THE TERMINAL [THE
TERMINAL, 2004]
L’America non è più la stessa. Dopo l’11
settembre 2001, l’America è sospettosa, diffidente. Un
esempio: provate, quando vi capita di atterrare in un aeroporto americano, a
guardarvi intorno; vi accorgerete come gli organi di “accoglienza” e il
personale addetto all’immigrazione siano attenti e organizzati. Ne sa
qualcosa Viktor Navorski,
giunto all’aeroporto JFK di New York dalla Krakhozia (fantomatica nazione ex-sovietica dell’Europa
dell’est), che si sente dire che, mentre era in volo per gli Stati Uniti, il
suo paese ha subito un colpo di stato e non è attualmente
riconosciuto dal governo americano, di conseguenza il suo passaporto e tutti i
suoi documenti non sono validi. E’ costretto così ad aspettare all’interno del
terminal, non potendo né entrare in America né ritornare al suo paese
d’origine. Viktor la sua America la conosce qui,
all’interno di un micromondo – o meglio, di una microAmerica – dove l’unica cosa che può fare è aspettare. Ma Victor, con la sua abilità nel trovare una soluzione
pratica a tutto, stringe rapporti con il personale del terminal, in particolare
con il funzionario aeroportuale Frank Dixon, che vede Viktor con occhio
sospettoso e vuole, con l’inganno, sbarazzarsi di lui in qualsiasi modo, o con
Amelia Warren, hostess sempre in viaggio con la quale
stringerà un forte rapporto – tanto tenero quanto ambiguo.
Dopo Prova a
Prendermi, Steven Spielberg
rimane nella commedia facile e ottimista e ci regala The Terminal. Tratto da una sceneggiatura originale (e non solo
perché inedita) di Sacha Gervasi
e Jeff Nathanson (scritta
prima dell’11 settembre, ma che, se prima poteva risultare
surreale, ora è più attuale che mai), è la prova che quando un film è ben
scritto, ben diretto e ben recitato, può permettersi di far divertire lo
spettatore anche con l’uso di un pizzico di sana retorica. Tra le scenografie di Alex McDowell
(Minority Report), che
riproducono all’interno di un hangar a Los Angeles un aeroporto
semi-artificiale nella sua interezza, con tanto di negozi, ristoranti, locali e
servizi, si muove la camera di Spielberg, che ha da
sempre la capacità di fondere abilità tecnica con le emozioni che un
inquadratura può dare, con un sapiente uso del dolly
e delle carrellate (nella scena dell’arrivo di Viktor
al JFK, la grandezza dell’aeroporto viene sfruttata sapientemente dal regista
per trasmettere il senso di solitudine e di smarrimento); a tutto questo si
aggiungono le luci di Janusz Kaminski
(Salvate il Soldato Ryan,
Minority Report) e la
sua fotografia funzionale, artificiosa e simbolica.
Grande cura nella caratterizzazione
di tutti i personaggi, anche quelli secondari, ma il film è irrimediabilmente
di tre grandi interpreti. Tom Hanks
è Viktor Vavorski, dalle
movenze chapliniane e della tenerezza strabordante
e ottimista: è un uomo espansivo e che trova sempre la soluzione ai problemi
senza lasciarsi sopraffare. Catherine Zeta-Jones è l’assistente di volo Amelia, stralunata e
contraddittoria, che giustifica la sua inerzia morale con la scusa di un lavoro
frenetico, e che non sa ancora precisamente cosa cerca. Lo spirito diffidente e
sospettoso dell’america è concentrato nella persona di Frank
Dixon, interpretato da Stanley
Tucci, sempre marginale ma bravo, anche se il suo
personaggio sfocia ogni tanto nell’antagonismo ingiustificato.
Commedia divertente e spassosa, fatta di una comicità
lieve, delicata e positiva, che colpisce e muove
qualcosa nello spettatore, sa commuovere e sa far ridere alternativamente; dai
presupposti amari, ma dal finale relativamente lieto. Riscontrabili alcuni
elementi tipici spielberghiani: l’importanza della
figura del padre, l’accennato surrealismo
E, nessuno prima di Viktor, ci aveva fatto
capire che tutti stanno aspettando qualcosa -
che sia una telefonata, un volo, un documento o un visto – e che, dopo
aver aspettato, per noi tutti le porte scorrevoli del
terminal si apriranno e saremo allora pronti per entrare nel mondo.
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