Dalla storia al vero: Milano e la cultura democratica

(E. Bairati – A. Finocchi)

 

Nel 1820 Francesco Hayez espone all'annuale mostra dell'Accademia di Brera l’opera che lo impone nell'ambiente milanese e segna l’affermazione della pittura romantica nella storia: Pietro Rossi chiuso dagli Scaligeri net castello di Pontremoli, viene invitato da un messo della Repubblica veneta ad assumere il comando delle sue forze. La moglie tenta di dissuaderlo (questi lunghi titoli letterari saranno poi diffusissimi). Il soggetto era tratto dall'opera storica di Sismondi (vedi L'affermazione delle tendenze romantiche in Italia) e questa scelta e già significativa poiché carica di nuovi intenti e valori la tematica medievalista già diffusa in Italia. L'episodio scelto da Hayez è denso di tensione drammatica, cogliendo il memento in cui il protagonista — l’eroe romantico — è combattuto tra il senso del dovere, l’amore per la patria e gli affetti familiari. La situazione non è, al fondo, molto diversa da quella degli Orazi di David (cfr. fig. 446) e come gli Orazi anche il Pietro Rossi è un exemplum virtutis che assume i connotati etici di incitamento a idealità civili e patriottiche. Per ragioni politiche, nel clima della Restaurazione, Hayez non avrebbe potuto in alcun modo rifarsi alla tematica classica che aveva ispirato la pittura rivoluzionaria e napoleonica; i tanti episodi della storia dei liberi comuni e delle repubbliche italiane del Medioevo, nell’interpretazione di Sismondi, gli fornivano la metafora più adatta a esprimere in forma indiretta, ma ben comprensibile a chi sapeva intenderla, speranze e ideali della realtà contemporanea. Non si tratta quindi di una semplice sostituzione dei soggetti medievali a quelli classici, né solo nei contenuti risiede la qualità romantica del Pietro Rossi: all'eloquenza severa, all'inflessibile morale stoica di David si sostituisce in Hayez l’effusione del sentimento, la simpatia umana per il contrasto di affetti in cui si dibatte l’eroe. Visivamente ciò si riflette nell'accentuato impianto teatrale della composizione, negli atteggiamenti e nella gestualità dei personaggi, nella suggestione della ricostruzione storica dell'ambiente.

Che l’exploit del Pietro Rossi si verifichi a Milano è un dato da tenere in considerazione: esso conferma infatti la vitalità e l’apertura culturale della capitale lombarda in quegli anni. Nel 1815 era scomparso Giuseppe Bossi, la più interessante figura di intellettuale della fase repubblicana e napoleonica, che aveva continuato a svolgere una funzione importante nella cultura cittadina anche dopo le dimissioni da segretario dell’accademia. La ricerca di un'identità nazionale — culturale prima ancora che politica — che aveva caratterizzato il pensiero e l’azione di Bossi non si era spenta nella svolta moderata degli anni del Regno d'Italia, colorandosi anzi di atteggia­menti antifrancesi, quasi ad anticipare il trapasso indolore alla Restaurazione. Proprio per questa sorta di continuità il ritorno degli Austriaci non poteva impedire che l’aspirazione nazionale si rafforzasse rivolgendosi contro i vecchi-nuovi dominatori. Nello stesso anno della morte di Bossi, come in un simbolico avvicendamento, Pelagio Palagi, accolto tra i soci di Brera come «pittore storico», si stabiliva a Milano dove apriva una scuola libera di pittura e architettura e cominciava a esporre opere alle mostre dell'accademia. Dal 1807 era titolare della cattedra di pittura il fiorentino Luigi Sabatelli, artista di notevole cultura, formatosi tra Venezia e Roma e autore, alla precoce data del 1800, di quella grande incisione con La peste di Firenze che può essere considerata un vero incunabolo della pittura di storia romantica. Ma fu soprattutto il campo letterario a essere vivacemente animato dalla polemica sulle idee del Romanticismo stimolata dall'articolo di Madame de Staël sulla «Biblioteca Italiana» (il periodico creato dagli Au­striaci con l’intento di guadagnarsi i ceti intellettuali moderati) e poi alimentata dalla breve vita del «Conciliatore» (1818-19), il foglio che raccoglieva le voci più avanzate della cultura milanese, interessate anche al progresso tecnico ed economico e orientate su quelle posizioni politiche progressiste che provocarono la censura della polizia austriaca.

Fu appunto Palagi, ben consapevole delle prospettive offerte dall'ambiente milanese, a stimolare l’amico Hayez a cimentarsi nella pittura di storia invitandolo a esporre a Brera. L'artista veneziano, che malgrado il costante appoggio di Canova doveva avvertire l’impoverimento e la chiusura dell'ambiente romano, colse l’occasione; e il successo del Pietro Rossi dimostra che egli aveva dato risposta ad attese e richieste già maturate. Più tardi, nelle sue Memorie, Hayez ebbe a precisare: «io non era allora edotto delle questioni che si dibattevano a Milano intorno al classicismo e al romanticismo, di cui erano campioni il Manzoni, Grossi, Porta, Pellico, Berchet, Ermes Visconti e altri meno illustri le cui opinioni erano esposte e difese nel Conciliatore. Questi grandi pensatori erano condotti a queste idee da principi filosofici ed io mi trovavo all'unisono coi romantici, portatovi dal puro sentimento dell'arte...». Hayez trovò quindi un ambiente del tutto favorevole e stimolante: sono di quegli stessi anni alcuni dei testi fondamentali del Romanticismo letterario lombardo, dalla Francesco da Rimini (1815) di Silvio Pellico al Conte di Carmagnola di Manzoni (1820), ai Profughi di Parga di Berchet (1823).

Il successo di Hayez è infatti sostenuto per un bre­ve arco di anni dalla committenza dell'aristocrazia progressista antiaustriaca e carbonara di Milano. Le commissioni che seguono immediatamente il Pietro Rossi — acquistato dal marchese Giorgio Pallavicino — lo dimostrano chiaramente. Gli ultimi istanti del conte di Carmagnola (1821, distrutto) dipinto per il conte Francesco Arese subito dopo la rappresentazione di Manzoni; la prima versione dei Vespri siciliani (1821-22) per la marchesa Visconti d'Aragona. Si tratta di personalità tutte implicate nei moti carbonari del 1821. Tutte le opere citate — cui bisogna aggiungere negli anni successivi almeno la Congiura dei Lampugnani (1826, Milano, Accademia di Brera) e I profughi di Parga (1830) — rivelano la capacità di Hayez di farsi interprete partecipe e impegnato delle idealità della sua committenza. In esse la tematica enunciata nel Pietro Rossi viene arricchita e sviluppata con un sempre più sicuro istinto della regia teatrale: Hayez dispone sulla scena i primi attori, i comprimari, le masse del coro in modo da ottenere, con la «verità» della rappresentazione, il coinvolgimento dello spettatore, la sua partecipazione emotiva al fatto narrato. In questo senso, come struttura formale e come finalità, il suo procedimento presenta strette affinità con quelle del melodramma; e non per l’uso — tante volte superficialmente deprecato — del ciarpame di scenografie di cartapesta, di costumi luccicanti e di armature di latta, comune a tanta pittura storica e agli allestimenti teatrali dell’Ottocento. La sensibilità di Hayez alle potenzialità espressive del dramma in musica si rivela soprattutto nei soggetti in cui la metafora patriottica si unisce strettamente al dramma af­fettivo o amoroso: o ancora quando l’impianto del dipinto è principalmente corale. Sono momenti che anticipano in modo singolare la poetica del melo­dramma di Verdi, come è evidente nel toccante «co­ro» dei Profughi di Parga che tanto entusiasmò Giu­seppe Mazzini, il quale riconobbe in Hayez «il capo della scuola di Pittura storica che il pensiero naziona­le reclamava in Italia». Non bisogna però equivocare: il giudizio di Mazzini è motivato dalla sua passione politica, che carica l’opera di Hayez di una tensione rivoluzionaria che non gli apparteneva: passati gli an­ni di questa particolare corrispondenza tra artisti e committenti, il pittore non avrà difficoltà ad accettare incarichi anche dal governo austriaco.

Nel 1822 — lo stesso anno della morte del suo protettore, Canova — Hayez si trasferisce definitivamente a Milano e ottiene la supplenza alla cattedra di pittura di Sabatelli. La sua posizione si rafforza e la sua fama di pittore storico è ormai indiscussa. Ma la pittura di storia non conosce soltanto la versione che Hayez ne dava in quegli anni: essa si articola in diver­se varianti legate a precise situazioni politiche e a specifici ambiti di committenza. Un esempio significativo è fornito appunto da Sabatelli, che lascia via libera ad Hayez a Milano sviluppando invece stretti rapporti con l’ambiente fiorentino. Qui, nella grande commissione ufficiale della decorazione della sala dell'Olimpo in palazzo Pitti (1820-25), egli si esprime in un cinquecentismo purista che risente molto di Ingres (a Firenze in quegli stessi anni); per com­mittenti come il marchese Gino Capponi o che facevano parte del gruppo liberale riunito attorno al Gabinetto Vieusseux e alla rivista «L'Antologia» (1821-33) — che svolse a Firenze un'azione analoga a quella del «Conciliatore» — dipinse invece quadri storici ispirati alla storia fiorentina, di chiaro significato patriottico.

Più  significativa  ancora l’alternativa proposta a Milano da Palagi alla pittura storica di Hayez nel momento stesso della sua prima affermazione. Soggetti di storia lombarda, come Carlo VIII visita Galeazzo Maria Sforza moribondo a Pavia (1822, Lodi, Museo civico), non hanno alcun rapporto con la tematica patriottica e sentimentale di Hayez, ma si avvicinano piuttosto ai quadri «legalisti» di Ingres nell'elogio di glorie dinastiche, che li resero infatti molto graditi all'aristocrazia conservatrice lom­barda. Questi grandi dipinti, dalla composizione spesso macchinosa e dalla stesura pittorica minuziosa e pedante, appaiono nella volontà di oggettività della ricostruzione storica tanto elusivi e distaccati quanto sono coinvolgenti e suggestivi quelli di Hayez. In altre opere di Palagi, come Newton scopre la rifrazione della luce (1824-27), si manifesta un altro aspetto della pittura di storia, quello didattico e illustrativo, anch'esso tipico della letteratura romantica, che però in Palagi resta estraneo a intenti moraleggianti o ideolo­gici.

Nella pittura di storia troviamo quindi compresenti fin dall'inizio le due anime del Romanticismo, quella conservatrice e quella progressista. Non meraviglia allora la disponibilità di Palagi a divenire tra non molto l’artista di corte prediletto dai Savoia. Non si trattava poi soltanto di impegno o disimpegno — motivato dal rapporto organico dell'artista con una particolare committenza — poiché il successo della pittura di storia spingeva gli artisti a praticare una grande varietà di temi suggeriti dai romanzi, dalla poesia, dal teatro. Una versione particolare del quadro storico fu inventata da un «dilettante» di prestigio, il marchese Mas­simo D'Azeglio, trasferitosi a Milano nel 1831 per sfuggire all'ambiente bigotto e retrivo di Torino dove, a voler fare l’artista — secondo le sue parole — «c'era da morir tisico». La trovata di D'Azeglio fu di inserire in quadretti di paesaggio molto tradizionali episodi storici, letterari o romanzeschi. Il nuovo genere del «paesaggio storico» ebbe immediato successo nell'ambiente progressista frequentato dall'autore (la Battaglia di Legnano e la Disfida di Barletta esposti a Brera nel 1831 furono subito acquistati dal conte Alfonso Porro Schiaffinati, nota figura di patriota e liberate), anticipando la fortuna di D'Azeglio come letterato con il celebre romanzo storico Ettore Fieramosca, uscito a Milano nel 1833. Anche se affermava di voler vivere di pittura, D'Azeglio restava pur sempre un dilettante e il successo che gli arrise può sembrare sproporzionato rispetto alle sue reali qualità di pittore. Ma egli aveva ben valutato le possibilità del mercato artistico a Milano dove — come scrive ne I miei ricordi (1867, postumo) — «era di moda acquistar quadri moderni. I signori ricchi venivano formando gallerie; i non ricchi si condannavano a strane privazioni talvolta, pur di avere un quadretto del tale o tal altro artista». La quantità e la varietà di temi delle opere esposte alle mostre di Brera ci confermano la validità dell'analisi di D'Azeglio.