MINORITY REPORT [MINORITY REPORT, 2002]

Washinghton DC, 2054. Da sei anni la Precrimine si occupa della prevenzione degli omicidi attraverso un sistema basato sulle previsioni di tre creature veggenti, i Precog, che consente di visualizzare attraverso i sogni dei tre individui luogo, data, vittima e assassino di un omicidio. L’indice del crimine nella città è diminuito del 90% negli ultimi anni e ci si prepara ad un referendum per nazionalizzare la Precrimine. John Anderton (Tom Cruise) è rimasto fedele al sistema in quanto responsabile dell’organizzazione fino a quando i Precog prevedono un omicidio nel quale lui è l’assassino. La sua corsa contro il tempo e il destino lo porteranno a fare i conti col passato e a scoprire qualcosa di nuovo.

Minority Report è la prova che George Orwell aveva ragione, che si era sbagliato “solo” di 70 anni (non a caso la presenza del quattro nell’anno d’ambientazione facilita il calcolo e il riferimento), che le visioni di Roy Bradbury di Fahrenheit 451 sono più che mai fondate. Queste sarebbero solo supposizioni, se non fosse per il fatto che il film è basato su un racconto breve di Philip K. Dick, Rapporto di Minoranza, appunto (dai suoi romanzi sono stati tratti numerosi film, tra i quali Blade Runner di Ridley Scott). La sola ambientazione del film crea una certa forma di sconsolante preoccupazione: è davvero così prossimo il futuro nel quale la privacy e l’individualità saranno solo utopia?

Magistralmente diretto da Steven Spielberg, Minority Report, oltre ad un thriller di Hitchcock, sembra un film noir della vecchia scuola europea, con inquadrature estremamente basse o estremamente alte, luci estremamente limpide o estremamente cupe, ma sempre fredde e liquide, nelle variazioni del bianco, blu, grigio, nero e rare volte giallo e verde per enfatizzare l’incredulità e la confusione del protagonista. La luce, appunto, si riflette e scivola sulle superfici delle scenografie di Alex McDowell (Fight Club), disegnate originariamente per l’adattamento cinematografico di Fahrenheit 451 per la regia di Mel Gibson, che non è stato più girato. La fotografia di Janusz Kaminski (premio Oscar per Schindler’s List e Salvate il Soldato Ryan) e i movimenti fluidi di camera si muovono negli edifici claustrofobici, ma ci fanno apprezzare a pieno le innovazioni del prossimo mezzo secolo.

Come al solito Cruise rimane garanzia di qualità, soprattutto nei ruoli più atipici nei quali si cimenta ultimamente, ma è affiancato dagli emergenti Colin Farrell e Samantha Morton (la Precog Agatha), e dal bravo Max von Sydov.

Il punto forte del film rimane la sceneggiatura forte e stabile che ci introduce con praticità e con normalità un mondo che non ancora conosciamo, ma che al termine del film giudichiamo come la giusta conseguenza dell’attuale processo di evoluzione tecnologica ultimamente in corso. La storia del film è rappresentata da due filoni narrativi principali: l’evasione di Anderton dagli agenti federali, che rappresenta la parte d’azione del film, mai schiava degli effetti speciali (deliziosamente geniale la scena dei ragni spia), e la risoluzione di un omicidio che è passato inosservato alla Precrimine. Tutto si intreccia con altre microstorie anch’esse essenziali alla comprensione del film. E quando proprio si pensa di essere di fronte ad un thriller incomprensibile girato da un regista che non è quello giusto, tutto si spiega nel finale che fa luce su ogni dubbio che lo spettatore possa avere avuto.

La narrazione di Spielberg è ben presente e riconoscibile in alcune scene, grottesche nella loro ironia, e nell’happy ending, che sinceramente sostituisce un finale che doveva essere un po’ più opprimente e che, una volta tanto, doveva lasciare allo spettatore un po’ di amaro in bocca. Per riflettere.

 

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