RAIN MAN [RAIN MAN, 1988]

Dopo la morte del padre, Charlie (Tom Cruise) scopre di avere un fratello maggiore di nome Raymond (Dustin Hoffman), al quale il vecchio ha lasciato un patrimonio di tre milioni di dollari. Raymond è però affetto da una forma di autismo chiamata autismo savant, una malattia che, nel caso di Raymond, rende difficile la comunicazione con l’esterno, ma che contrappone una totale inesperienza e mancanza di ragionamento ad una straordinaria memoria e ad un’inusuale abilità nei calcoli. Con lo scopo di ottenere la sua parte di eredità, Charlie rapisce il fratello dalla casa di cura in cui viveva per portarlo a Los Angeles e ottenere il suo affidamento. Ma l’impresa si rivela imprevedibilmente difficile: Charlie è costretto a tenere d’occhio Raymond come un bambino e la loro è una convivenza forzata; ma i due col tempo impareranno a conoscersi e il fratello minore sfrutterà questa occasione per crescere e pensare di più agli altri.

Da un soggetto di Barry Morrow, sceneggiato con Ronald Bass e diretto da Barry Levinson, Rain Man ha avuto una preproduzione difficile: dal 1984 si sono succeduti prima Levinson, poi Steven Spielberg e Sidney Pollack, per ritornare, nel 1988, a Levinson; Dustin Hoffman ha chiesto l’inversione di ruoli (era infatti stato scritturato per la parte di Charlie) e la presenza di Tom Cruise, troppo giovane per il suo personaggio, ha richiesto modifiche nella sceneggiatura.

Un road movie solo nella forma; la strada fa solo da filo conduttore, da contorno, ad una storia principale che si fa sempre più chiara nella sua drammaticità e commozione ad ogni tappa del viaggio dei due protagonisti. Se durante tutto il film il moralismo è fortunatamente solo sfiorato (le scene delle lezioni di ballo di Charlie e del bacio in ascensore ne sono due esempi), il finale amaro e realista è anteceduto da un epilogo in virtù dei buoni sentimenti e dell’ottimismo. Nel complesso però, è tutto ben bilanciato: ciò che conta in questo film non è la meta – il fine, la morale – ma il percorso, il viaggio, il mezzo che ci guida verso la fine del film.

Il viaggio, appunto, di due fratelli dapprima costretti alla convivenza: così come la Buick Roadmaster cabriolet del ‘49 accompagna Charlie e Raymond fino a Los Angeles, anche Raymond è il mezzo che permetterà a Charlie di fare il suo viaggio personale ed interiore; mentre il personaggio di Raymond è tragicamente intrappolato nella sua malattia (una persona autistica raggiunge un apice di maturità più in la del quale non può arrivare; in altre parole, non cresce, non si evolve, non impara ed è saldamente ancorato alle proprie abitudini), quello di Charlie subisce bruscamente l’influenza del fratello – con la sua ingombrante e sfibrante presenza – grazie alla quale subirà un processo di crescita e raggiungerà un livello maggiore di altruismo e comprensione.

Il film non comincia brillantemente: Tom Cruise è fin troppo calcato e “programmato”; ma è con l’entrata di Dustin Hoffman nel ruolo dell’autistico Raymond che il film – e con esso tutti i suoi elementi – acquistano il giusto bilanciamento e il giusto valore. Un lavoro di studio e di documentazione, quello di Hoffman, per il quale ha incontrato e passato del tempo con veri autistici, consulenti ed esperti; una recitazione minuziosa e perfetta che gli è valsa un Oscar come miglior attore protagonista (il film ha vinto anche miglior film, miglior sceneggiatura originale e miglior regia) agli Academy Awards del 1988. Valeria Golino è Susanna, fidanzata di Charlie, che è forse migliore in inglese (nel film interpreta un’italiana) che doppiata da se stessa in italiano.

Non solo una delle migliori commedie americane degli anni ’80, ma anche un cult che è oramai diventato più di un film: tante sono le organizzazioni che ancora oggi sfruttano il film per fare luce e chiarezza sul tema dell’autismo.

 

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