THE AVIATOR [THE
AVIATOR, 2004]
Leonardo Di Caprio è Howard Hughes: l’uomo che fin da
piccolo si propose di diventare «il miglior pilota del mondo, il miglior
regista del mondo e l’uomo più ricco del mondo.» E,
per certi versi, ci riuscì: regista dei film Angeli dell’Inferno, le cui scene di aviazione
risultano tuttora insuperate dal cinema, e Il
mio corpo ti scalderà, western censurato e posticipato a causa del seno di Jane Russell, troppo prominente
per l’epoca; produttore cinematografico; aviatore: fondatore della Hughes Aircraft, progettista di
aerei che batterono tutti i record di velocità e grandezza, a causa dei quali
si trovò a scontrarsi con la Pan Am Airlines, la compagnia che deteneva il monopolio dei voli
in tutti gli Stati Uniti. The Aviator
racconta tutto questo e non solo in una spaccato della
sua vita, soffermandosi sulla figura dell’uomo più potente della Fabbrica dei
Sogni del suo tempo, sulle sue relazioni con le stelle più famose, sulle
ossessioni per l’igiene e sulle manie di perfezione e grandezza.
Martin Scorsese
ritrae la Hollywood nei suoi decenni di splendore e
più in generale l’America capitalista (Metro Goldwyn Mayer, Warner, Pan Am, TWA sono solo alcuni nomi delle major della
distribuzione cinematografica e delle linee aeree che vengono nominate), delle
quali la figura di Howard Hughes
è la perfetta condensazione. La sceneggiatura di John
Logan è grande, eclettica, ambiziosa, ma ha il merito
di saper orchestrare tutti gli elementi che un film biografico su una persona come
Hughes propone e di saperli combinare senza che il
risultato sia solamente una successione di fatti e avvenimenti: tanti gli
aspetti presi in considerazione, tutti ben sviluppati e completi. Le scene di aviazione sono girate con una maestria degna di Hughes stesso, la Hollywood dagli anni ’20 ai ’40 è
splendidamente viva nelle scenografie di Dante Ferretti (un lavoro stupendo è
svolto nella ricostruzione del Cocoanut Grove, con gli arredamenti di Francesca Lo Schiavo), nei
costumi di Sandy Powell e
nella fotografia di Robert Richardson,
decolorata al computer nella prima parte del film, per segnalare il passaggio
dal bianco e nero al technicolor.
Ma il merito di tutto questo non va solo ad un grande come
Scorsese, ma va soprattutto al suo primo attore
Leonardo Di Caprio, che condivide col regista non
solo le origini italiane, ma anche altre collaborazioni (Gangs of New York del 2002 e The Departed già in buona fase di preproduzione),
che ottiene un’ennesima consacrazione in uno degli
ruoli più difficili di tutta una carriera, in cui persino i grandi attori più
sopravvalutati a fatica riescono: è perfetto nel rappresentare l’ambizione,
l’ossessione e la follia di un uomo dai grandi sogni; è sempre genuino ed è un
piacere vederlo recitare.
Accanto a Di Caprio,
unico vero protagonista, si fanno spazio anche altri attori che interpretano le
stelle di Hollywood con cui Hughes ha avuto numerose
relazioni: la fin troppo sottovalutata Cate Blanchett è un’estroversa Katherine
Hepburn, il grande amore di Howard,
e Kate Beckinsale è Ava Gardner, «l’animale più bello del mondo», grande amica più
che compagna; Alec Baldwin
è Juan Trippe, presidente della Pan Am e John C. Reilly
è Noah Dietrich, agente di Hughes. Jude Law
e Gwen Stefani sono
rispettivamente Errol Flynn
e Jean Harlow in due cammeo.
Ennesimo film biografico della stagione e uno dei favoriti
agli Oscar con 11 nomination (non è una sorpresa, dopotutto è un film americano
sull’America), The Aviator è proprio
come Howard Hughes:
ossessivo, roboante, cacofonico, compulsivo,
pretenzioso e ambizioso - a tratti sembra un film fatto da un grande regista
per il regista stesso; e se da un lato tutte queste sue caratteristiche mettono
a tacere la critica con la sua quasi-perfezione,
dall’altro sono proprio queste a rendere il film difficilmente apprezzabile dal
pubblico, che potrà trovarlo lungo e pesante, a causa forse di un soggetto non
comune. Un film che, a seconda del parere di chi lo
osserva, diventa tanto attaccabile quanto apprezzabile, tanto deludente quanto
capolavoro, dove la linea che separa i difetti dai pregi è veramente sottile,
talvolta (fin troppo) invisibile.
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