Questa recensione è stata scritta da Alex Adami ed è apparsa sul sito "Rockstar" (www.rockstar.it)

Per quale motivo mai qualcuno dovrebbe comprare il disco dei Matchbox 20, quando esistono già Hootie And The Blowfish?
A un primo ascolto, infatti, i Matchbox sembrano solo dei ritardatari rispetto a chi, come Hootie, ma anche Counting Crows, e prima di loro Spin Doctors o Gin Blossoms, ha riscoperto un certo mainstream rock che la tempesta grunge sembrava aver cancellato dal codice genetico delle ultime generazioni americane. Il parallelo con Hootie, tuttavia, è suggestivo solo per una serie di circostanze piuttosto superficiali, non ultima la sorprendente somiglianza nel timbro vocale dei due lead singer.
Ad un esame più approfondito, ci si rende invece conto che a vendere otto milioni di copie avrebbero dovuto essere i Matchbox 20, in virtù di un rock più profondo, articolato, giocato su cambi di ritmo, interruzioni, intermittenze e interferenze. Un rock certo meno facile, per i temi trattati, e per un certo istinto dissimulatorio, che rende tutto finalmente imprevedibile. Nel dna della band ci sono Springsteen, Dylan, Neil Young, ma anche certi cantautori americani dalla poetica meno convenzionale, che le giovani band d'oltreoceano sembrano aver dimenticato: Tom Waits, Randy Newman, Leonard Cohen. Nientemeno.

Alex Adami
da Rockstar (www.rockstar.it)