolari. Anche nei particolari il richiamo all'antica tradizione cristiana è decisivo; le porte, per esempio, devono essere architravate e non arcuate, perché il primo tipo si ritrova nelle antiche basiliche cristiane, mentre il secondo è di origine pagana64. In ogni caso predominano le ragioni di carattere religioso, e le considerazioni di natura strettamente artistica sono permesse soltanto in casi indifferenti dal punto di vista ecclesiastico. Non occorre sottolineare ulteriormente la cura che il Borromeo dedica ai particolari, ma è illuminante che egli dedichi un intero volumetto al problema della pulizia degli ornamenti e dell'arredamento delle chiese65.

Per comprendere il significato delle istruzioni del Borromeo sugli edifici ecclesiastici può essere utile paragonarle con quelle degli architetti ancora legati, verso la metà del XVI secolo, alle idee del primo quarto del Cinquecento. Il tipo di chiese adottato da questi ultimi era anch'esso basato su principi religiosi, ma i criteri teologici erano diversi. II Borromeo condanna le chiese di forma circolare, mentre Palladio le raccomanda perché il circolo è la figura geometrica più perfetta e si addice quindi alla casa di Dio66. Inoltre il circolo simboleggia l’unità di Dio, il suo essere infinito, la sua immutabilità e la sua giustizia67. Dopo il circolo la figura più perfetta, e quindi la pianta più conveniente, è la quadrata. Ultima viene la pianta a croce, che è adatta perché simboleggia la crocefissione. II Borromeo avrebbe approvato questo ragionamento, pur scandalizzandosi perché il Palladio assegnava alla chiesa a croce l'ultimo posto. Si sarebbe ancor più scandalizzato di fronte al consiglio dato dal Palladio in un capitolo suc­cessivo, cioè che le norme per edificare le chiese sono quelle stesse che valevano per la costruzione dei templi, salvo alcune lievi modifiche che consentono l’introduzione di una sacrestia e di un campanile68.

Il Cataneo, nei suoi Quattro Primi Libri di Architettura, pubblicati nel 1554 a Venezia, tratta in modo lievemente diverso la costruzione delle chiese. Egli sostiene che la chiesa principale di una città deve essere a forma di croce, perché la croce è il simbolo della redenzione69. Le proporzioni della croce devono essere quelle di un uomo perfettamente sviluppato, perché ricordano quelle del corpo di Cristo, superiore a ogni altro corpo umano. II Cataneo aggiunge anche un ragionamento assai bizzarro e significativo sulla decorazione delle chiese. L'interno, dice, dovrebbe essere più ricco dell'esterno, perché l’interno simboleggia l’anima di Cristo e l’esterno il corpo, e l’anima è più bella del corpo70. Quindi l’esterno dovreb­be essere costruito applicando un ordine semplice come quello dorico e l’interno applicando invece un ordine più ornato come quello ionico. Il simbolismo degli ordini era evidentemente assai diffuso e Serlio vi allude auspicando che gli ordini siano scelti secondo il tipo di santo a cui la chiesa è dedicata: dorico se dedicata a Cristo, san Paolo e i santi più virili; ionico per i santi più miti e le sante più austere; corinzio per le sante vergini71.

Tutti questi ragionamenti sulla costruzione delle chie­se sono caratteristici della mentalità del Rinascimento maturo. Poiché la bellezza era una qualità divina, l’offerta più adatta a Dio era un edificio di grande bellezza. A questo si univa una spiccata tendenza al simbolismo nell’uso di alcune forme e ornamenti. Le esigenze minuziose del rituale ecclesiastico che per il Borromeo contavano sopra ogni altra cosa non erano ancora prese in considerazione.

In tutto il corso delle sue Instructiones il Borromeo sottolinea l’importanza della collaborazione tra sacerdoti e artisti. Questo principio era stato posto dal Concilio di Trento e sappiamo che in pittura era in genere messo sempre in pratica. I soggetti della maggior parte dei cicli di affreschi manieristi sono di significato così oscuro che possono essere stati scelti soltanto da esperti teologi e, in alcuni casi, conosciamo anche il nome di coloro a cui è dovuta tale scelta. Per esempio, i soggetti per la decorazione della cappella Paolina in Santa Maria Maggiore furono scelti da due padri dell'Oratorio72. Lo stesso metodo fu in genere seguito nei dipinti di argomento mitologico e storico come, per esempio, nella decorazione di Caprarola progettata da Annibale Caro73. Ma da queste imposizioni delle autorità ecclesiastiche agli artisti deduciamo che l’ar­te, nel senso più letterale del termine, era ritornata allo stato in cui si trovava nel Medioevo ed era divenuta an­cora una volta l’ancella della religione.

Questo mutamento nella posizione delle arti è esposto dal Paleotti, il quale afferma che «l’arte del formare le immagini, cristianamente esercitata, riesce nobilissima »74. Il problema è trattato più esaurientemente dal Comanini nel dialogo II Figino, pubblicato nel 1591. Gli interlocutori sono Ascanio Martinengo, abate di San Salvatore di Brescia, Stefano Guazzo, protettore di letterati e artisti, e Ambrogio Figino, pittore milanese. Nella prima parte del dialogo Guazzo sostiene che lo scopo della pittura è soltanto quello di procurare sensazioni gradevoli e perora la tesi dell'arte per l’arte. Martinengo, il sacerdote, è di parere contrario e afferma che, quantunque la pittura procuri, mediante l’imitazione, sensazioni gradevoli, è anche soggetta a principi filosofici morali e il suo vero fine non è il piacere ma l’utilità. L'arte, continua, è stata sempre controllata dallo stato, così in Egitto come in Grecia e a Roma, e dallo stato è stata diretta verso un fine onesto. Nell'era cristiana il controllo dell'arte come attività volta a scopi utili spetta alla Chiesa, che l’ha sempre in genere diretta e sempre deve dirigerla a sostegno della religione. Infine Guazzo si arrende ammettendo che lo scopo principale della pittura è l’utilità e che il piacere da essa prodotto è soltanto di secondaria importanza. Gli interlocutori si volgono quindi ad altri argomenti e Figino afferma che la pittura è capace d'imitazione in modo più perfetto della poesia, ed è quindi più utile di quest'ultima. Ma l’intento principale è evidente: la pittura dovrebbe mirare al progresso morale educando secondo i principi della Chiesa, e non al piacere mediante stimoli di carattere estetico. In questa tesi si compendia il punto di vista della Controriforma sulla posizione e funzione delle arti.

 

Le teorie finora discusse in questa parte sono quelle dei più austeri controriformisti. Esse avrebbero riscosso l’approvazione di ascetici pontefici come Paolo IV o Pio V e dei grandi santi che combatterono per un rinnovamento spirituale, come san Carlo Borromeo. Ma queste non furono le uniche figure espresse dalla Controriforma: il pa­norama artistico e religioso dell'epoca offre altri movimenti e altre personalità di carattere completamente diverso.

L'intento dei severi riformatori sopra citati era di far ritorno alla purezza di dottrina medievale e alla semplicità monastica di vita. Essi si ispiravano al passato, in cui vedevano molti buoni esempi che i contemporanei avreb­bero potuto vantaggiosamente imitare. La loro opera fu di grande importanza nel correggere gli abusi, ma in un certo senso essi erano al di fuori del loro tempo e verso la fine del Cinquecento fu evidente che le loro riforme a carattere reazionario non avrebbero ridato alla Chiesa quella forza di cui aveva bisogno se voleva ristabilire il proprio potere dopo gli attacchi del protestantesimo. A poco a poco quindi, accanto alle istituzioni più austere della riforma, ne emersero altre che tendevano ad adattare la fede cattolica alle necessità della vita moderna. I principali fautori di questa trasformazione furono i gesuiti, ma altri tipi di organizzazione come gli oratorl vi diedero un importante contributo, e pontefici come Pio IV e Clemente VIII, più legati alla realtà, nella loro lungimiranza, di un Paolo IV o di un Sisto V, favorirono il movimento. Il principio su cui questi nuovi missionari si basavano era che non bisognava fare apparire la religione così austera e così scoraggiante nei suoi ideali irraggiungibili da allontanare completamente dalla Chiesa, atterrendola, la gente comune. Essi cominciarono perciò a rendere più accessibile la religione, non conferendole basi più razionali come avevano fatto i protestanti, ma facendo leva sul sentimento.

Non occorre dimostrare dettagliatamente quanto i gesuiti facessero affidamento sui sensi per stimolare il sen­timento religioso. Gli Esercizi spirituali di sant'Ignazio sono abbastanza significativi. In essi il neofita è sollecitato a servirsi di tutti i cinque sensi per comprendere, quasi rivivendole, le scene della Passione, o i tormenti dell’inferno, o la beatitudine del paradiso. Non deve limitarsi ad acquistarne la conoscenza con la mente, ma deve sentirli con il cuore attraverso i sensi. I gesuiti tuttavia non erano affatto i soli a servirsi di questi metodi. San Filippo Neri conferiva molta importanza alla musica co­me mezzo per accrescere l’efficacia di un pio discorso; e la musica che preferiva eseguire nel suo oratorio non era la vecchia musica frivola del Rinascimento né il semplice accompagnamento musicale delle parole richiesto dai decreti tridentini, ma l’opera del Palestrina, musicista dell'Oratorio dal 1571 fino alla morte, nel 1594. Mediante l’estrema purezza del suo stile egli riuscì nel difficile compito di soddisfare non soltanto i padri dell'Oratorio, ma anche un riformista severo come Paolo IV.

La polemica tra vecchio e nuovo nella Controriforma raggiunse il culmine nella controversia tra gesuiti e domenicani, che si svolse negli ultimi dieci anni del pontificato di Clemente VIII e fu soltanto messa a tacere, non risolta, da Paolo V. I domenicani si consideravano gli eredi di san Tommaso d'Aquino, di cui si sforzavano di conservare in ogni particolare il sistema filosofico. I gesuiti, invece, si rendevano conto che la rigidezza di queste dottrine costituiva un ostacolo alla loro opera di proselitismo e in particolare ritenevano che l’oscura teoria tomistica della grazia e del libero arbitrio allontanasse molti che avrebbero potuto essere dei buoni cattolici. Attraverso due loro esponenti, l’Acquaviva e il Molina, essi incominciarono a enunciare una teoria più ottimistica, secondo cui l’arbitrio umano è più libero di quanto non ammettesse san Tommaso, cosicché l’uomo è in grado, entro un certo limite, di cooperare alla propria eterna salvezza. La disputa che sorse per questa divergenza di opinioni espresse in realtà il conflitto tra i sostenitori di una dottrina medievale e coloro che volevano modificare tale dottrina per fame un'arma più efficiente di propaganda religiosa. Com'e stato detto, Paolo V tagliò corto alla controversia senza prendere alcuna decisione, ma in pratica essa si risolse in una vittoria per i gesuiti, perché, pur avendo provocato la disputa, non furono condannati. Es­si dovettero soltanto attendere l’inizio del pontificato di Gregorio XV, nel 1621, perché le loro teorie fossero completamente accettate, almeno in pratica. Uno dei primi atti del nuovo pontefice fu la canonizzazione di sant'Ignazio e di san Francesco Saverio, e ciò può essere preso co­me un esempio della politica di sottomissione al controllo gesuita che tanto Gregorio XV quanto il suo successore, Urbano VIII, costantemente seguirono.

Questo tipo di religione, terrena, sentimentale, antintellettuale, produsse il suo equivalente nel campo artistico. Nel XVII secolo tutto il barocco è strettamente collegato con i gesuiti, ma anche prima di tale periodo una parte della pittura manierista rispecchia molte delle tendenze espresse nei metodi e negli scritti dei gesuiti e degli oratoriani. Parallelamente all'accademico e aristocratico Manierismo fiorentino e allo stile didattico fiorito sotto i pontefici più austeri, e che trova la sua espressione più evidente negli affreschi della biblioteca di Sisto V in Vaticano, sorse una corrente di pittura sentimentale e ricca di temi devoti come le estasi, che si ricollega in particola­re con il nome del Barocci, ma che include tutto un gruppo di artisti operanti a Roma e altrove. Nel Barocci è frequente la raffigurazione dell'estasi, resa con un turbinio d'immagini ondeggianti e di panneggi svolazzanti, che anticipano il Bernini, e con colori striduli che colpiscono l’occhio piuttosto che la mente. Questo uso irrazionale del colore richiama gli affreschi del Pontormo nella Certosa. Ora però i colori sono applicati non a forme truculente, goticizzanti, spiritualizzate, ma a figure terrene che sorridono con eccessiva dolcezza o esprimono sentimenti di terrore con gesti che fanno appello ai sensi, come gli atteggiamenti schivi delle virtuose fanciulle di Greuze. È significativo del rapporto intercorrente tra questo genere di arte e ordini come quelli dei gesuiti e degli orato­riani il fatto che san Filippo Neri prediligesse in modo par­ticolare la pittura del Barocci e sia stato trovato in estasi una sola volta proprio davanti alla pala d'altare con la Visitazione, eseguita dal Barocci per Santa Maria in Vallicella. Fu per Pio V, sostenitore dei gesuiti, che il Barocci eseguì i suoi primi lavori in Roma, dove decorò per sua commissione il Casino dei giardini vaticani. Inoltre, quasi tutti gli artisti impiegati nella primitiva decorazione del Gesù, la chiesa più importante dei gesuiti, come Giovanni de’ Vecchi, il Salimbeni e il Muziano, appartengono a quel gruppo di manieristi in cui appaiono più evidenti le anticipazioni del barocco.

Questo nuovo genere sentimentale di pittura non poteva dar vita a molte elaborazioni teoriche. Artisti cosi volutamente antintellettuali e che tanto poco si curavano di richiamarsi alla ragione, non sarebbero stati in grado di sviluppare una dottrina sistematica sulla propria arte; soltanto in alcuni commenti ai decreti tridentini troviamo dei cenni che costituiscono un equivalente di questa pittura in campo teorico. Per esempio, il consiglio di Gilio da Fabriano che il pittore, nel dipingere una scena di martirio, debba renderne tutto l’orrore, è analogo al desiderio di questi precorritori del Barocco di colpire lo spettatore nel modo più immediato e sicuro. Questo punto di vista è portato agli estremi dal gesuita Possevino quando sostiene che il pittore deve provare egli stesso un senso di orrore per poterlo suggerire allo spettatore75: sembra quasi la diretta applicazione alla pratica delle arti dei metodi raccomandati negli Esercizi spirituali.



Note

 

1.         I più importanti di questi trattati sono: De certa gloria invocatione ac veneratione sanctorum di amerosius catharinus, Lyon 1542; De Imaginibus di conradus brunus, Augsburg 1548; Dialogi Sex di nicholas hartsfield, 1566; De typica et honoraria sacrarum imaginum adoratione di nicholas sanders, Louvain 1569. I loro argomenti sono ripetuti da tutti gli scrittori successivi sull'arte religiosa in generale, come il Paleotti o il Molanus (torna).

2.         Canoni e decreti del Concilio di Trento, Sessione XXV, tit. 2: «D'ora in poi le immagini di Cristo, della Vergine, Madre di Dio, e degli altri Santi si terranno e conserveranno specialmente nelle chiese e si tributerà loro l’onore e la venerazione dovuti, non perché si creda che esse abbiano alcunché di divino o qualche altra virtù per cui si debbano adorare, oppure perché si debba chiedere loro qualcosa o prestar fede alle immagini come un tempo facevano i Gentili, che ponevano la loro speranza negli idoli, ma perché l’onore che si tributa a queste immagini si rivolge a Coloro che rappresentano; cosicché, attraverso le immagini che baciamo e davanti a cui scopriamo il capo e ci prosterniamo, adoriamo Cristo e veneriamo i Santi, che sono in esse raffigurati. Ciò è quanto è stato sancito nei decreti dei Concili, e soprattutto in quelli del secondo Sinodo di Nicea, in opposizione agli iconoclasti.
«Proprio questo insegnino con cura i vescovi, a istruire e ad abituare il popolo a ricordare e ripensare continuamente agli articoli della fede at­traverso le storie della nostra Redenzione espresse in dipinti o in altre rappresentazioni, e che da tutte le sacre immagini si ritrae grande vantaggio non solo perché al popolo vengono ricordati i benefici e i doni che gli sono stati elargiti da Cristo, ma perché, attraverso i Santi, sono offerti agli occhi dei fedeli i miracoli e i salutari esempi di Dio affinché lo ringrazino per questi, atteggino vita e costumi a imitazione dei Santi, siano infiammati ad adorare e amare Dio e ad esercitare la pietà
» (torna).

3.         Per un esauriente resoconto di questo episodio cfr. l’ntroduzione all'edizione della Città di Vita a cura di Margaret Rooke («Smith College Studies in Modern Languages, vol. VIII, Northampton 1927) (torna).

4.         Canoni e decreti del Concilio di Trento, Sessione XXV, tit. 2: «Non si collochino immagini contrarie al dogma, che offrono occasione di pericolpso errore agli incolti» (torna).

5.         Canoni e decreti del Concilio di Trento, Sessione XXV, tit. 2: «Perché queste norme siano osservate più scrupolosamente, il santo Sinodo stabilì che non sia permesso a nessuno, in nessun luogo o chiesa... collocare o far collocare una nuova immagine se non è stata approvata dal vescovo» (torna).

6.         C. Borromeo, Instructiones Fabricae et Supellectilis Ecclesiasticae, Milano 1577,1. I, cap. 17 (torna).

7.         G. Paleotti, Archiepiscopale Bononiense, Roma 1394, p. 230 (torna).

8.         J. Molanus, De Historia SS. Imaginum et Picturarum, Leyden 1619, 1. II, cap. 58 (torna).

9.         C. Borromeo, Instructiones ecc., 1.1, cap. 17(torna).

10.     G. A. Gilio da Fabriano, Due Dialoghi, Camerino 1564, p. 115 (torna)

11.     R. Borghini, Il Riposo cit., p. 77 (torna).

12.     Cfr. J. Molanus, De Historia ecc. cit., 1. II, cap. 19; C. Borromeo,
Instructiones ecc. cit., 1. I, cap. 17
(torna).

13.     G. A. Gilio da Fabriano, Due Dialoghi, Cit., p. 80 v (torna).

14.     Ibid,, p. 88; e cfr. j. molanus, De Historia ecc. cit., 1. II, cap. 30 (torna).

15.     Ibid., 1. II, capp. 20 e 21; A. possevino, Tractatio de poesis et pictura, Lyon 1595, cap. 25 (torna).

16.      G. A. Gilio da Fabriano, Due Dialogi Cit., pp. 96-121 (torna).

17.      Ibid., p. 103 (torna).

18.     G. A. Gilio da Fabriano, Due Dialogi Cit., p. 108 (torna).

19.     A. Possevino, Tractatio ecc. cit., cap. 27. Sisto V adattò a fini cristia­ni le due colonne di Traiano e Marco Aurelio coronandole con le figure di san Pietro e di san Paolo (torna).

20.     J. Molanus, De Historia ecc. cit., capp. 57 e 60 (torna).

21.     c. Borromeo, Instructions ecc. cit., 1. I, cap. 34 (torna).

22.     G. A. Gilio da Fabriano, Due Dialogi cit., p. 75. II Borghini è della
stessa opinione (Il Riposo cit., p. 53)
(torna).

23.     Il «Processo Verbale» è stato pubblicato da P. caliari in Paolo Veronese sua vita e sue opere, Roma 1888, pp. 102 sgg (torna).

24.     Cfr. h. c. m. schnell, Der bayerische Barock, München 1936, p. 6 (torna).

25.     G. Vasari, Le Vite cit., vol. IV, p. 188 (torna).

26.     Ibid., vol. VI, p. 383 (torna).

27.     Canoni e decreti del Concilio di Trento, Sessione XXV, tit. 2: «in fine sia evitata ogni lascivia in modo che non siano dipinte ne fornite immagini di bellezza procace» (torna).

28.     C. Borromeo, Acta Ecclesiae Mediolanensis, ed. Brescia 1603, II,
p. 496; G. paleotti, De Imaginibus Sacris, Ingolstadt 1594, 1. III (torna).

29.     G. A. Gilio da Fabriano, Due Dialogi Cit., p. 104 (torna).

30.     J. Molanus, De Historia ecc. cit., 1. II, cap. 42 (torna).

31.     A. Possevino, Tractatio ecc. cit., cap. 27, p. 308. «Se qualcuno conserva nel cuore un fondo di onestà, a stento osi guardarsi nudo» (torna).

32.     Anche Pio V fece ridipingere alcune figure; e fu in questa circostanza che il pittore El Greco si offrì di rifare tutto l’affresco sostituendolo con un altro eseguito con «honestà, e decenza, non inferiore a quella di buona dipictione» (com'è riferito da Giulio Cesare Mancini, cfr. J. F. willumsen, La Jeunesse du Peintre El Greco, Paris 1927, I, p. 424). Nel 1762 Clemente XIII fece aggiungere altri drappeggi, e nel 1936 si diceva che Pio XI intendesse continuare in tal senso (torna).

33.     Cfr. G. Gaye, Carteggio Inedito ecc. cit., II, p. 500 (torna).

34.     Cfr. j. A. Symonds, Catholic Reaction, London 188586, cap. 3 (torna).

35.     Romano Alberti, Origine e Progresso dell'Accademia del Disegno,Roma 1604, p. 79 (torna).

36.     G. Bottari e s. Ticozzi, Raccolta di Lettere ecc. cit., Ill, p. 532 sgg (torna).

37.     G. Gaye, Carteggio Inedito ecc. cit., Ill, p. 568 (torna).

38.     Sembra che il Palestrina abbia provato gli stessi sentimenti di rimorso nei confronti dei madrigali precedentemente eseguiti. Cfr. A. bernier, St. Robert Bellarmin de la Compagnie de Jesus et la musique liturgique, Montreal-Paris 1939, p. 65 (torna).

39.     G. A. Gilio da Fabriano, Due Dialogi cit., p. 69 (torna).

40.     Ibid., p. 94 (torna).

41.     Ibid., p. 86 (torna).

42.     Per esempio, il Pontormo negli affreschi in San Lorenzo, ora perduti (torna).

43.     G. A. Gilio da Fabriano, Due Dialogi cit., p. 89 (torna).

44.     Per esempio, da P. Gauthiez, L'Arétin, Paris 1895 (torna).

45.     L. Dolce, L'Aretino cit., p. 236 (torna).

46.     Ibid., p. 240 (torna).

47.     È stato a volte suggerito (per esempio, da Mary Pittaluga, Eugene Fromentin e le origini della moderna critica d'arie, in «L'Arte», 1917, p. 240) che il dialogo del Dolce esprima la comune considerazione in cui Michelangelo era tenuto a Venezia. A parte il fatto che solo un rancore personale potrebbe spiegare la violenza dell'attacco del Dolce, è evidente che Michelangelo era a quel tempo generalmente ammirato a Venezia. Sia il Biondo che il Pino lo lodano molto nei loro dialoghi, e ugualmente fa il Doni in una lettera all'Aretino del 1549 (Disegno, Venezia 1549, P. 60). Vi è anche una lettera del Dolce stesso a Gaspero Ballini, in cui Michelan­gelo è definito «divino» e si dichiara che ha risollevato le arti al livello raggiunto nell'antichità (g. bottari e s. ticozzi, Raccolta di Lettere ecc. cit., V, pp. 175-76). A dimostrazione della sua influenza sugli artisti veneti, basterà ricordare il detto di Tintoretto: «Il disegno di Michelangelo e il colorito di Tiziano» (torna).

48.     G. Vasari, Le Vite, ed. cit., vol. Ill, p. 317 (torna).

49.     Ibid., vol. II, p. 518 (torna).

50.     G. Vasari, Le Vite cit., vol. II, p. 519 (torna).

51.     G. Paleotti, Archiepiscopale Bononiense cit., p. 367 (torna).

52.     G. Comanini, Il Figino, Mantova 1591, p. 139 (torna).

53.     G. A. Gilio da Fabriano, Due Dialoghi cit., p. 86 (torna).

54.     C. Borromeo, Instructiones ecc. cit., 1. I, cap. I (torna).

55.     Ibid., cap. 3 (torna).

56.     Ibid., cap. 10 (torna).

57.     Ibid., cap. n (torna).

58.     Ibid., cap. 28 (torna).

59.     Ibid., cap. 2 (torna).

60.     Ibid., 1. II (torna).

61.     Ibid., 1. I, cap. 8 (torna).

62.     C. Borromeo, Instructiones ecc. cit., 1. I, cap. 34 (torna).

63.     Ibid., cap. 2 (torna).

64.     Ibid., cap. 7 (torna).

65.     id., De Nitore et Munditia Ecclesiarum (torna).

66.     A. Palladio, I Quattro Libri dell'Architettura, Venezia 1570, 1. IV, cap. 2 (torna).

67.     L'Alberti era favorevole alle chiese di forma circolare, perché il cerchio è una forma prediletta dalla natura (l. b. alberti, De Re Aedificaioria cit., 1. VII, cap. 4). Egli accenna appena al motivo teologico (torna).

68.     A. Palladio, I Quattro Libri ecc. cit., 1. IV, cap. 2 (torna).

69.     P. Cataneo, Quattro Primi Libri di Architettura, Venezia 1554,1. Ill, fol. 35v (torna).

70.     Ibid., 1. III, fol. 38 (torna).

71.     S. Serlio, Tutte I'Opere d'Architettura et Prospettiva, Venezia 1619, 1. IV, capp. 6, 7, 8 (torna).

72.     E. Male, L'Art religieux après le Concile deTrente, Paris 1932, p. 36 (nuova edizione, Paris 1951) (torna).

73.     Le istruzioni date dal Caro a Taddeo Zuccari per questi dipinti so­no riportate per esteso dal vasari (Le Vite cit., vol. VII, p. 115). Meritano di essere esaminate per constatare quanto fossero poco preparati gli artisti del tempo a sentirsi impartire dettami su ogni soggetto. Il tono usato appare fin dalle osservazioni iniziali del Caro: «I soggetti che il Cardinale mi ha comandato che io vi dia per le pitture del palazzo di Caprarola, non basta che vi si dichino a parole; perché oltre all'invenzione, vi si ricerca la disposizione, l’attitudini, i colori ed altre avvertenze assai, secon­do le descrizioni ch'io truovo delle cose che mi ci paiono a proposito» (torna).

74.     G. Paleotti, De Imaginibus Sacris cit., 1. I, cap. 7 (torna).

75.     A. Possevino, Tractatio ecc. cit., cap. 26 (torna).