SACCO E VANZETTI
[SACCO E VANZETTI, 1971]
La vicenda di Nicola Sacco (Riccardo Cucciolla)
e Bartolomeo Vanzetti (Gian Maria
Volontè), immigrati italiani negli Stati Uniti
dell’est, arrestati durante una retata la notte del 5 maggio 1920 per una
rapina e accusati - in fase di processo - di anarchia.
Sacco e Vanzetti divengono
così il capro espiatorio del movimento anarchico degli operai. Dopo un oscuro
processo lungo sette anni, e dopo vari ricorsi e gli
interventi inutili di due avvocati, vengono condannati alla sedia elettrica il
9 aprile 1927 e giustiziati il 23 agosto dello stesso anno, proprio mentre le
prove cominciano a giocare a loro favore: un “errore” imperdonabile, se si
pensa che la loro innocenza fu dimostrata quando i due erano ancora in vita.
Da un fatto di cronaca che sconvolse l’opinione pubblica
mondiale negli anni ’20 (attraverso filmati di repertorio, ci vengono mostrate le manifestazioni contro l’esecuzione,
accompagnate dalla Ballata di Sacco e Vanzetti, composta da Ennio Morricone
e interpretata da Joan Baez),
adattato prima per il teatro, nel 1971 la storia di Sacco e Vanzetti
ritorna in questo film di Giuliano Montaldo,
interpretato con passione da Gian Maria Volontè nella parte dell’istrionico Vanzetti,
e da Riccardo Cucciolla in quella del drammatico
Sacco.
Sceneggiato dal regista con Fabrizio Onofri
e Ottavio Jemma, è una disillusione dell’American dream, una diffidenza nel
sistema giudiziario americano e una contestazione al razzismo, più che una
presa di posizione contro la pena capitale; non eccede mai di retorica ed è
documentato e abile nell’astenersi dal giudicare prima del tempo. E’ un film
storico che, se prima prende la forma del film giudiziario americano, poi si
distacca e si fa anti-hollywoodiano alla fine, non mostrando, egoisticamente,
l’esecuzione dei condannati.
La regia di Giuliano Montaldo spia l’evoluzione dei fatti, punta più sull’impatto
informativo che su quello emotivo, ed è più imparziale del necessario – fin
troppo distaccata, a momenti – a tratti virtuosa nelle zoomate, nel montaggio
serrato nella scena dell’interrogatorio iniziale e nelle riprese a mano delle
ricostruzioni dei fatti. Gioca, nell’alternare esposizione a denuncia, ma
nell’imperdonabile finale, è quella stessa regia che si sbilancia nel dimostrare
l’innocenza dei protagonisti, prende la loro posizione; appoggia la verità e
difende palesemente l’innocenza di “Nick e Bart” e, mai come in questo caso, può permettersi di farlo.
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