Michelangelo Merisi detto Caravaggio

Milano 1571 – Porto Ercole luglio 1610

 

Premessa

Michelangelo Merisi da Caravaggio, pittore che aveva goduto della protezione di cardinali e prelati, famoso e imitato, ma anche ricercato dalle guardie papali per un omicidio commesso a Roma nel 1606, viene ritrovato cadavere sulla spiaggia di Porto Ercole. Era quell’individuo male in arnese e dal volto sfregiato che da due giorni arrancava lungo il litorale imprecando contro il sole e maledicendo una nave che solo lui vedeva. “Misesi in una felluca con alcune poche cose per venirsene a Roma [da Napoli], tornando sotto la parola del cardinal Gonzaga, che co’ il pontefice Paolo V la sua remissione trattava. Arrivato ch’egli fu nella spiaggia, fu in cambio fatto prigione e posto dentro le carceri, ove per due giorni ritenuto e poi rilassato, più la felluca non ritrovava, sì che postosi in furia, come disperato, andava per la spiaggia sotto la sferza del solleone a vedere se poteva in mare avvistare il vascello che le sue robe portava. Ultimamente, arrivato in un luogo della spiaggia misesi in letto con febbre maligna e senza aiuto umano tra pochi giorni morì malamente come appunto male aveva vivuto.”  Giovanni Baglione, Le vite de’ pittori, scultori, architetti e intagliatori..., Roma 1642.

Così racconta gli ultimi giorni del Caravaggio uno dei suoi principali biografi; un commentatore non proprio distaccato, come si vede dal veleno nella coda della frase, che aveva incrociato il pittore “nelle aule giudiziarie” e, pittore a sua volta, ne aveva inizialmente subito il fascino per poi arrivare a un odio sincero e confessato. Forse ne aveva subito anche la concorrenza, nel campo amicizie, protezioni e commissioni. Con la versione dei fatti data da Baglione concorda l’abate Giovan Pietro Bellori: egli in una sua opera del 1672 non aveva nulla di personale contro Caravaggio ma lo detestava in quanto caposcuola della pittura naturalista. Un terzo biografo fa giungere Caravaggio direttamente da Malta alla costa tirrenica e in una lettera al cardinale Scipione Borghese si legge che “il povero Caravaggio non è morto in Procida ma a Port’Hercole, perché essendo capitato con la felluca, in quale andava a Palo, ivi da quel Capitano fu carcerato […] si liberò con uno sborso grosso di denari, e per terra, e forse a piedi si ridusse sino a Port’Hercole, dove ammalatosi ha lasciato la vita”.  Si potrebbe quindi sollevare qualche dubbio sul racconto di Baglione: ma la morte del pittore a Porto Ercole è certa e datata al 18 luglio, e le sue modalità tragiche sembrano veramente la conclusione più adatta a una vita tormentata. Potrebbe essere morto in seguito alle ferite mal curate ricevute da un gruppo di oscuri sicari, papalini o maltesi, l’anno prima a Napoli, o assassinato a Porto Ercole, o rimasto vittima della malaria.   I due giorni passati errando sulla spiaggia, solo, col cervello già in condizioni critiche (un suo cliente, in Sicilia, già lo aveva definito “cervello stravolto”) bruciato dal sole, privato dei suoi pochi averi dalla fuga della feluca che li trasportava, aggiungono al dramma un sapore di punizione che a Baglione non sarà certo dispiaciuto.  Ma perché andare all’Argentario, avendo Roma come meta? Perché l’annunciato provvedimento di grazia che gli condonava la pena capitale non aveva ancora i crismi dell’ufficialità, ed era più prudente sbarcare in territorio appartenente al regno di Napoli anziché negli stati pontifici.  E prima ancora, perché lasciare Napoli, dove non gli mancavano committenti disposti a pagarlo bene, se non nella prospettiva di porre fine a una vita da fuggiasco ed evitare una condanna a morte che poteva avvenire anche per mano di un sicario, come nell’oscura aggressione che aveva subito appena tornato dalla Sicilia? Oltretutto, come vedremo, aveva nemici anche tra i Cavalieri di Malta. Se poi ci si chiede il motivo del suo arresto e quello della partenza precipitosa dell’imbarcazione – ma forse era una specie di postale e aveva un calendario da rispettare – si potrebbe ipotizzare una trappola ben ordita, a un’organizzata fuga di notizie sulla grazia per fare in modo che Caravaggio si consegnasse alle guardie spagnole di stanza a Porto Ercole, disponibili a eseguire il lavoro sporco per conto terzi, liberando così papa Paolo V dall’impaccio in cui lo avevano messo le insistenze del diletto nipote Scipione Borghese, cardinale per meriti parentali e peroratore della causa del condannato.   Sarà molto difficile scoprire cosa sia avvenuto durante quei due giorni di carcerazione; sulle motivazioni dell’arresto qualcuno parla di uno scambio di persona, con Caravaggio preso per un ricercato anche a causa delle ferite che portava ancora in volto (“per li colpi quasi più non si riconosceva” – Baglione) o di un provvedimento di rito, secondo la legge che imponeva al graziando di non essere a piede libero al momento della concessione del perdono. E l’insistenza dei biografi sulla grossa somma sborsata per farsi liberare maschererebbe un ben più volgare rapina. Per complicare le cose, Caravaggio si sarebbe qualificato davanti agli spagnoli come cavaliere di Malta, mentre non lo era più, e non cavaliere di Spagna, onorificenza da poco attribuitagli da re Filippo III.

 

Roma, 1592-1606

  L’idea di una somiglianza tra la modella delle Sette opere di Misericordia e quella della Madonna del Rosario nasce dall’abitudine del pittore a riutilizzare con frequenza i soggetti da ritrarre, e dall’accertata identità della donna che ha posato per molte altre pale, quella Lena all’origine di molti guai del Caravaggio (unitamente al suo carattere rissoso, all’abitudine di girare armato anche senza autorizzazione, di frequentare le zone peggiori di Roma tra l’una e le cinque di notte, di detestare di tutto cuore gli sbirri e di non perdere occasione di provocarli). Lena era una splendida popolana, e di mestiere “stava in piedi a piazza Navona passato il portone del palazzo del signor Sertorio Teofilo”. Altrove è definita cortigiana, e addirittura “meretrice zozza” da qualcuno, se è vera l’ipotesi che abbia posato anche per la contestata Morte della Vergine; solo qualche anima candida può lanciare l’ipotesi che gestisse un piccolo banco di vendita. Per Lena ebbe una rissa con un notaio, tale Pasqualone, e un conseguente processo finito con richiesta di perdono e conciliazione. Altri processi furono intentati al pittore per risse minori, porto d’armi abusivo, oltraggio alle guardie, e diffamazione (celebre quello mosso dal pittore Giovanni Baglione, il suo poco gentile biografo, dileggiato tramite poemetti in cui l’epiteto più lieve era “Giovan Coglione”): tutti conclusi senza gravi conseguenze, segno evidente che Caravaggio godeva ancora di buone protezioni da parte di alti personaggi della Curia, tra i quali il cardinale Francesco Del Monte che lo aveva a lungo ospitato nel suo palazzo. L’ultimo processo, quello per l’omicidio Tomassoni, ebbe però un esito fatale. Tornando a Lena, l’utilizzarla nelle vesti della Madonna provocò a Caravaggio problemi coi committenti, che rifiutarono delle pale d’altare invocando magari questioni di ortodossia, ma in sostanza per la sua presenza e forse per la novità e il naturalismo della narrazione. La Madonna di Loreto, o Madonna dei pellegrini, opera eletta a simbolo del Giubileo 2000, non venne tolta dall’altare ma suscitò “forti schiamazzi” tra quanti accorsi a vederla. Non si sa a cosa fossero dovuti, ma certo la pala non rispettava l’iconografia tradizionale della casa trasportata dagli angeli che molti si sarebbero aspettati; mostrava invece una Madonna abbastanza spiralata se non sinuosa sulla soglia, come una padrona di casa, ad accogliere due pellegrini coi dovuti piedi impolverati in primo piano – la tradizione voleva che i fedeli percorressero scalzi l’ultimo tratto di strada che portava al santuario, e Caravaggio ha fedelmente registrato il fatto. Il piede sinistro della Madonna ha suscitato perplessità: troppo vezzoso, o anatomicamente errato? Un’altra pala in cui appare Lena venne rimossa meno di un mese dopo la sua collocazione nella basilica di San Pietro, spostata in un’altra chiesa e quindi posta in vendita. Si tratta della Madonna della Serpe o dei Palafrenieri, del 1605. Troppo nudo il Gesù bambino, troppo aggettante il seno di Maria, china a osservare il serpente che sta schiacciando, o invadente la figura di Sant’Anna: l’opera venne comunque rifiutata. Altra tela con vicende sofferte fu quella della Morte della Vergine, giudicata scandalosa per le gambe (in realtà le caviglie) ignude della Madonna, per il suo cadaverico gonfiore, e perché a posare era stata una cortigiana o peggio. Ma ancora una volta Caravaggio aveva peccato di realismo, e rifiutata l’idea tradizionale del “transito” della Vergine, della dormitio di Maria, per dipingere una morte dolorosamente umana che nega la speranza di un futuro oltre la vita. L’eresia caravaggesca era stata doppia, dottrinale e artistica; correva voce che per la Madonna, in alternativa a Lena, avesse usato il cadavere di un’annegata. Nella sua lettura, Maurizio Calvesi si è staccato da tutti e con un’iniezione di barocco vi ha voluto vedere una “Madonna gonfia di Grazia”.

Non tutte le opere che Caravaggio si è visto rifiutare hanno Lena come protagonista. La Conversione di Saulo, ad esempio, fu forse giudicata troppo fisica, o troppo materiale nell’apparizione del Cristo, che infatti nella seconda versione scompare per lasciare posto all’accecamento da pura luce. San Matteo e l’angelo, nella stesura andata perduta durante l’ultima guerra, mostrava un efebo decisamente tentatore, più che ammaestrante; nella pala del 1600 per la chiesa di San Luigi dei Francesi l’angelo scende dal cielo, a prudente distanza dal santo. La Roma di quei tempi era comunque meno omofoba che misogina (vedi Lena), e anche nelle opere sacre di Caravaggio compaiono frequenti ritratti dell’amico Minniti, ad esempio nella Vocazione e nel Martirio di San Matteo per la cappella Contarelli oltre che nella Buona Ventura, o di altri giovani con tratti femminei come il cantante castrato Montoya, probabile modello per il celebre Bacco degli Uffizi, opera da leggere non tanto in chiave cristologica (l’eterna giovinezza del Cristo, la vite/vita, il calice simbolo della redenzione), quanto come studio preparatorio alla splendida, e unica, natura morta a sé stante del Canestro di frutta, preceduta dal grande esercizio di stile contenuto nel Fanciullo con canestro di frutta. In altre tele, come nel Bacchino Malato e nel Ragazzo morso da un ramarro vediamo degli autoritratti in chiave androgina, molto diversi dalle tragiche teste mozzate del Battista degli ultimi anni. Le varie versioni del San Giovanni Battista sono tutti studi di giovani nudi maschili, e i soggetti del Concerto di giovani e delle tele raffiguranti il Suonatore di liuto sono forse gli stessi, Caravaggio e Montoya compresi, che rallegravano le serate in casa del cardinale Francesco Del Monte (che ospitò e protesse contemporaneamente il pittore e il cantante), spesso en travesti. Il processo che segnò il destino di Caravaggio fu quello per l’omicidio Tomassoni, avvenuto il 31 maggio del 1606 durante una rissa conclusa in modo tragico, nata da una disputa durante una partita di pallacorda; poteva apparire un caso di legittima difesa, visto che il pittore era stato ferito gravemente alla testa e un suo compagno era rimasto ucciso, ma la famiglia Tomassoni era abbastanza potente da ottenere contro Caravaggio il “bando capitale”; forse i suoi protettori non erano più in grado di influenzare il tribunale, oppure avevano colto il momento per liberarsi di un amico la cui fedina penale era diventata troppo lunga e sporca. Le grandi tele religiose da lui realizzate sulla vita di San Matteo per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, l’innovativa Crocifissione di Pietro della cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo, le diverse versioni del San Gerolamo e la Deposizione nel sepolcro non erano più patenti capaci di garantirgli asilo in Roma. Le sue opere “private” con giovani femminei quali il Suonatore di liuto o bambinelli lascivi come l’Amore vittorioso, o con ritratti di donne di dubbi costumi come la Conversione della Maddalena, ora diventavano testimonianze a sfavore della sua moralità. Gli ultimi amici rimasti riuscirono solo a farlo fuggire a Palestrina o a Paliano, nei dintorni di Roma; una volta lasciato il Lazio, a parte la parentesi siracusana quando ritrovò il fedele Minniti, dovette riconquistarsi ammiratori e sostenitori come a Napoli e a Malta, ma sempre continuando nella sua fuga. Chi o cosa lo perseguitasse, considerando la condanna per omicidio un incidente facilmente rimediabile se solo qualche potente lo avesse voluto, è ancora da dimostrare: un insieme di concause, papalini e maltesi, amicizie pericolose, rimorsi privati e volontà d’espiazione; resta solo da aggiungere che morì, solo e senza cure, a trentanove anni.

 

Napoli, 1606-1607 

La speranza che aveva spinto Caravaggio a lasciare Napoli, ossia cercare di ottenere a Malta un’onorificenza che gli offrisse maggiori possibilità di perdono da parte di Roma, era crollata miseramente, come abbiamo visto, e gli aveva solo raddoppiato i nemici a cui sfuggire. Anche Napoli era stata la meta di una fuga, un esilio dai territori pontifici. Qui aveva trovato ospitalità presso Luigi Carafa, figlio del duca di Mondragone e di Giovanna Colonna, sorella del cardinale Ascanio. I buoni protettori non gli mancavano, malgrado il “bando capitale” emesso contro di lui per l’omicidio di Ranuccio Tomassoni. Sembra che la celebre Vergine del Rosario gli sia stata commissionata appunto da Luigi Carafa, la cui cappella di famiglia era dedicata alla Madonna del Rosario, quella che aveva fatto vincere la battaglia di Lepanto combattuta anche dal padre di Luigi, Antonio Carafa duca di Mondragone. La pala non venne mai collocata nella cappella, e nel 1607 era posta in vendita per 400 ducati, ma è difficile ipotizzare la motivazione del mancato ritiro da parte del committente: se molte altre opere erano state rimosse dagli altari perché giudicate indecorose o sospette di contenere temi teologicamente scottanti, qui tutto è casto e sacro, a parte forse la recidiva dei piedi impolverati degli imploranti in prima fila. Si sa che il realismo impediva a Caravaggio di ritoccare la natura, e non sarebbe stata la prima volta che dei piedi sporchi venivano giudicati un po’ di troppo in un tema sacro, come nella Madonna di Loreto. In questo quadro, con un San Pietro martire, venerato anche come patrono della santa Inquisizione, da un lato, e San Domenico dall’altro, e la Madonna-Chiesa mediatrice della grazia in posizione dominante, non c’erano sospetti di tiepida adesione alla Controriforma, anzi. Grande realismo applicato a tematiche dottrinali si trova in un’altra importante commissione da parte del Pio Monte (un ente di assistenza e beneficenza), le Sette opere di Misericordia. Qualcuno ha scritto che sembra ambientato in un movimentato vicolo di Napoli, gruppo angeli-Vergine con Bambino a parte. La scelta di riunire le sette rappresentazioni in un’unica scena è una novità assoluta e coraggiosa rispetto alla tradizione che voleva ogni opera di misericordia in uno spazio a sé; qui tutto si muove e si sovrappone, si procede per accenni (del morto da seppellire appaiono solo i piedi…) e per rimandi a temi biblici, a scene quotidiane e a miti precristiani come nella visita ai carcerati interpretata da Cimone e Pero. Forse la modella usata nella Madonna del Rosario assomigliava troppo alla Pero che espone il seno per allattare Cimone, e Caravaggio usava raccogliere dalla strada i suoi modelli. Nelle Sette opere di misericordia quasi tutti i personaggi sono di estrazione popolare, e la presenza della Madonna, questa volta staccata da terra mentre osserva l’efficacia della (sua) Grazia nelle Opere, risponde a una precisa richiesta dei committenti. Assieme alle pale d’altare, Caravaggio produsse a Napoli dei “quadri da cavalletto” come un Davide con la testa di Golia, l’Incoronazione di spine, e una Salomé con la testa del Battista visibile solo in copia, essendo andato perduto l’originale. Altre grandi tele sono la Flagellazione e la Crocifissione di Sant’Andrea, che qualcuno vorrebbe dipinto a Malta. La permanenza a Napoli deve essere stata una parentesi felice, per Caravaggio: accolto come innovatore, pieno di ammiratori e di seguaci tanto da influenzare in maniera determinante il passaggio della pittura napoletana a forme più moderne. Perché si sia trasferito a Malta resta ancora da sondare, a parte le (semplicistiche) ipotesi già viste; a Napoli, comunque, era arrivato fuggendo da quella Roma che lo aveva ben accolto nel 1592, quando aveva lasciato la nativa Lombardia.

 

Malta, 1607-1608

Il 1° dicembre del 1608 l’assemblea dei Cavalieri decretò l’espulsione di Caravaggio dall’ordine cui era stato ammesso in luglio per meriti artistici, bollandolo quale membrum putridum et foetidum. Aggettivi un po’ forti, e non è dato sapere a quale reato o peccato siano dovuti. I biografi Baglione e Bellori parlano di un’offesa recata a un nobile “cavaliere di giustizia” o a un ferimento; altri ipotizzano che fosse giunta a Malta la notizia della sua condanna a morte per l’omicidio di Ranuccio Tomassoni, fino ad allora tenuta miracolosamente e chissà come nascosta. I difensori della fede non potevano certo accettare tra di loro un individuo condannato dalla Chiesa; forse si era incrinato qualcosa a livello personale tra Caravaggio e il Gran Maestro Alof de Wignacourt, da lui ritratto in tre opere (o quattro, ma per la quarta l’identificazione è discussa e una, la prima eseguita a Malta, è andata perduta). Nella prima il Gran Maestro presta il suo volto a San Girolamo scrivente; la seconda è il Ritratto di Alof de Wignacourt in armatura e il suo paggio. La presenza del paggio è una nota insolita, per la ritrattistica dell’epoca, ma il de Wignacourt amava circondarsi di paggi, seguendo un’usanza cortese. Il terzo ritratto è più prudentemente definito Ritratto di un cavaliere di Malta, ed è noto per il virtuosismo con cui è resa la trama del tessuto della grande croce sul petto del cavaliere. Tornando ai rapporti tra Caravaggio e Alof de Wignacourt, ricordavamo come quest’ultimo fosse il destinario della Salomé con la testa del Battista. Se è azzardato ipotizzare che il pittore si sia ritratto in un santo, si potrebbe comunque rinvenire qualche suo tratto somatico nella testa mozzata, e leggere anche in quella tela un messaggio di richiesta di perdono. L’opera più importante realizzata a Malta riguarda, ancora, un’esecuzione: è l’enorme tela della Decollazione del Battista, commissionata appunto grazie all’intervento del Gran Maestro (il cui stemma appare nella cornice originale). Il quadro fu molto apprezzato: “sì che, oltre l’onore della croce, il Gran Maestro gli pose al collo una ricca collana d’oro e gli fece dono di due schiavi” scrisse Bellori. Il particolare della firma vergata col sangue che sgorga dal collo del martire ha colpito in modo particolare la fantasia interpretativa di Maurizio Calvesi, il padre di tutte le iconologie psicoanalitiche, che vi ha visto “un polisenso, basato sul triplice significato di ‘segnatura’ (firma, sanguinamento, atto del segnarsi con l’acqua benedetta che serve anche per il battesimo), un’allusione al sacramento del battesimo connesso al Battista: il pugnale si identificherebbe con l’aspersorio, il colpo di grazia con l’apporto della Grazia, il sangue con l’acqua benedetta.” Questa firma sarebbe così il massimo del barocchismo di Caravaggio. Sarebbe da discutere quanto barocco vi sia in Caravaggio, e quanto nei suoi commentatori; alla critica interpretativa dell’oggettistica presente nelle tele troviamo preferibile essere aiutati a cogliere il peso di luci e ombre, le geometrie nello spazio, la velocità di stesura del colore che indica l’importanza data dal pittore a un elemento piuttosto che a un altro, e magari vedere una radiografia che riveli i suoi ripensamenti (come nel Martirio di San Matteo del 1600). A Malta Caravaggio dipinse inoltre un San Giovannino alla sorgente, e un Amorino dormiente ben diverso dai Cupidi trionfanti di un tempo, una specie di “imago mortis” in bruno, nero e grigio che rivela lo stato d’animo funereo del pittore, e forse la Crocifissione di Sant’Andrea che i più fanno risalire al precedente periodo napoletano.

 

Sicilia, 1608-1609

Il breve soggiorno di Caravaggio in Sicilia non termina con una fuga come era iniziato; probabilmente il pittore desiderava tornare a Napoli, dove anni prima aveva trovato un’ottima accoglienza, o intendeva fare una tappa di avvicinamento verso Roma, avendo avuto notizie che davano buone probabilità alla revoca della sua condanna per l’omicidio Tomassoni. Un’altra ipotesi vorrebbe che avesse ricevuto minacce da parte di Malta, dopo la sua ascesa all’onore del cavalierato e la rapidissima espulsione dall’ordine, con conseguente incarcerazione ed evasione. A Siracusa ritrovò un amico e collega dei tempi romani, quel Marco Minniti che spesso gli aveva fatto da modello, che si adoperò presso il Senato per fargli conferire qualche commessa. Il primo incarico fu quello della pala del Seppellimento di Santa Lucia per la chiesa dedicata alla martire siracusana, una tela di 408 per 300 cm realizzata in tempi brevissimi (arrivato a metà ottobre, a dicembre Caravaggio partiva già per Messina). Il grande muro che fa da sfondo alla scena, per due terzi o quasi della superficie, è stato attribuito a una certa stanchezza del pittore e giudicato una soluzione per arrivare a concludere l’opera, ma come una quinta teatrale ha l’effetto di sminuire le dimensioni degli attori, che appaiono oppressi dalla triste funzione cui stanno assistendo. La collocazione abbastanza ardita dei due massicci becchini in primo piano, che sembrano uscire dal quadro, rafforza l’unità di gruppo dei dolenti, mentre le figure istituzionali, il vescovo in alta tenuta e il soldato, sono defilate, quasi fossero lì per lavoro. Il corpo disteso della santa mostra uno degli scorci caravaggeschi più audaci: la distanza tra la spalla e la mano non supera i trenta centimetri. Caravaggio lavorò certamente di fretta nella stesura delle vesti, dipinte con tratti veloci; comunque l’opera, scriveva un secolo dopo lo storico Francesco Susinno, “riuscì di tale gradimento che comunemente viene celebrata, ed è tale di questa dipintura il meritato concetto, che in Messina, ed altresì in tutte le città del regno, se ne veggono molte copie.” A Messina un ricco mercante genovese, Giovanni Battista de’ Lazzari, gli chiese di realizzare una pala con la Madonna e i santi; Caravaggio gli propose, in omaggio al nome, una Resurrezione di Lazzaro. Stando al Susinno, una prima versione dell’opera venne fatta a brandelli a causa di qualche lieve critica: “Michelangelo colla solita impatienza sguainò il pugnale che in ogni tempo al fianco portar soleva; gli dié tanti infuriati colpi che ne restò miseramente squarciata quell’ammirabile pittura.” Il pugnale ricompare durante la lavorazione della seconda tela, brandito da Caravaggio per convincere i “facchini” a continuare a sorreggere Lazzaro, che per amor di realismo era un cadavere disseppellito “già puzzolente di alcuni giorni.” Lazzaro, infatti, non ha ancora obbedito al gesto perentorio del Cristo, e sembra restio a tornare in vita, con una mano tesa verso un teschio (la morte come conseguenza del peccato originale) e l’altra verso il Salvatore. Pagine e pagine di esegesi hanno visto in questo quadro il riflesso del dramma esistenziale della religiosità di Caravaggio, sospeso tra speranza e disperazione, bramoso di espiazione ma scettico sulla propria redenzione. Mistica a parte, è da notare che il personaggio-autoritratto, in versione giovanile, non guarda né verso Lazzaro né verso Cristo. Anche in questa tela l’azione si svolge in interni, secondo una prassi adottata da Caravaggio dopo un breve periodo di “maniera chiara” di cui può essere testimone il Riposo nella fuga in Egitto, del 1596-7, che presenta uno dei pochi e migliori paesaggi caravaggeschi. “Non faceva mai uscire all’aperto del Sole alcuna delle sue figure, ma trovò una maniera di campirle entro l’aria bruna di una camera rinchiusa…” osservava il Bellori. Questo permetteva a Caravaggio di usare un’illuminazione proveniente da fonti diverse, collocate come luci di scena per meglio lavorare sulle ombre; se è vero che intendeva sempre rispettare la realtà (“professavasi tanto ubbidiente al modello che non si faceva propria né meno una pennellata, la quale diceva non essere sua ma della natura”), si riservava di dosare e controllare la drammaticità dei contrasti, “restringendo in poche parti la forza del lume.” Altre opere eseguite in Sicilia sono l’Adorazione dei Pastori, o Madonna del parto, un inno all’umiltà con una Maria assai dimessa e semisdraiata sulla paglia cui si contrappone il blocco geometrico formato dai pastori, e una Natività (trafugata nel 1969) di impianto così convenzionale che secondo qualche critico andrebbe datata al 1600; e probabilmente uno dei molti San Giovanni Battista dipinti da Caravaggio nelle vesti di un giovane nudo in compagnia di un ariete. I tratti del ragazzo sono marcatamente insulari, e sappiamo dal non sempre attendibile Susinno che il pittore ferì alla testa un tal maestro Carlo Pepe, che protestava contro i suoi maneggi per reclutare modelli tra gli scolari “per formarne le sue fantasie.”

 

Napoli, 1609-1610

Uno degli ultimi quadri dipinti da Caravaggio (per qualcuno l’ultimo, ma sarebbe una coincidenza troppo significativa per essere vera) è il Davide con la testa di Golia da lui fatto pervenire al cardinale Borghese, suo intercessore presso Paolo V. Il giovanetto che ha ucciso il gigante non ha la consueta aria trionfante, anche se secondo l’iconografia classica dovrebbe prefigurare il Cristo vittorioso, ma appare piuttosto meditabondo e quasi mosso a compassione verso l’ex avversario. Per dimensioni, collocazione in primo piano, espressività e per il particolare macabro del sangue gocciolante, la testa di Golia fa da protagonista. Solo che in realtà è la testa del Caravaggio, d’altra parte non nuovo a collocare degli autoritratti nelle sue opere. La ferita alla fronte ricorderebbe quella della recente aggressione, e il senso più evidente è quello di un messaggio crudo e forte al destinatario del quadro, cui sarebbe stato inviato dopo l’inoltro della domanda di grazia. Caravaggio è un uomo disperato, gli occhi aperti di Golia sono ciechi perché non vede futuro, e anche il suo esecutore sembra perplesso. Vi si può leggere un desiderio di espiazione, un sintomo di masochismo, o volontà di autocastrazione (è la tesi di un curioso testo quasi lacaniano di due autori americani, Caravaggio’s Secrets; altri interessanti titoli in lingua inglese parlano di Caravaggio Obsession, della Caravaggio Conspiracy, di Caravaggio and His Two Cardinals): ma qui il pittore dichiara di sentirsi un uomo morto, oltre che peccatore, e prima della grazia divina implora quella papale. E vuole rientrare a Roma, tornare “nel giro”, godere della ricca vita artistica romana e anche dei suoi piaceri, ritrovare gli amici, cardinali e no. Il soggiorno napoletano (il secondo, per l’artista) non era iniziato bene, col ferimento davanti alla trattoria del Cerriglio avvenuto il 24 ottobre del 1609. Caravaggio era a Napoli solo da una decina di giorni, e si era trovato “preso in mezzo da alcuni con l’armi”: si era difeso, ma era rimasto ferito in modo così grave che si era sparsa addirittura la notizia della sua morte. Malgrado le ferite, non rimase inattivo a lungo – e forse per questo non guarì mai completamente. Tra i dipinti di questo breve periodo, una Resurrezione per la chiesa di Sant’Anna dei Lombardi andata distrutta nel terremoto che colpì Napoli nel 1805, l’Annunciazione di Nancy, la Salomé con la testa del Battista donata al Gran Maestro Alof de Wignacourt (per ingraziarselo e far cessare gli attentati, o ringraziarlo per averlo aiutato a fuggire da Malta), la Negazione di Pietro, il giovane nudo del San Giovanni Battista e quella che è sicuramente l’ultima opera di Caravaggio, il Martirio di Sant’Orsola, commissionata dal nobile genovese Marcantonio Doria. In questa tela le tipiche “mezze figure” caravaggesche, a volte in piano medio come nella Negazione, altre in piano americano, sono estremamente ravvicinate, catturate nell’attimo in cui la freccia trafigge la santa. Più che sofferente, la martire sembra meravigliata; si porta le mani al petto e guarda ciò che l’ha colpita. Alle spalle di Sant’Orsola appare un autoritratto di Caravaggio, intento a osservare una scena in cui la sacralità del mito è tutta calata in un realismo molto terreno. Come questa umanizzazione dei santi e del divino e riduzione del sacro si conciliasse con gli ammaestramenti del Concilio di Trento e della Controriforma, anche in materia d’arte (il cardinale Federico Borromeo, abbastanza ortodosso nei processi alle streghe, scrisse un apposito De Pictura Sacra), è questione largamente dibattuta, quasi quanto la religiosità o l’omosessualità di Caravaggio. Scorrendo la sua opera si troveranno poche immagini del Cristo, di santi e martiri coi piedi staccati da terra, solo qualche angelo; e questa era già una scelta, contro il manierismo e forse contro i suggerimenti di preti e teologi. Il numero di opere di Caravaggio rifiutate dai committenti perché “volgari” o sospettate di contenuti eretici o quanto meno non ortodossi, è notevole e potrebbe servire alla scrittura del tormentato rapporto tra artista e istituzione. C’è da notare che se la Chiesa ripudiava alcune tele, cardinali e preti correvano ad acquistarle per le loro collezioni private.

 

(Testo adattato dal web)