COLLATERAL
[COLLATERAL, 2004]
Max. Autista di taxi da 12 anni. Ma è un lavoro provvisorio, dice lui. Il suo sogno è Island Limos, la sua compagnia di
limousine. Ma è troppo indeciso per provare, troppo
impaurito per chiamare Annie Farrell,
avvocato affermato che gli ha lasciato il suo biglietto da visita. Lui pensa
troppo. Lui si dispiace troppo.
Vincent. Killer professionista. Uno di
quelli per cui il lavoro è sacro. Preciso. Deciso.
Sicuro.
Los Angeles. Una notte. Un aeroporto. Un taxi. Vincent incontra Max.
Vincent deve uccidere cinque persone. Max deve
accompagnarlo.
La cinepresa di Michael Mann segue i due personaggi nel loro percorso, cattura una
città luminosa, pulita e deserta. Primi piani stretti e claustrofobici sui personaggi, larghi e puliti per la città.
L’obiettivo nelle scene nel taxi non è mai perfettamente fermo.
Girato quasi interamente in digitale, le luci sono allo stesso tempo realistiche e suggestive, effetto
difficile da rendere con le normali apparecchiature, riservate solo per alcune scene
di interni.
Il genere è sempre quello, ma viene
stravolto dalle interpretazioni di Jamie Foxx e di Tom Cruise;
quest’ultimo riesce a dare al personaggio del killer
una personalità schietta e semplice, che rovescia gli stereotipi del normale
“cattivo”. Vincent non è crudele, non è malvagio, non
ha subito violenze infantili che lo spingono a fare quello che fa: è
semplicemente un lavoro, e lui non può permettere che qualcuno si intrometta, come tenta di fare Max.
Max è uno di quelle persone che non ha mai rivoluzionato la propria vita, non
ha mai avuto il coraggio di fare le cose più banali. Tra i personaggi si
sviluppa un rapporto di amicizia e di scambio: Vincent con la sua solita semplicità mette in discussione
tutte le convinzioni di Max, lo porta all’estremo, lo costringe a reagire, a
dire qualche vaffanculo in più. Riesce anche a trovare il tempo per mettere in
ridicolo le teorie esistenziali dell’individuo come un punto solo
nell’universo.
Un film ironico, con qualche battuta sarcastica, ma che
non deve far ridere, ma deve essere utile a definire i personaggi e la loro
singolarità.
Il film inizia con un ritmo quasi assente e anche quando
procede non acquista mai una trama stabile e tradizionale. Un piccolo gioiello
di tecnica e di emozioni è la scena in cui due coyote
attraversano la strada deserta di Los Angeles osservati dai due in fuga sul
taxi. La musica si sospende, il rumore si sospende, e i due coyote che iniziano
ad attraversare mentre comincia Shadow On The Sun degli Audioslave a tempo
con lo zampettare degli animali. E’ una scena magica, che sembra voler
affermare la temporaneità della città nella natura, sempre pronta ad essere
inghiottita da ciò che vi era prima, che non se n’è
andato e che sembra rimanere in attesa del momento giusto.
Con un finale che non si riesce proprio ad immaginare,
solo alla fine ci si accorge della suo ovvietà. Un
film che vanta di un’ottima regia e di una buona idea
di base che lo discosta dalle attuali produzioni americane, oramai per la
maggior parte povere di idee e orfane di inventiva.
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