INTRODUZIONE



Il presente saggio intende trattare, come annunciato dal titolo, del problema della storia e del mistero del tempo così come sono tracciati nell'opera di Ernst Jünger, seguendo la peculiare maniera in cui questi due ambiti problematici e concentrici di pensiero si trovano riflessi nel massiccio corpus di una produzione lunga poco meno di un secolo.
Il merito della sua essenziale riflessione non risiede esclusivamente nell'alto valore di una diagnosi del tempo presente come poche altre lucida ed incompromissoria, che rende, ad esempio, il suo capolavoro del 1932, Der Arbeiter, uno dei pochi imprescindibili punti di riferimento per ogni successiva analisi del nichilismo occidentale, (e fra queste in primis quella di Heidegger), ma anche, e soprattutto, per avere essa indicato una diversa possibilità di futuro, un differente modo di radicamento anche nel tempo dell'ultima estrema accelerazione storica, preludente ad una sua necessaria trasformazione.
Il nostro tentativo di ricostruzione di questo pensiero così poco 'sistematico' e per altri versi, persino poco 'filosofico' in un'accezione strettamente accademica del termine, imparentato com'è più alla grande tradizione sapienziale dell'umanità che alle esasperanti sottigliezze di un certo pensiero astrattizzante, si è appuntato in modo particolare (ma non esclusivo) su testi di natura formalmente eterogenea ma sostanzialmente unitaria quali, oltre gli inestimabili diari, un'opera di divulgazione erudita com'è Das Sanduhrbuch (1954), il sostanzioso saggio del 1959 An der Zeitmauer, ed il più tardo (1978) 'romanzo' Eumeswil, ove è possibile rinvenire le più dirette testimonianze del rapporto di Ernst Jünger con il tempo.
Nella prima parte del nostro lavoro si prenderanno in esame le diverse modalità storiche di misurazione del tempo segnalate dai differenti strumenti che, di epoca in epoca, hanno fissato, attraverso una simbolica a cui Jünger si dimostra estremamente sensibile, i variegati rapporti intrattenuti dall'umanità con il più profondo dei misteri.
E' l'appiattimento ad una mera funzione regolativa del lavoro, ad una semplice convenzione normativa - di cui un pianeta sempre più inquieto e squassato dalla velocità delle sue operazioni ha bisogno - che segnala a Jünger la svolta epocale seguita all'apparire del primo orologio ad ingranaggi. Questo introduce il tempo uniforme, planimetrico e de-sacralizzato delle grandi realizzazioni storiche che, giunte al termine di un abnorme dispiegamento di energia, non trovano più alcun principio de-limitante né al proprio interno, né in un 'esterno' che hanno progressivamente inglobato nel segno del trionfante mito del progresso.
La storia intesa come principio sistematizzante delle vicissitudini umane, perde la sua presa sotto la spinta di una trasformazione irriducibile ai concetti tradizionalmente storici di cui si è servita; essi non corrispondono più, nella descrizione, a quel magmatico ribollire di eventi nuovi e per certi aspetti ancora sconosciuti da cui è travagliato il presente.
Da qui l'annuncio di un'epoca meta-storica che ha acquisito finalmente consapevolezza dell'impossibilità di risuscitare, sotto la spettacolare maschera dell'artificio tecnologico, l'immarcescibile illusione progressiva e che si prepara ad affrontare il contraccolpo di un secolare sfruttamento della Madre Terra. Il tempo lineare-progressivo si apre dunque ad una considerazione ciclico-ritornante, dal cui segreto alveo promanano da sempre "figure identiche, possenti e profondamente fondate", la cui forza è attestata non solo da tutte le grandi religioni ma anche dalla dis-misura archetipica del "nuovo titano"; l'Operaio.
Nella seconda parte, terminata la ricognizione delle macerie della storia, esaurita dunque la 'dinamica' del pensiero di Jünger, ci inoltreremo, per così dire, nella sua 'statica', sino a lambire il punto archimedico di tutta la costruzione. Il "centro immobile del movimento" si configura qui come la conditio sine qua non del tempo, l'a-temporale che lo regge e lo governa in ogni sua più disparata manifestazione, coglibile esclusivamente tramite un'intuizione mai pienamente dispiegata nell'intelletto razionale.
E' attraverso l'intima certezza di appartenere a questa dimensione prima ancora che al dominio temporale in cui hanno senso le cose, che l'uomo potrà forse resistere all'avanzata del deserto del nichilismo e alla crescente povertà metafisica di chi, come vide Hörderlin, non sa neanche più di cos'è povero.


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