Francesco Castelli detto Borromini (l’adozione,
forse per distinguersi dagli artisti omonimi del cognome Borromini risale al 1628)
nacque a
Bissone sul Lago di Lugano nel 1599. Egli ricevette la
sua prima formazione presso la Fabbrica del Duomo di Milano come scalpellino, e
lì poté confrontarsi con una vitale tradizione gotica, mentre il vocabolario
del tardo antico, del romanico lombardo e del rinascimento italiano gli fu
trasmesso tramite ulteriori edifici milanesi. Al seguito del parente arch. Carlo
Maderno, che ne guidava il cantiere, esordì come scalpellino in San Pietro (c.
1619; durante questo periodo, Borromini si dedicò
particolarmente allo studio degli antichi e alle creazioni architettoniche di
Michelangelo che divenne il suo grande modello) e collaborò col Bernini al Baldacchino
(1630-32) e a palazzo Barberini (scala ellittica e finestre c. 1631). Inizialmente
Bernini sfruttò la grande inventiva e l’abilità tecnica del giovane ticinese,
almeno finché la contrapposta concezione dell'arte e la profonda diversità di
temperamento, gusto e cultura, non determinò tra i due artisti un violento
dissidio, mai del tutto risolto. Deciso ad affermare in assoluta libertà la
propria concezione dell'architettura, carica di tensioni etiche e di
significati simbolici, in alternativa allo storicismo e al naturalismo del
Bernini, Borromini intraprese l'attività indipendente a partire dal 1634. Su
incarico dei trinitari costruì il loro convento e la Chiesa di
San Carlino alle Quattro Fontane (1634 - 1641). Essa può essere considerata
una delle più compiute espressioni dell'arte di Francesco Borromini, grazie
soprattutto all'originale pianta ellittica, alla modulazione delle pareti e ad
una disposizione delle fonti luminose assolutamente scenografica. Queste
caratteristiche, oltre all'assoluta padronanza della tecnica costruttiva e alla
capacità di sfruttare al massimo tutte le possibilità dei materiali, ne fanno
un vero e proprio sperimentatore dell'arte architettonica. La creazione più
ardita in tal senso è Sant'Ivo alla Sapienza (1642 - 1650); edificio in
cui Borromini sviluppò al massimo le sue ricerche luministiche. Fu in occasione
del Giubileo del 1650, invece, che l'artista, cui era riconosciuta una capacità
tecnico-costruttiva superiore a quella di Bernini, rifece parte dell'interno di
San Giovanni in Laterano (1646-50). Anteriori a questi
capolavori sono opere nate dalla stima di Virgilio Spada, la galleria
prospettica (1652-55) e due scale a spirale
in palazzo Spada e il convento, l'oratorio e la biblioteca dei
Filippini
a cui poi aggiunse la Torre dell’orologio (1637-49).
Boicottato dalla critica e oscurato dalla crescente fama del rivale Bernini,
l'architetto attraversò un lungo periodo di crisi. Sotto il pontificato di
Innocenzo X (1644-1655) riuscì finalmente a scalzare Bernini dalla sua
posizione di primo architetto romano. Trasformò palazzo Carpegna con la rampa
elicoidale, il loggiato interno a pianterreno e il portale interno (1635-50).
Progettò l’altare Landi e lavori di decorazione in S. Lucia in Selci
(1637-38). Completò Sant’Andrea delle Fratte col tiburio e il campanile
(1653-67). Redasse con Virgilio Spada
la relazione della fabbrica degli oratoriani: l’Opus architectonicum (c. 1648).
Ricostruì la facciata di Sant’Agnese in Agone (1653-57). Decorò palazzo
Pamphili a piazza Navona (1645-50). Ampliò il palazzo di Propaganda Fide
(1646-62) e ricostruì la cappella dei Re Magi (1664). Progettò per le Oblate
agostiniane il convento e la chiesa di S. Maria dei Sette Dolori
(1643-49. Restaurò, ampliandolo e decorandolo, palazzo Falconieri in via
Giulia (1646-49). Ma già il Pontefice successivo fu maggiormente
benevolo nei confronti del suo grande concorrente: durante il papato di
Alessandro VII (1655-1667) infatti, a Borromini furono precluse le commissioni
più importanti. Negli ultimi anni della sua esistenza quindi si dedicò
principalmente al proseguimento di edifici già iniziati, in particolare al
completamento degli spazi interni di S. Ivo e S. Giovanni in Laterano,
come all'innalzamento della facciata ancora mancante della sua opera
primigenia, S. Carlo alle Quattro Fontane. Restaurò comunque
l’esterno del Battistero in Laterano (1657) e San Giovanni in
Oleo (1658-59). Sue la decorazione della Cappella Spada
in San Girolamo della Carità (c. 1662) e la Cappella Falconieri in San
Giovanni dei Fiorentini (1664-67). Morì suicida a Roma nel 1667.
Sostituendo uno spazio fantastico a quello reale, l'artista rifiutò i
condizionamenti della teoria classica delle proporzioni per cedere il passo
all'immaginazione. Il suicidio del 1667 pose fine all'esistenza tormentata di
un genio irrequieto e ribelle la cui opera, pur non essendo stata compresa del
tutto dai critici contemporanei, che, anzi, spesso la giudicarono il frutto di
una mente insana, ebbe poi grande seguito sia in Italia sia all'estero,
facendone, assieme al Bernini, l'artista più rappresentativo del barocco
romano.
(Testo adattato dal web)
Nota critica
Francesco
Borromini faticò molto, dopo anni di lavoro sottovalutato dietro le quinte,
all’ombra di Carlo Maderno e di Bernini, per affermare il
suo talento artistico non da artigiano ma da architetto. Nascendo presso il
lago di Lugano, da figlio e nipote d’arte, assorbì quasi geneticamente la
tradizione degli abili capimastri e scalpellini ticinesi, architetti e
scultori, attivi in tutta Europa dal Medioevo all’età moderna. Formatosi sui
monumenti medievali lombardi e giunto poi a Roma, Francesco studiò
l’architettura classica. Dell’Antico lo attrassero le varianti e non le regole:
la parete curvilinea angolare, la superficie continua ininterrotta. Ottenne
infatti i risultati migliori spezzando il rettilineo e rendendolo curvo nel
profilo mistilineo, rompendo nelle superfici murarie la rigida volumetria
geometrica. Della Domus Aurea, da cui Francesco annotò elementi in un
fascicolo di appunti, e di Villa Adriana, della quale mostrò di
ricordare un ambiente delle piccole terme nel disegnare la pianta e le nicchie
di Santa Maria dei Sette Dolori, lo affascinarono le combinazioni
mistilinee. Superate le norme dell’architettura antica, Borromini stravolse il
linguaggio classico, usando da maestro quegli elementi in modo antitradizionale
ed eversivo. Dall’arte bizantina carpì la spiritualità della luce per ottenere
effetti suggestivi, giocando con i simboli per rendere pregnanti le strutture.
Elementi gotici come i costoloni intrecciati nella volta della Cappella dei
Re Magi nel Palazzo di Propaganda Fide o a S. Maria dei Sette
Dolori furono reinventati con un’insolita funzione decorativa. Borromini
studiò anche l’architettura di Brunelleschi e di Michelangelo: ma lì dove
questa distingue e moltiplica, egli fonde e aggiunge. Le decorazioni,
sovrabbondanti e smisurate, si trasmutano, per processo metamorfico, in
struttura, in dialettica tra paradosso e ironia, nel gusto barocco della
meraviglia. Esempio è il portale interno di palazzo Carpegna: la
cornucopia diventa capitello e il contrasto esalta le singole caratteristiche,
fuse in un tutto organico biologico. L’effetto è raggiunto, in simbiosi tra
interno e esterno, con l’uso di materiali poveri come il nudo laterizio, il
travertino, lo stucco, l’intonaco. Nella chiesa di Sant’Ivo del complesso
dello "Studium Urbis", Borromini dà l’impressione di vincere il
peso di gravità col dinamismo ascensionale che sembra avvitare il cielo, in un
ritmo vibrante animato dalla luce, innalzando un’originalissimo inno alla
Sapienza Divina e ai papi promotori dell’erezione della fabbrica. Geniale fu la
sua inventiva nel ricavare una pianta, senza precedenti, dal simbolico incrocio
di due triangoli, ottenendo al contempo nel triangolo una metafora della
Trinità e nell’esagono quella del savio Salomone e quindi della Divina
Sapienza. Un ulteriore rimando è all’ape dello stemma Barberini di Urbano VIII,
durante il papato del quale fu avviata la costruzione della chiesa. Rivoluzionaria
è la concezione della lanterna dalla polivalenza semantica: anti-torre di
Babele pagana sormontata dalla croce in cima alla guglia; colonna di fuoco –
guida divina del popolo ebraico nell’Esodo – o della Chiesa cattolica;
conchiglia come creazione della natura che riflette la perfezione divina;
montagna sacra (mitico Olimpo o Purgatorio dantesco) come percorso spiraliforme
della conoscenza filosofica, in ascesa verso la conquista del sapere, spinta
dall’anelito spirituale, che culmina nella corona di fiamme rappresentante la
Carità (inscindibile dalla Sapienza) attuata da sant’Ivo e incarnata dal papa,
vicario di Cristo scelto dallo Spirito Santo (= Sapienza Divina/Carità). La
decorazione plastica dell’elica sul cupolino della lanterna, ritmata da corte
paraste, imita infatti le gemme e le perle sul triregno del pontefice o tiara
con tre corone sovrapposte, simbolo della triplice autorità papale in quanto
padre dei sovrani e monarca, rettore dell’orbe e vicario di Cristo. Anche nella
decorazione a stucco all’interno della cupola di Sant’Ivo, Borromini esaltò i
pontefici che sostennero il compimento della costruzione mediante gli elementi
araldici del casato: Alessandro VII con i monti e la stella dei Chigi,
Innocenzo X con l’emblema Pamphilj della colomba (con ramoscello d’ulivo),
simbolo dello Spirito Santo che scese sugli apostoli per infondere la sapienza
e apparsa prodigiosamente a Sant’Ivo, donandogli la parola divina. Perfino nei
minimi dettagli decorativi Borromini racchiuse il simbolismo cristiano, con
particolari allusivi al martirio dei santi Fortunato e Alessandro, titolari con
Ivo della chiesa: corone e ghirlande d’alloro sempreverde e premio
d’immortalità, foglie di palma per il trionfo sulla morte, gigli per anime pure
e beate. La diffusione della grazia e della sapienza divina fino all’umanità,
attraverso i vari gradi delle gerarchie angeliche, è sottesa nell’alta
collocazione dei serafini (simboli di Carità) alla sommità della cupola e
nell’inferiore disposizione sopra le finestre dei cherubini (simboli di
Sapienza). Francesco è descritto dalle fonti: "torbido alquanto",
geloso dei suoi disegni, vestito sempre di nero con parrucca, con un amore
smodato per il suo lavoro, intransigente e in un perenne atteggiamento di
sfida. Orgoglioso da rinunciare a doni preziosi e privilegi, in questo simile
all’amico padre oratoriano Virgilio Spada. Dalla madre, sofferente di una grave
forma di ipocondria, Borromini ereditò una certa tendenza alla depressione.
Questo carattere difficile gli procurò con l’andare del tempo problemi con i
committenti, amarezze e delusioni. Schiacciato dal successo professionale del
Bernini – che bollò le forme fantastiche dell’architettura del rivale, del
quale aveva sfruttato capacità e idee innovative – e oltremodo frustrato,
Borromini offrì spesso gratuitamente la propria prestazione professionale. Poté
comunque togliersi la soddisfazione, nei confronti del celebrato avversario, di
veder demolita la Cappella dei Re Magi eretta dal Bernini, dopo che nel
1646 era stato nominato architetto della congregazione De Propaganda Fide.
Molto dolore provocarono all’architetto ticinese le modifiche che subirono
molti suoi progetti o l’impossibilità di realizzarli secondo la propria visione
artistica. Questo si verificò nella sua maggiore commissione pubblica: il
restauro della paleocristiana basilica Lateranense, mai completata dalla volta
della navata centrale per la volontà di Innocenzo X di conservare le antiche
strutture e il tetto del XVI secolo. Nella galleria di palazzo Spada – commissionatagli
dal cardinal Bernardino, fratello del suo estimatore Virgilio – Borromini si
esercitò, per delizia del committente, in una bizzarra fuga di colonne,
deformate nella fuga prospettica (di appena cm 862), che lasciava apparire,
nelle rapide sequenze di luce, le proporzioni della piccola statua sul fondo
come, in realtà, non erano. Tutto ciò secondo speculazioni matematiche che
daranno lustro alle sue idee. Con l’allontanamento di Borromini dalla direzione
della fabbrica di Sant’Agnese in Agone, nel 1657, due anni dopo la morte
di Innocenzo X, da parte del nipote, principe Camillo Pamphilj, ulteriori
modifiche furono apportate ai disegni borrominiani, alterando i rapporti tra le
parti architettoniche del progetto originario. Altro cruccio nacque
dall’incompiutezza di Sant’Andrea delle Fratte, del cui completamento
era stato incaricato dalla famiglia Del Bufalo, celebrata nell’ornamentale
sineddoche plastica dell’araldica testa di bufalo sull’insolito campanile. Con
l’acuirsi del suo disagio, il declino divenne inarrestabile, aggravato dal
colpevole isolamento dei committenti e la personalità eccentrica ma sempre più
fragile di Francesco cadde in balia di oscuri fantasmi. Lo stile inconfondibile
ed erudito di Borromini era troppo personale per essere imitato - né egli lo
avrebbe gradito. Soltanto pochi grandi nella storia dell’architettura trassero
linfa dalle sue idee per elaborare opere altrettanto geniali. Lo spirito
borrominiano era però così universale da sopravvivere per secoli dopo la sua morte:
una trama lega indissolubilmente lo sviluppo elicoidale di Sant’Ivo alle cupole
torinesi di Guarino Guarini fino al percorso avvolgente del Guggenheim Museum
newyorkese di Wright, passando per l’utopico progetto del costruttivista russo
Tatlin per la Terza Internazionale del 1919. A riprova che Borromini è, ancora
oggi, un rivoluzionario.