MINORITY REPORT [MINORITY REPORT, 2002]
Minority Report è la prova che George Orwell aveva ragione, che
si era sbagliato “solo” di 70 anni (non a caso la presenza del quattro
nell’anno d’ambientazione facilita il calcolo e il riferimento), che le visioni
di Roy Bradbury di Fahrenheit 451 sono più che mai fondate.
Queste sarebbero solo supposizioni, se non fosse per il fatto
che il film è basato su un racconto breve di Philip
K. Dick, Rapporto
di Minoranza, appunto (dai suoi romanzi sono stati tratti numerosi film,
tra i quali Blade Runner di Ridley Scott). La sola
ambientazione del film crea una certa forma di sconsolante preoccupazione: è
davvero così prossimo il futuro nel quale la privacy e l’individualità saranno solo utopia?
Magistralmente diretto da Steven
Spielberg, Minority Report, oltre ad un thriller di Hitchcock,
sembra un film noir della vecchia scuola europea, con inquadrature estremamente basse o estremamente alte, luci estremamente
limpide o estremamente cupe, ma sempre fredde e liquide, nelle variazioni del bianco,
blu, grigio, nero e rare volte giallo e verde per enfatizzare l’incredulità e
la confusione del protagonista. La luce, appunto, si riflette e scivola sulle
superfici delle scenografie di Alex McDowell (Fight Club),
disegnate originariamente per l’adattamento cinematografico di Fahrenheit 451 per la regia di Mel Gibson, che non è stato più
girato. La fotografia di Janusz Kaminski
(premio Oscar per Schindler’s List e Salvate il Soldato Ryan) e i movimenti
fluidi di camera si muovono negli edifici claustrofobici,
ma ci fanno apprezzare a pieno le innovazioni del prossimo mezzo secolo.
Come al solito Cruise rimane
garanzia di qualità, soprattutto nei ruoli più atipici nei quali si cimenta
ultimamente, ma è affiancato dagli emergenti Colin Farrell e Samantha Morton (la Precog Agatha), e dal bravo Max von Sydov.
Il punto forte del film rimane la sceneggiatura forte e
stabile che ci introduce con praticità e con normalità un mondo che non ancora
conosciamo, ma che al termine del film giudichiamo come la giusta conseguenza
dell’attuale processo di evoluzione tecnologica ultimamente in corso. La storia
del film è rappresentata da due filoni narrativi principali: l’evasione di Anderton dagli agenti federali, che rappresenta la parte
d’azione del film, mai schiava degli effetti speciali (deliziosamente geniale
la scena dei ragni spia), e la risoluzione di un omicidio che è passato
inosservato alla Precrimine. Tutto si intreccia con
altre microstorie anch’esse essenziali alla comprensione del film. E quando proprio
si pensa di essere di fronte ad un thriller incomprensibile girato da un
regista che non è quello giusto, tutto si spiega nel finale che fa luce su ogni
dubbio che lo spettatore possa avere avuto.
La narrazione di Spielberg è ben
presente e riconoscibile in alcune scene, grottesche nella loro ironia, e
nell’happy ending, che sinceramente sostituisce un
finale che doveva essere un po’ più opprimente e che, una volta tanto, doveva
lasciare allo spettatore un po’ di amaro in bocca. Per riflettere.
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