Michelangelo
Merisi da Caravaggio, pittore che aveva goduto della protezione di cardinali e prelati,
famoso e imitato, ma anche ricercato dalle guardie papali per un omicidio
commesso a Roma nel 1606, viene ritrovato cadavere sulla spiaggia di Porto
Ercole. Era quell’individuo male in arnese e dal volto sfregiato che da due
giorni arrancava lungo il litorale imprecando contro il sole e maledicendo una
nave che solo lui vedeva. “Misesi in una felluca con alcune poche cose per
venirsene a Roma [da Napoli], tornando sotto la parola del cardinal Gonzaga,
che co’ il pontefice Paolo V la sua remissione trattava. Arrivato ch’egli fu
nella spiaggia, fu in cambio fatto prigione e posto dentro le carceri, ove per
due giorni ritenuto e poi rilassato, più la felluca non ritrovava, sì che
postosi in furia, come disperato, andava per la spiaggia sotto la sferza del
solleone a vedere se poteva in mare avvistare il vascello che le sue robe
portava. Ultimamente, arrivato in un luogo della spiaggia misesi in letto con
febbre maligna e senza aiuto umano tra pochi giorni morì malamente come appunto
male aveva vivuto.” Giovanni Baglione, Le vite de’ pittori, scultori, architetti e intagliatori..., Roma
1642.
Così racconta
gli ultimi giorni del Caravaggio uno dei suoi principali biografi; un
commentatore non proprio distaccato, come si vede dal veleno nella coda della
frase, che aveva incrociato il pittore “nelle aule giudiziarie” e, pittore a
sua volta, ne aveva inizialmente subito il fascino per poi arrivare a un odio
sincero e confessato. Forse ne aveva subito anche la concorrenza, nel campo
amicizie, protezioni e commissioni. Con la versione dei fatti data da Baglione
concorda l’abate Giovan Pietro Bellori: egli in una sua opera del 1672 non
aveva nulla di personale contro Caravaggio ma lo detestava in quanto caposcuola
della pittura naturalista. Un terzo biografo fa giungere Caravaggio
direttamente da Malta alla costa tirrenica e in una lettera al cardinale
Scipione Borghese si legge che “il povero Caravaggio non è morto in Procida ma
a Port’Hercole, perché essendo capitato con la felluca, in quale andava a Palo,
ivi da quel Capitano fu carcerato […] si liberò con uno sborso grosso di
denari, e per terra, e forse a piedi si ridusse sino a Port’Hercole, dove
ammalatosi ha lasciato la vita”. Si potrebbe quindi sollevare qualche
dubbio sul racconto di Baglione: ma la morte del pittore a Porto Ercole è certa
e datata al 18 luglio, e le sue modalità tragiche sembrano veramente la
conclusione più adatta a una vita tormentata. Potrebbe essere morto in seguito
alle ferite mal curate ricevute da un gruppo di oscuri sicari, papalini o
maltesi, l’anno prima a Napoli, o assassinato a Porto Ercole, o rimasto vittima
della malaria. I due giorni passati errando sulla spiaggia, solo,
col cervello già in condizioni critiche (un suo cliente, in Sicilia, già lo
aveva definito “cervello stravolto”) bruciato dal sole, privato dei suoi pochi
averi dalla fuga della feluca che li trasportava, aggiungono al dramma un
sapore di punizione che a Baglione non sarà certo dispiaciuto. Ma perché
andare all’Argentario, avendo Roma come meta? Perché l’annunciato provvedimento
di grazia che gli condonava la pena capitale non aveva ancora i crismi
dell’ufficialità, ed era più prudente sbarcare in territorio appartenente al
regno di Napoli anziché negli stati pontifici. E prima ancora, perché
lasciare Napoli, dove non gli mancavano committenti disposti a pagarlo bene, se
non nella prospettiva di porre fine a una vita da fuggiasco ed evitare una
condanna a morte che poteva avvenire anche per mano di un sicario, come
nell’oscura aggressione che aveva subito appena tornato dalla Sicilia?
Oltretutto, come vedremo, aveva nemici anche tra i Cavalieri di Malta. Se poi
ci si chiede il motivo del suo arresto e quello della partenza precipitosa
dell’imbarcazione – ma forse era una specie di postale e aveva un calendario da
rispettare – si potrebbe ipotizzare una trappola ben ordita, a un’organizzata
fuga di notizie sulla grazia per fare in modo che Caravaggio si consegnasse
alle guardie spagnole di stanza a Porto Ercole, disponibili a eseguire il
lavoro sporco per conto terzi, liberando così papa Paolo V dall’impaccio in cui
lo avevano messo le insistenze del diletto nipote Scipione Borghese, cardinale
per meriti parentali e peroratore della causa del condannato. Sarà
molto difficile scoprire cosa sia avvenuto durante quei due giorni di
carcerazione; sulle motivazioni dell’arresto qualcuno parla di uno scambio di
persona, con Caravaggio preso per un ricercato anche a causa delle ferite che
portava ancora in volto (“per li colpi quasi più non si riconosceva” – Baglione)
o di un provvedimento di rito, secondo la legge che imponeva al graziando di
non essere a piede libero al momento della concessione del perdono. E
l’insistenza dei biografi sulla grossa somma sborsata per farsi liberare
maschererebbe un ben più volgare rapina. Per complicare le cose, Caravaggio si
sarebbe qualificato davanti agli spagnoli come cavaliere di Malta, mentre non
lo era più, e non cavaliere di Spagna, onorificenza da poco attribuitagli da re
Filippo III.
L’idea
di una somiglianza tra la modella delle Sette opere di Misericordia e quella della
Madonna del Rosario nasce
dall’abitudine del pittore a riutilizzare con frequenza i soggetti da ritrarre,
e dall’accertata identità della donna che ha posato per molte altre pale,
quella Lena all’origine di molti guai del Caravaggio (unitamente al suo
carattere rissoso, all’abitudine di girare armato anche senza autorizzazione,
di frequentare le zone peggiori di Roma tra l’una e le cinque di notte, di
detestare di tutto cuore gli sbirri e di non perdere occasione di provocarli).
Lena era una splendida popolana, e di mestiere “stava in piedi a piazza Navona
passato il portone del palazzo del signor Sertorio Teofilo”. Altrove è definita
cortigiana, e addirittura “meretrice zozza” da qualcuno, se è vera l’ipotesi
che abbia posato anche per la contestata Morte della Vergine; solo qualche
anima candida può lanciare l’ipotesi che gestisse un piccolo banco di vendita.
Per Lena ebbe una rissa con un notaio, tale Pasqualone, e un conseguente
processo finito con richiesta di perdono e conciliazione. Altri processi furono
intentati al pittore per risse minori, porto d’armi abusivo, oltraggio alle
guardie, e diffamazione (celebre quello mosso dal pittore Giovanni Baglione, il
suo poco gentile biografo, dileggiato tramite poemetti in cui l’epiteto più lieve
era “Giovan Coglione”): tutti conclusi senza gravi conseguenze, segno evidente
che Caravaggio godeva ancora di buone protezioni da parte di alti personaggi
della Curia, tra i quali il cardinale Francesco Del Monte che lo aveva a lungo
ospitato nel suo palazzo. L’ultimo processo, quello per l’omicidio Tomassoni,
ebbe però un esito fatale. Tornando a Lena, l’utilizzarla nelle vesti della
Madonna provocò a Caravaggio problemi coi committenti, che rifiutarono delle
pale d’altare invocando magari questioni di ortodossia, ma in sostanza per la
sua presenza e forse per la novità e il naturalismo della narrazione. La Madonna di Loreto, o Madonna dei pellegrini, opera eletta
a simbolo del Giubileo 2000, non venne tolta dall’altare ma suscitò “forti
schiamazzi” tra quanti accorsi a vederla. Non si sa a cosa fossero dovuti, ma
certo la pala non rispettava l’iconografia tradizionale della casa trasportata
dagli angeli che molti si sarebbero aspettati; mostrava invece una Madonna
abbastanza spiralata se non sinuosa sulla soglia, come una padrona di casa, ad
accogliere due pellegrini coi dovuti piedi impolverati in primo piano – la
tradizione voleva che i fedeli percorressero scalzi l’ultimo tratto di strada
che portava al santuario, e Caravaggio ha fedelmente registrato il fatto. Il
piede sinistro della Madonna ha suscitato perplessità: troppo vezzoso, o
anatomicamente errato? Un’altra pala in cui appare Lena venne rimossa meno di
un mese dopo la sua collocazione nella basilica di San Pietro, spostata in
un’altra chiesa e quindi posta in vendita. Si tratta della Madonna della Serpe o dei Palafrenieri, del 1605. Troppo nudo il Gesù bambino,
troppo aggettante il seno di Maria, china a osservare il serpente che sta
schiacciando, o invadente la figura di Sant’Anna: l’opera venne comunque
rifiutata. Altra tela con vicende sofferte fu quella della Morte della Vergine, giudicata scandalosa
per le gambe (in realtà le caviglie) ignude della Madonna, per il suo
cadaverico gonfiore, e perché a posare era stata una cortigiana o peggio. Ma
ancora una volta Caravaggio aveva peccato di realismo, e rifiutata l’idea
tradizionale del “transito” della Vergine, della dormitio di Maria, per dipingere una morte dolorosamente umana che
nega la speranza di un futuro oltre la vita. L’eresia caravaggesca era stata
doppia, dottrinale e artistica; correva voce che per la Madonna, in alternativa
a Lena, avesse usato il cadavere di un’annegata. Nella sua lettura, Maurizio
Calvesi si è staccato da tutti e con un’iniezione di barocco vi ha voluto
vedere una “Madonna gonfia di Grazia”.
Non tutte le
opere che Caravaggio si è visto rifiutare hanno Lena come protagonista. La Conversione di Saulo, ad esempio,
fu forse giudicata troppo fisica, o troppo materiale nell’apparizione del
Cristo, che infatti nella seconda versione scompare per lasciare posto
all’accecamento da pura luce. San Matteo e l’angelo, nella stesura
andata perduta durante l’ultima guerra, mostrava un efebo decisamente
tentatore, più che ammaestrante; nella pala del 1600 per la chiesa di San Luigi
dei Francesi l’angelo scende dal cielo, a prudente distanza dal santo. La Roma
di quei tempi era comunque meno omofoba che misogina (vedi Lena), e anche nelle
opere sacre di Caravaggio compaiono frequenti ritratti dell’amico Minniti, ad
esempio nella Vocazione e nel Martirio di San Matteo per la
cappella Contarelli oltre che nella Buona Ventura, o di altri
giovani con tratti femminei come il cantante castrato Montoya, probabile
modello per il celebre Bacco degli Uffizi,
opera da leggere non tanto in chiave cristologica (l’eterna giovinezza del
Cristo, la vite/vita, il calice simbolo della redenzione), quanto come studio
preparatorio alla splendida, e unica, natura morta a sé stante del Canestro di frutta, preceduta dal
grande esercizio di stile contenuto nel Fanciullo con canestro di frutta. In altre tele, come nel Bacchino Malato e nel Ragazzo morso da un ramarro vediamo degli
autoritratti in chiave androgina, molto diversi dalle tragiche teste mozzate
del Battista degli ultimi anni. Le varie versioni del San Giovanni Battista sono tutti
studi di giovani nudi maschili, e i soggetti del Concerto di giovani e delle tele
raffiguranti il Suonatore di liuto sono forse gli
stessi, Caravaggio e Montoya compresi, che rallegravano le serate in casa del
cardinale Francesco Del Monte (che ospitò e protesse contemporaneamente il
pittore e il cantante), spesso en
travesti. Il processo che segnò il destino di Caravaggio fu quello per
l’omicidio Tomassoni, avvenuto il 31 maggio del 1606 durante una rissa conclusa
in modo tragico, nata da una disputa durante una partita di pallacorda; poteva
apparire un caso di legittima difesa, visto che il pittore era stato ferito gravemente
alla testa e un suo compagno era rimasto ucciso, ma la famiglia Tomassoni era
abbastanza potente da ottenere contro Caravaggio il “bando capitale”; forse i
suoi protettori non erano più in grado di influenzare il tribunale, oppure
avevano colto il momento per liberarsi di un amico la cui fedina penale era
diventata troppo lunga e sporca. Le grandi tele religiose da lui realizzate
sulla vita di San Matteo per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi,
l’innovativa Crocifissione di Pietro della cappella Cerasi in Santa Maria del
Popolo, le diverse versioni del San Gerolamo e la Deposizione nel sepolcro non erano più
patenti capaci di garantirgli asilo in Roma. Le sue opere “private” con giovani
femminei quali il Suonatore di liuto o bambinelli
lascivi come l’Amore vittorioso, o con
ritratti di donne di dubbi costumi come la Conversione della Maddalena, ora
diventavano testimonianze a sfavore della sua moralità. Gli ultimi amici
rimasti riuscirono solo a farlo fuggire a Palestrina o a Paliano, nei dintorni
di Roma; una volta lasciato il Lazio, a parte la parentesi siracusana quando
ritrovò il fedele Minniti, dovette riconquistarsi ammiratori e sostenitori come
a Napoli e a Malta, ma sempre continuando nella sua fuga. Chi o cosa lo
perseguitasse, considerando la condanna per omicidio un incidente facilmente
rimediabile se solo qualche potente lo avesse voluto, è ancora da dimostrare:
un insieme di concause, papalini e maltesi, amicizie pericolose, rimorsi
privati e volontà d’espiazione; resta solo da aggiungere che morì, solo e senza
cure, a trentanove anni.
La speranza che aveva spinto Caravaggio a lasciare Napoli, ossia
cercare di ottenere a Malta un’onorificenza che gli offrisse maggiori possibilità
di perdono da parte di Roma, era crollata miseramente, come abbiamo visto, e
gli aveva solo raddoppiato i nemici a cui sfuggire. Anche Napoli era stata la
meta di una fuga, un esilio dai territori pontifici. Qui aveva trovato
ospitalità presso Luigi Carafa, figlio del duca di Mondragone e di Giovanna
Colonna, sorella del cardinale Ascanio. I buoni protettori non gli mancavano,
malgrado il “bando capitale” emesso contro di lui per l’omicidio di Ranuccio
Tomassoni. Sembra che la celebre Vergine del Rosario gli sia stata commissionata appunto da Luigi
Carafa, la cui cappella di famiglia era dedicata alla Madonna del Rosario,
quella che aveva fatto vincere la battaglia di Lepanto combattuta anche dal
padre di Luigi, Antonio Carafa duca di Mondragone. La pala non venne mai
collocata nella cappella, e nel 1607 era posta in vendita per 400 ducati, ma è
difficile ipotizzare la motivazione del mancato ritiro da parte del
committente: se molte altre opere erano state rimosse dagli altari perché
giudicate indecorose o sospette di contenere temi teologicamente scottanti, qui
tutto è casto e sacro, a parte forse la recidiva dei piedi impolverati degli
imploranti in prima fila. Si sa che il realismo impediva a Caravaggio di
ritoccare la natura, e non sarebbe stata la prima volta che dei piedi sporchi
venivano giudicati un po’ di troppo in un tema sacro, come nella Madonna di Loreto. In questo quadro, con un San Pietro martire,
venerato anche come patrono della santa Inquisizione, da un lato, e San
Domenico dall’altro, e la Madonna-Chiesa mediatrice della grazia in posizione
dominante, non c’erano sospetti di tiepida adesione alla Controriforma, anzi.
Grande realismo applicato a tematiche dottrinali si trova in un’altra
importante commissione da parte del Pio Monte (un ente di assistenza e
beneficenza), le Sette opere di Misericordia. Qualcuno ha scritto che sembra ambientato in
un movimentato vicolo di Napoli, gruppo angeli-Vergine con Bambino a parte. La
scelta di riunire le sette rappresentazioni in un’unica scena è una novità
assoluta e coraggiosa rispetto alla tradizione che voleva ogni opera di
misericordia in uno spazio a sé; qui tutto si muove e si sovrappone, si procede
per accenni (del morto da seppellire appaiono solo i piedi…) e per rimandi a
temi biblici, a scene quotidiane e a miti precristiani come nella visita ai
carcerati interpretata da Cimone e Pero. Forse la modella usata nella Madonna del Rosario assomigliava troppo alla Pero che espone il
seno per allattare Cimone, e Caravaggio usava raccogliere dalla strada i suoi
modelli. Nelle Sette opere di misericordia quasi tutti
i personaggi sono di estrazione popolare, e la presenza della Madonna, questa volta
staccata da terra mentre osserva l’efficacia della (sua) Grazia nelle Opere,
risponde a una precisa richiesta dei committenti. Assieme alle pale d’altare,
Caravaggio produsse a Napoli dei “quadri da cavalletto” come un Davide con la testa di Golia, l’Incoronazione di spine, e una Salomé con la testa del Battista visibile solo in copia, essendo andato perduto
l’originale. Altre grandi tele sono la Flagellazione e la Crocifissione di Sant’Andrea, che qualcuno vorrebbe dipinto a Malta. La
permanenza a Napoli deve essere stata una parentesi felice, per Caravaggio:
accolto come innovatore, pieno di ammiratori e di seguaci tanto da influenzare
in maniera determinante il passaggio della pittura napoletana a forme più
moderne. Perché si sia trasferito a Malta resta ancora da sondare, a parte le
(semplicistiche) ipotesi già viste; a Napoli, comunque, era arrivato fuggendo da quella Roma che lo aveva ben accolto nel 1592, quando
aveva lasciato la nativa Lombardia.
Il 1°
dicembre del 1608 l’assemblea dei Cavalieri decretò l’espulsione di Caravaggio
dall’ordine cui era stato ammesso in luglio per meriti artistici, bollandolo
quale membrum putridum et foetidum.
Aggettivi un po’ forti, e non è dato sapere a quale reato o peccato siano
dovuti. I biografi Baglione e Bellori parlano di un’offesa recata a un nobile
“cavaliere di giustizia” o a un ferimento; altri ipotizzano che fosse giunta a
Malta la notizia della sua condanna a morte per l’omicidio di Ranuccio
Tomassoni, fino ad allora tenuta miracolosamente e chissà come nascosta. I
difensori della fede non potevano certo accettare tra di loro un individuo
condannato dalla Chiesa; forse si era incrinato qualcosa a livello personale
tra Caravaggio e il Gran Maestro Alof de Wignacourt, da lui ritratto in tre
opere (o quattro, ma per la quarta l’identificazione è discussa e una, la prima
eseguita a Malta, è andata perduta). Nella prima il Gran Maestro presta il suo
volto a San Girolamo scrivente; la seconda è il Ritratto di Alof de Wignacourt in
armatura e il suo paggio.
La presenza del paggio è una nota insolita, per la ritrattistica dell’epoca, ma
il de Wignacourt amava circondarsi di paggi, seguendo un’usanza cortese. Il terzo
ritratto è più prudentemente definito Ritratto di un cavaliere di Malta, ed è noto per il virtuosismo con cui è resa la
trama del tessuto della grande croce sul petto del cavaliere. Tornando ai
rapporti tra Caravaggio e Alof de Wignacourt, ricordavamo come quest’ultimo
fosse il destinario della Salomé con la testa del Battista. Se è azzardato ipotizzare che il pittore si
sia ritratto in un santo, si potrebbe comunque rinvenire qualche suo tratto
somatico nella testa mozzata, e leggere anche in quella tela un messaggio di
richiesta di perdono. L’opera più importante realizzata a Malta riguarda,
ancora, un’esecuzione: è l’enorme tela della Decollazione del Battista, commissionata appunto grazie all’intervento
del Gran Maestro (il cui stemma appare nella cornice originale). Il quadro fu
molto apprezzato: “sì che, oltre l’onore della croce, il Gran Maestro gli pose
al collo una ricca collana d’oro e gli fece dono di due schiavi” scrisse
Bellori. Il particolare della firma vergata col sangue che sgorga dal collo del
martire ha colpito in modo particolare la fantasia interpretativa di Maurizio
Calvesi, il padre di tutte le iconologie psicoanalitiche, che vi ha visto “un
polisenso, basato sul triplice significato di ‘segnatura’ (firma,
sanguinamento, atto del segnarsi con l’acqua benedetta che serve anche per il
battesimo), un’allusione al sacramento del battesimo connesso al Battista: il
pugnale si identificherebbe con l’aspersorio, il colpo di grazia con l’apporto
della Grazia, il sangue con l’acqua benedetta.” Questa firma sarebbe così il
massimo del barocchismo di Caravaggio. Sarebbe da discutere quanto barocco vi
sia in Caravaggio, e quanto nei suoi commentatori; alla critica interpretativa
dell’oggettistica presente nelle tele troviamo preferibile essere aiutati a
cogliere il peso di luci e ombre, le geometrie nello spazio, la velocità di
stesura del colore che indica l’importanza data dal pittore a un elemento
piuttosto che a un altro, e magari vedere una radiografia che riveli i suoi
ripensamenti (come nel Martirio di San Matteo del 1600). A Malta Caravaggio dipinse inoltre
un San Giovannino alla sorgente, e un Amorino dormiente ben diverso dai Cupidi trionfanti di un tempo,
una specie di “imago mortis” in bruno, nero e grigio che rivela lo stato
d’animo funereo del pittore, e forse la Crocifissione di Sant’Andrea che i più fanno risalire al precedente periodo
napoletano.
Il breve
soggiorno di Caravaggio in Sicilia non termina con una fuga come era iniziato; probabilmente
il pittore desiderava tornare a Napoli, dove anni prima aveva trovato un’ottima
accoglienza, o intendeva fare una tappa di avvicinamento verso Roma, avendo
avuto notizie che davano buone probabilità alla revoca della sua condanna per
l’omicidio Tomassoni. Un’altra ipotesi vorrebbe che avesse ricevuto minacce da
parte di Malta, dopo la sua ascesa all’onore del cavalierato e la rapidissima
espulsione dall’ordine, con conseguente incarcerazione ed evasione. A Siracusa
ritrovò un amico e collega dei tempi romani, quel Marco Minniti che spesso gli
aveva fatto da modello, che si adoperò presso il Senato per fargli conferire
qualche commessa. Il primo incarico fu quello della pala del Seppellimento di
Santa Lucia per la chiesa
dedicata alla martire siracusana, una tela di 408 per 300 cm realizzata in
tempi brevissimi (arrivato a metà ottobre, a dicembre Caravaggio partiva già
per Messina). Il grande muro che fa da sfondo alla scena, per due terzi o quasi
della superficie, è stato attribuito a una certa stanchezza del pittore e
giudicato una soluzione per arrivare a concludere l’opera, ma come una quinta
teatrale ha l’effetto di sminuire le dimensioni degli attori, che appaiono
oppressi dalla triste funzione cui stanno assistendo. La collocazione
abbastanza ardita dei due massicci becchini in primo piano, che sembrano uscire
dal quadro, rafforza l’unità di gruppo dei dolenti, mentre le figure
istituzionali, il vescovo in alta tenuta e il soldato, sono defilate, quasi
fossero lì per lavoro. Il corpo disteso della santa mostra uno degli scorci
caravaggeschi più audaci: la distanza tra la spalla e la mano non supera i
trenta centimetri. Caravaggio lavorò certamente di fretta nella stesura delle
vesti, dipinte con tratti veloci; comunque l’opera, scriveva un secolo dopo lo
storico Francesco Susinno, “riuscì di tale gradimento che comunemente viene
celebrata, ed è tale di questa dipintura il meritato concetto, che in Messina,
ed altresì in tutte le città del regno, se ne veggono molte copie.” A Messina
un ricco mercante genovese, Giovanni Battista de’ Lazzari, gli chiese di
realizzare una pala con la Madonna e i santi; Caravaggio gli propose, in
omaggio al nome, una Resurrezione di
Lazzaro. Stando al Susinno, una
prima versione dell’opera venne fatta a brandelli a causa di qualche lieve
critica: “Michelangelo colla solita impatienza sguainò il pugnale che in ogni
tempo al fianco portar soleva; gli dié tanti infuriati colpi che ne restò
miseramente squarciata quell’ammirabile pittura.” Il pugnale ricompare durante
la lavorazione della seconda tela, brandito da Caravaggio per convincere i
“facchini” a continuare a sorreggere Lazzaro, che per amor di realismo era un
cadavere disseppellito “già puzzolente di alcuni giorni.” Lazzaro, infatti, non
ha ancora obbedito al gesto perentorio del Cristo, e sembra restio a tornare in
vita, con una mano tesa verso un teschio (la morte come conseguenza del peccato
originale) e l’altra verso il Salvatore. Pagine e pagine di esegesi hanno visto
in questo quadro il riflesso del dramma esistenziale della religiosità di
Caravaggio, sospeso tra speranza e disperazione, bramoso di espiazione ma
scettico sulla propria redenzione. Mistica a parte, è da notare che il
personaggio-autoritratto, in versione giovanile, non guarda né verso Lazzaro né
verso Cristo. Anche in questa tela l’azione si svolge in interni, secondo una
prassi adottata da Caravaggio dopo un breve periodo di “maniera chiara” di cui
può essere testimone il Riposo nella fuga in Egitto, del 1596-7, che
presenta uno dei pochi e migliori paesaggi caravaggeschi. “Non faceva mai uscire
all’aperto del Sole alcuna delle sue figure, ma trovò una maniera di campirle
entro l’aria bruna di una camera rinchiusa…” osservava il Bellori. Questo
permetteva a Caravaggio di usare un’illuminazione proveniente da fonti diverse,
collocate come luci di scena per meglio lavorare sulle ombre; se è vero che
intendeva sempre rispettare la realtà (“professavasi tanto ubbidiente al
modello che non si faceva propria né meno una pennellata, la quale diceva non
essere sua ma della natura”), si riservava di dosare e controllare la
drammaticità dei contrasti, “restringendo in poche parti la forza del lume.”
Altre opere eseguite in Sicilia sono l’Adorazione dei Pastori, o Madonna del parto,
un inno all’umiltà con una Maria assai dimessa e semisdraiata sulla paglia cui
si contrappone il blocco geometrico formato dai pastori, e una Natività (trafugata nel 1969) di impianto
così convenzionale che secondo qualche critico andrebbe datata al 1600; e
probabilmente uno dei molti San Giovanni Battista dipinti da Caravaggio
nelle vesti di un giovane nudo in compagnia di un ariete. I tratti del ragazzo
sono marcatamente insulari, e sappiamo dal non sempre attendibile Susinno che
il pittore ferì alla testa un tal maestro Carlo Pepe, che protestava contro i
suoi maneggi per reclutare modelli tra gli scolari “per formarne le sue
fantasie.”
(Testo adattato
dal web)