ROBOTS [ROBOTS,
2005]
Ultimamente è sempre più di moda, nei film d’animazione,
usare le voci di grandi attori per i personaggi, e tante volte sono anche
questi ad influire – almeno in patria – al successo di un cartone. Recentemente
anche l’Italia si è voluta adeguare e ricerca le sue voci non
tanto nel settore cinematografico, ma nel jet set: così negli ultimi
mesi abbiamo visto gatti arancione con l’accento siciliano di Fiorello, pesciolini
con la voce di Tiziano Ferro, Luca Laurenti e Luisa Corna, nonché mucche
rivoluzionarie che parlano come Cinzia Leone o altre stonate come Marina
Massironi. A volte, la qualità del film ne risente in negativo (tranne rari
esempi come il trio Bisio-Gullotta-Insegno de L’Era Glaciale, ma il migliore resta papà Mufasa di Vittorio Gassman); è il
caso di Robots,
il cui protagonista ha la voce spenta e smorta di DJ Francesco. Rodney (nell’originale ha la voce di Ewan McGregor, che è già buffa di
suo) è un giovane robot tanto povero quanto ambizioso, che lascia la provincia
e la famiglia per Robot City; il suo desiderio è poter lavorare come inventore
nella società Big Weld, che si occupa della
produzione di pezzi di ricambio per vecchi e nuovi robot. Ma quando vi arriva la
trova in mano ad un giovane stupidotto e impacciato
che pianifica la costruzione di pezzi di ricambio sempre più lussuosi e costosi
che le povere macchine non possono permettersi. Ma Rodney, cercando Big Weld, inciampa anche nella compagnia di Fender e della sua
famiglia di catorci.
Seconda animazione digitale per il regista Chris Wedge per la Blue Sky Studios dopo L’Era Glaciale (a proposito, un trailer
prima del film ci annuncia che il sequel uscirà nel
2006), completamente digitale come vuole l’ultima tendenza, nonché la
concorrenza di Disney, Pixar
e Dreamworks Animation.
Questa seconda opera è molto più ambiziosa della prima, da diversi punti di
vista. Innanzitutto, bisogna tenere alta la sfida tra i vari Shrek, Alla Ricerca di Nemo e Gli Incredibili, e poi ricreare qualcosa
di nuovo che il pubblico – piccolo e grande – non ha ancora assaporato. In
questo film ci viene proposta una libera
interpretazione del mondo dei robot, che non sono le macchine infallibili e
supertecnologiche che anche il cinema ci ha abituato a vedere; somigliano più a
vecchi elettrodomestici male assemblati che cadono a pezzi. Ebbene, non sempre
ciò che si vede è all’altezza del progetto: lo si
percepisce qua e là nella presenza massiccia di luoghi comuni, nella
“macchinosità” della narrazione, nel senso di già visto e nella presenza di una
morale che sembra affrontata con troppa fretta. Ma non mancano i momenti
divertenti, soprattutto nelle scene d’azione: abbandonatevi all’adrenalina
della corsa acrobatica degli “autobus” di Robot City o alla grandezza della
valanga di domino; funziona soprattutto a livello tecnico e scenografico,
ispirato da Metropolis,
Futurama e I Jetsons nella creazione della complessa
e intricata metropoli e nelle musiche di John Powell (l’edizione italiana non ci ha risparmiato Ridere Ridere,
interpretata da DJ Francesco, che accompagna i titoli di coda). Già a metà,
viti e bulloni che saltano, arti che si staccano e teste di acciaio
che rotolano cominciano ad annoiare.
Rimane ambiguo nella sua
complessità: non sempre simpatico e irriverente, inceppato nella sceneggiatura
e debole nel ritmo, qua e là divertente; penalizzato, volendo essere
insistenti, dal doppiaggio italiano: ci chiediamo chi sarà il prossimo
fortunato doppiatore. Costantino? Speriamo non diventi un’abitudine.
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