SIN CITY [SIN CITY, 2005]

Bulli e puttane. Mascalzoni e femmine fatali. «A Sin City (storpiatura di Basin City che per via della sua fama diventa “la città del peccato”) basta imboccare il vicolo giusto e si trova di tutto». Un bestione rabbioso e pieno di rancore che vuole vendicare l’assassinio dell’amata prostituta. Un poliziotto in incognito frainteso e fatto letteralmente a pezzi da un quartiere intero di puttane. Un investigatore accusato ingiustamente dello stupro di una bambina di otto anni.

Dopo Old Boy e Kill Bill, la vendetta è già cult. Tarantino (che qui collabora dirigendo alcune scene) l’aveva appena rappresentata in versione eastern e western: a colpi di katana in stile anime e tra i deserti rocciosi del West, omaggio a Sergio Leone; Robert Rodriguez sceglie i comics di Franck Miller, che lo affianca alla regia, e disegna Sin City, con un cast d’eccezione e anche un po’ pulp (Bruce Willis, Michael Madsen); ma il regista sembra non aver capito, dopo le lezioni di Burton e Raimi, che per trasferire un fumetto dalla carta alla celluloide occorrono nuove idee, ma soprattutto una nuova sensibilità. Così gli antieroi di Sin City si muovono per le strade buie (tutte le scenografie sono ricreate in digitale, e gli attori hanno recitato davanti ad uno schermo verde), bucando corpi, tagliando arti e sputando sangue, sproloquiando e divagando in astratte riflessioni che vogliono imitare i monologhi tarantiniani mentre l’intero film si autocompiace dei suoi esercizi stilistici, nei suoi rumori, nei suoi colori e nelle sue ombre. C’è chi lo ha chiamato noir, senza considerare i requisiti essenziali del genere: tensione e sospetto, conflitti personali e riflessioni, congetture e certezze; Sin City del noir ha solo la sua forma espressionista.

Ancora una volta Rodriguez si dimostra un autore scadente e inopportuno la cui unica fortuna, nel corso di tutta la sua carriera, è quella di essere sempre stato protetto (e promosso!) dall’ala protettrice di Tarantino.

 

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