MAGNOLIA [MAGNOLIA, 1999]

Una giornata tipo nella San Fernando Valley di Los Angeles. Undici personaggi, almeno una decina di vicende, fatte di rapporti e di persone. Infinite storie, tutte destinate ad incontrarsi, in modo diretto o indiretto. Più che un puzzle, un’autostrada fatta di esistenze: dove ogni strada è una vita. Undici vite disperate che si incrociano, si incontrano, si scontrano, si intrecciano, si staccano, si evitano e si condizionano l’un l’altra.

La Los Angeles di Tarantino è quella delle periferie, quella di Mann in Heat – La Sfida è quella delle zone industriali, la Los Angeles di Paul Thomas Anderson per Magnolia è quella delle noiose villette a schiera identiche, delle larghe strade vuote della San Fernando Valley, dei numerosi distributori. La stessa San Fernando Valley che il giovane regista ci ha mostrato in Boogie Nights – L’altra Hollywood; l’altra Hollywood, appunto: quella dell’industria del cinema porno, dei quiz televisivi. Gli interni sono accoglienti, labirintici e rustici, con atmosfere dell’ultimo Kubrick di Eyes Wide Shut. Pareti dove s’infrangono le note delle canzoni di Aimee Mann.

Magnolia è un dramma grandioso, maestoso, lungo (2 ore e 59 minuti) e opprimente. Un dramma che si concentra sulle problematiche della famiglia e dell’esistenza: la morte, il tradimento, l’abuso, l’adulterio, il maschilismo, la malattia, il perdono, il rapporto padre-figlio, le relazioni. Resta comunque un’opera sublime, calda e delicata, con grandi interpreti e un grande cast: commovente Julianne Moore, innocente Philip Seymour Hoffman, viscido Tom Cruise (candidato all’Oscar e vincitore del Golden Globe). Tanti attori, nessun protagonista. Grandiose interpretazioni, destinate a non spiccare e a emergere dallo stesso piano in cui sono adagiate le diverse storie di Magnolia. Tante vite, nessuna più importante delle altre.

E nel bel mezzo del film, prima della grande risalita, quella scena così surrealista nella quale il cast canta Wise Up di Aimee Mann: ciascuno con la propria strofa, con il proprio commento alla vita. Una piccola anticipazione surrealista alla pioggia di rane, a segnare quel punto di non ritorno, quel punto dal quale bisogna muoversi.

E come queste storie si snodano, si evolvono e crescono, lo spettatore è colto da un senso di smarrimento, solitudine, pessimismo e ansia. Due ore opprimenti dove manca il fiato. E poi la risalita, dopo aver toccato il fondo. Quella risalita che è inevitabile, perché più in fondo non si può scendere. E poi quella pioggia di rane su Los Angeles. Quella scena così insolita eppure così giustificata, così biblica. «Aronne stese la mano sulle acque d’Egitto e le rane uscirono e coprirono il paese d’Egitto» (Esodo 8,2): e quando l’acqua dal cielo non basta a placare il male dell’uomo, cadono rane. E mentre un bambino commenta: «Succede. Sono cose che possono capitare», il narratore cerca di convincersi che «non si tratti un puro caso» e che «cose simili, accadono di continuo» e ancora una scritta in un quadro ci rivela «ma è successo veramente.»

E poi, la quiete dopo la tempesta; quella sensazione di vuoto e di chiarezza, di pace e pulizia. Quel momento in cui si può solo sperare e guardare avanti, nonostante il libro dica: «noi possiamo chiudere i conti col passato, ma il passato non li chiude con noi.»

 

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