torna alla home page

Simbologia Mariana

Panselinos  Volto di Maria

 


 

il simbolo

Il nome  Maria 

I simboli e la rosa

 Maria Rosa Mistica

 

Maria giardino chiuso

Torre di Davide

 Maria sede della Sapienza

 

 

 

 

 

 

 

LA  PAROLA  E  LE  PAROLE

 

Che cosa rappresenta per me l’universo? Dalla risposta dipende la qualità della mia vita. Un conto è non vedere al di là del proprio naso,  altro è spaziare nelle pure atmosfere infinite. Parlo, sia chiaro,  di anima, non   di geografia. Spazia chi si sente cittadino del mondo intero,  chi dialoga con le lontane galassie e ha risposte, chi interroga i fiori del sentiero. Costui vive di intuizioni,  dà senso alla propria esistenza e  ritrova il messaggio di mille parole sconosciute. Purtroppo la nostra comprensione scientifica – benedetta la comprensione scientifica, però – ha disumanizzato il mondo. L’uomo si sente isolato nel cosmo perché ha perso il suo legame con la natura. Tutto è diventato muto: pietre, piante, animali, aurore e tramonti. L’attività razionale per molti, di fatto, ha comportato la distruzione di quella emotiva, fonte della vita. Sentimento e intelletto possono convivere meravigliosamente, ma talora si smarrisce la via per arrivarci.

Pensavo a queste o a simili cose, il momento in cui mi sono raccolto per elaborare alcune idee circa il  modo di intrattenermi sulla Vergine Maria. Mi dicevo: può intuire e capire meglio la religione e  la Nostra Madre celeste solo chi è disposto mentalmente a creare contatti tra una parola e l’altra, a instaurare  richiami  fra immagini, a uscire dal suo pragmatismo.

Esiste infatti un termine che esprima tutto di Dio o di Maria? Le Scritture, la liturgia, le preghiere litaniche, le arti figurative e plastiche raccolgono un’enciclopedia di parole e di figure che ci avvicinano, senza mai raggiungerla pienamente, alla loro conoscenza.

Ecco allora il significato del titolo:  una parola o  un’immagine porta in seno un aspetto di mille altre parole o  immagini. Il nostro linguaggio è una cascata: genera  di volta in volta  evocazioni e collegamenti. Beato chi li scopre e li vive.

Ognuno comprenda bene dove mira il discorso: a rendere un po’ più manifesto, prima di illustrare qualche titolo di Maria, a che cosa si riduca la capacità di instaurare mutui richiami fra quelle che ho chiamato «parole», ma che meglio dovrei definire  «simboli». Sono questi, i grandi unificatori del creato.

 

Senso letterale del termine « simbolo».                  

Gli Antichi si servivano del simbolo quasi fosse una carta d’identità. Quando amici personali o soci d’affari, creditori o debitori, pellegrini o persone reciprocamente legate fra loro dovevano partire, se necessario, spezzavano in due parti un oggetto di legno o di argilla o di metallo: un’immagine, un anello, un dado,  l’impronta di un sigillo… Ognuno ne prendeva una. In qualsiasi momento, potevano riconoscersi o  riconoscere i propri inviati ricomponendo il tutto, margine a margine. L’oggetto riacquistava così il suo significato e la sua forma originaria. Questo è il simbolo. Sembra un espediente banale, ma già contiene le implicazioni fondamentali: la separazione e la ri-unificazione.

Specificità del  simbolo.

Il senso letterale di «simbolo» è di  «messo insieme» e lo deriva dal greco «sumballein» (gettare insieme). È ciò che dovremmo essere: gli uomini,  secondo  Platone (Convito 189-93), si amano perché, all’origine, sono stati tagliati in due dalle divinità gelose e, da allora, ognuno va alla ricerca della propria metà smarrita; facilmente sentiamo in noi la necessità di comporre divisioni interne; i primi cristiani hanno sentito il bisogno di raccogliere in un Simbolo, detto degli Apostoli, la somma delle verità da professare e l’esigenza di unire la terra e il cielo.

Questa attività di ricomposizione appare indispensabile. Luca (2,19) si avvale del medesimo termine per significare che  «Maria custodiva tutte queste parole collegandole insieme in cuor suo». Non solo indispensabile ma anche assolutamente decisiva, se il termine «Diavolo» (dal greco  «diaballein») dice proprio il suo contrario: dividere. Il simbolo ricollega il diviso, il diavolo persegue la divisione dell’unito.

Attività simbolica.

Finora siamo rimasti però solo al margine del problema. Occorre capire in che cosa consista il simbolo senza scambiarlo con l’attività simbolica. Mi appello all’esempio della vettura: perché possa funzionare occorre l’intervento della benzina-energia, della struttura materiale (carrozzeria, gomme, comandi…) e dell’attività umana. Quando le tre componenti esercitano contemporaneamente le loro funzioni, allora si può dire che  la macchina raggiunge il suo intento: lo spostamento da un luogo all’altro.

Più o meno le cose stanno così anche per noi:

·        diciamo «attività simbolica» l’insieme  dei processi psichici determinati dall’interazione di energia vitale (quanta ce ne  ha data il Buon Dio!), organismo psicho-fisio-biologico e  Io cosciente;

·         diciamo «simbolo» l’esito di questa interattività: una parola,  un’immagine, un quadro, un qualsiasi oggetto, ma parola,  immagine, quadro, oggetto investiti di senso mai definitivo. Può essere solo intuito perché continua a rappresentare qualche cosa di inesprimibile.

Il ricorso alla macchina però non dice tutto.

·        Noi, (almeno gli esperti), la possiamo conoscere totalmente perché ogni parte è ben verificabile. Non altrettanto la persona umana nelle sue componenti di energia vitale (inconscio), razionalità (conscio) e aspirazione al trascendente ( in tutte le sue accezioni: Dio, verità, bellezza, giustizia...). Il simbolo lega proprio questi diversi piani dell’unico edificio che è la persona. Ciò che la ragione, soggetta ai principi della logica classica (identità, non contraddizione, terzo escluso), non può raggiungere, è suggerito dalla fonte della vita (inconscio collettivo e personale) e codificato provvisoriamente nel simbolo. Viene elaborata così dalla persona totale (conscia e inconscia) una risposta alle esigenze del presente. Il sogno può essere un caso; l’arte, la rivelazione religiosa, il culto, la poesia, la musica, la contemplazione dell’universo… sono altri casi. È l’attività che definiamo simbolica proprio nel senso prima descritto di riunificazione. Non svela il mistero ma lo rende sempre più manifesto a coloro che intendono decifrarlo. È idea intuitiva che non può essere ancora formulata altrimenti o meglio, ma che si trasforma in superamento del contingente e del puramente materiale.

·        Una precisazione circa il simbolo. Può essere morto o vivo:

o       come termine dell’attività simbolica è solo  una conclusione di sinergie. Il quadro, la statua, il sogno rappresentano l’esito di un’operazione avviata dall’insorgere di esigenze personali piacevoli o spiacevoli. Sono il risultato finale, anche se non concluso. Restano, di per sé, simboli morti, dei segni compiuti, ma solo segni.

o       Conservano la loro natura di simboli vivi  solo se continuano a suscitare nell’autore o nel fruitore  una nuova tensione che  lo sospinga al raggiungimento di ulteriori e più elevati significati. Il che avviene se l’individuo reinveste nuova energia inconscia nel suo operare. In questo caso il simbolo:

·        suscita tensione invece di annullarla,

·        crea una spinta in avanti, proponendo aperture progettuali,

·        si protende verso un equilibrio che rimane costantemente al di la di esso,

·        si fa metapoietico, cioè trasformatore, unificando tutto il mondo in un atto di ri-creazione e di pienezza, nella ricerca di un’inarrestabile e mai raggiunta partecipazione al tutto. È «fare anima», dice James Hillman,  l’unica condizione indispensabile perché una parola richiami altre parole, un’immagine evochi altre immagini, un singolo oggetto si faccia manifestazione del tutto. E non si dica che in tal modo si  diventa delle  libellule ballerine quasi che l’attività simbolica  obblighi a torcicolli spirituali,  a spostare continuamente lo sguardo da una immagine all’altra. Ben  lontano. Chi fa questa esperienza vive la mobile staticità della vita trinitaria, il movimento nell’unicità. Contemplare Maria significa vedere in Lei, sempre eguale a se stessa, le varianti di ogni epiteto che  le si attribuisce.

Il simbolo mariano.

Prima di chiudere, necessita il ritorno al punto di partenza. Mi dicevo che solo chi spazia nell’infinito universo, può accostarsi alla conoscenza simbolica di Maria (e di qualsiasi altra entità).

Costui vede tutta Lei in ogni immagine e crea un numero sempre maggiore di immagini per meglio comunicare con Lei.

Ultime brevi  riflessioni:

·        non mi permetto, né sarei in grado, di elencare  tutti i simboli di arte o di parola con cui Maria viene rappresentata. Basta  sfogliare i testi scritturistici, le litanie, i poemi, oppure visitare le chiese e i musei del mondo,

·        molti sono i  simboli che illustrano la Madre nostra,

·        ma la Madre nostra può essere essa stessa un simbolo. Come tale, senza escludere il suo ruolo sovrannaturale, si fa educatrice anche attraverso ciò che essa rappresenta. Vivendo un vero  rapporto con lei, l’uomo può integrare in se stesso il femminile e maturare la sua individuazione, mentre alla donna è permesso di raggiungere lo stesso scopo identificandosi  nella  di Lei funzione materna.

·        Condizione indispensabile: contemplare tutte le immagini come dei simboli viventi e non solo come dei segni. Ciò obbliga a mettere in moto tutti i meccanismi del simbolo: energia inconscia e conscia, prestazione sensibile e attività dell’Io.

·        Rimane un ultimo punto: come sfruttare l’energia inconscia e perciò creare simboli? La risposta esorbita dal nostro contesto. Lo si può fare altrove. Dico solo:

o       una personalità ben funzionante sempre ha a disposizione questa energia che mira al superamento dei condizionamenti razionali,

o       quando non ci fosse, non è che non esista, ma semplicemente è imprigionata e non può esplicarsi. La cosa si rende evidente  quando emergano disagi del sistema nervoso. Dirne la causa, è ancor più estraneo al nostro lavoro. Ci obbligherebbe a discutere perché singoli individui abbiano racchiuso in casseforti di acciaio tutta o parte dell’energia inconscia, piuttosto che dispiegarla in  spazi infiniti.

 

«Sono la forza di fuoco che accende tutte le scintille viventi,

vita di fuoco che proviene da Dio; ardo sopra la bellezza dei campi,

splendo sulle acque, fiammeggio nel sole, nella luna e nelle stelle,

volo insieme al vento nell’aria, vita invisibile che sostiene tutte le cose…

 Io sono la Ragione che è nel vento della parola risuonante

 e attraverso la quale è generata ogni creatura…

Io sono la vita integra, non separata dalle pietre, non recisa dai rami». 

Hildegard von Bingen (XII sec.)

 inizio

 

 

UNA DONNA  CHIAMATA MARIA 

 

Il nome

Il suo nome, di Maria, naturalmente, sia il nostro inizio.  Per un motivo ben evidente: esso non può ridursi ad una semplice etichetta, non è considerato come la somma di qualche vocale in mezzo a sporadiche consonanti. Ha un senso, instaura una misteriosa identità con chi lo porta fino a farne un surrogato della persona. Insomma,  la definisce. Gli antichi ne facevano un segno  augurale. «Respondent saepe nomina rebus», dicevano.

Panselinos, Grecia sec. XIV

 

Diventa ciò che sei. Imponilo ai tuoi figli perché le tue qualità persistano nei tuoi discendenti. Ti chiami Gregorio? Sii sempre sveglio. Oppure sei Pietro? Abbi la forza della roccia. Se poi sei Maria, sai quale modello ti si pone dinnanzi. Del resto, perché celebriamo il nostro giorno onomastico se non per accedere ai buoni auspici del nostro primo  apparire in mezzo agli uomini? Nei riti magici addirittura è usato come strumento di influsso. Conferisce autorità e potere. Sapere il nome della persona o della cosa significa possederne qualche dominio.

Il nome nell’A.T.

Nell’Antico Testamento,  quasi tutti gli appellativi avevano un significato: Adamo valeva per «umanità», Mosè per «salvato dalle acque», Merìba per «contesa», Massa per «tentazione»…

Il nostro Progenitore, dando il nome agli esseri viventi, ne diventa signore e padrone. (Gen, 2, 20)

Il nome di Dio riassume tutto il significato e la potenza della sua natura: della creazione, delle opere di salvezza. Egli è il suo nome, è presente dove il suo nome è  pronunciato: nel tempio, nei cieli, in Sion (Is 18,7), in Silo (Ger 7,12), nei profeti che parlano al posto suo. «Sia santificato il tuo nome», ripetiamo sovente.

Conoscere il nome di  Dio è sperimentare tutta la realtà che rappresenta, è imparare che «Egli è».

Gesù, prima della sua morte, si limita a riassumere tutto in: «Padre, glorifica il tuo nome». (Gv 12,28).

Il nome di Maria

E il nome di Maria? Non rappresenta, come quello di Dio, la somma di tutte le virtù? Virtù di una creatura, ben inteso ma quale creatura! Capace di suscitare in noi l’innumerevole serie di simboli  che la rivelano a noi e di cui noi possiamo servirci per diventare come lei.

A seconda  delle radici semitiche alle quali i filologi la fanno risalire - già  nel XV-XIV sec. a.C. è documentata su una tavoletta di Ugarit la radice  mrym - Maria potrebbe significare «ribelle», l’«amara», la «forte», «colei che si innalza» o che «è innalzata», oppure ancora «profetessa» o «Signora».

Dall’egiziano mrit  deriverebbe il significato di «amata» (sembra il più celebrato); dall’ebraico Miryam o marah, quello di «mare amaro», «amarezza», «dolore»; dal siriaco mâr, «signora», «padrona»; dall’egiziano ed ebraico or, «essere luminoso», «stella del mare». Sant’Eusebio professa: « Maria  è detta «Stella del mare» perché innumerevoli stelle ha il cielo, il mare una sola e questa è la più luminosa di tutte».

Gli fa eco San Gerolamo il quale deriva dall’ebraico mar  yam   («goccia di mare»), il latino Stilla maris, da cui poi il poetico Stella maris, «stella del mare» (= stella polare).

La tradizione cristiana viene ulteriormente ampliata. Ecco qualche espressione:

·        Nel suo Trattato della vera devozione,  Luigi Grignon di Montfort scrive ( (n.23): «Dio Padre fece una riunione di tutte le acque che chiamò «mari»  (latino:  mària): fece una riunione di tutte le grazie che chiamò «Marìa». E prosegue: «Questo gran Dio ha un tesoro o una miniera ricchissima, in cui racchiuse tutto ciò che vi è di più bello, di splendido, di raro, di prezioso, perfino il proprio Figlio; e questo tesoro immenso non è altro che Maria, che i santi chiamano Tesoro del Signore, della cui pienezza sono arricchiti tutti gli uomini».

·        Sant’Antonio da Padova esalta  «il nome di Maria  gioia nel cuore, dolcezza nella bocca e melodia nell’orecchio».

·        Riccardo di San Lorenzo aggiunge: «Il suo nome è una torre munitissima. Il peccatore da lei trova rifugio e per lei la liberazione».

·        Concludo con l’Imitazione di Cristo: «Questa breve invocazione, “Gesù e Maria” è facile a ricordarsi; dolce a meditarsi; validissima per essere protetti».

 

Mi piace citare anche l’abate Giovanni Caramuele. Chi era costui? Un poliglotta che sapeva far di tutto, un Vescovo morto a Vigevano nel 1682, nato a Madrid 76 anni prima, autore fra l’altro di un Maria Liber  (Praga 1652) in cui viene registrato il  «Discorso sul dolcissimo Nome di Maria per anagrammi». Non mi è difficile riportare le differenti manipolazioni del nome «Maria». È fanatismo retorico? Proprio, no. È manifestazione di entusiasmo interiore (energia inconscia) che si accontenta di un minimo segno per vedere in esso, tramite assonanze, dissonanze, vicinanze, comunanze l’occasione di liberare tutta la tensione interna centrata sulla cosa o persona amata. Come il fuoco, coinvolge tutto ciò che incontra. Del resto, nell’Antico Testamento, simili procedimenti sono ben documentati.

Ecco i suoi anagrammi, i giochi enigmistici che consistono nel mutare la posizione delle lettere  della parola «Maria». Se ne derivano sensi diversi,  ma tutti riconducibili simbolicamente al termine di partenza.

·        Maria = Amari, infinito passivo del verbo latino «amare» o genitivo maschile singolare di «amarus». Maria equivarrebbe allora a «essere amata» o a «Maria dell’Amaro» (cioè, di Gesù), perché nessuno più di Gesù soffrì tormenti e dolori tanto amari.

·        Marìa  = Mària, cioè mari, Oceano, perché come tutti i fiumi si riversano nel mare, così tutti i rivoli di pianto degli uomini, se dalla valle di lacrime fluiscono verso  Maria, sono visti e presi in considerazione anche da Gesù.

·        Maria = A Rami,    dal (frutto cioè, Gesù) del ramo ( cioè la croce).  Gesù, fin dal seno materno, nutriva il forte desiderio della sua passione. A Maria era, per così dire, appeso come alla sua croce. È legata quindi strettamente a lui.

·        Maria = A mira, A mari  = da mirabile, dal mare,  ammirabile perché salvata dal mare, cioè dalla corruzione del peccato originale.

·        Maria = I  arma, corriI» è imperativo del verbo latino «andare») alle armi.

·        Maria = I  aram, va all’altare. Maria è considerata come l’altare che ha formato la Vittima per il sacrificio.

·        Maria = Mi ara (altare), Mihi ara cioè  per me sii altare.

·        Maria = Mi ara (imperativo del verbo «arare»), Mihi  arato (imperativo del verbo «arare»),  cioè  per me arerai. Questo il significato: tu non sei solo contemplativa come Maria sorella di Lazzaro, ma sei anche attiva nell’opera della redenzione di Gesù.

·        Maria = Ramia. Al tempo dell’autore, Ramia era uno dei dieci regni appartenenti alla corona ungherese, occupato dalle armate mussulmane. Maria, invocata, libererà i popoli da ogni servitù e eresia.

·        Maria =  A rima (che significa: «fessura, fenditura»). Il significato allora suonerebbe così: «Per la fenditura, per la fessura». La porta del cielo, Maria, anche se si chiude lascerà una fessura per potervi penetrare.

·        Maria =  A mari, cioè dal mare. Maria in cielo è per noi Aqua  e Unda. I giochi di parole e le evocazioni si fanno sempre più ardite. Sfruttando la possibilità di dividere il termine «aqua» in «a-qua» e di passare da «unda» a «onde» si vuole alludere al seguente privilegio: Maria è colei a-qua, cioè dalla quale riceviamo le grazie, ed è Unda (onda) cioè colei  onde abbiamo ragione di ben perseverare.

 

Tutto questo per i più potrebbe ridursi a pura astruseria. Ma che cosa ne pensano gli innamorati per i quali nulla si sottrae all’attività simbolica creatrice di incanti senza misura?

È vero che i nomi vivificano la persona, ma è più vero ancora che solo l’amore per la persona è capace di creare dei nomi viventi.

Ricondotto al suo significato  fondamentale, al di là del  lessico, che cosa significa il nome di Maria?

·        Quando Dio ha inviato il suo Angelo a Nazaret, non gli ha imposto di chiamarla con il nome dato dagli uomini, ma di ricorrere a «Piena di grazia» (Lc 1, 28), la ricca di tutti i favori celesti e umani. Forse solo a partire di qui possiamo dare libero corso  alla nostra invenzione. Lei è la piena di grazia ed insieme Colei che dà il suo assenso alla missione richiestale dall’alto: «Eccomi sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38).

o       Qui si radicano sia gli sviluppi liturgici dell’Ave Maria, sia le narrazioni evangeliche della nascita e dell’infanzia, fino alle speculazioni teologiche più tarde che offrono asserzioni dottrinali sulla sua persona, sulla sua funzione e sulla sua identificazione con la  chiesa di Cristo che per così dire genera sempre di nuovo da se stessa il suo  Fondatore al quale deve la propria esistenza.

 

o       Di qui prendono il via anche la contemplazione, la letteratura, l’arte, la mistica,  lo studio della S. Scrittura,  la devozione, la pietà degli uomini, la conoscenza e lo sviluppo di tutto ciò che la riguarda. Dirla «Vergine e Madre» è raccogliere in due parole la massima espressione di qualsiasi simbolo che  unisca cielo e terra, uomo e Dio, presente e futuro, peccato e salvezza, colore e parola, pietra e metallo, singolarità e fecondità, invocazione e immedesimazione.

 

·        E allora, la  Vergine e Madre di Dio, proprio per questa sintesi di verginità e di maternità, si fa anche simbolo per noi e  ci educa ai sentimenti di Dio:

o       rappresenta l’anima nella quale Dio concepisce se stesso e comunica, se accolto, la sua stessa fecondità;

o       indica la terra rivolta al cielo, già illuminata da Dio, luce dell’Oriente, varco verso la definitiva liberazione dalle tenebre;

o       per questo  si fa  modello e ponte tra il terreno e il celeste;

o       diviene anche testimone e attestatrice della fede, del riconoscimento credente e accogliente, della salvezza incondizionata, data come dono di grazia, effettuata solo da Dio.

Un piccolo esercizio?

Alfonso X, re di Castiglia (1252-1284), fu mecenate saggio e amante della Madonna. Invitò poeti a corte e raccolse  numerose  Cantigas de Santa Maria, sullo stile delle laudi umbro-toscane. Il numero speciale di Amadeus, nel mese di marzo, ne pubblica una con musica, su un compact, ma dimezzata perché il resto è andato perduto. Buona occasione per completarla noi a partire dalla nostra attività simbolica:

«Nel nome di Maria – cinque lettere vi sono, non più. – “M” significa madre e maggiore, - e inoltre mite, migliore – di quanto creò nostro Signore – o avrebbe potuto creare. – Nel nome di Maria - “A” significa avvocatessa, - aggraziata, adorata, e amica e amata – e di santissima compagnia. -  Nel nome di Maria…

  inizio

 

 

I simboli e la Rosa

 

«Chi potrà esprimere con parole quello che Dio fa loro sentire e desiderare?…Certamente  nessuno, nemmeno le anime stesse favorite dalle celesti comunicazioni. Esse potranno tutt’al più far uso di figure, comparazioni e similitudini per esprimere un po’ di quello che provano e dall’abbondanza dello spirito verseranno segreti e misteri, ma non sapranno mai spiegarli con ragioni». (Giovanni della Croce. Proemio del Cantico spirituale).

Non esiste peggior cieco di chi non vuole vedere. Eppure, c’è tanto da vedere!

Dopo la breve introduzione all’attività simbolica, reputo utile affrontare più concretamente la sua pratica.

Parto dalla rosa perché intendo poi parlare di Maria «Rosa Mistica».

Invito: mettiamoci dinnanzi ad una bella rosa, o ad una altrettanto bella riproduzione fotografica.

·        Senza pretendere di fare considerazioni filosofiche o razionali, la contempliamo nella calma, dopo aver allontanato altri pensieri, lasciandoci conquistare dalla sua presenza;

·        osserviamone la forma: essa è prima di tutto rotonda, ha un centro da cui si dipartono in modo ordinato i diversi petali, i quali formano una specie di coppa;

·        distinguiamone i colori, nei loro toni più decisi e nelle loro sfumature più variegate;

·        disponiamoci ad accogliere il profumo che emana senza accostare il fiore alla narice perché non abbia a sembrare che vogliamo depredarlo;

·        ripetiamo questa operazione a distanza di giorni premurandoci di applicarci, nei tempi intermedi, a leggere qualche cosa sulla rosa. L’attività simbolica non nasce del tutto spontaneamente. Ognuno percepisce la qualità e la quantità di immagini a seconda del suo bagaglio conoscitivo. Perché si svolga l’attività simbolica occorre continuamente dare nuovi imput, fino a quando, ben informati intellettualmente, ci è dato di librarci con grande leggerezza nel cielo dell’universo.

Se noi ci  dedichiamo con cura a quanto prima raccomandato, ci imbatteremo in un numero pressoché indeterminato di immagini che dilateranno sempre più il campo della nostra coscienza e quindi della nostra esistenza. Ci viene aperta la miniera nascosta cui attingere continuamente. Questa verrà ad affiancare l’attività razionale, che sempre, per conto suo, potrà applicare l’intelletto all’indagine scientifica della rosa già nota simbolicamente.

Che cosa ne deriva? Un pullulare di riferimenti che allargano sempre più la rete del nostro conoscere.

Dalla rosa che abbiamo dinnanzi agli occhi potremo passare:

·        alla ruota, al cerchio, al rosone, al vaso, alla coppa, al loto, al mandala, al nimbo, al sole;

·        alla qualità del profumo;

·        alla natura e intensità del colore;

·        alla presenza di un centro da cui si dipartono  i petali, radi o numerosi, ben carnosi o leggeri, dispiegati o accartocciati, vellutati o semplicemente spogli;

·        a tutte le circostanze in cui abbiamo avuto a che fare con questo fiore: chi ce lo ha dato, o a chi l’abbiamo dato, dove, come, quando (in un negozio, in un prato, in una festa, al tramonto, con quali sentimenti…).

Da queste prime impressioni, istruendoci debitamente e applicandoci alla vita simbolica costantemente, sorgeranno mille altri spettacoli di gaudio spirituale.

Intendo accennare brevissimamente ad alcuni di questi spettacoli. Mi atterrò a degli elenchi. Chi li pensa inutili o tediosi, si applichi subito ad altro. Chi invece, incuriosito, ha la pazienza di resistere sino in fondo, si stupirà di rendersi conto come da un semplice fiore gli sia permesso derivare considerazioni utili per rivitalizzare e dare senso alla sua esistenza. Noi viviamo in selve di simboli. Non è necessario porseli tutti davanti. Ne basta uno. Il sentiero dell’orto, attraverso strade secondarie e maestre,  conduce  da Lisbona a Vladivostok. Se poi arriva ad un aeroporto potrà lambire anche la Nuova Zelanda.  Così il simbolo.  Fermati su uno, quello che naturalmente più ti attira, dopo di che, previa conoscenza, avvia le tue peregrinazioni in mezzo alle  misteriose realtà che ti trascendono.

Non mi si richieda, pertanto, un trattato, per ognuno di essi. Offro solo l’occasione di un avvio. Buon per noi che nella rosa possiamo contemplare la Rosa, la Mistica Rosa, genuino splendore del vero.

Il Cerchio

·        con il centro, la croce e il quadrato, il cerchio  è simbolo fondamentale.

·        Viene recepito come perfezione, omogeneità, assenza di distruzione o di divisione. Il movimento circolare è perfetto, immutabile, senza variazioni.

·        Perciò rappresenta il tempo inteso come successione continua e invariabile di istanti, tutti identici gli uni gli altri.

 

·        È simbolo del creato in quanto si distingue dal suo principio, il centro. Più circonferenze concentriche rappresentano i gradi della creazione, le gerarchie e costituiscono la manifestazione dell’Essere unico e indefinibile.

·        Rappresenta il cielo, dal movimento circolare inalterabile. E allora il cielo diventa simbolo del mondo spirituale, invisibile, trascendente del cielo cosmico nei suoi rapporti con la terra. In questo contesto il cerchio rappresenta l’attività del cielo, la sua causalità, la sua esemplarità e il suo ruolo provvidenziale.

·        Simbolizza, infine, la divinità nella sua bontà diffusa come origine, sussistenza, consumazione di tutte le cose: l’alpha e l’omega.

 

LA  RUOTA

·        In generale, la ruota partecipa della perfezione del cerchio.

o       Ma è imperfetta perché si riferisce al mondo del divenire, della creazione continua, della contingenza e del perituro. Raffigura il succedersi delle nascite e delle morti nel gran giro del cosmo, riepilogo magico che permette di dominare il tempo, cioè di predire l’avvenire.

o  Rappresenta  simbolicamente i cicli, le ripetizioni, il rinnovamento, la  rigenerazione. Il mondo è come una ruota nella ruota, una sfera nella sfera.

o       Come tale, diventa simbolo (con l’ala) privilegiato della liberazione dalle condizioni del luogo e del tempo.

o       È simbolo solare rivissuto, fra l’altro, nelle ruote incendiate che scendono dalle alture durante il solstizio estivo, o nelle processioni luminose sulla neve  durante il solstizio invernale. Lo troviamo presente anche nelle ruote scolpite sulle porte o sui carri durante varie feste.

·        In particolare, il simbolismo della ruota dipende dal suo aspetto a raggiera e dal suo movimento:

o       il mozzo è il centro immobile del mondo, il suo principio, mentre la circonferenza si fa manifestazione che emana per effetto di raggiungimento;

o       i raggi indicano il rapporto mozzo-circonferenza. Possono essere quattro ( = i punti cardinali, le stagioni), o sei (simbolismo solare), o otto (le otto direzioni dello spazio evocate anche dal fiore di loto).

·        La ruota è anche l’immagine della scienza cristiana unita alla santità:

o       indica il moto dell’intelligenza e lo svolgimento della rivelazione divina;

o       quando è costellata da occhi diventa allegoria delle stelle-occhi, espressione della onniscienza e onnipresenza divina: nulla sfugge allo sguardo di Dio;

o       prima di essere solare la ruota era simbolo lunare: il sistro di Iside o di Diana rappresentava il disco lunare, il celeste tesoro che appare al re nel giorno del plenilunio.

·        Ancora: ruota è anche lo zodiaco. Il termine  significa appunto: «ruota della vita». Sul piano umano è l’instabilità permanente e l’eterno ritorno. Scrive Anacreonte:  «La vita umana ruota instabile come i raggi di una ruota del carro».

·        Nuovo significato, solitamente ignorato: l’alchemico, secondo il quale la ruota è l’immagine del tempo necessario per la cottura della materia filosofale. In seguito, rappresentò la cottura stessa. Il fuoco sostenuto, costante, eguale che l’artista mantiene giorno e notte durante quest’operazione è chiamato «fuoco di rota», girata dal fuoco segreto o filosofico.

·        Riassumendo brevemente dirò: il movimento della ruota rinvia a:

o       cammino nella perfezione, mutamento di luogo, divenire ciclico,

o       liberazione da dimora fissa,

o       il ciclo, il ricominciare, il rinnovamento, il succedersi delle nascite e delle morti,

o       il percorso, il dispiegarsi della manifestazione divina, l’onniscienza,  l’onnipresenza divina.

 

SOLE

·        Il simbolismo solare è polivalente:

o       Simbolo di vita, di calore, di  giorno, di luce, di autorità, di  maschilità, di ciò che irradia, di intelletto, di coscienza, di sovracoscienza, di spirito;

o       principio di energia, forza attiva della nostra anima, la cui essenza è quella di produrre l’utile e il dannoso, il bene e il male;

o       manifestazione delle cose e della loro distruzione (come principio di siccità);

o       centro del cielo come il cuore è al centro dell’organismo. Quindi è il cuore e occhio del mondo, l’Atma (spirito universale),  conoscenza intellettiva, intelligenza cosmica;

o       emblema di Cristo (crisma), con 12 Raggi, quanti gli apostoli, Sol justitiae, sol invictus, Sole di Verità;

o       simbolo universale del re, del cuore dell’impero (Sol Levante giapponese).

·        Al sole  si riconducono fiori, animali e metalli: crisantemo, loto, girasole, aquila, pellicano, cervo, ariete, agnello, gallo (simbolo di vigilanza e di risurrezione, annuncia il sorgere del giorno),  cavallo (tira il carro del sole), fenice, oro (simbolo di saggezza, della scienza del quadrivio), cintura d’orocandelabri che indicano la perfezione.

·        Il pavone è simbolo particolare del sole a motivo della ruota e delle penne che formano come un cielo stellato. Plinio  riferisce che in autunno le perde per riacquistarle in primavera. Agostino afferma che la carne del pavone è incorruttibile, dal momento che spesso beve al calice eucaristico o nel vaso pieno dell’acqua della vita. La chiesa primitiva lo associa alla palma, simbolo di vittoria, di ascesa, di rinascita, di immortalità, e alla colomba simbolo dell’amore sublimato, dello Spirito Santo, di Cristo (per il suo battesimo), dell’anima  che si eleva a Dio dopo morte, in ciò accomunata al pesce, simbolo della vita, della fertilità, dell’acqua, di Cristo, del cristiano e dell’àncora che a sua volta diventa sicurezza, speranza, fiducia, salvezza, croce, delfino, pesce (il credente), eucaristia, buon pastore

·        La stella è un piccolo sole.

·        Sono accomunati al sole:

o       la corona monastica, l’aureola, l’aura, la regalità, la grandezza;

o       la spada come segno di forza solare;

o       la freccia, che, simile al raggio, indica uno scopo determinato, e il compimento di un fine.

·        Al sole corrisponde la luna: il sole irradia, è principio attivo, è fuoco, è conoscenza intuitiva e immediata, è spirito, cuore, essenza,  forma. La luna riceve la luce, è principio passivo, è acqua, è conoscenza di riflesso, è anima, sostanza, materia.

·        La luna riflette la luce del sole, muta la forma durante le fasi, è simbolo di dipendenza, del principio femminile, del cambiamento, della crescita, del ritmo biologico, del trascorrere del tempo. Nella sua  forma di mezzaluna  diventa simbolo dello svanire, del ritorno, della castità. La Vergine Maria è stata più volte disegnata ritta su una falce di luna.

·        La luna a sua volta richiama la nave, il viaggio, la vita umana, lo stato, la chiesa che fa rotta  sugli oceani, come la luna la fa nel cielo.

 

MANDALA

 

Parola sanscrita = «cerchio magico». Immagine del mondo attualizzato dalle potenze divine, dagli Occidentali considerato anche l’immagine della psiche ordinata ed in particolare del e quindi del processo di individuazione.

Il cerchio racchiude un quadrato e la successione cerchio-quadrato può ripetersi più volte. La forma quadrata appartiene al tempo, l’eternità è propria del cerchio. Perciò cerchio e quadrato simboleggiano due aspetti fondamentali di Dio e dell’uomo: unità e manifestazione divina o umana, il celeste e il terrestre in quanto creato.

Il quadrato inscritto nel cerchio significa la terra dipendente dal cielo, perfezione della sfera sul piano terrestre. Ha carattere religioso perché viene usata per definire gli spazi sacri (templum) e per sostenere l’itinerario meditativo-ascetico in quanto consente la visione dei diversi piani della realtà, delle relazioni reciproche e della totalità che tutto include. È perciò utilmente psicagogica.

NIMBO  (letteralmente = nuvola)

È il cerchio che circonda come disco lucente il capo dei santi. Rappresenta, a seconda dei casi, il sole, la corona regale, la gloria, cioè il riflesso che circonda tutta la figura (mandorla), o solo la testa. I sacerdoti, prima, la portavano come tonsura e apertura spirituale.

Talora il nimbo è contrassegnato da una croce.  Allora il simbolismo ricade sulla croce come albero della vita, Cristo, scala, montagna, centro del mondo, albero cosmico, albero rovesciato che affonda le radici nel cielo (cf. Dante, Paradiso, XVIII, 28) ed alimenta la terra.

 

ROSONE

I rosoni delle finestre romaniche e gotiche spesso sono in relazione con la simbologia astrale del cerchio e si rifanno a modelli derivati dalla Mesopotamia, Siria, Egitto.

·        Indicano la ruota del sole, il cerchio delle virtù, il girotondo degli angeli e santi.

·        Evocano l’armonia platonica delle sfere, la rivoluzione celeste dei pianeti, dello zodiaco e del loro influsso sull’uomo.

·        Anche il rosone rappresenta il dell’uomo trasposto sul piano cosmico. È unità nella totalità. Il rosone è un mandala. Il simbolismo ricongiunge nel mozzo del rosone il centro cosmico e il centro mistico. L’individuazione si compie e si armonizza quando si stabilisce una doppia corrente attraverso i raggi dal centro  alla circonferenza e da questa verso il centro. Come tale il rosone e la ruota si inseriscono nel quadro generale dei simboli dell’emanazione-ritorno, che esprimono l’evoluzione dell’universo e quello della persona.

 

COPPA  -   VASO  -  CALICE

La rosa non raffigura solo un rotondo, ma anche un profondo, un calice, un vaso.

·        Subito richiama il cuore, base della vita, e il Cuore di Gesù che, trafitto dalla lancia,  si apre a diventare santuario, altare, centro dei bracci della croce, centro del mondo, punto di mezzo.

·        La coppa che ha raccolto il sangue di Gesù, simbolizza le sue piaghe, la trasfigurazione delle gocce di questo sangue, la coppa del Graal, la Candida Rosa, immagine della Rosa Mistica con cui Dante ha voluto celebrare di Maria.

·        Il  calice rinvia a numerosissimi simboli. Basta accennare al sacrificio eucaristico e all’ultima cena per provarlo.

LOTO

Il loto, per la tradizione induista, è il simbolo della prima manifestazione dell’Essere supremo, la porta o la bocca del grembo dell’universo.

Viene considerato come il loto cosmico:

·        l’organo riproduttivo delle acque;

·        l’aspetto materno e fecondo dell’assoluto che si apre per dare alla luce il creatore demiurgo, cioè Brahma, seduto al centro del fiore sorto dall’ombelico di Visnu;

·        assume anche le sembianze della dea Lakshmi,  la Grande Madre ( cf. Ishtar, Afrodite, Hathor) ed emerge dal mare frullato, il misterioso oceano di latte, poggiato sul loto, fiore sacro della manifestazione.

Il Buddismo accentua il senso dell’illuminazione, mentre per gli Egiziani il loto diventa una ninfea bianca già nel 2500 a.C. Questa, nata dalle  acque primordiali, genera il demiurgo e il Sole. «Io (Sole) sono il puro fiore di loto che proviene dallo splendore», riferisce il Libro dei Morti.

Il fiore apre la corolla al di sopra della distesa delle acque, ed ecco il sorgere della vita. È poi immaginato come colonna che giunge fino ai cieli dove troneggia il suo riflesso, il sole.

Anche il cristianesimo deve molto al loto:

·        simboleggia la castità per il biancore e per non essere insozzato dal fango, aperto sopra  le acque. Già le Vestali, nella Roma antica, deponevano la loro capigliatura recisa davanti alla ninfea quando iniziavano il loro nuovo stato di vita.

·        Con la castità, la carità, perché i suoi fiori sono così ampi e generosi che ne bastano quattro o cinque per formare un bel mazzo.

·        Aggiungo altri riferimenti simbolici: purezza, innocenza, riservatezza, freddezza.

 

PROFUMO

La rosa profumata offre altri richiami:  i simboli del profumo. Ne elenco semplicemente qualcuno:

·        l’offerta sacrificale. Il profumo è elemento necessario per rendere gradita l’offerta a Dio;

·        incenso, aromi. Richiamano l’adorazione, la preghiera, le espressioni delle virtù (facilmente si sente ancora parlare del loro profumo), la liturgia;

·        la presenza spirituale, la natura dell’animo, la durata e il ricordo. Il profumo della persona che ci ha lasciato continua a rendercela ancora vicina;

·        purificazione. L’esalazione di sostanze incorruttibili, quali le resine,  riportano alla primitiva purezza il luogo o la persona profanata.

 

COLORE

Anche il colore ha il suo campo di simboli:

·        l’universalità. Sette sono i colori dell’arcobaleno, 7 le note musicali, 7 i cieli, 7 i pianeti, 7 i giorni della settimana, 7 i sacramenti…

·        gli elementi del mondo. Rosso e arancione rappresentano il fuoco; il giallo o il bianco,   l’aria; il verde, l’acqua; il nero o marrone, la terra;

·        lo spazio. L’azzurro evoca la dimensione verticale, il rosso, quella orizzontale;

·        il tempo: il nero rappresenta il temporale, il bianco l’eterno;

·        dualismo intrinseco dell’essere. Lo rappresenta l’opposizione tra bianco e nero:

o       il nero è il luogo delle germinazioni, degli inizi, degli occultamenti. È il caso delle Vergini Nere, dee delle origini in attesa dell’esplosione luminosa della nascita.

§         Nel mondo antico, le camere sotterranee dei templi servivano come dimora per le statue di Iside, che poi, al tempo  del cristianesimo, divennero Vergini nere, molto onorate.

§         Sul basamento di queste statue era scritto: «Virgini pariturae», alla Vergine che partorisce, intesa come terra, prima di essere fecondata, terra che sarà illuminata dai raggi del sole.

§         Le Vergini Nere raffiguravano, nella simbologia ermetica, la terra primitiva, quella scelta dall’artista come soggetto della propria Grande Opera. È materia prima allo stato di minerale, come e quando viene estratta dai filoni metalliferi, profondamente nascosta sotto la grande massa rocciosa.

§         Nella cattedrale di Chartres erano venerate due statue del genere, oggetto di  culto fin da epoche antiche:

·        una era Notre-Dame-sous-terre, nella cripta, seduta su un trono di basamento con la scritta prima riportata;

·        l’altra era nella chiesa, al centro di una nicchia piena di ex-voti in forma di cuori che mandano raggi.

·        Nel cristianesimo il colore ebbe precisi significati:

o       il colore è la partecipazione della luce creata e increata;

o       il Padre è associato al bianco, il Figlio al blu, lo Spirito Santo al rosso, la speranza al verde, la fede al bianco, la carità al rosso, la penitenza al nero, la castità al bianco, gli abiti liturgici  ai tempi dell’azione cultuale;

o       l’azzurro è visto come il colore del cielo, dello spirito;

o       il rosso dice  sanguepassione;

o       il giallo  rinvia alla  luce e all’oro;

o       il verde prefigura la natura e la crescita.

·        La cultura umanistica vede l’azzurro come  indice di pensiero, il rosso come espressione del sentimento, il giallo  come simbolo dell’intuizione, il verde come equivalente della sensazione, cioè della percezione del reale.

Non so se possiamo reggere con spirito superficiale la sfida della rosa. Le armi non sono pari. Specie se consideriamo che diversi simboli sopra ricordati si prestano ad avviare una rete altrettanto estesa di germinazioni e di creazioni. Specie se a quanto già scritto sovrapponiamo  le evocazioni nate dalle situazioni contingenti: dai ricordi, dalla persona  legata alla rosa nel concreto della nostra esperienza, dai fatti accaduti in contemporanea anche distanti, dalle musiche o canti intesi, dalle condizioni di salute, dai sentimenti struggenti o delicati, dal contesto geografico o temporale, atmosferico o festoso, dal profumo lasciato, dopo la dipartita, a segnalare  la misteriosa presenza che alimenta il cuore e la fantasia alla speranza.

Come promesso, non ho inteso comporre un trattato, ma solo avviare un approccio pratico alla nostra attività fantastica.

Ognuno veda e ne tragga le conclusioni. Abitualmente, chi intende vivere pienamente, chi  desidera allacciare ponti con il trascendente di ogni tipo, - lo dice l’esperienza di Giovanni della Croce – eccettuata la grazia, non ha altro strumento all’infuori del simbolo (così come è stato precedentemente descritto).

 

 

ELOGIO  DELLA  ROSA

Facciamo l’elogio della rosa. Prima di tutto, perché è madre di vita mediante i suoi numerosissimi significati, poi perché ci affascina ogni cosa bella. E la rosa è bella. Non solo: è scolpita nel cuore di ognuno.  Interpellate, così, a bruciapelo, la persona che incontrate e invitatela a pronunciare un nome di fiore. Quasi sempre proferirà quello della rosa.

L’hanno dipinta i pittori, gli architetti hanno inserito  la sua immagine nelle cattedrali, i maghi e gli erboristi se ne servono per i loro intenti incantatori e curativi, tutti ricorrono a lei per abbellire case, ricche e povere, giardini, balconi, davanzali.

Ci profumiamo con l’essenza delle rose, conserviamo il suo aroma, facciamo il bagno in acque profumate alle rose e giungiamo fin a  mangiare marmellata di petali di rose.

La sua origine? Il più regale dei fiori nacque come una semplice specie selvatica a cinque petali. Proveniente dalla  Persia, lunghi anni di coltivazione e ibridazione l’hanno trasformata nel sontuoso ed elegante fiore che conosciamo oggi.

La sappiamo presente in Cina  nel 2700 a.C.  Cresceva nei giardini dei Faraoni e degli Imperatori Romani. Le Vestali la contemplavano ogni giorno nei loro  recessi privati.

I Crociati portarono la rosa damascena in Europa al ritorno dalle guerre e così  noi Occidentali subimmo la sua malia.

All’inizio del 1800, l’Imperatrice Giuseppina diede vita alla prima e più vasta collezione moderna di rose nei suoi giardini di Malmaison: ne coltivava oltre duecento varietà.

Oggi, i giardini-mostre si moltiplicano. Penso all’oceano di rose in cui ogni anno, a maggio, mi è concesso di tuffarmi, là  nell’orto, ai piedi del colle Aventino; penso alle rose, non infinite, ma presenti quasi ininterrottamente nei viali che mi circondano.

So però anche rallegrarmi di quanto fiorisce lontano da me. Perché, dopo i Crociati, dall’Europa le rose  viaggiarono verso il Nuovo Mondo con i colonizzatori, i quali scoprirono che già gli Indiani d’America amavano piantare la rosa selvatica. Nel Colorado sono stati trovati resti fossili di rose di quattro milioni di anni fa.

L’origine della rosa trova posto anche nel regno dei miti e  delle leggende.

  • Storie medievali raccontano che una rosa bianca fioriva nel giardino dell’Eden e che quando Eva la baciò divenne rossa. Nacque così la prima rosa rossa.

·        I Romani credevano che fosse stato Bacco, il dio del vino, a creare la rosa rosa.

·        Secondo un altro antico mito, quando Venere uscì dalle acque nella sua conchiglia, Gea, la Terra, se ne ingelosì e decise di creare qualcosa di altrettanto  bello. Il risultato fu la rosa: perfetta nella forma e squisitamente profumata.

·        I Greci raccontano una storia diversa. Secondo la leggenda, Cloris, la dea dei  fiori, un giorno stava passeggiando quando trovò il corpo di una bellissima ninfa uccisa dalle punture delle api. Lo portò sul monte Olimpo e chiese agli  altri dei di aiutarla a trasformarlo in fiore. Afrodite gli donò la bellezza, Dioniso il nettare e la fragranza,  le Tre Grazie gli regalarono gioia, fascino e vivacità. Dal suo carro del cielo, Apollo, il dio del sole, mandò una sfumatura calda. Così nacque la rosa.

Per i poeti di tutte le epoche, la rosa è stata simbolo di bellezza e di amore.

·        Saffo la dice «regina dei fiori,- regina, grazia delle piante, - orgoglio dei pergolati, - rosso dei prati, occhio dei fiori, - la sua dolcezza schiude l’alito d’amore, - fiore favorito di Citera».

·        Anacreonte le risponde: «La rosa è l’onore e la bellezza dei fiori – la rosa è la cura e l’amore della primavera – la rosa è il piacere delle potenze celesti. - Il figlio della bella Venere, prediletto della Citera, - avvolgeva il suo capo di ghirlande di rose, - quando andava a danzare nel giardino delle Grazie».

·        Thomas Hood paragona la primula ad una ragazza di campagna, la violetta ad una suora, ma la squisita rosa alla regina trionfante.

 

·        Goethe la vede luminosa, profumata di balsamo, mentre vola e freme e dona dolcezza. La invita a germinare  in gemme squisite, in boccioli paradisiaci.

·        John Ruskin  la definisce simbolo di prosperità, di felicità, di lunga vita e fa notare che il rosso delle sue gradazioni delicate  è il più splendido dei colori puri. Infatti, nella rosa non esiste ombra se non quella composta dal colore. Le ombre sono più ricche di colore delle sue luci, grazie alla traslucentezza e al potere riflettente dei suoi petali.

I suoi colori diventano messaggi efficaci di sentimenti  e di senso:

·        la rosa rossa, specialmente la centifoglia, parla di amore;

·        la rosa rosa, di amore nascente;

·        la rosa gialla indica gelosia o amore morente; contemporaneamente insinua vergogna e infedeltà;

·        la rosa bianca dice: «Sono degno di te». Ispira silenzio, segretezza, candore, innocenza. Il suo bocciolo significa innocenza;

·        la rosa variegata dichiara amore ardito.

La stessa forma ha il suo annuncio:

·        la rosa tea evoca la gentilezza della donna amata;

·        la rosa borracina, la bellezza capricciosa;

·        la rosa canina, l’indipendenza;

·        la cappuccina, la pompa e lo splendore;

·        la rosa cannella, la maternità precoce;

·        la rosa del Bengala, la compostezza dell’anima, oppure: «siete bella nella prospera e avversa fortuna»;

·        la rosa di Cina ammonisce: «riconciliamoci»;

·        quella a di Banks conferma: «voi siete bella nel riso e nel pianto»;

·        la rosa muschiata: «siete bella ma capricciosa» e nello stesso tempo: «bada che la bellezza è caduca»;

·        e infine con la rosa multiflora auguriamo fecondità.

La rosa possiede poteri magici e rituali per proteggersi dalle influenze negative.

  • I superstiziosi preparano mazzi di erbe, rose e altri fiori da appendere alla porta principale o sopra il camino.

  • Per tenere lontano i visitatori indesiderati da un giardino in cui si coltivano erbe magiche, si piantano tre rose rosse.

  • Per fare sogni d’oro si consiglia di dormire su un cuscino imbottito di petali di rose, aroma di limone, menta, erba di san Pietro  e chiodi di garofano.

Ma la rosa è soprattutto il fiore dell’amore.

  • L’olio distillato della rosa  è usato in ogni sorta di incantesimi e pozioni d’amore.

  • Si dice che una miscela di olio di rosa, lavanda, gelsomino, muschio sia così potente da rendere la donna che la indossa irresistibilmente attraente.

  • Molto tempo fa, in parti d’Europa, le ragazze gettavano petali di rosa alla luce della luna, la vigilia del giorno di san Giovanni. Se al rintoccare della mezzanotte recitavano un particolare incantesimo avrebbero visto l’uomo da sposare.

  • In Persia una ragazza poteva far tornare l’innamorato perduto bollendo la sua camicetta in acqua di rose e spezie.

La rosa ha anche altri poteri:

  • di proteggere un segreto. Sui confessionali, si vedono, talora, incise rose come simbolo di silenzio. L’espressione «sub rosa», ancora oggi significa una cosa detta in confidenza e da non ripetere;

  • di rendere buoni. «Io non so se le brave persone tendono a coltivare rose, o se coltivare le rose rende brave persone», scriveva Roland A. Brawne. E Dean Hole aggiungeva: « chi vuole avere rose belle nel giardino, deve avere rose belle nel cuore».

  • E sì! perché il cattivo gusto, lo squallore, la volgarità non si addicono alla Regina dalla forma solenne, dalla fragranza inebriante, dalla bellezza sempre desiderata. Lei è simbolo di completezza, di successo eccellente, di perfezione, centro mistico, cuore, Candida Rosa  del Paradiso dantesco. Quando la si vede con l’occhio giusto, si dimentica la sua fugacità. Gesti belli, o amici, per un fiore bello!

 

 

MARIA  MISTICA  ROSA

Se la rosa  è carica di significati tanto densi e numerosi, allora, applicandola a Maria, dobbiamo attenderci cose grandi.

Per illustrare l’attributo “Rosa Mistica”, procederò così:

- Come premessa, accennerò ad alcune  condizioni storico-culturali che hanno propiziato il sorgere del nostro simbolismo.

- Parlerò poi della rosa mistica e del suo significato a noi più manifesto, servendomi, tra l’altro, di un dipinto che raffigura «Maria nel roseto».

 

premessa

L’invocazione a Maria «Rosa mistica», elaborata probabilmente nel XII secolo, non nasce di colpo. Presuppone delle disposizioni spirituali specifiche.

·        La concezione del rapporto sponsale tra Dio e il suo popolo.

o        Che Jahweh si presenti come sposo del suo popolo è documentato già nell’Antico Testamento: Osea e Isaia ne parlano esplicitamente. «Sì, come un giovane sposa una vergine, - così ti sposerà il tuo architetto; - come gioisce lo sposo per la sposa, - così il tuo Dio gioirà per te». (Is. 62,5) Non la Legge conta, bensì ciò che l’alimenta: l’amore totale.

o       Il concetto viene però sviluppato in almeno altri due libri ispirati: in Ezechiele (16) e nel Cantico dei Cantici. Soprattutto il secondo, il cantico per eccellenza - tale è il suo senso -, ha affascinato, stupito, esaltato e però anche messo in imbarazzo molta gente. Non è facilmente comprensibile che l’amore di due giovani innamorati  sia in grado  di rappresentare  degnamente i sentimenti di Dio, sposo invisibile.

o       La metafora nuziale ebbe la sua piena fioritura nel Nuovo Testamento:

§         dapprima definì i rapporti tra Cristo e la  sua comunità, ossia gli ospiti invitati alle nozze (es. Mt 25);

§         presto, i Padri della Chiesa  e per la prima volta Origine (+254) – ne compose un ampio commento - non ebbero difficoltà a trasporre il Cantico dei Cantici su Cristo e l’Anima Ecclesiatica, cioè su Cristo e l’anima singola all’interno della chiesa;

§         a partire dal  IV secolo, ribadendo volentieri  il pensiero di S. Ambrogio,  Vescovi e Dottori insistettero su Maria «Sposa di Cristo», la più degna rappresentante della Chiesa.

§         Il colpo d’ala lo diede, però,  il secolo XII: d’incanto  monaci e  monache, nonostante gli sconvolgimenti politici o forse a causa degli sconvolgimenti politici, si alimentarono del Cantico dei Cantici. S. Bernardo di Chiaravalle (+ 1153), tra una missione e l’altra, - non si dica che ha respirato solo le oscurità dei monasteri - lo fece oggetto di ben 86 sermoni. Avviò la mistica cristiana individuando nelle nozze del Cantico dei Cantici, interpretate spiritualmente, un’allegoria  della «unio  mystica» dell’anima con Dio.

§         Maria diventò il modello per antonomasia  di questo nuovo legame. A lei, quasi esclusivamente, venne riferito il Cantico dei Cantici, dal momento che «Maria costituisce il tipo della Chiesa… Perciò tutto quanto è detto della Chiesa può egualmente essere affermato della Vergine stessa come Sposa e Madre dello Sposo». (Onorio di Autu

·        Componente culturale

o       L’influsso esercitato  dal Cantico dei Cantici, rafforzato dalla lirica cavalleresca, ha comportato un mutamento significativo nella venerazione a Maria: fu  onorata come Vergine, Madre, Sposa, Regina, proprietà di Dio. Fu invocata come rosa, titolo che il Medio Evo  ha sempre riservato alle vergini e collocata, specialmente nella Francia Settentrionale, all’interno  dell’Hortus Conclusus, tutta raccolta nel suo Dio, a favore dell’umanità.

o       Ma tutto questo presuppone il verificarsi di altri contenuti culturali.

·        La Scuola Palatina, inaugurata da Carlo Magno, aveva già maturato, nel XII secolo, risultati copiosi: si sapeva di latino; si stilavano poesie e poemi in prosa e in versi; si installavano su troni regali castellane e dominatrici tiranne di cuori; la prestigiosa Eleonora di Aquitania, regina di Francia prima, di Inghilterra poi, insieme a figlie e figli conosciuti da tutti i contemporanei per vicende differenti, promuoveva l’autonomia della donna in un periodo di muscoli armati; autori noti e sconosciuti, all’ombra dei monasteri o nei monasteri stessi, si occupavano di Tristano, di Isolda, di Lancillotto, di  Ginevra, di Parsifal, elaborando fantasie allegoriche e didattiche, quali i racconti del  Graal e la creazione di un cavalierato  senza paura e senza macchia.

·        Guillaume de Lorris, attorno al 1230, compose l’opera didascalica «Roman de la Rose». In essa  raccontava un  sogno: voleva raggiungere il centro di un giardino circondato da una muraglia dove regnava una rosa straordinaria. Faceva ogni sforzo per coglierla, ma i guardiani adirati glielo impedivano, proteggendo  il rosaio con un muro e una torre.

·        La rosa chiama in causa anche Lucio Apuleio, scrittore latino del secondo secolo, autore di un romanzo iniziatico, le «Metamorfosi», che molto ha contribuito ad esaltare il nostro fiore.

o       Il protagonista anticipa l’allegoria dantesca che vuole l’uomo aspirare alla propria perfezione. Pretende di imparare a volare trasformandosi in uccello; cerca la pozione magica ma gliene danno una sbagliata che lo  fa asino.  Mille avventure. Prega Iside di liberarlo dal suo stato.  Gli appare in sogno, avvolta in una tunica di colore tra il bianco, il giallo,  il rosso di croco e il rosso acceso delle rose, sulla quale è posta una veste nerissima. Lo rincuora con parole confortevoli: «Eccomi, sono qui impietosita dalle tue disgrazie, eccomi a te soccorrevole e benigna. Il giorno che sta per nascere è consacrato a me. In questo giorno cessano le tempeste dell’universo, si placano i flutti burrascosi del mare e i miei sacerdoti mi dedicano una nuova nave offrendo le primizie del carico. Guiderà la processione  un sacerdote che per mio volere porterà intrecciata al sistro una corona di rose. Senza esitazione, fatti largo tra la folla e segui la processione confidando in me come per baciargli devotamente la mano e afferragli le rose. Vedrai che in un attimo ti cadrà la brutta pelle di animale che anch’io da tanto tempo detesto». Avvenuto il miracolo, Lucio  intraprende il cammino dell’iniziazione. La rosa viene confermata così come simbolo di  rinascita. In realtà, fin dal tempo ellenistico, Greci e Romani deponevano delle rose sulle tombe come auspicio di vita.

·        Contemporaneamente, nella seconda metà del XII secolo, presero forma  in Francia, cattedrali misteriose, cariche di immagini, vere biblioteche di pietra, comprensibili solo a chi le sapeva leggere perché immerse nel simbolismo alchemico di cui la rosa era riferimento immancabile. Difficile definire il limite tra l’esoterismo e la loro retta interpretazione ad opera degli iniziati e dei mistici di cui Bernardo fu maestro. Tanto più che si diffusero rapidamente correnti eretiche: Albigesi, Kabbala, Alchimia, movimenti contestatori. Nôtre Dame di Parigi, la cattedrale di Noyon, di Laon, di Chartres, di Nantes, di Reims, tanto per citare le prime che mi vengono in mente, stanno ancora lì a testimoniare la febbrile attività simbolica e il tentativo di difendere l’integrità della rivelazione che spinge sempre più uomini e donne a proteggere, nel rapporto intimo e solitario con il Dio dei chiostri, il proprio bisogno di contatto con il trascendente. I Tommaso d’Aquino, i Pietro Lombardo, gli Abelardo,  gli Alberto Magno sedevano sulle cattedre, ma accanto a loro, ecclesiastici e iniziati scendevano nelle profondità del cuore per svelare i suoi misteri fascinosi.

·        Mi si permetta un’ultima chiosa: il ruolo della filosofa di Chartres.

o       Nel secolo XII fiorì all’ombra del monastero di Chartres una scuola che elaborò il concetto classico di Natura in cui si ritrovavano tanti aspetti della Grande Madre precristiana.

 

o       Chartres era allora un santuario mariano e la Madre Natura di Bernardo Silvestre, Teodorico di Chartres e Guglielmo di Conches, andò assumendo a poco a poco i tratti della Madonna nella quale furono trasposti gli attributi che ornavano le dee dell’antichità: dalla colomba alla conchiglia, dalla stella del mattino a quella della sera. Diana e Iside le cedettero la falce di luna, Cerere le spighe.

 

o       Anche le piante consacrate alle dee furono ribattezzate in termini mariani: il Manto di Venere diventò Mantello della Madonna, il Piede di Cipria si trasformò in Pianella della Madonna, il Capelvenere mutò il suo nome in Capelli della Madonna. La rosa di Venere diventò mariana.

 

·        Roma non si sottrasse al suo tributo. Intervennero direttamente i Papi, (il primo fu Urbano II nel 1096) con un rito particolare, celebrato la IV Domenica di Quaresima (Domenica di laetare o delle rose).

o       In quel giorno, il Papa si accostava all’altare con il piviale e la stola rosa;

o       gli veniva presentato un ramoscello di più rose d’oro;

o       allora con un cucchiaio, egualmente d’oro, versava del balsamo e del muschio in una capsula posta nel cuore della rosa più bella;

o       chiudeva la capsula;

o       aspergeva e incensava il fiore prezioso. Si era convinti che il suo balsamo preservasse i corpi dalla corruzione e fosse quindi augurio di immortalità e di risurrezione. Il muschio, aroma odoroso,  rappresentava il profumo di Cristo o della Madre sua.

o       A questo punto, il Papa diceva l’orazione in cui chiedeva  di portare «nelle nostre mani con profitto il segno della gioia spirituale, … affinché questa Chiesa che vi offre il frutto delle buone opere, cammini nell’odore dei profumi del fiore che, sorto dal tronco di Jesse, è chiamato misteriosamente il fiore dei campi e delle vallate e merita di gustare una gioia senza fine in seno alla gloria celeste». Concludeva: «…con il divino Fiore che vive e regna con Voi nell’unità dello Spirito Santo, nei secoli dei secoli».

o       Questo fiore veniva quindi consegnato a un principe o a una principessa come viatico dell’anno.

 

maria, rosa mistica

 

La premessa è stata forse un po’ troppo lunga ma ha il merito di rendere più manifesto perché è nata, e  con che senso, l’invocazione «Rosa Mistica, prega per noi».

·        Rosa, in quanto immagine appropriata di una bellezza inarrivabile per forma, colore, profumo, espressione di dono  e di  amore, puro e liberante.

·        Mistica perché necessariamente destinata a significare valori e realtà che la superano. In termini moderni potremmo dire perché «simbolica».

La prima considerazione è la seguente:

                      la raffinatezza idealizzata dai poeti, l’abitudine a scoprire nelle cattedrali insegnamenti nascosti, l’esaltazione della castellana, signora di amor cortese all’interno dei manieri feudali, lo sforzo dei monaci per ingentilire imprese belliche e soldati zoticoni, il pensiero filosofico elaborato a Chartres, il più noto santuario mariano, la moltiplicazione dei monasteri, l’attività febbrile del mistico Bernardo di Chiaravalle, il culto della rosa divenuta ormai simbolo di «vita nelle sue manifestazioni personali, storiche, naturali, spirituali e trascendenti»:  tutto questo ha fecondato il terreno da cui è spuntata la mistica rosa.

 

                      I signori delle armi potevano inchinarsi alla loro dama, sdegnosamente scontrosa o maliziosamente ammiccante; i feudatari potevano contendersi i confini dei propri territori; i dotti, bearsi di Ovidio e di  Apuleio; i costruttori di cattedrali, scolpire i segni  alchemici sulle loro pietre e popolare cornicioni e colonne di elementi naturali: i cristiani  erano interessati ad onorare la loro Regina, a contemplarne la bellezza, a vedere riflessa in un fiore tutta l’onnipotenza di Dio e il suo amore per l’uomo; in una parola  a fare di una rosa la rivelazione più eloquente della Celeste Madre.

 

                      E lo misero, questo fiore, nel bel Giardino dell’Eden, in cui la creatura si è incontrata per la prima volta con il suo Creatore. Maria ne fu la promessa e divenne rosa mistica. Due parole per definire la devozione fiduciosa che, a partire dal secolo XII, ha accompagnato religiosi e laici nel cammino verso l’alto.   In Italia fu Regina,  fu Maestà per  Cimabue e  Simone Martini, fu Patrona di città; nella Francia, più che altrove, fu rosa. Per cristiani e innamorati, divenne fiore di giardino.

Ed ora, domandiamoci: che cosa rappresenta veramente la rosa nella sua essenza? In che cosa, Maria può essere invocata come rosa?

Non è difficile dare una risposta: Maria è rosa perché Vergine,  Madre,  Sposa, Regina. 

 Maria è vergine.

Termine facilmente snobbato perché frainteso da chi non considera che la verginità è la manifestazione più genuina del nostro essere in attesa della sua trasfigurazione. Esprime la piena consapevolezza della propria creaturalità, del proprio dipendere da Dio, principio assoluto di tutte le cose.

Certo, questo non è il luogo né di omelie, né, a ben osservare, di misticismi. Voglio unicamente sottolineare che l’anima vergine, sia chiaro, quella per il cielo e non dell’eterno fanciullo sulla terra, è pienezza di vita, trasparenza di acqua sorgiva, anelito verso l’infinito, libero esercizio dell’amore, ricezione perfetta della pura luce celeste, completa disponibilità verso il prossimo, apertura all’universale, gaudio di gioia ineffabile, perfezione della creatura, esistenza escatologica, fecondità apostolica.

Maria è tutto questo. E ben altro: la nostra attività simbolica lo può appena sospettare. Chi potrebbe celebrarla e viverla in modo diverso

Però, non solo vergine, Maria è  anche Madre.

Avvera l’impossibile. È principio di vita e di fecondità. Colei che più appartenne a Dio solo, più di ogni altro essere vivente partecipò della di lui capacità generatrice.

Maria è la presenza sensibile della paternità divina, lo splendore vivificatore dello Spirito di suo Figlio, la madre spirituale di tutti gli uomini, l’immagine personificata dell’amore materno.

Poco importa che, come rosa, viva sola, china su se stessa, nel mistico giardino, anticamente approntato invano per accogliere Adamo e la prima Donna. Maria  è rosa e con la sua bellezza attira lo sguardo del Sole eterno che, riflettendosi su di lei, illumina l’intera umanità.

Occorre proprio agitarsi tanto per essere fecondi? Maria si è appagata di maturare pienamente se stessa  in vista della sua missione. Ha conservato incontaminato il corpo che, mistica rosa, ha avuto dal Figlio suo, Fiore di ogni fiore. Feconda verginità!

Maria è Sposa e Regina.

o       L’attributo sponsale dice il rapporto di intimità tra lei e il suo Dio. Questo aspetto intendo svilupparlo la prossima volta quando parlerò di Maria quale “Hortus conclusus”, giardino segreto, luogo incontaminato, al di fuori di ogni invadenza che si opponga all’amore totale dello Sposo per la propria Sposa.

o       Il titolo di Regina ha ispirato a M. Grignon da Monfort la fondazione di una congregazione religiosa. Invito a prenderne conoscenza. A me piace vederla tanto Signora in un bel roseto, quanto  Castellana nel mezzo  del mio cuore, quanto Regina celebrata da Angeli e da Santi. La liturgia  la dice appunto Regina degli Angeli, Regina dei Santi, Regina del Cielo; i pittori la adornano splendente in mezzo ad apostoli e figure umane; Dante le attribuisce un posto di privilegio nella Candida Rosa; io, umilmente, la invito perché venga a regnare con il suo scettro, quale Sapienza radiosa, sul palco della mia anima.

 

Mi attardo brevemente e cito poche lodi, tra le moltissime, indirizzate alla Rosa:

·        «Rosa  splendente di verginità, tutta olezzante dei profumi delle grazie». (Giovanni Damasceno)

·        Rosa patientiae, rosa che induci e aiuti alla pazienza. (Adamo di San Vittore)

·        «Il roveto ardente, secondo l’opinione di taluni, è una prefigurazione di Maria Vergine, perché essa fece germogliare il Salvatore come una rosa, traendolo da corpo umano». (Rabano Mauro)

·        I Padri  hanno attribuito a Maria le proprietà della Sapienza: «roseto in Gerico» (Sir 24, 14); « pianta di rose su un torrente» (Sir 39, 13);  «fiore di rose nella stagione di primavera». (Sir 50, 8)

 

Maria giardino del Paradiso

 

·        Ed ora, per completare la fotografia della Mistica Rosa, occorre parlare anche del giardino che l’accoglie. Di fatto, il giardino è in funzione del suo fiore più bello. Perciò, descrivere ciò di cui è composto significa definire meglio i pregi, le virtù, i favori, la ricchezza di Colei che vi abita.Così pensavano non pochi pittori alla fine del ‘300. Seguendo la loro naturale ispirazione, di esperienza in esperienza,   codificarono, senza manco avvedersene, tutto un prontuario di figure, di spazi, di colori, che ripetevano nelle loro composizioni.

·         Ne risultò un giardino incantevole, degno del paradiso. Esso divenne allora  la dimora di Maria, la porta del cielo. La pienezza dell’Eden si  riversò su di lei: fiori, fiumi, piante e animali costituirono il suo contorno; usignoli e fringuelli cantarono le sue lodi. Maria venne definita  «Giardino del Paradiso», «Rosa del Paradiso».

·        Il giardino rispecchiò anche la gioia  del risveglio primaverile e significò, nel modo più efficace,  le condizioni dell’anima beata. I predicatori del XIV secolo riconobbero in Maria la somma di tutti i fiori, la fonte di tanta  felicità spirituale. Ripetevano l’«Ego flos campi» del Ct, «Io, il fiore del campo», paga di me, soddisfatta di essere come il Creatore mi ha voluto, aperta al suo manifestarsi.

·        Elenco, ora, brevemente alcuni di queste spazi e colori e figure.  Chi transitasse per  Solothurn, in Svizzera, visiti lo Staedtisches Museum dove   è  conservato  il dipinto del cosiddetto «Maestro del Giardinetto del Paradiso». Vedrebbe in concreto ciò che, su questi fogli, può  soltanto leggere.

·        Eccone la descrizione.

o       Maria, giovane e  soave, è seduta su una panca erbosa o in terra;

o       Di rado è sola;

o       per lo più è rivolta al Bambino cui spesso  porge un fiore, un garofano o una rosa, oppure un frutto, una mela, una melagrana o un grappolo d’uva;

o       lo sfondo è costituito da una luminosa pergola di rose o da un fitto roseto, nel quale nidificano e cantano uccelli;

o       uno steccato, un muro con torri e  porte, forse simbolo della Gerusalemme celeste, o una siepe di rose che circonda l’intero giardino, ricordano l’Hortus conclusus;

o       un tappeto di prato si estende ai piedi della Madonna;

Madonna del roseto, Soluthurn

o       i fiori sono dipinti in maniera naturalistica. Richiamano Maria, talvolta anche il suo Bambino. V’è il giglio che indica la sua purezza e soprattutto la rosa, la più antica, significativa ed intensa di tutte le metafore floreali mariane; la rosa che ha due diversi colori: bianco e rosso. Nelle bianche si riconosce la verginità, nelle rosse il suo amore perfetto (la maternità).  Accanto al giglio bianco e a quello rosso ritroviamo spesso anche l’iris. Il suo alto stelo suggerisce a  santa Brigida l’altezza di Maria; le sue foglie appuntite le ricordano le spade che penetrano la sua anima;

o       la peonia è la rosa senza spine, e l’aquilegia, in alcuni luoghi anche detta «colombina», è verosimilmente attribuita a Maria come simbolo dei sette doni dello Spirito;

o       di rado manca la violetta i cui fiori sfoggiano il colore della porpora reale, ma che nello stesso tempo, disponendosi  umile e  bassa, richiama la modestia di Maria;

o       il bucaneve, l’«eterno» è il primo fiore dopo il rigore dell’inverno; il mughetto, il giglio della valle e la fragola che fiorisce e fruttifica contemporaneamente diventano metafora della Vergine e Madre; i garofani ricordano per forma e colore i chiodi insanguinati della croce di Cristo e le molte erbe officinali indicano Maria come la «farmacia deliziosa»;

o       raramente in queste raffigurazioni mancano gli Angeli. Per lo più sono angeli-fanciulli, che fanno musica, o colgono fiori per donarli al Bambino o a sua Madre. Quando Maria non è già adorna di corona, sono loro a reggerne una, mentre si librano, sul suo capo;

o       una fontana corrente e una schiera di vergini sante possono completare il modello prefigurato nel Cantico dei Cantici.

o       Lo sfondo dorato delle prime tavole è presto sostituito dal cielo azzurro. Nascono altre varianti: paesaggi e monti, valli e boschi, campi e villaggi in lontananza quasi a contorno ornamentale.

o       Infine, con lo svolgersi degli anni, si perdono del tutto le caratteristiche tipiche del giardino. La Vergine, da «Maria nel roseto»  si fa «Maria nel verde».

L’elenco si commenta da solo: la rosa mistica è anche la somma di tutti i significati derivati dalle singole figure del quadro. Virtù, ornamenti,  qualità morali e fisiche, accostamenti sonori, spettacoli angelici, bellezza della persona e dell’anima diventano descrizioni della ricchezza della Rosa Mistica. La figura di Maria si fa così sempre più ricca. Sempre più penetra, attraverso il colore e le forme, nella mente e nel cuore del fedele. E allora, la rosa:

o       si consolida come simbolo di fioritura spirituale dell’uomo;

o       diventa il segno della comunione con Cristo e delle sue piaghe;

o       si fa attributo di molti santi:

§         santa Dorotea, condotta al supplizio, invia tre belle rose (con mele), nel mese di febbraio, a colui che l’aveva insultata chiamandola «sposa di Cristo»;

§         Rosa da  Viterbo, minacciata dal suo padrone per sciupio di troppa elemosina, trasforma in rose il pane che teneva nascosto nel grembiule;

§         più o meno la stessa sorte capitò a Santa Zita;

§         beata Colomba da Rieti è dipinta con roselline sul capo, perché sul letto di agonia continuava a ripetere: «preparate il fiore e stipateme di rose… faceteme bella per il Signore»;

§         nel convento della Porziuncola vegeta ancora il roseto senza spine dopo che vi si gettò S. Francesco;

§         a Cascia fiorisce la  pianta di rose di S. Rita;

§         Teresa del Bambin Gesù è la santa per antonomasia delle rose, dopo la sua promessa sul letto di morte;

§         sui piedi della Vergine di Lourdes, due rose d’oro facevano bella mostra di sé;

§         Sono legate alla rosa anche Elisabetta di Inghilterra, Rosalia di Palermo, Rosa da Lima e chissà quante altre.

o       Mi piacerebbe dire anche dei Rosacroce e di Belinda che con una rosa ha trasformato il mostro nel suo meraviglioso principe-sposo.  Ma a che vale? Nessuno può sondare il mistero della vita che la rosa rappresenta. Accontentiamoci di  unirci a Colei che ne ha generato l’Autore.

(per il materiale fotografico degli articoli si ringrazia:

 www.google.it  )

 

  torna inizio

 

 

Maria giardino chiuso, fontana sigillata

 

 

 

Introduzione

Nell’immaginario umano, il giardino nasconde aspirazioni e significati mai sufficientemente assimilati.

  • I Sumeri, i Cinesi, gli Egiziani, i Persiani, i Greci, i Romani gli hanno riservato sommo interesse, elevandolo a simbolo di realtà sovraumane.

    Ne hanno fatto uno spazio ben ordinato, adorno di  ogni specie di alberi, di piante profumate  e di ruscelli di acqua viva in cui scorrono latte, vino e miele;

un territorio rallegrato da fontane zampillanti, da sorgenti aromatizzate, da ombre verdeggianti che ricadono su tavole imbandite di cibi raffinati in ricco vasellame, dove sono a disposizione, in ogni stagione, frutti saporiti di ogni specie e dove rilucono  amabilmente  pompa regale,  vesti preziose,  bracciali d’oro e di perle.

 

  • Oppure lo hanno trasformato in paradiso terrestre, centro del mondo, luogo di gioia, di abbondanza, di fertilità, di condizioni eccelse.

    • Alcuni, più spiritualmente dotati, lo consideravano il simbolo dell’anima che ha acquisito una chiara percezione interiore, per effetto  di elevata conoscenza e di particolare intelligenza.

    • Quasi tutti ne fecero la   dimora della divinità.

  • Gli Ebrei trasposero su Sion la realtà del giardino-paradiso e descrissero Gerusalemme in termini chiaramente suggeriti  dalle condizioni e dalle esperienze del giardino edenico. 

  • La Chiesa, a sua volta, si considerò l’“aiuola di Dio”. Monaci e monache la riprodussero nei loro chiostri. L’anima religiosa la elesse a suo luogo segreto. Gli architetti la  riprodussero  nello spazio antistante alla cattedrale.

  • Ed infine, molti palazzi romani, arabi e spagnoli fecero dei loro cortili interni altrettante immagini del paradiso.

Il mio intento, però, adesso, è  di descrivere il giardino dell’Eden.  In seguito, a parte, tratterò anche di quello del Cantico dei Cantici. La loro conoscenza è indispensabile per mettere bene a fuoco il tema che mi sono proposto di trattare: Maria è giardino chiuso.

 

il  giardino dell’eden (Gen 2, 4-25)

 

 Dopo l’universo, Dio creò l’uomo e subito, volendogli preparare  una degna dimora, piantò un meraviglioso giardino, ben protetto, al centro del mondo. Ricorse a quanto di meglio era in suo potere. Tracciò fiumi, fece crescere alberi, di cui due erano eccezionali, profuse aromi, annullò ogni traccia di sofferenza, diffuse eterna giovinezza, sparse vita immortale. Fu l’abitazione di Adamo, ma anche la sua. (Gen 2)

Siffatta sintesi di armonia, l’autore ispirato  la descrisse combinando varie tradizioni precedenti, elaborate soprattutto dalla civiltà sumero-accadica -  vedi il poema di Ghilgamesh - e poi adottate dalle culture successive iraniane, persiane ed ugaritiche. 

La Montagna dei Cedri, la Montagna del Nord, la dimora di Ishtar,  il Giardino degli Dei, il Paradiso, l’albero kishkanû,   l’erba della vita, la bocca dei fiumi   costituivano tutto un prontuario di leggende cui attingere.

Ottimo materiale, adatto a far comprendere il pensiero di Dio sull’uomo.

Non sorprenda il metodo adottato dal Creatore. Come  è affermato anche nella Enciclica “Divino Afflante Spiritu”, preferì adattarsi alla capacità e alla mentalità della gente, facendo intuire all’agiografo le dottrine religiose e i fatti connessi con il Paradiso terrestre. Si servì  di miti storico-sapienziali, di simboli comuni, proporzionati alla mentalità dei lettori immediati del testo sacro.

 

Il giardino nella cultura sumero-accadica

Prima di  commentare  la pericope di Gen 2, elenco alcune figure già presenti  nella letteratura sumero-accadica a  cui si riallaccia l’autore ispirato.

Anche se non frequente, nei testi sumero-accadici, è molto evidenziata  la figura del giardino:

·        Leggiamo di un Paradiso  posto nella città di Dilmum.

È la sede di Enki, dio delle acque e della sposa Ninhurag. Il suo recinto è santo, puro, terso, brillante. Vi regna pace di animali e di umani. La giovinezza resta eterna. Sono completamente assenti malanni, fastidi, violenza, malattia e vecchiaia. Essendo privo di acque,  Enki prega Uttu, dio del Sole e il liquido fecondo gorgoglia in abbondanza.

   Ghilgamesh, re di Uruk, eroe disperatamente votato alla ricerca dell’immortalità, si serve di due descrizioni per esaltare il luogo delle sue peregrinazioni: parla della “Montagna dei Cedri”, riservata all’abitazione degli dei, ricca di acque, trono di Ishtar; cita il “Giardino degli Dei”, locato al di là dell’Oceano, oltre la Montagna tenebrosa. Chi lo raggiunge  può contemplare  il fulgore della pietra preziosa, della corniola, dell’agata e dei lapislazzuli.

 

A Mari,  è stata ritrovata una pittura raffigurante alberi, animali alati, custodi operosi, dee con in mano un vaso da cui sgorgano corsi di acqua. Scene non troppo dissimili da quella descritta  in Gen 2.

Dopo la presentazione del giardino, prendiamo conoscenza di alcune sue figure ricorrenti. 

 

 

Erba (o albero) della vita

In Ghilgamesh, i nostri antenati di 4000 anni fa hanno espresso il loro desiderio più irrefrenabile della vita. Anche se da  Shamash definitivamente condannato a morire,  - «quando gli dei  crearono gli uomini, ritennero nello loro mani la vita», così proferì l’alta divinità - il nostro eroe non si diede per vinto e si mise alla ricerca di Utnapishtim, «colui che ha trovato la vita» per carpirne il segreto. Ci riuscì. «Cerca una pianta simile ad una rosa. Ti pungerai, ma se riuscirai a coglierla avrai la vita», si sentì dire. Dovette però legarsi pesanti massi ai piedi perché l’erba giaceva sul fondale dell’Oceano. Conclusa l’impresa, al battelliere che lo trasportava comunicò di voler mangiare della pianta e di  farla mangiare anche a tutti gli abitanti di Uruk. Solo così avrebbero potuto  riacquistare la perduta gioventù. Non riuscì a mangiarla né lui  né i sudditi di Uruk. Perciò la morte non poté essere evitata.

Sulla scia di Ghilgamesh, il ricorso all’erba della vita fu continuo: una iscrizione del IX secolo a.C. ci rende noto che il dio Assur ha «reso buono il suo governo come la pianta della vita».

Un inno babilonese loda Marduk come dispensatore dell’albero della vita.

 

Una lettera ci informa che il re ha risuscitato alcuni morti ponendo davanti alle loro narici la pianta della vita.

Tale pianta, forse identificata con la palma dattifera, fu onorata come depositaria della virtù vitale: adorata dai re, presente in molte contrade, spesso custodita da esseri eccezionali, talora situata alla porta del cielo, legata con l’acqua della vita, signora della giustizia, giudice dei trasgressori.

L'erba o la pianta della vita, non poche volte, fu collegata anche alla costellazione dell’Idra (= serpente). Il che rinviava alla «Immagine del grande serpente» sotto le forme di metà uomo e metà serpente. Oppure portava il “vaso zampillante”, sorgente di acque feconde.

 

Nel tempio di Eridu fioriva un albero di nome Kishkanu. Risplendeva di lapislazzuli; si ergeva in una foresta fittissima, nella quale nessuno poteva entrare; le sue radici affondavano nella «bocca dei fiumi», nel profondo dell’Oceano; i suoi rami possedevano magiche virtù e dispensavano divina sapienza. Era protetto anche da un custode, da Dumu-zi, il «Figlio vero» nato da Apsu, dio dell’abisso. Venne presto identificato con Oannes, lo scopritore della scrittura, delle scienze e della civiltà magica. Oannes era però anche padrone dell’Arallu, la terra dei morti  e, come tale, causava essiccazioni ed aridità.

Ne consegue che l’albero kishkanu era sinonimo di magia, di conoscenza, di verità e di ogni civiltà. Ma che era anche sotto la protezione del dio della morte.

 

Altrove, nel Libano, anziché  di  kishkanu,  si trattava di  Cedro, ricordato anche da Ezechiele, con caratteristiche diverse ma sempre appropriate al contesto del paradiso.

La bocca dei fiumi

La conoscenza della cosmologia orientale aiuta a capire i testi antichi. Insegnava che esisteva un Oceano celeste,   esistevano «i monti eterni» che delimitavano la terra e sostenevano il cielo. Attraverso  questi, le acque superiori fluivano nell’Apsu, l’abisso, per poi distribuirsi nei fiumi e alimentare la vegetazione.

Ben più, la mitologia mesopotamica e ugaritica dava anche uno spazio e un nome preciso a questi monti eterni:

 

erano la  «Montagna del Nord»,   - «Safon» per l’autore sacro - dimora degli dei, sede di El, sorgente dei fiumi, nel mezzo delle «fontane dei due abissi». vi giunsero Utnapishtim e la moglie  cui gli dei avevano promesso di essere come loro. I Babilonesi erano soliti rappresentare questa sorgente con il simbolo del «vaso zampillante», solo o tenuto dal dio della vegetazione.

Presso i  Cananei, la sorgente si trovava  nel crepaccio sotto il tempio di Atargatis.

A questo punto conviene dare una prima conclusione e un sintetico riassunto.

La cultura sumero-accadico-ugaritica, aveva creato il «Giardino degli dei» e lo aveva descritto servendosi di  temi, di figure e di miti obbligati:

  • poteva essere una regione, una città o una montagna dove non vivevano animali feroci e la vita scorreva senza malattia né vecchiaia;

  • nel giardino cresceva ogni sorta di alberi piacevoli a vedersi, il cui frutto era buono a mangiarsi. Ma più, su tutti, svettava il maestoso cedro;

  • non mancava un abile giardiniere. Custodiva il territorio a favore degli dei;

  • in un primo tempo  il giardino era privo di acqua dolce. Gli dei superni la fecero scaturire  abbondantemente dalla «bocca dei fiumi» sì che la vegetazione fiorì rigogliosissima;

  • non solo, ma preziosissime pietre pendevano dai rami e brillavano tra le acque.

  • Infine, nella foresta, due piante si distinguevano dalle altre:

    • la pianta o l’erba della vita, simbolo del buon  governo, della prosperità, della salute, partecipata al solo Utnapishtim e negata a tutti i restanti esseri umani, che perciò dovevano subire la morte,

    • e la pianta della verità, fonte della scienza e delle formule magiche, le sole, capaci di dare felicità.

 

 

Il giardino del Genesi (2, 4-25)

 

Il primo libro della rivelazione riserva grande importanza al giardino.

  • È situato nell’Eden, regione non identificabile, ad Oriente.

  • Racchiude alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui, nel mezzo del giardino, l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male. Di quest’ultimo non è possibile  cibarsi.

  • Un fiume vi penetra da Eden, e di lì, esce dividendosi in 4 corsi seguendo  la direzione dei punti cardinali. Di qui la  convinzione di trovarsi  al centro del mondo.

 

 

Adamo è padrone del giardino.  Dà il nome ai viventi e alle stelle. Finalmente, compare Eva, madre dei viventi.

Quale, il senso di tutto questo? Sottolineo i punti maestri.

      Paradiso come oasi.

     Nessun dubbio sul fatto che Dio abbia voluto collocare Adamo ed Eva in un luogo di pienezza, di felicità e di fertilità, al centro dell’ universo che gli faceva corona; immagine di una disposizione d’animo a cui gli uomini avrebbero per sempre aspirato come meta di intima gioia, in compagnia del loro Creatore.  A partire da tale visione, gli Autori Sacri, apertamente o velatamente, descrissero le condizioni messianiche del futuro.

    L’espressione più ripetuta era  il rifiorire del deserto e l’alleanza definitiva con Jahvéh. Chi volesse convincersene  apra Isaia ai versi 32, 13ss; 51, 3; 43, 19; 35, 1-7, oppure  Ezechiele ai versi 36, 33-36.

·        La Montagna dei Cedri

o       Per i Sumeri e Accadi, nell’estremo Settentrione, giaceva la «Montagna Sacra», il «Paradiso», la «Città del Gran Re». Inutile esaltarne l’elevatezza, la ricchezza di alberi, l’abbondanza di acque, le pietre preziose, lo splendore. Giova invece sottolineare come queste descrizioni fossero tutte riassunte nel maestoso Cedro «che aveva messo la cima fra le nubi».

o       Come l’immaginazione dei Profeti abbia attinto da simili elaborazioni  mitiche la materia per celebrare la condizione del nuovo paradiso, lo si può notare leggendo il capitolo 31 di Ezechiele:

·        il cedro, simbolo del vero paradiso perduto, è pur grande, alto, maestoso, ma sarà abbattuto per l’orgoglio del suo Re;

·        sarà sostituito da Gerusalemme e dal  Tempio, vero giardino di Dio, custode di ogni sorta di pietre (28, 13),  collocato su un monte altissimo (40, 2). Il nuovo Tempio (40, 5; 41 1ss.) diventerà il  modello  di quello celeste, ripieno della gloria di Dio (43,1), circondato da un territorio santo (43, 12), ricco di acque (capp. 40-44). Di queste, soprattutto, si interessa Ezechiele: da una sorgente  sotto la soglia del tempio (capitolo 47) si spanderanno acque ad Oriente - chiaro richiamo a Genesi 2 – le quali alimenteranno  tutti i  fiumi e poi entreranno nel Mar Morto portando ovunque sacralità e poi  feconderanno la vita e  faranno crescere alberi e alberi e alberi, tutti portatori di frutti in ogni mese, tutti  ricolmi di foglie medicinali e poi popoleranno di pesci abbondantissimi ogni invaso. Insomma, realizzeranno il vero Paradiso terrestre e ridaranno a Dio la sua signoria sulle creature, in uno stato di Alleanza perfetta.

o       Ulteriori evocazioni edeniche nei Profeti  si possono trovare in Gioele 3, 18.19; in Zaccaria 14, 8.9.17. Non mi si richieda altri rinvii. Non è il luogo appropriato.

·        Albero della vita

o       Il ricorso all’Albero della vita, specie nell’A.T. è frequente, perché molti sono stati gli Autori sacri che hanno vagheggiato  nella Gerusalemme Nuova, Monte stupendo, la fonte perenne di vita e le condizioni di una pienezza realizzabile solo nel paradiso edenico. Qualche accenno:

o       da Isaia, 65, 17-25, riporto:

§         …Io creo nuovi cieli e nuova terra,

§         …il più giovane morirà a cento anni,

§         …quali i giorni dell’albero, tali i giorni del mio popolo,

§         …non faticheranno invano,

§         …prima che mi invochino, io risponderò,

§         …il lupo, il serpente non faranno né male, né danno in tutto il mio santo Monte.

Nel libro dei Proverbi, l’Albero della Vita è diventato simbolo della salute (3, 8.16) e della sapienza procurata dalla osservanza della Legge, dall’insegnamento del saggio e dal timore di Dio (13,12.14; 14, 27). Cito pochi esempi: una  lingua dolce è un albero di vita (15, 4) , un desiderio soddisfatto è albero di vita (13, 12) ( l’albero della vita è diventato adesso simbolo della pace interiore e della gioia del cuore),  è giusto colui il cui frutto è un albero della vita (11,30.31); l’evangelista Giovanni traspone gli stessi concetti nella Gerusalemme Nuova (Ap 22, 1.2). Dal Trono dell’Agnello e di Dio, sgorga il fiume della vita. Sulle sue rive, una volta al mese, fioriscono e fruttificano gli alberi della vita, le cui foglie guariscono le ferite.

       Concludo:

§         Nella letteratura biblica l’Albero della vita simboleggia la sottomissione obbediente dell’uomo alla volontà divina, causa di vita fisica (salute), etica (tranquillità), eterna (felicità).

§         Queste condizioni liberano gli umani dalle insidie della morte e consolidano la vicinanza di Dio, vera fonte di ogni benessere.

Albero della  scienza

 

 La figura dell’albero della scienza è meno diffusa. La descrivo richiamandomi ai libri apocrifi apocalittici. «Oltrepassate le montagne del Nord-Est, Enoc arrivò nel Paradiso della Giustizia, ricco di Alberi numerosi e grandi, fra cui primeggiava l’Albero della Sapienza.  Quelli che ne mangiano conoscono una grande sapienza. Esso rassomiglia al carrubo; il suo frutto, simile ad un grappolo della vigna, è molto buono; e l’odore di questo Albero, si spande e penetra lontano. E io dissi: «come è bello quest’albero e come il suo aspetto è dolce». L’Angelo santo, Raffaele, il quale era con me, mi rispose e disse: «Questo è l’Albero della Sapienza, di cui mangiarono il tuo vecchio Padre e la tua vecchia Madre, tuoi avi: ed essi conobbero la Scienza, i loro occhi si aprirono e seppero che erano nudi, e furono cacciati dal Paradiso». (Apocalisse di Enoc. Cap. 32 )

o       Paolo riconduce il frutto della scienza-sapienza alla vittoria sul libertinaggio morale, causa di morte, e all’osservanza della Legge divina, causa di vita (Rom 6, 20-23).

o       In generale si può dire che l’albero della vita è simbolo di immortalità fisica ed eterna donata da Dio agli uomini come premio dell’obbedienza alla Legge, e che l’albero della scienza del bene e del male è immagine dell’autonomia libertaria e magica, causa della morte fisica ed eterna dell’umanità.

·        Ultima nota: probabilmente a queste due piante debbono riferirsi le due colonne, Jakîn e Bo’az, erette davanti al Tempio. ( 1 Re 7, 15-22. 41-42) Avevano forma  di albero stilizzato, con fusto e capitello simile al giglio, carico di 200 melegrane.

I       Il simbolo dei fiumi

Come in  tutte le culture medio-orientali, anche per gli Ebrei l’oasi biblica era irrorata da fiumi che offrivano «acqua della vita» in abbondanza. Scaturivano dalla «Montagna dei Cedri» e fecondavano i deserti  (cf. Ez 47, 1-5. 8-12: Gioele 3, 8; Zac 14, 8). Assumevano, quindi dimensione cosmica  dal momento che, in alcuni luoghi, erano  identificati con la «bocca di tutti i fiumi» della terra.

A riprova, mi piace citare Siracide 24, 22-32, di cui riporto i versetti 28-29: “Io sono come un canale derivante da un fiume - e come un corso d’acqua sono uscita verso un giardino. - Ho detto: «innaffierò il mio giardino e irrigherò la mia aiuola». - Ed ecco il mio canale è diventato un fiume, - e il mio fiume è diventato un mare”.

CONCLUSIONE

Dalla breve esposizione sopra riportata deduco le seguenti conclusioni:

·        il simbolo del Paradiso-oasi rivela la trasformazione del deserto in giardino, anticipazione dell’uomo redento divenuto vero figlio di Dio, partecipe della sua natura e dei suoi beni.  Autore del miracolo è solo l’Onnipotente, unica causa di salute universale;

·        la geografia mitica del mondo antico e dell’aldilà, accettata da tutti gli «scienziati» orientali come dato “scientifico”, ha fatto nascere la figura della «Montagna dei Cedri» come localizzazione del Paradiso terrestre, testimone delle prime vicende compiute dall’umanità;

·        le due immagini, il Paradiso-oasi e il Paradiso-Montagna dei Cedri, furono in seguito usate come similitudine per indicare abbondanza e fertilità, periodo messianico e opera gratuita di Dio;

·        anche gli elementi costitutivi di queste due immagini presero valore simbolico per indicare concetti teologici, basati su fatti realmente accaduti;

o       l’Albero della Vita fu simbolo della «vita eterna», della salute fisica e morale, del refrigerio e del premio celeste concesso ai giusti, come premio dovuto all’osservanza della Legge. Rappresentò anche l’altezza comunicata da Dio, ma poi, purtroppo, usurpata superbamente dall’uomo;

o       l’Albero della scienza fu il simbolo dell’autonomia etica dell’uomo e del suo potere magico, con il conseguente rimorso della coscienza;

o       l’acqua dei fiumi fu la vita donata da Dio, la Legge che dà la vita eterna, la partecipazione, da parte dell’uomo, alla Sapienza divina;

·        tutte queste figure e tutti questi simboli sono legati con il Tempio di Gerusalemme, che, essendo il trono della Presenza divina, è anche il luogo di ogni bene, di ogni salute e di ogni vitalità;

·        ignorando la scienza della preistoria, gli agiografi, guidati dalla Rivelazione cui essi credevano e illuminati dall’Ispirazione, intuirono fatti realmente accaduti, ma da loro ignorati nelle modalità e scoprirono verità fondamentali, mediante miti storico-sapienziali, forme letterarie e simboli, con cui si tramandava dai sumero-accadi il genere letterario del Paradiso terrestre;

·        queste stesse forme e questi stessi miti e simboli furono da loro proiettati nel periodo messianico futuro, sperato ma naturalmente anch’esso ignorato nei suoi sviluppi reali e nelle sue modalità.

 

 

IL GIARDINO DEL CANTICO DEI CANTICI

 

 

Gli antichi Rabbini pensavano che una sola parola della Scrittura racchiudesse in sé, come in uno scrigno, settanta volti. Se questo è vero  in generale, per il Cantico dei Cantici il loro detto va preso ancor più sul serio.  Dovremmo mutare il “settanta” in “settanta volte sette”.

Che cosa non è stato scritto al proposito! Gli esegeti più autorevoli concludono così le loro analisi:

  • due innamorati cantano il reciproco amore  nei modi concreti di giovani esuberanti. Si ricercano, trovano nella natura i simboli più efficaci per comunicare sentimenti e aspirazioni, ignorano tutto ciò che esula dalla propria esperienza di  bellezza e di splendore;

  • dopo l’esilio di Babilonia, Israele ha visto nel loro rapporto d’amore la manifestazione  più efficace del matrimonio spirituale vagheggiato da Jahvéh con il suo popolo;

  • allora, Gerusalemme e il suo Tempio furono  celebrati come il giardino del Cantico dei Cantici, realizzazione piena del Giardino edenico e del “luogo dell’incontro”, preannunciato da Gen 2.

  • Pertanto, il Cantico dei Cantici è libro ispirato. Va letto e preso a guida del vivere umano: Dio, impersonato in Salomone, è il vero innamorato di Gerusalemme  identificata con la Sulammita, l’abbronzata pastorella di Sulam.

  • L’alleanza sponsale con il Creatore è pregustazione di vita eterna. Per il momento non è a disposizione nostra che  un giardino.

 

 

Ed allora, ecco  il discorso sul giardino. È mio intento esaminare per sommi capi i versi 4, 12-16, e 5,1 – è il tema specifico del giardino –, ma non posso omettere  4, 1-11 dove viene descritta la bellezza fisica della donna, chiave interpretativa dell’intero  poema.

Esiste una differenza tra il giardino edenico di Gen 2  e quello di Ct 4. Non si escludono del tutto, ma ognuno porta un suo carattere particolare. Forse sarò più semplice e comprensibile  se mi esprimo così: in Genesi, il giardino è soggetto, in Ct, è predicato.

  • Quando dico che il giardino è soggetto, intendo esplicitare come, pur creato da Dio, agisca nella sua specifica consistenza formale: elargisce vita e fecondità (acqua, Albero della vita, Albero della scienza del bene e del male), accoglie Adamo ed Eva, fiorisce al centro del mondo - difatti i quattro fiumi che si dipartono da lui scorrono nella quattro direzioni dell’orizzonte, quasi fossero originati da uno stesso punto -, distribuisce fin la morte per la tossicità del suo frutto. Insomma: è spazio ben definito, diviso dal resto del deserto, cinto da mura, protetto da Angeli. Opera in prima persona a favore dei suoi inquilini attraverso i suoi prodotti: acqua, frutti, animali, fiumi.

  • Quando dico che il giardino è un predicato, voglio significare altro: mi servo di lui per descrivere la donna che vi abita. È lei a dominare, con la sua bellezza, con il suo splendore. Di lei si dice che è giardino, che è tutto l’incanto racchiuso nei suoi confini: lei è colomba, torre eburnea, melagrana, gazzella, aroma, montagna, sorgente, pozzo di acque vive e infiniti altri spettacoli di natura.

Perciò, dividerò questo lavoro in due parti: descriverò la bellezza della giovane innamorata ( 4, 1- 11), dirò del giardino che la definisce (4, 12- 5,1).

 

Esaltazione del corpo femminile (4, 1-11)

I primi undici versetti del canto quarto (e, del resto, tutto il poema) sono un inno alla bellezza del corpo della Sulammita. Ne cantano il fascino e lo splendore in ogni sua dimensione fisica, spirituale ed umana. Creano così un’atmosfera oscillante tra possesso e conquista, attesa ed incontro, fidanzamento e matrimonio, interiorità e quasi follia: «mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa – mi hai rapito il cuore con un solo sguardo – con una sola perla della tua collana».

Il gusto riflette un po’ il  barocchismo semitico, accalca colori, suoni, profumi, simboli, visioni, ma si presenta come spettacolo di fascinazione  e di trasparenza. Ne esce una poesia “corporea” di grande  purezza e “spiritualità”. Richiede occhi limpidi, cuori intemerati.

Versi 1-11: la bellezza del corpo

 Nei versi 1-7, la donna  viene descritta, per certi aspetti, come la materialità della terra feconda, oggetto della promessa e della benedizione divina.

Lo sposo

«1. Come sei bella, amica mia, come sei bella! - Gli occhi tuoi sono colombe, - dietro il tuo velo. - Le tue chiome sono un gregge di capre, -che scendono dalle pendici del Galaad.

2. I tuoi denti come un gregge di pecore tosate – che risalgono dal bagno; tutte procedono appaiate, - e nessuna è senza compagna.

3. come un nastro di porpora le tue labbra – e la tua bocca è soffusa di grazia; - come uno spicchio di melagrana la tua gota – attraverso il tuo velo.

4. Come la torre di Davide il tuo collo, - costruita a guisa di fortezza. – Mille scudi vi sono appesi, - tutte armature di prodi.

5. I tuoi seni sono come due cerbiatti, - gemelli di una gazzella, - che pascolano tra i gigli.

6. Prima che spiri la brezza del giorno – e si allunghino le ombre, - me ne andrò al monte della mirra – e alla collina dell’incenso.

7. Tutta bella sei, amica mia, in te nessuna macchia.»

·        Sette elementi di natura concorrono alla sua  bellezza:

o       gli occhi sono colombe appena visibili attraverso il velo che cade su di loro e che adombrano di mistero il volto pieno di fascino;

o       le chiome che scendono lunghe sulle spalle evocano il gregge che pascola sul rigoglioso Galaad. Figura un po’ insolita, oggi, per chi contempla i fastidiosi ingorghi di macchine, ma tanto familiare 400 anni prima di Cristo;

o       i denti sono candidi e ben ordinati, espressione di un sorriso luminoso come quelli di un agnello che esce appena lavato dal fiume immacolato;

o       le labbra sono nastro di porpora e compongono una bocca ricca di grazia, capace di ammaliare gli  sguardi dell’innamorato;

o       la gota, raccolta  sotto il  serico velo, è melagrana, richiamo di fecondità, di pudore e insieme prefigurazione della risurrezione e della maternità, purpurea immagine della chiesa e di Maria;

o       il collo è slanciato come la torre di David, come il busto incantevole di Nefertiti, come un dipinto di Modigliani o di Pollaiuolo. Rende ferma chi ne è dotata, esalta la sua posizione eminente, l’altezza, l’eleganza, l’inaccessibilità, la purezza, la verginità. In più è ornato di mille scudi, quasi collane che danno risalto alla sua positura e rinviano alla rocca di Sion, cui sono stati appesi le armi sottratte ai nemici;

o       i seni  sono due cerbiatti, gemelli di una gazzella  che pascolano fra i gigli. Figura ardita, questa dei seni, di per sé simboli di abbondanza e  di prosperità erotica, ma che qui, legati ai cerbiatti, si fanno immagini di bellezza, di tenerezza, di freschezza, di mobilità, di armonia e di fascino! In trasparenza, sotto la veste, richiamano il dolce saltellare delle bestiole che cozzano tra loro sul prato al primo risveglio della primavera.

·        Anche i versi 8-11 sono celebrazione del corpo, questa volta accompagnata da profondo desiderio della sua presenza.

«8. Vieni con  me dal Libano, o sposa, - con me dal Libano vieni! - Osserva dalla cima dell’Amana, - dalla cima del Senir e dell’Ermon, - dalle tane dei leoni, dai monti dei leopardi.

9. Tu hai rapito il mio cuore, - sorella mia, o  sposa, - tu mi hai rapito il cuore - con un solo sguardo, - con una perla della tua collana!

10. Quanto sono soavi le tue carezze, - sorella mia, sposa, - quanto più deliziose del vino le tue carezze. - L’odore dei tuoi profumi sorpassa tutti gli aromi.

11. Le tue labbra stillano miele vergine, o sposa, - c’è miele e latte sotto la tua lingua – e il profumo delle tue vesti è come il profumo del Libano».

o       Il verso 8 è sorprendente: 

·        dilata gli orizzonti fino al Libano, all’Amana, al Senir, all’Hermon, catene di montagne maestose, a settentrione della terra promessa, in una regione selvaggia scelta forse per la sua vegetazione, per la sua frescura e bellezza;

·        le loro cime, alte più di 2000 metri, erano sempre innevate, i loro pendi tanto estesi da contenere l’inverno sulla cima, l’autunno sulle spalle, la primavera sui fianchi e l’estate ai piedi ( è un proverbio arabo);

·        dall’Hermon scaturivano alcune sorgenti del Giordano. Quivi, al tempo dei Crociati - forse ancora oggi - facevano le loro tane i leopardi,  vivevano i leoni, segno di potenza e di terrore, incubo dei pastori , oggetto di sport regale.

Ed allora ecco perché il Libano e l’Amana, il Senir e l’Hermon, i  leoni e i leopardi:  perché è da siffatto fondale, fresco, delicato, maestoso e terrificante che deve incedere lei, la giovane sposa, la regina, «terribile come schiere a vessilli spiegati», (Ct 6,4)  signora degli  animali - alla maniera della dea cretese -, dispensatrice di vita e di morte come Artemide cacciatrice, incoronata di città, sul  carro

d    trainato  da leoni o da tigri, come Cibele, antesignana delle Vergini delle rocce. «Vieni con me dal Libano o sposa», implora l’innamorato, vieni o bella ma anche forte, anche difficile a raggiungersi, anche dominatrice di cuori, anche premio del lottare. o       Proprio per questo lei,  dominatrice di cuori,  soggioga gli sguardi  dell’innamorato prostrato quasi in uno stato  di deliquio, per troppo  calore di desiderio. Vieni, perché mi hai rapito il cuore, perché non posso più restare lontano da te, perché rendi bella la tua collana al punto che una sua sola perla mi riduce tuo schiavo. (v. 9)

o       Vieni, perché sono soavi le carezze della tua mano, perché inebriano i profumi della tua persona, perché non c’è aroma che possa gareggiare con  l’ebbrezza della tua presenza e con l’incantesimo dei tuoi occhi. (v.10)

o       Infine, nel versetto 11,  ancora la simbologia gustativa e olfattiva crea effetti di magica seduzione. Ora sono di scena le labbra che stillano miele, la lingua che nasconde miele e latte, le vesti, tutte impregnate del profumo del Libano. (cf. Sal 19, 11; 119, 103)

o       Si conclude con queste immagini il canto del corpo sponsale. A nessuno ormai non potrà più sfuggire la sua centralità nel proprio valore di segno. Donna bella, dolce, morbida, desiderabile come la terra in libertà; segno di felicità, di donazione, di ricerca, di amore totale, di trasparenza reciproca e persino di esperienza superiore, quella suggerita dal valore simbolico dei termini usati. In un delicato equilibrio di realismo e di allusività, di corporeità e di spiritualità, effluvi di sapori, odori, fragranze, colori si rincorrono e creano il rapimento e l’abbandono totale dell’amato nelle braccia della sua sposa tanto affascinante e desiderata. Sullo sfondo si erge la montagna del Libano, la vetta dell’amore, dei leoni, dei leopardi, della freschezza, dei profumi, della primavera, dell’ardimento.

o       Se troppo immediato è il linguaggio dell’autore ispirato, riconciliamoci con quello dell’austero Giovanni della Croce: «Si è addormentata la sposa - nell’ameno giardino che anelava; - appagata riposa, - il collo reclinato - sopra le dolci braccia  dell’Amato». ( Cantico spirituale, strofa XXII)

Versi 4, 12 – 5,1: il giardino chiuso

Le righe precedenti conducono direttamente all’interno del giardino. Non per cambiare scena dal momento che il giardino resta sempre un modo nuovo per cantare il corpo della donna. Dopo tutto è lei il vero giardino delle delizie e della bellezza.

Per comodità ricopio la pericope del “Canto del giardino”.

Lo sposo:

«12. Giardino chiuso sei tu, sorella mia, sposa,

giardino chiuso, fontana sigillata.

13. I tuoi germogli sono un giardino di melagrane,

con frutti più squisiti, alberi di cipro con nardo;

14. nardo e zafferano, cannella e cinnamono

con ogni specie di alberi da incenso;

mirra e aloe

con tutti i migliori aromi.

15. Fontana che irrora i giardini,

pozzo di acque vive,

e ruscelli sgorganti dal Libano.

La sposa

16. Lèvati aquilone, e tu, austro, vieni,

soffia nel mio giardino,

si effondano i suoi aromi.

Venga il mio diletto nel suo giardino

e ne mangi i frutti squisiti.

Lo sposo:

5.1. Son venuto nel mio giardino, sorella mia, sposa,

e raccolgo la mia mirra e il mio balsamo;

mangio il mio favo e il mio miele,

bevo il mio vino e il mio latte.

I versi appena riportati obbligano il lettore a fissare gli occhi  sulla sposa, «fontana sigillata», incastonata nel «giardino chiuso», scrigno, dove sono conservate e nascoste, preziose ed incomunicabili, tutte le  virtù della Sulammita. Solo i simboli possono svelare la  luminosità di tanta  ricchezza. Ed è il motivo per cui occorre che esista un giardino.

Ma, prima di tutto, perché  «giardino chiuso»? perché  «fontana sigillata?»

·        Perché, quivi, gli innamorati si appartengono senza partecipazione di terzi. Il giardino è proibito a tutti. Solo allo sposo è concesso entrarvi ed incontrare la persona del suo amore.

·        Perché nel giardino zampilla anche una fontana, sorgente purissima, capace di comunicare vita solo a chi la raggiunge, a chi ne forza la porta   che  la custodisce nella sua illibatezza, dono per il prode, conquista per il valoroso, premio per chi ha cuore grande.

·        Perché l’esclusività del possesso reciproco dei due innamorati merita un luogo di intimità non violata, di fedeltà a tutta prova.

·        Perché lei, la sposa, è tutto il giardino, e il giardino è proprietà del padrone che lo possiede, non condivisibile con altri.

·        Perché nell’Antico Testamento, l’acqua della fontana zampillante  evocava un contesto sponsale di beatitudine. « Sia benedetta la tua sorgente, - trova gioia nella donna  della tua giovinezza: - cerva amabile, graziosa gazzella, - essa  si intrattenga con te; - le sue carezze ti inebrino sempre, - sii tu sempre invaghito del suo amore»  raccomanda   il libro dei Proverbi (cf. Pro 5, 15- 20).

·        Perché il giardino coltivato a vigna, casa di Israele, sposa prediletta, piantagione preferita, è territorio esclusivo  che Jahvéh ha protetto con siepe, pur sapendo che sarebbe stata infedele (Is 5, 1-7).

·        Perché il giardino chiuso, il paradiso - il termine “pardes”, da cui deriva “paradiso” è di origine avestica, usato nell’antica Battriana-Afghanistan -   significa proprio «circondato con muro», «recintato con una siepe» e designa il giardino del piacere e dell’intimità.

·        Perché il  giardino sigillato , si può dire, è un luogo comune della letteratura mondiale. Solo due riferimenti:

o       Gli Egiziani ci hanno lasciato: «Io sono la tua prima sorella. Io sono per te come un giardino piantato di fiori e di ogni sorta di erbe odorose».

o        Ibico, poeta greco del VI secolo ripete: «A primavera fioriscono i meli Cidonii e i melograni, - irrigati dall’acqua dei fiumi, - ove è un giardino intatto di vergini – e ove sono piccoli germogli di vite…»

Tutto questo, nel versetto 12.

Quelli seguenti completano la figura della donna, divenuta ormai giardino di luce per la sua femminilità. L’autore sacro fa ricorso  alla ricchezza botanica e aromatizzata del giardino.

Evoca  il fiorire dei germogli, l’espandersi dei profumi, il rigoglio della vegetazione, il maturare dei frutti.

Non intendo fare un trattato di simbologia. Dovrò accontentarmi di semplici annotazioni.

·        La melagrana (v.13) merita un’attenzione particolare. È espressione di bellezza, di prosperità della terra promessa (Num 13, 23; Dt, 8, 8; Gl 1, 12), di fecondità, di pienezza, di comunione, delle perfezioni divine nei loro molteplici effetti, dell’eternità (in quanto rotonda), di soavità (per la dolcezza del succo), dei misteri divini, della Chiesa stessa ed infine anche  della maternità - la melagrana ha definito simbolicamente la Vergine nell’atto di proteggere sotto il suo  manto rosso  una nidiata di bambini -. Dal simbolo della melagrana, appare evidente, la Sulammita riceve bellezza e ricchezza non comuni.

·        Accanto al melograno si succedono altri  alberi, da frutto e da profumo, tutti  pregiati e rari: il cipro e il nardo, provenienti dalla lontana Arabia, il cinnamomo del misterioso Sri Lanka, la vite della fertile Engaddi,  la canna   (= cannella) e lo zafferano ( = il croco )  del ricco Egitto. Tutti esotici, tutti rari, pari alla straordinaria e singolare bellezza della donna a cui assomigliano.

·        E poi viene anche evocato l’incenso, la mirra,  l’aloe,  balsami ed essenze di primo ordine. L’ “Apocalisse di Mosé ”, apocrifo del primo secolo d.C., racconta come Adamo, dopo la colpa, una volta ricevuto l’ordine di lasciare il giardino, abbia  pregato Dio di lasciargli portare con sé gli aromi profumati del paradiso.

«Come gli angeli lo lasciarono entrare, egli ne raccolse di entrambe le specie: croco, nardo, canna e cinnamomo e raccolse anche gli altri semi utili per il suo sostentamento. Li prese e uscì dal paradiso; e ci trovammo sulla terra». (n. 29)

Da allora i profumi rallegrarono anche i mortali della terra, invasero i giardini, divennero segni di presenza e di gioia. Non amore senza di essi,  non gioia degli occhi se non nella vista della donna resa desiderata per la loro vibrazione aerea, non comunione se non nel reciproco partecipare all’incantamento da essi creata.

·        Risulta evidente una constatazione: attraverso il metodo  semitico dell’accumulazione, l’autore ispirato ha saputo creare un’impressione di pienezza, di stordimento, di ebbrezza. Il giardino dell’amore è un paradiso di colori, di profumi, di sensazioni; è espressione di totalità e di pienezza. Freschezza e intensità insieme si intrecciano proprio come nell’unione  tra le acque delle sorgenti e il verde della vegetazione odorosa.

·        Il versetto 15,  chiude le invocazioni dell’innamorato, ma ripropone anche l’immagine della sorgente all’interno del giardino incantato delle delizie. È una frase nominale, frase sospesa. Come tale, si presta sia a concludere il canto dello sposo, sia ad anticipare già il versetto seguente, messo in bocca alla sposa. In questo ultimo senso è lei che parla, e non fa altro che presentarsi, quasi a dire: tu o sposo mi hai invocata, ecco io sono quella fontana che irrora i giardini e che rinnova tutte le gioie del paradiso. Io sono il paradiso a cui tu aneli, la fonte che affiora dal terreno arido all’interno di un’oasi e lo rende verdeggiante e florido.

 Vien da pensare al pozzo dell’acqua viva celebrato da Genesi (26, 19), e da Geremia (2,13; 17,13), ma soprattutto a quello della Samaritana (Gv 4) e del cuore di  Gesù: «Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno». (Gv 7, 37-38)Questa simbolica del giardino simile a grembo fecondo, a rifugio di pace o ad oasi che offre frutti e  bevanda, ha rinviato spesso i lettori del Ct a Sion, giardino perfetto in cui Dio accoglie l’uomo e lo ricolma di beni consolatori. (Sal 45; 87) Visto così il canto del giardino diventa l’inno dei fedeli che, nella terra dell’elezione, si sentono accolti da un amore infinito.

·        Non può tacere la sposa al grido del suo innamorato. Il versetto 16 costituisce la risposta attesa: attraverso la figura del vento caldo del Sud   e del vento freddo del Nord, nell’ombelico del giardino, in cui l’amato è invitato  ad entrare, si ricompone tutto il mondo dei sentimenti. L’oasi chiusa è aperta dalla donna stessa, il sigillo della fonte è spezzato, lo sposo è chiamato a cibarsi dei frutti squisiti ed esaltanti dell’amore. Il giardino si fa sempre più centro del mondo. Quivi come in un banchetto messianico, i commensali sono immersi in nuvolose e odorose atmosfere di effusioni paradisiache.

·        L’ultimo versetto, il 5, 1, conclude il canto. Lo sposo è entrato. Adesso parla in prima persona, perché deve esprimere l’esaltazione di un’esperienza realmente vissuta. Si tratta di gustare i frutti squisiti, di perdersi nei profumi: il  banchetto escatologico è apprestato, i commensali vi si sono seduti. Condivisione di cibi prelibati, pura effusione di abbraccio, abbandono di amore, intimità, contemplazione di volti ardenti. È favo di miele, è vino inebriante: la  pienezza. La verità profonda del Ct non sarà mai colta sino a  quando non sia interpretata, in un contesto nuziale, come piena partecipazione al cibo dato da Dio. (cf. Is, 25,6;55,1; 65,13; Zac 9, 17; Sal 22, 27;23,5; 36,9).

Conclusione

·        Il canto dolce e appassionato dell’unione nuziale appare in tutta la sua luminosità fisica e spirituale, parabola dell’amore profondo, segno della completezza della perfezione, della donazione e quindi espressione di valori trascendenti.

·        L’innamorato trova nella sua donna la sintesi di ogni bellezza, tutto ciò che può desiderare.

o       È la forza totalizzante dell’amore, la fonte di pace e di gioia.

o       Il corpo si fa grande simbolo di comunicazione, sintesi di valori molteplici umani e trascendenti.

o       La bellezza è il luogo in cui sono scritte le varie perfezioni e tutti i sentimenti spirituali dell’animo.

·        Esiste una letteratura in cui il corpo femminile è:

o       stereotipo, erotico, perturbante,

o       ma anche canto simbolico: la tipologia somatica, allora, si fa trasfigurata ed eterea. Fino ad entrare nella tradizione cristiana che vede in essa la Sapienza divina, o Maria, o la Chiesa o l’anima fedele.

 

MARIA  HORTUS CONCLUSUS

 

 

Da quando, nel XII secolo, Bernardo di Chiaravalle disserrò  lo scrigno del Cantico dei Cantici e il soldato, tra una guerra e l’altra, lentamente apprese a gioire dei richiami di cuor gentile, divenne naturale applicare a Maria il simbolo dell’«Hortus Conclusus».

I termini  significano «giardino chiuso» e, strettamente legati a «fontana sigillata», sono presi appunto da Ct  4, 12.

Questa espressione ha qualche cosa di indefinito e perciò di applicabile   ad un numero estesissimo di significati. Un po’ come dire: «nella cassaforte  è nascosto un tesoro senza prezzo e non so di che si tratta. Quanto esiste di bello e di prezioso può, allora, essere usato  per cercare di farsene un’idea almeno approssimativa».

 

 

Onde ovviare a questa difficoltà cercherò di procedere per divisioni, fermo restando che si tratta  sempre di divisioni solo concettuali e che in realtà il soggetto da descrivere, Maria, è sempre unitamente composto. Mi scusi il lettore se, perciò, si imbatterà in ripetizioni o incongruenze. Tre saranno i titoli che applicherò allo sviluppo del tema: la Tuttasanta, la Madre, la Sposa, ognuno dei quali implica necessariamente anche gli altri due. Se reputerà troppo  cruda la separazione, attenda il momento di ricomporre nel suo insieme i lacerti isolati.

Parlerò prima di tutto del giardino. Precedentemente ho commentato Gen 2, e Ct 4. Adesso mi propongo di vederne gli sviluppi nella cultura cristiano-europea.

hortus conclusus

Il simbolo del Paradiso

L’Hortus Conclusus è prima di tutto il paradiso terrestre:

  • un luogo circondato da mura o da siepi, quindi invalicabile, riservato a chi lo abita. Puro da ogni contaminazione, offre riparo, intimità, pienezza di sé;

  • come tale, è considerato il centro del mondo, del cosmo  uscito dalle mani di Dio al principiare del tempo;

  • sotto questo aspetto cela necessariamente convinzioni profonde, non sempre avvertite, ma fondamentali: in mezzo al mutare delle cose, il centro resta l’unico punto di riferimento e di sicurezza. Il nostro spirito mitopoietico l’ha ravvisato in specifiche immagini:

 

nella Montagna sacra su cui si incontrano il cielo e la terra. Montagna sacra era il monte Meru  per gli Indù, la Ziqqurat per i Babilonesi, Sion  per  gli Ebrei, l’Olimpo dei Greci, il Qâf per l’Islam, le montagne rupestri, ancora oggi, per tutti,  popolate da statue, da croci, da santuari, lo stesso mundus dei Romani periodicamente aperto;

in ogni tempio o palazzo e per estensione in ogni città sacra o residenza regale. Antichissima è la concezione che il tempio sia una imago mundi, il santuario che riproduce l’universo nella sua essenza, poi diventata basilica cristiana, cattedrale medievale, Gerusalemme celeste; (Ap. 21)

  • nell’Albero cosmico, i cui rami arrivano al cielo, un doppio della Montagna sacra.

Montagna sacra, tempio e Albero cosmico passano anche per Axis mundi, asse del mondo che mette in comunicazione cielo, terra e inferno.

  • I chiostri recintati dei conventi, ogni giardino protetto, i vestiboli delle chiese antiche, sviluppati dagli atri dell’antica basilica, erano immagini del paradiso. Circondati da quadriportici  e con al centro  il fresco della fontana, si voleva creassero  le condizioni di prima del peccato originale. In essi venivano ammoniti i non  battezzati o i penitenti che non potevano accedere al culto.

  • Ma l’Hortus Conclusus  non è simbolo di sole entità materiali. Raffigura anche gli  stati spirituali che corrispondono alle immagini adoperate per descriverlo.  Il Ct è una miniera insondabile. Basta aprirlo a caso per riscoprire il mondo originario della creazione, il luogo privilegiato «riservato» a Dio, arricchito da un numero infinito di pietre preziose (Ez, 28,13) o da alberi che superano i cedri del Libano (Ez 31, 8-9), il segno del suo potere di rigenerazione e di fecondazione della terra (cf. Is, 51, 3; 58, 11; Ger 31,12).

  • A loro volta, le condizioni spirituali sfociano nel possesso della beatitudine oltremondana e della glorificazione di chi è degno della vita divina.  Allora, paradiso è volersi trovare sempre e senza sforzo nel cuore della realtà e della sacralità, è desiderare di superare in modo naturale la condizione umana e scoprire quella divina, già pregustata da Adamo prima della caduta.

·        Ma il giardino si connette anche con il “principio materno” valorizzato dalla presenza delle acque fecondatrici. È lo spazio sacro marcato dalla «chiusura» e dal «sigillo». È grembo materno che fonde insieme fecondità e inviolabilità, maternità e virginità, vita e santità: là sono nato, là intendo ritornare per trovare pace, sicurezza, nutrimento, tenerezza, calore, vita. Là mi sento come in un «paradiso terrestre» in cui scorrono acque abbondanti. Mi disseto alla sua fonte centrale; assisto al dipartirsi dei quattro fiumi che dal cuore del mondo, luogo di immortalità, fluiscono verso regioni lontane bisognose di vita; mi siedo all’ombra del grande albero carico di frutti. (cf. Gen 2; Sal 46, 5-6). L’aspirazione all’età dell’oro, è una versione laica di questo ritorno alle origini materne; il Giardino delle Esperidi, simbolo di fecondità sempre nascente, santificato dalle nozze di Zeus e Era, è un’altra versione laica (ma a questo punto, devo pensare che “laico” sia sinonimo di inclinazione naturale, di sigillo impresso in noi  dal Creatore).

  • Prima di chiudere, vale la pena aggiungere che il giardino edenico sarà  rinnovato da altri giardini: da quello dell’agonia di Gesù (Gv 18, 1-21), dal giardino del sepolcro, della risurrezione e dell’incontro con la Maddalena (Gv 19,41; 20,1-10.15).

 

Il liocorno

All’Hortus Conclusus, per un lungo periodo, è stato  abbinato un animale immaginario: il liocorno o unicorno. Simile a un cervo o  a un pesce – l’unicorno marino, altrimenti detto monodonte, monoceronte – o a un capretto o a un cavallo con barba di becco e unghia bipartita, per lo più di colore bianco, porta al centro della fronte un lungo corno diritto  a punta,  scanalato  a forma di spirale, – raramente è corto e ricurvo .  La filosofia naturale pagana, lo gnosticismo, l’alchimia, la tradizione ecclesiastica gli hanno attribuito qualità e tendenze contrapposte.

  •  La Sacra Scrittura (cf. Gb 39; Dt 33, 17; Sal 92,11; 22, 22; Is  34,7…) ne fa un animale forte, veloce, ardente, ma anche pericoloso, maligno, potenza antidivina.  Ambrogio lo identifica con  Cristo (“Unicornis Unigenitus”, in qualità di figlio unigenito del Padre).

  • In Cina è conosciuto fin dal 2697 a.C. come sacro, mite, amante della solitudine, imprendibile, bene augurante quando appare, in possesso del corno guaritore e magico.

  • Il medico greco Ctesia (V sec. a.C.), alla corte del re persiano, rivela che il liocorno è un animale feroce, vigoroso, guaritore di epilessia e di altre malattie.  Il suo corno viene usato come coppa alla tavola reale perché rende innocuo ogni veleno.

  •  Ma è ad  Ermete Trismegisto (I sec. d.C.) che risale una leggenda molto feconda: l’unicorno può essere catturato solo da una vergine.

  • Alberto Magno lega i due aspetti, il negativo e il positivo: nel feroce unicorno vede prefigurata l’ira di Cristo, nel suo addomesticamento nel grembo della Vergine pura, la sua incarnazione.

Dopo Alberto Magno i simboli si moltiplicarono:

  • si diffuse, nella pittura e nella letteratura,  l’immagine della mistica caccia all’unicorno. Più o meno si ripeteva sempre con gli stessi schemi: Maria siede nell’Hortus Conclusus. La porta sprangata, la fontana sigillata, la torre davidica provano la verginità della futura madre. Appare l’arcangelo Gabriele nelle vesti di cacciatore: suona con il corno l’Ave Maria; nella destra tiene la lancia; al guinzaglio modera i cani, per lo più in numero di quattro. I loro nomi sono Verità, Giustizia, Misericordia, Pace (Sal 84,84) e spiegano le ragioni  che indussero Dio a far incarnare Gesù.  Tutti, angelo e cani, si affannano a spingere l’unicorno nel grembo della Vergine Maria che  l’accoglie benevola, lo ammansisce dandogli sicurezza e riposo.

  • Ben più: la caccia all’unicorno giunse fino ad essere interpretata come  la passione di Cristo, perseguito, ferito, catturato, ucciso dagli uomini, deposto dalla croce in seno alla Madre.

  • Ancora nel XIX secolo, la mamma tedesca, attingendo al “corno magico del bambino”, addormentava col canto della fiaba il suo piccolo:

«Cacciare voleva un cacciatore,

cacciare volle in celesti regioni,

chi mai incontrar accadde?

Maria, la Vergine Magnifica.

Ben conosciamo il cacciatore cui mi riferisco,

egli caccia con un Angelo di nome Gabriele,

Il cacciatore nel suo corno soffiò

e gradevole così suonò:

Ave Maria che sei piena di grazia».

     (Des Knaben Wunderhorn, vol. II)

È l’eco dell’antico fantasticare sul tema della  caccia mistica al liocorno.

  • Raccolgo ulteriori significati. L’unicorno:

    • è stato considerato simbolo di castità. Il gruppo “Vergine con unicorno” era immagine per  eccellenza di Cristo, prefigurazione della sua incarnazione;

    • sovente veniva rappresentato legato con catena  ad un melograno, simbolo della fecondità, contrassegnato dal monogramma della sposa reale, oppure posava in coppia con il leone e  la dama nel giardino difeso da siepe;

    • talora era rappresentato nell’atto d’essere cavalcato da  donne selvagge;

    • altre volte, ingannato dalla vergine, veniva consegnato ai cacciatori;

    • infine, poteva significare il corteggiamento risoluto del principe che  pretendeva le grazie della dama del cuore.

    • Un ultimo tratto: il suo corno rappresentava la forza maschile, ma considerato tagliato, in piedi sulla punta, prendeva la forma di calice, per natura, richiamo del femminile. E allora, il nostro animale era considerato anche come simbolo di unificazione della persona. Così concepito, si aggiungeva ai molti altri simboli alchemici.

     

Il Giardino in San Giovanni in Laterano

Nell’abside di S.Giovanni in Laterano possiamo contemplare una sintesi simbolica particolarmente rilevante del giardino. Il mosaico è del XIII secolo, ma risale ad immagini precedenti:

  • domina la croce del Salvatore con la rappresentazione del battesimo di Gesù, posta sotto il raggio di luce dello Spirito Santo, trapiantata sul  monte del paradiso;

  • ai suoi piedi scaturisce la fonte della vita che si divide nei quattro fiumi;

  • i cervi, simboli dei credenti e dei neofiti che anelano a Dio, si volgono da entrambi i lati verso la fonte;

  • piante e pecore rappresentano la totalità della creazione;

  • sullo sfondo del monte del paradiso, si riconosce un angelo con la spada, l’antico guardiano del paradiso, che ora sta dinanzi alla città attorniata da mura. Rimanda chiaramente dalla Gerusalemme dell’AT a quella città celeste che il sangue del Redentore schiude alle anime dei giusti.

  • Sopra la città, la cupola di foglie dell’albero della vita e su questa la fenice, il segno tradizionale paleocristiano della risurrezione.

Il tema del giardino-paradiso viene più succintamente rappresentato un po’ ovunque: oranti accanto a una o più piante, a pavoni, a grappoli d’uva, a un grande vaso con l’acqua della vita a cui si ristorano le colombe. In Oriente è completato da immagini del giudizio finale: Maria, e talora anche il ladrone con la croce in mano, sta alla porta del paradiso. Spesso non mancano le scene della creazione, del peccato originale e della cacciata di Adamo e Eva.

Ho tentato di descrivere il valore spirituale del giardino sì da far risaltare meglio, come da chiaroscuro, la figura di Maria. Perché è di lei che voglio parlare ed è pensando a  lei che, finora, indirettamente ho parlato. Mi hanno sostenuto tre convinzioni:

  • Maria, nuova Sulammita, è bellezza, verginità, splendore in se stessa, qualità che riassumo nel il termine “TUTTASANTA”. Mi servirò soprattutto delle espressioni del Cantico dei Cantici, ma anche di altri libri sacri, per dimostrarlo.

  • Maria è collaboratrice importante nella salvezza dell’uomo dopo la sua caduta. È MADRE,  già preannunciata fin dal paradiso terrestre, Colei che porta Gesù e raffigura la chiesa. I Padri l’hanno consacrata Nuova Eva attribuendole il merito d’aver adempiuto ai compiti che la prima Madre dei viventi non era riuscita a reggere.

  • Maria, nel giardino-paradiso, è, insieme, totalmente  immersa in Dio  e  oggetto  particolare del suo amore. Chi potrà mai, anche solo  a distanza, configurare i suoi dolci intrattenimenti con  la Trinità?  Tutta in Lei tutta. Visse da vera SPOSA, nutrita dal suo Dio. Sion e l’Alleanza sono  appena dei  bisbigli se confrontate con lei.

 

maria  hortus conclusus

 

Insieme con la fontana sigillata, l’Hortus Conclusus è diventato simbolo eccelso di Maria e della sua condizione di Madre-Vergine. È il paradiso in cui tutto si specchia e da cui tutto emana. Incarna soprattutto l’idea della bellezza e del mistero inviolabile racchiuso nel corpo della donna. Può essere svelato solo per libera offerta, non conquistato per violenza.

Papa Giovanni Paolo II lo esplicita: «Quel giardino serrato è l’io femminile, padrone del proprio mistero e dell’interiore inviolabilità della persona» (Discorso del 30 aprile ’84). Inviolabilità che si apre e, nella diversità, trova la comunione donandosi. In esso « la sposa risponde allo sposo con le parole del dono, cioè con l’affidamento di se stessa». (Il Papa,  nel medesimo discorso).

Per chiarire meglio  il mio pensiero considero  separatamente  i tre aspetti dell’ “essere Hortus Conclusus”.

Maria è Hortus Conclusus perché è la Nuova Sulammita, la Tuttasanta

Non mi sia richiesto di sviluppare gli attributi della bellezza di Maria, oggetto privilegiato  del compiacimento divino. La celebra tutto il giardino nel suo splendore.

L’autore del Cantico dei Cantici (capitolo 4) ha esaltato la Sulammita servendosi di immagini poetiche, insieme elevate e appassionate, e sublimando, in trasparenza spirituale, la visione di   paesaggi, di profumi, di suoni e di animali ben concreti.

Parlando però di Maria occorre dare significati diversi alla bellezza: nessuno ignora lo splendore del suo corpo, ma è soprattutto bella  la sua anima, vero paradiso, anche  se in natura non ci è dato  di trovare   il termine adatto a raffigurarla. Occorre un grande impegno per vedere, nella vegetazione lussureggiante del giardino, il frutto spontaneo dell’attività celeste che crea in Maria l’incanto  della  pienezza di vita, della conoscenza e del dominio di sé, della padronanza dell’intelletto sui sensi e dell’intercomunione ineffabile  con Dio.

Mi devo accontentare di sommare le diverse espressioni che illustrano questa bellezza interiore di Maria. Non farò analisi, non mi dilungherò in contemplazioni. Ne uscirebbero diversi trattati di  mariologia, perché, dopo tutto, dire “Bella” Maria significa celebrare tutto il possibile di lei. Mi basta rinviare il lettore alle figure che derivo dal Cantico dei Cantici,  dai Libri sapienziali, dalla liturgia o dall’arte. Ognuno  può prenderle  come  materia per le proprie elaborazioni personali.

Esistono degli ottimi  testi.  Cito la raccolta in quattro spessi volumi dei padri G. Garib, E.E. Toniolo, L. Gambero, G. Di Nola editi presso  Città Nuova. Si tratta di  riflessioni, inni,  elogi, studi su Maria del primo millennio. (Testi Mariani del primo Millennio).

Ancora una nota:  cito  frasi anche nel  latino di S. Gerolamo,  a motivo della sacralità che suscitano per essere state lungamente proclamate durante le celebrazioni liturgiche. Parole siffatte,  portano con sé il sapore, l’anima,  la testimonianza e la presenza di infiniti cantori di Maria, nonché di umili persone che se ne sono cibate. È la voce di un passato che continua a vivere e a far vivere ogni volta che si pronunciano. Anche la materialità del suono ha il suo messaggio.

Esalto, all’inizio, la bellezza spirituale di Maria a partire dal Ct. 

·        «Tutta bella tu sei, amica mia, in te nessuna macchia»: Tota pulchra es amica mea et macula non est in te. (4,7) La liturgia, ancor oggi, si serve di queste parole per esaltare l’Immacolata Concezione di Maria, privilegio  eccezionale per la sua verginità.

·        «Chi è colei che sale dal deserto, appoggiata sul suo diletto?» : Quae est ista, quae ascendit de deserto?.. (8, 5).

·        «Alzati, amica mia, mia bella e vieni!» : Surge, propera, amica mea. (2,13). Anche se non determinanti, questo versetto e il precedente sono stati presi come motivo di meditazione circa il privilegio della Assunzione: Maria è invitata a salire dal deserto, ad elevarsi per incontrarsi con il suo Figlio-Dio.

·        «Vieni con me dal Libano, o sposa, - con me dal Libano, vieni» : Veni de Libano, sponsa, veni de Libano, veni, coronaberis. (4, 8). Con l’invocazione che seguirà, ci troviamo di fronte ad un versetto in cui si è voluto sottolineare un riferimento all’Incoronazione di Maria in cielo.

·        «Vieni, mia eletta, ed io erigerò in te il mio trono» : Veni electa mea et poneram in te thronum. Così parla Cristo, lo sposo rappresentato  sul mosaico absidale di S. Maria in Trastevere (1140). Scena piena di dolcezza e di deferenza: seduta accanto a lui, la Madre sposa, in vesti regali  risponde: «la sua sinistra è sotto il mio capo – e la sua destra mi abbraccia» : Leva eius sub capite meo, et dextera illius amplexabitur me (Ct 2, 69).

·        «…bella come la luna, fulgida come il sole…» : Pulchra ut luna, electa ut sol. (6,10). Chi non riconosce in queste parole l’inno mariano «Dell’aurora tu sorgi più bella…» noto anche ai ciechi e ai barbieri? La gloria data a Maria è quella della regina dei cieli, «la figlia del re tutta splendore, il cui vestito è tutto tessuto di gemme e d’oro (parafrasi di Sal 45 (44).

Ecco però anche immagini allegoriche della natura  cui si è fatto ricorso per celebrare la bellezza spirituale di Maria:

·        La purezza e la verginità sono descritte nel giardino chiuso (4, 12), nella fontana sigillata (4, 12), nel giglio fra i cardi (2,2), nella torre di avorio (7,5) - l’avorio era considerato simbolo di castità - , nella torre di David con i suoi mille scudi (4,4) a mo’ di preziosissima collana.

  • La  pienezza di grazia di cui fu adornata da Dio è affermata dalla fontana e  dal giardino stesso : « i tuoi germogli sono un giardino di melagrane, - con i frutti più squisiti, - alberi di cipro con nardo – nardo e zafferano, cannella e cinnamomo – con ogni specie di alberi di incenso; - mirra e aloe, con tutti i migliori aromi. - Fontana che irrora i giardini – pozzo d’acque vive – e ruscelli sgorganti dal Libano ».(4, 13, 14, 15).

Ma ancor sempre bellezza: la melagrana sottolinea la moltitudine delle virtù («come spicchio di melagrana la tua gota» 4, 3); il giglio delle valli, il narciso di Saron (2, 1), l’umiltà; il mucchio di grano circondato da gigli (7, 3) e il grappolo delle vigne di Engaddi, (1, 14), la Madre del Cristo eucaristico. Infine, il versetto 6, 10  la fa regina dei cieli: «Chi è costei che sorge come l’aurora – bella come la luna, fulgida come il sole – terribile come schiere a vessilli spiegati?»

 Qui trova l’ispirazione anche il pittore di tutte le “Madonne nel Giardinetto” : «Per la fragranza  sono inebrianti i tuoi profumi, - profumo olezzante è il tuo nome, per questo le giovinette ti amano». (Ct 1,3)

 ·         Rievoco nuove figure di Maria.  A partire dalla S. Scrittura, i Padri l’hanno detta essere:

roveto ardente (Es 3,5), segno della presenza dell’Invisibile, fuoco che alimenta la vita, figura della passione di Cristo (allusione alle spine della corona), simbolo della Immacolata Concezione: per l’assenza della colpa d’origine, può bruciare d’amore incessante;

bastone di Aronne. (Num 17, 23) Con il bastone, simbolo della potenza e della conoscenza magica di cose invisibili, Aronne ha sgominato i serpenti dei sacerdoti egiziani; con la sua intercessione, Maria esercita il potere materno sul cuore del Figlio. Il bastone evoca un altro fatto: l’intervento di Dio in occasione del suo matrimonio con Giuseppe.

Vello di Gedeone (Giudici 6, 37- 38): segno miracoloso del sovrannaturale, immagine di ciò che è assolutamente unico, piccolo giardino completamente riservato alla manifestazione del divino. Ecco perché: durante la reggenza dei Giudici, Gedeone, era stato invitato dall’Angelo ad assumere la direzione della guerra contro i Madianiti.

   

          Accetta solo se gli viene data una prova che questa è sicuramente la volontà di Dio: si stenda un vello sull’aia e  la rugiada, prima, cada unicamente sul vello e non nell’aia, poi, solo nell’aia e non sul vello.  Maria, equiparata al vello di Gedeone, diventa così il luogo-paradiso, segno della salvezza che Dio vuole dare agli uomini.

Come concludere?

L’Hortus Conclusus, quale luogo di solitudine, di riparo, di appagamento e di illibatezza, diventa il simbolo più autentico di Maria, della Virgo, dell’Immacolata Concezione.

La verginità, in se stessa, è il titolo che più le si addice. Ma, reputo che la stessa verginità è solo un elemento della Bellezza incomparabile di Maria la quale esige che il registro delle virtù abbia a coinvolgere anche tutte le altre qualità, non foss’altro perché accanto alla verginità occorre subito porre la sua maternità. Forse il termine “TUTTASANTA”, ovverosia  “Ornata dallo Spirito”, meglio corrisponde all’esigenza che ho di sapere che nessuna creatura supera in bellezza e attrazione «la Vergine Madre…- umile e alta più che creatura – termine fisso d’eterno consiglio».

Mi piace mettere fine a questa parte, trascrivendo  un canto mariano di Melk, compilato interamente da metafore tratte dal Cantico dei Cantici.

Stella del mare, aurora – prato tutt’intatto, - nel quale fiorisce un fiore, - che, tanto bello, risplende: - esso è tra gli altri - come il giglio tra i cardi. - Santa Maria - Fontana sigillata, - giardino chiuso, - nel quale scorre balsamo, - dove anche la cannella cresce. - Tu sei il cedro  - dal quale il serpente rifugge. - Santa Maria - cedro del Libano, - rosa di Gerico, - tu, mirra eletta, - lì cresci e t’estendi: - tu che sei sopra gli angeli tutti, - tu di Eva riconciliasti la caduta. Santa Maria!

Maria, Hortus Conclusus, giardino sigillato, fonte della vita dopo il fallimento di Eva

Lo stato virginale non è tutto: esso rappresenta solo il non manifestato, il non rivelato. La notte designa il potenziale, rispetto alla sua rivelazione. Per questo l’Autore ispirato scrive: «E fu sera, e fu mattina». (Gen 1, 3. 8…) Il manifestato designa il giorno, lo stato di veglia; il non manifestato, la notte, lo stato di sonno.

Meister Eckhart fa notare: «Se l’uomo fosse rimasto sempre vergine, nessun frutto sarebbe  venuto da lui. Per divenire fecondo bisogna che egli sia femmina. Femmina? È la parola più nobile che si possa dare all’anima ed è ben più nobile di vergine. Che l’uomo riceva Dio in sé, è bene; e, in questa ricettività,  è vergine. Ma che Dio divenga fecondo in lui, è meglio poiché divenir fecondi tramite il dono ricevuto, vuol dire essere riconoscenti per questo dono».

«Quando il dono o il frutto dell’influsso divino si sviluppa nell’uomo e raggiunge la pienezza, l’anima è elevata al grado supremo che designa lo stato della madre di Dio.

Il primo versetto del Genesi parla di spirito che aleggia, che cova, quasi una chioccia, le acque primordiali. Le acque verginali diverranno feconde, cioè piene di vita, grazie allo Spirito Santo, alla Sapienza, alla Vergine.»

Alla luce di queste  parole la Vergine Madre di Dio simboleggia la Terra orientata verso il cielo, una Terra trasfigurata in Terra di trascendenza, pronta per la generazione.

Ecco perché la ritroviamo nel giardino chiuso. Come madre di Gesù, “cova” le acque; distribuisce i fiumi e la loro fecondità; fa maturare i frutti del grande Cedro; rappresenta l’Albero della Vita, principio di generazioni infinite.

Le figure e i simboli cui accedere sono legione. Anche qui, mi atterrò solo alle fonti comprovate.

Maria, Hortus Conclusus,  Madre degli uomini:

·        Lascio al  capitolo 24 del Siracide il compito di descrivere, mediante simboli sapienziali,  le virtù dell’Albero-Madre:

«Sono cresciuta come un cedro sul Libano,

come un cipresso sui monti dell’Ermon.

Sono cresciuta come una palma in Engaddi,

come le piante di rose in Gerico,

come un ulivo maestoso nella pianura;

sono cresciuta come un platano.

Come cinnamomo  e balsamo ho diffuso profumo;

come mirra scelta ho sparso buon odore;

come galbano, onice e storace,

come nuvola di incenso nella tenda. Come un terebinto ho esteso i rami,

e i miei rami sono rami di maestà e di bellezza,

Io, come una vite ho prodotto germogli graziosi,

e i miei fiori, frutti di gloria e ricchezza.

Avvicinatevi a me,voi che mi desiderate,

e saziatevi dei miei prodotti.  Poiché il ricordo di me è più dolce del miele,

il possedermi è più dolce del favo di miele».

·        Ho trascritto la pericope perché con efficacia evidenzia i tratti della maternità: protegge come un alto albero, spande profumi, estende i rami di maestà e di bellezza, sazia con i suoi germogli, si lascia mangiare come favo di miele.

Maria, Hortus Conclusus, in quanto madre di Gesù

·        Ma nel concetto di Hortus Conclusus, va compreso anche il fatto che ella stessa è lo spazio eccelso che ha contenuto Gesù, tesoro inestimabile. Lo  dice a più riprese la parola rivelata che  poi la Chiesa ha applicato a Maria. Sentiamola:

o       Virgulto fiorente del tronco di Jesse. (Is 11, 1)  Il riferimento, per lo più, rinvia a Gesù, ma è da Maria che è nato Gesù.

o        Arca dell’Alleanza (Es 25, 22). L’arca, cassetta portatile, (Es, 25,10ss) conteneva le due tavole di pietra (1 Re. 8, 9) e, secondo la tradizione rabbinica, il vaso della manna insieme al bastone di Aronne. Era il luogo della presenza di Dio. Stava in testa alla colonna durante le marce nel deserto (Num 10, 33ss) e di fronte all’esercito schierato, durante le battaglie. Chi più di Maria ha portato nel suo seno la Legge vivente, il Sacerdote per eccellenza?

o       Vaso del pane del cielo (Es 16, 31), cioè vaso della manna eucaristica;

o       città di Dio (Sal 46, 5);

o       porta del cielo (Gen 28, 17);

o       e ancora: tabernacolo vivente, Chiesa, Tempio di Dio.

Maria, Hortus Conclusus  perché luogo dell’incontro di Dio con la sua Sposa

Resta  un ultimo aspetto: Maria è Hortus Conclusus,  perché luogo del silenzio e dello scambio, della visione beata e della contemplazione, dell’ascolto e dell’abbandono. Si tratta del giardino dove si passano vicende personali e tutto diventa faccenda loro: di Maria, da una parte e del Figlio e della Trinità, dall’altra.

Dovrei tacere subito anch’io come ha fatto l’evangelista Luca che si è accontentato di dire due volte: «Maria da parte sua, serbava tutte queste cose, meditandole  nel suo cuore». (2, 19; 2, 51)

Dirò soltanto:

·        Maria è Paradiso terreste, luogo di vita, annunciazione ininterrotta, cuore di una Vergine, centro di emanazione. Tutt’attorno, silenzio! È indifferenza? È disgusto? È disprezzo? Niente affatto: è condensazione di vita, compressione di esistenza, è pienezza di big bang iniziale da cui poi si espande l’universo intero.

·         Come paradiso chiuso, realizza tutti i giardini preannunciati dalle Scritture e progettati dal cuore di un Dio desideroso di manifestarsi in una alleanza senza condizioni: «Quasi a Spiritu Sancto plasmata  novaque creatura formata», (LG 53) diventa allora primogenita Figlia di Sion, anticipazione della Gerusalemme celeste, erede  del popolo eletto, tipo esemplare della Chiesa.

·        Che cosa possono aver scritto i Giovanni della Croce o i Bernardo da Chiaravalle? Che cosa può aver sperimentato S. Caterina da Siena o l’estatica Teresa d’Avila?

  • Se Dio concede i suoi favori in rapporto alla funzione a cui destina, non ci è dato nemmeno solo di immaginare i privilegi di cui è stata beneficata Maria. “Piena di grazia” è il nome che l’Angelo le ha dato, da parte di Dio. 

Oltre che sulla grazia divina, Maria poteva contare anche sulla sua umanità fisica: ha portato la divinità nel seno e sulle sue mani, l’ha “covata” con tutta la sensibilità di una madre terrena. Ha contemplato il Figlio suo anche con la propria corporeità, fondendo insieme la forza dell’alto e la sensibilità della natura, l’ebbrezza della giovane quattordicenne in dialogo con il suo pargolo e lo smarrimento della Prediletta del Padre che glielo aveva concesso. Occhi  e cuore: una sola cosa per  il vero canto d’amore.

·        I contemplativi hanno tentato di riprodurre queste condizioni nei loro monasteri dove trascorrevano giornate  di beata solitudine e di sola beatitudine. In paradisi celesti si figuravano  di  coltivare fiori e verdura, di arare campi e potare vigne; attingevano acqua dalle fontane poste nel centro; elevavano inni e salmodie a lode perpetua dell’Onnipotente  e, prima del riposo, in processione, cantando   il Salve Regina, si recavano  davanti alla statua della loro Priora, Padrona  e Castellana per depositare ai suoi piedi le chiavi del monastero.

 

·        Se Maria Hortus Conclusus, oggi ha poco da dire – ma sarei ben cauto ad affermarlo, perché gli ordini contemplativi fioriscono rigogliosi – è perché trionfa l’umana, prometeica intraprendenza, l’orgogliosa progenie mortale autoproclamatasi   fattrice del proprio destino. Dice di sapere quasi tutto sul genoma; è arrivata fin sulla Luna, a mezzo piede dalla Terra; ha manipolato e ipotecato cibi a suo piacimento, ma non è riuscita  ad emergere dall’ansia e dalla depressione di fronte agli eventi che regolano la sua vita. Cadono le torri colpite dalla tecnica; dilaga la paura; imperversano le forze tumorali; gli ospedali non hanno più spazi disponibili, epperò  si continua a pensare altamente di sé, a guardare solo in basso, a non preoccuparsi del senso finale della vita. L’uomo ha scoperto che basta una leva per sollevare il mondo, ma ha dimenticato che la leva più potente è Colui che l’ha creato e che è ben desideroso di conservarlo.

·        La presenza di conventi, di vite contemplative, di giardini fioriti resta il segno del genuino valore impresso sulle creature dal loro Creatore.

·        Gli Autori Sacri, questo intimo contatto con Dio, spesso lo prospettano in termini sponsali: nell’AT, è l’alleanza tra Jahvéh e il suo popolo; nel NT, deificazione dell’anima, divenuta figlia di Dio per opera dello Spirito S. Lo Spirito tutto muove: è Paraclito, Dono di Dio, Fonte viva, Fuoco, Amore, Unzione spirituale, Dono settuplice, Dito della Mano Destra di Dio, Promessa del Padre. E ancora  è Padre dei Poveri, Datore di tutti i doni, Luce dei cuori degli uomini, Ospite dell’anima, Ristoro, Riposo nella fatica, Conforto nelle lacrime e Luce benedetta.       (cf. Veni Creator Spiritus e Veni Sancte Spiritus)

·        Se tutti questi titoli narrano il   potere santificante dello Spirito Santo a favore degli uomini e creano altrettanti giardini chiusi nel loro cuore, che cosa pensare della sponsalità  di  Maria? Posso citare ciò che pensava Isaia (62, 5):

 

«Sì, come un giovane sposa una vergine, - così ti sposerà il tuo architetto; - come gioisce lo sposo per la sposa – così il tuo Dio gioirà per te».

·        Salomone, è già stato scritto, nel Cantico dei Cantici, ha parole fin troppo comprensibili  quando celebra la  sua  Sulammita. Ma tutto è ancora troppo poco  per celebrare l’intima compartecipazione tra una Madre e un Figlio-Dio.   Occorrerebbe sperimentare che cosa si prova a vivere sul confine con l’infinito. Solo il silenzio si addice al mistero.

A questo punto, mi nasce spontaneo il canto: Sposa Tuttasanta sei, o Signora e Regina! Tutta splendente sei, Madre e Donna coronata di stelle! In te lo Spirito ha riversato la sua bellezza e tu sei stata soggiogata dalla sua potenza. Perché hai conservato tutto nel tuo cuore e non hai fatto trapelare nulla della tua ricchezza? Lo so: Ti bastava il Figlio che hai portato nel seno; Ti illuminava costantemente il fulgore della SS. Trinità; Ti colmava di pienezza il tuo giardino, o Donna, o Madre, o Sposa, o Tuttasanta, o piena di grazia, Tu, Figlia prediletta del Padre, Madre del Figlio, Capolavoro e Tempio dello Spirito! Ma, e di noi?…Te ne ricordi? Non lasciarci fuori.

Mi si conceda, ora, di riportare ciò che Teofane di Nicea scrisse nel XIV secolo:

«…Conseguentemente, allorché divenne capace di ogni divina pienezza, dal Paraclito…venne unita con una unione e congiunzione inesplicabile, a Dio Verbo, fonte dello Spirito Santo, e conseguentemente sortì, anche con il Padre un consorzio ineffabile. Per questo, come il Figlio è immagine naturale del Padre, e, per conseguenza, immagine del Figlio, così anche la madre di questo Figlio è immagine del Paraclito, non certo per natura, ma per partecipazione e per grazia, tale però da rappresentare in modo impareggiabile il prototipo più di qualsiasi altra natura creata, di modo che in lei sola, nella misura più vasta, risplendano e si ravvisino tutte le grazie e gli splendori dello Spirito, i quali appartengono allo stesso Figlio  di lei; una stessa, infatti , è la loro bellezza: per cui essa è come una stele manifestatrice dei tesori nascosti dello Spirito, il quale,  a sua volta, è la virtù manifestativa dei segreti della divinità.» (da Raschini II, pag. 137).

Una sola sottolineatura: nell’ambito del mistero trinitario Maria, per partecipazione e per grazia, è l’immagine del Paraclito. Lo rappresenta in modo superiore a tutte le altre creature, perché è stata da Lui ricolmata di tutte le grazie. Per questo diventa la Tuttasanta e la stele che manifesta, uno per uno, i tesori dello Spirito Santo.

E allora, se Maria è immagine dello Spirito Santo e mantiene comunicazioni così personali con la Trinità, perché non considerare la figura dell’Hortus Conclusus come la più appropriata per esprimere la santità di Maria in se stessa e soprattutto il suo ininterrotto colloquio con Dio?

Mi si passi una citazione di S. Ambrogio. Non per confermare la mia convinzione, ma per suggerire, attraverso il suo scritto, un’applicazione pratica: l’Hortus Conclusus esige riservatezza.

«La Vergine è come un Giardino Chiuso, la fontana sigillata, aliena alle chiacchiere. Desiderosa di dialogare solo con Cristo conduce una vita nel ritiro e nella riservatezza, quasi in clausura, così da proteggere da ogni insidia il suo pudore, diversamente da Eva che, accettando il colloquio con il serpente, aprì le porte alla morte». (De virginitate, 13, 80-81)

Metta il punto fermo Is 61, 10.11, sintesi genuina di quanto  mi sono sforzato di dire nelle pagine che precedono:

«10. Io gioisco pienamente nel Signore,

la mia anima esulta nel mio Dio,

perché mi ha rivestito delle vesti della giustizia,

come uno sposo che si cinge il diadema

e come una sposa che si adorna di gioielli.

11. Poiché come la terra produce la vegetazione

e come un giardino fa germogliare i semi,

così il Signore Dio farà germogliare la giustizia

e la lode davanti a tutti i popoli.»

 torna inizio

 

 

 

 

                       MARIA, “TURRIS EBURNEA”,

                           “TURRIS DAVIDICA”

 

 

 

 

Nel XII secolo, il Cantico dei Cantici divenne fonte  preziosa di simbologia  mariana. Ispirò i teologi, mise alla prova gli esegeti, intenerì i mistici,  ma soprattutto alimentò la fede dei cristiani.

E adesso, offre a me l’occasione di sviluppare qualche riflessione  circa la figura della «Torre», più volte ricorrente e variamente connessa a  Davide,  al Libano, all’avorio.

 

Eccone  i testi: 

«Come la torre di Davide il tuo collo,

costruita a guisa di fortezza.

Mille scudi vi sono appesi,

tutte armature di prodi». (Ct.4, 4)

 

5. «Il tuo collo come una torre d’avorio;

i tuoi occhi sono come i laghetti di Chesbòn,

presso la porta di Bat-Rabbin;

il tuo naso come la torre del Libano

che fa la guardia verso Damasco».

6. «Il tuo capo si erge su di te come il Carmelo

e la chioma del tuo capo è come porpora;

un re è stato  preso dalle tue trecce».

8. «La tua statura rassomiglia ad un palma…».

(Ct, 7, 5.6.8.)

 

 

 

 

simbologia  di  bellezza

         Applicato a Maria, il simbolismo della torre, celebrato nel Cantico dei Cantici, è soprattutto un titolo di bellezza fisica. La evoca il collo della Sulammita.

 

o       Sottile  e slanciato, simile alla Torre di Davide che si staglia nel cielo di Gerusalemme, riproduce l’immagine della  Nefertiti egiziana e diventa espressione di nobiltà, di eleganza, di finezza. Non solo, ma aggiunge anche fermezza, sicurezza,  inaccessibilità, verginità.

 

      L’elevatezza del collo trova riscontro nell’accostamento alla palma svettante e diritta (v.7, 8), nel capo che si erge con i suoi capelli color porpora come il Carmelo (v.7,6).

 

o       Altra nota: «vi sono appesi mille scudi» (v.4, 4). Caratteristica strana ma non fuori posto. Quale signora non  porta monili che vorrebbe d’oro o di pietre preziose? Oppure non dispiega il proprio collo in maniera da mettere in risalto i gioielli e riflettere la luce che li cattura?  Come un collo ornato era la rocca di Sion, alle cui mura si  appendevano le armi e gli scudi sottratti al nemico. Si disponevano su di esse, a ranghi ordinati, pietre sporgenti cui poter appendere il bottino di guerra. Era dimostrazione di forza, era vanto di vittoria.

 

o       Salomone vi espose duecento scudi grandi e trecento piccoli d’oro battuto (1 Re 10,16-17). Sottratti dal faraone Sisach, furono poi sostituiti con altrettanti di bronzo dal re  Roboamo (1 Re 14, 25-28). Questa parata  di scudi  doveva  creare l’impressione di potenza, di solennità, ma anche di pace, di forza, di riposo, di bellezza austera mista a prosperità e potenza.  Con quale animo commosso e santamente orgoglioso gli Ebrei dovevano pregare:

«Circondate Sion, giratele intorno, - contate le sue torri. - Osservate i suoi baluardi, - passate in rassegna le sue fortezze, per narrare alla generazione futura: - Questo è il Signore, nostro Dio, in eterno, sempre: egli è colui che ci guida» (Sal 48, 13 ss.). Oppure: «Sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi. – Per i miei fratelli e i miei amici – io dirò: su di te sia pace»! (Sal 122, 7. 8)

 

·        Tale doveva apparire  la figura dell’amata: elegante, raffinata, accogliente, capace di dare serenità , dai modi gentili , nemica del banale, solenne e maestosa nella sua dirittura. Non si sa nulla della Torre di Davide né della torre del Libano. Non è importante. Indispensabile  invece è sapere che la Sulammita è una creatura veramente bella: gli scudi di Salomone e le armature dei prodi sono i suoi colliers; i suoi due occhi riflettono l’azzurro del lago; i capelli folti e rossi (di porpora) facilmente imprigionano il desiderio e il cuore di un re. «È tutta splendore, gemme e tessuto d’oro è il suo vestito» (Sal  45, 14); «belle sono le sue guance fra i pendenti, il collo fra i vezzi di perle». (Ct 1,10)

 

·        Bellezza e potenza sono dunque i due attributi della Sulammita-Maria. Ma non è tutto qui. A bellezza aggiungi bellezza, perché l’avorio con cui è costruita la torre è materiale prezioso e aristocratico. Questo elemento traduce l’incarnato delicato della persona. Il suo pregio è di rendere più palpabile l’atmosfera principesca secondo la tipologia regale nota agli Ebrei. La ricordano i Salmi (45, 9); la descrive la storia del popolo di Israele (cf. Amos 6, 4. 7), di Ugarit, Ebla, Egitto. (Numerose sono le testine d’avorio dissotterrate durante gli scavi in quei siti).

 

·        L’avorio, non solo orna  la persona. Accentua anche  l’idea di rigidità,  di mistero e di inaccessibilità. Nel Rinascimento, «torre d’avorio» prende il significato di splendido isolamento dell’artista e dell’intellettuale. Qui, all’interno di un giardino, dice soprattutto unicità, castità, principio di vita. E questo valore diventò poi essenziale nell’interpretazione che ne fece il Medio Evo quando trasformò la torre della cattedrale in simbolo di rigenerazione.

 

·        Ma, ci si può accontentare di un simile tipo di bellezza? No, di certo. Per il cristiano, la bellezza  nasce soprattutto  dalla  corrispondenza piena alla Parola di Dio: il cosmo è bello perché è conforme al volere di Dio; la persona è bella perché vive secondo la parola del Verbo. Principio supremo di bellezza è la legge del Signore. E Maria è tutto questo, soprattutto mediante e dopo il Fiat: bella nei suoi atteggiamenti morali, nei pensieri, nelle parole, nelle azioni e nella partecipazione agli eventi salvifici di Cristo: nascita, morte, risurrezione. La Sulamita è ben lontana!

 

Amedeo di Losanna (+1159) mette in bocca a Gesù queste parole:

«Tu sei mia Madre e in te non c’è macchia alcuna (Ct 4,7).

Tu sei bella:

bella nei tuoi pensieri,

bella nelle parole,

bella nelle azioni;

bella  dalla nascita fino alla morte;

bella nella concezione verginale,

bella nel parto divino,

bella nella porpora della mia passione,

bella soprattutto nello splendore della mia risurrezione».

 

 

simbologia della cattedrale

 

 

 

La simbologia di Maria “Turris”, nel Medio Evo, sviluppò le intuizioni sopra descritte. Con delle varianti: venne meno il ruolo della bellezza fisica a favore di  quella spirituale incentrata soprattutto sulla  verginità, sulla protezione e sulla maternità: la torre della cattedrale!

Questi mutamenti di prospettiva non furono casuali. Ubbidirono alle nuove disposizioni di spirito, maturate dopo l’assestamento dei popoli europei e della chiesa.

 

Premessa

 Maria non fu “Turris davidica” se non dopo la costruzione delle cattedrali. Le quali, oltre che a presentarne concretamente l’immagine, la torre appunto, educarono il gusto dei fedeli al bello soprannaturale.

 

·        L’uomo del Medio Evo aveva un’alta concezione della  dignità dell’arte. Essa traduceva, sul piano sensibile, la Bellezza ideale, che è forma del Divino, un suo attributo, un suo riflesso, il fondamento dell’essere. «Splendore del Vero», direbbe Platone. Perciò la costruzione di una chiesa, sotto questa luce, non era altro che la manifestazione dello Spirito. Percepita intuitivamente, ma  effettuata con il calcolo  razionale.

 

o       L’artista: era convinto di comunicare con il Verbo Creatore, «forma informante tutto ciò che è informe e trascende ogni forma». (Dionigi l’Areopagita)

·   Lo vedeva impresso  nel creato, quasi un prolungamento dell’incarnazione e cercava di riprodurlo realizzando oggetti visibili che fossero simboli del  suo manifestarsi; era anzi sicuro  di compiere un’opera  sacramentale.

·         Perciò non poteva agire pensando a se stesso, lasciandosi guidare dalle proprie ispirazioni. Suo compito  non era di esprimere il proprio mondo, ma di cercare una forma perfetta corrispondente a dei sacri prototipi d’ispirazione celeste: che è l’insieme  degli artefatti sensibili, realizzati conformemente  a  leggi cosmiche rette da  principi universali. Così, nei secoli XI-XIII, l’estetica  si ricollegava alla metafisica;

·        viveva quindi di simboli. Cioè traduceva, per mezzo di immagini polivalenti, la corrispondenza che collega i diversi ordini della realtà. Esprimeva l’invisibile attraverso il visibile  e apriva la strada all’uomo che di invisibile si nutriva.

·         In questa prospettiva, una chiesa non era più, semplicemente, un monumento, ma uno spazio sacro. Riuniva i fedeli e, soprattutto, creava per essi un ambiente che permettesse alla Grazia di manifestarsi meglio, canalizzasse, in un sottile gioco di influenze, il flusso delle sensazioni, dei sentimenti e delle idee e in questo modo fosse facilmente raggiungibile la comunione con il Divino. Attraverso la combinazione armoniosa di mille simboli che si fondevano nel simbolo totale che è il tempio stesso e la liturgia, il santuario diventava strumento di raccoglimento, di gioia, di sacrificio e di ascesi. Luogo del mistero. Luogo del senso. Luogo della nascita spirituale.

 

 

 

 

                 Maria, “Turris davidica”, “Turris eburnea”.

 

 

Se la chiesa è il luogo della nascita spirituale, occorre la presenza di una madre. E allora, applicare a Maria  la simbologia della torre, figura del santuario, equivale a vederla come cattedrale vivente nel suo compito materno.

Interpello il lettore e mi spiego.

 

       Prima di entrare in una cattedrale gotica, mettiti a  sedere, libero da preoccupazioni, davanti alla sua facciata. Contemplane la maestosità, il portale, le torri, i contrafforti, le finestre, il frontone, le guglie e considerati al centro del mondo, origine, nel Verbo, di tutto il creato.

      Infatti:

o       - l’edificio ha la forma di croce, segnata dalla navata centrale e dal transetto, segmenti lineari che si perdono nella quattro direzioni dell’orizzonte;

o       nel punto della loro intersezione poggia l’altare, chiamato anticamente anche Cristo; 

o       - la linea ideale che si alza dall’altare verso il suo Zenit e discende nel profondo verso il suo Nadir, lo pone al centro del cosmo;

o       su questo altare, ad ogni sacrificio eucaristico, viene riproposto l’evento  primario del calvario. Qui, ogni uomo nasce, si sviluppa e conclude la sua esistenza terrena. 

 

Do,Ora entra in essa e visitane tutte le parti.

     Prima, la grotta sotterranea, dove la cattedrale mostra la sua vita nascosta:  vi dormono i morti, ricoperti da lastre di pietra; si conservano  i resti della storia, i frammenti del passato. Necropoli di gente illustre. Come un deposito  che non vuol consumarsi, quasi racchiuso in un grembo materno.

       Un silenzio denso riempie questo spazio a volta. È la soglia dell’inferno dantesco? È una delle numerose catacombe? Tutto è mistero, sospensione, pausa.

 

Sei circondato da numerosi pilastri enormi, massicci, da capitelli corti, poco sporgenti, sobri, tozzi. Forme rozze e povere, nelle quali l’eleganza e la ricchezza cedono il passo alla solidità. E ancora, muscoli spessi e contratti per lo sforzo si dividono, senza venir meno, il peso formidabile dell’intero edificio. Volontà notturna, muta, rigida, tesa in una perpetua resistenza contro la pressione.

 

Forza reale ma occulta che si attua in segreto, si sviluppa nell’ombra, agisce senza tregua nella profondità dell’Opera. Un tempo, questi spazi servivano come dimora per le statue di Iside, la Grande Ida, la Madre degli dei. Ancor prima che il cristianesimo  penetrasse in Gallia, la religiosità egiziana e druidica  onorava in simili recessi, la dea con il titolo di «Vergine che deve partorire». Rientrava nella cultura delle Grandi Dee Madri - Cibele, Cerere, Iside -

e rappresentava la terra prima di essere fecondata, in attesa che i raggi del sole

 

 la illuminassero. Visione e desiderio di trasfigurazione! Siffatta realtà, per i fedeli della Gallia, divenne la Vergine Nera, posta nel sottosuolo, quasi un seme pronto ad esplodere. Ma la trasposizione fu operata in ambiente alchemico, assimilata dagli artigiani cristiani e accolta dai fedeli se,  ogni volta che entravano nella loro chiesa, si  imbattevano in figure scolpite, per noi assurde, per loro cariche di significato. Vi scorgevano mescolanze di nero, bianco, giallo e rosso, animali strani, serpenti e uccelli rapaci, mostri, demoni, esseri sdoppiati, fantasiosi. Vi leggevano tutto il processo di rinascita e di trasformazione. Era la materia prima della persona in germe, la massa confusa, l’insieme degli elementi originari allo stato di caos, rappresentato, nel vaso alchemico, come  fermentazione,  putrefazione,  morte, purificazione,  sublimazione e,  infine, mutamento in Pietra Filosofale, cioè in Cristo.

     Ecco l’“Opera”. Testi alchemici sono stati attribuiti addirittura a S. Tommaso d’Aquino. Lui vivente,  la letteratura del genere era copiosissima. Certo, riservata agli iniziati, ma non reclusa, nelle sue conclusioni più elementari, anche alle persone meno colte. Genuina espressione religiosa in termini velati e eccentrici. Ognuno, penso, può ammirare la grande impresa della chiesa nel volgere a sua spiegazione le scintille della rivelazione che Dio ha realizzato anche al di fuori di essa: gli esoterici parlavano  di miti e di alchimia per  significare la ri-generazione, lei, apertamente celebrava la maternità di Maria sotto forma di Madonna nera.

 

 

     La scuola filosofica di Chartres ne elaborò il fondamento teorico.  Di Madonne Nere era disseminata la Francia e anche fuori della Francia continuano, tuttora, ad attrarre  pellegrini devoti.

 

 

Visitata la cripta, ora sali al piano della chiesa e sforzati di sentire con il cuore degli uomini di allora: la navata di mezzo rappresenta  il cammino  della vita; l’altare è il centro  della terra e l’immagine del cosmo; suo compito è condurre alla gloria finale simboleggiata dall’abside, per raggiungere la quale occorre nascere, crescere, espressione di un’elevata funzione materna. Anche il  rito liturgico effettua tutto un seguito di trasformazioni. Quanto nella cripta era informe, qui, Cristo opera all’aperto, mediante la Chiesa e la Madre sua. È la grande intuizione che ha mosso le genti a vedere in Maria il simbolo e la funzione di questa ininterrotta rigenerazione. L’edificio intero diventa un seno materno, sovrabbondante di vita. Come l’anima umana  è trasfigurata dalla grazia  divina, così l’altare, illuminato dalle vetrate, trasfigura il fedele che vi si accosta.

 

     Le vetrate sono santissime dice l’abate Suger. Maria è la vetrata e la trasparenza del divino, il grembo sempre verginale  perché sempre fecondo, mai consumato, in cui si  compie il grande mistero. Lo esplicitano quattro versi scolpiti sulla pietra: « A Mezzanotte, una Vergine Madre – produce quest’astro luminoso. – In questo attimo miracoloso – noi chiamiamo Dio nostro fratello». Per questo, in Europa,  a partire dal decimo secolo, sono sorte e dedicate  alla Vergine Madre numerose cattedrali. I Siciliani le hanno battezzate con il termine di «Matrici», cioè «matrici», «origini» (dalla  radice «mater»).

 

 I Francesi usarono quello   di «Matrone», divenuto poi, per corruzione, Madone e Madonna in italiano. Finalmente si impose, fra tutti, il titolo di «Notre Dame», Nostra Signora, Materia elementare (deriva dal lat. «Materea» di cui la radice  è sempre «mater»), personificazione della sostanza primitiva. Dio, il Principio, il Creatore di tutto ciò che esiste se ne  è servito per realizzare i suoi fini. Esplicitazione chiara di quanto viene riportato in Pro 8, 22 – 31: «Il Signore mi ha creato prima della sua attività… quando egli fissava i cieli, io ero là… allora io ero con lui come architetto…».

 

E      Le due Torri? Ebbene, sì, le due torri sono la manifestazione solenne di questa realtà. Appaiate, massicce, elevate, metafore di castelli e di fortezze stavano proprio lì a rivelare e a testimoniare il ruolo della Chiesa e di Maria. Per lo più è a loro che venivano dedicate. Non avevano ancora a che fare con le campane. Una era la Chiesa, l’altra era Maria. Solo tardi, il campanile ebbe voce e divenne  il predicatore o il prelato che istruiva i fedeli. Nelle chiese più antiche non esisteva nemmeno. Non lo troviamo in S. Pietro, non in S. Giovanni. Le torri e i campanili, non ubbidivano a tesi utilitaristiche o puramente decorative.

 

La loro forma  ripeteva quella del tempio, un cubo sormontato da una cupola. Avevano funzione di simboli cosmici, di assalti al cielo, di montagne sacre: figure di vita e di trasformazione spirituale, in una parola, di Maria e della Chiesa, vasi eccezionali dove si compie l’Opera della rigenerazione.

 

Un particolare: questo significato è espressamente rappresentato, a Parigi, sul settimo bassorilievo del basamento che regge la cattedrale di Notre-Dame. Ivi è scolpito un “Athanor”, ossia il forno di cottura, il vaso dove si realizza il “compost” filosofico, la mescolanza degli elementi informi in via di riordinamento. Rassomiglia pienamente ad una torre ornata di spalti, di merli, di feritoie, costruita a mo’ di fortezza, immagine dell’immagine (torre) dell’immagine (la chiesa nel suo insieme). Con tutte queste descrizioni so di costringere a piroette mentali. Mi interessa, però, rendere visibile la profondità di significato di cui erano capaci gli uomini di mille anni fa, da molti ritenuti mentalmente sprovveduti, infanti balbettanti, vagabondi  dispersi nelle nebbie dell’ignoranza e del primitivismo.

 

C   È per effetto dell’azione dello Spirito che in questo periodo il culto della Vergine penetrò nella vita dei suoi figli. Ma fu anche merito di questi suoi figli rispondere adeguatamente e docilmente all’influsso della Madre, favoriti da un insieme di circostanze favorevoli: il bisogno di rivolgersi al volto materno della misericordia divina; il culto cavalleresco della Madre celeste in cui sono riassunti nobiltà d’animo, innocenza, bellezza; il fervore di S. Bernardo che, primo, usò il termine  «Nostra Signora - Notre Dame»; i confronti ripetuti tra Chiesa e Santa Vergine; l’amore cortese e la poesia trobadorica ispirata ai modelli arabo-persiani.

        Ma, se qualcuno fosse tentato di  considerare tutto questo come astrazione, pura costruzione fantasiosa, elaborazione paranoica e compensatoria,  presti attenzione a come tutto il popolo,  concretamente operasse nel vissuto.  Mi riferisco al «servizio divino dei carri». E qui devo rifarmi ancora una volta a Bernardo di Chiaravalle.

 

Nel 1145, dalla chiesa di Vézelay , predicò la seconda crociata  e lanciò quello che ho prima scritto essere il «servizio dei carri». La risposta fu generosissima. Da tutta la Francia, si vedevano giovani e vecchi, ricchi e poveri trainare carri ricolmi di tutto ciò che occorreva per la costruzione di una cattedrale. L’opera di trasformazione non si realizzava solo all’interno della chiesa, nell’atto di plasmare la pietra, di usare gli strumenti di lavoro, di delimitare gli spazi, di preparare la calce. Tutto il territorio era luogo di operazione e  ognuno, mettendo al servizio della Vergine i propri carri, in se stesso, passava dal proprio caos spirituale alla luminosità del divino splendente.       Il tema dei carri mi sorprende benevolmente. Tutto vorrei riferire. Lo spazio mi costringe al limite. Accennerò solo a quanto avveniva a Chartres, santuario mariano per eccellenza, depositario della «sancta camisia», la tunica della santa Vergine che

 

     Carlo Magno aveva portato da Bisanzio a Aix-la-Chapelle e che Carlo il Calvo nel 876 aveva regalato, appunto, alla chiesa di Chartres. Si trattava di un semplice rettangolo di seta. Era, però, “La Reliquia”, il segno tangibile dell’amore di Dio e della presenza privilegiata di Notre Dame. Rappresentava tutto:  popolazione e tempio. Coloro che volessero rivivere personalmente il clima di questa disposizione spirituale, leggano le cronache dei contemporanei. Un certo numero di queste sono riportate nel libro di Titus Burckardt, edito  da Arkeios e intitolato «La nascita della cattedrale.  Chartres» (179 pagg. Lire 49.000). Io mi accontento di riportarne qualche riga.

 

L     La presentazione del fatto:

          «In quello stesso anno (1145) si videro i fedeli di Chartres impegnati, per la prima volta, su carri carichi di pietre, di tronchi, di grano e di tutto quanto poteva servire ai lavori della cattedrale, le cui torri si elevavano quasi per incanto. Mai più si rivedrà un simile prodigio. L’entusiasmo conquistò, per così dire, tutta la Francia e la Normandia. Dappertutto ci si comportava con umiltà; si faceva penitenza dovunque; in ogni luogo si perdonavano i nemici. Da ogni parte si vedevano uomini e donne trainare dei pesanti fardelli attraverso paludi fangose, chiedere i colpi della disciplina e celebrare, con canti trionfali, i miracoli che Dio compiva sotto i loro occhi» (ivi, pag. 83, da Chronique de Robert de Torigny). «Chi ha mai visto nelle passate generazioni, chi ha mai sentito dire che dei tiranni, dei principi, dei signori potenti del secolo, gonfi degli onori e delle ricchezze, che dei nobiluomini  e delle nobili donne di nascita abbiano chinato le loro teste fiere e altezzose, si siano impegnati nei carri come

 

          degli animali da tiro, come delle bestie da soma, e abbiano condotto  fino all’asilo di Gesù Cristo il vino, il grano, l’olio, la calce, le pietre, i tronchi e tutte le cose necessarie per il nutrimento degli operai e per la costruzione di una chiesa?

Ma quello che è ancor più sorprendente è che  nel mezzo di questo rude lavoro, in cui talvolta più di mille persone – uomini e donne – sono impegnate sullo stesso carro (tanto la massa è enorme, tanto la macchina è appesantita e il carico pesante) regna un silenzio così profondo che non si sente la minima parola né il minimo bisbiglio. Quando ci si arresta sul cammino non si sente altro che la pubblica confessione dei peccati e la preghiera di supplica che implora il perdono. Dietro l’invito dei sacerdoti che predicano la pace, i rancori sono sconfitti, i dissensi banditi, i debiti rimessi e l’unione dei cuori è ristabilita. Che se qualcuno avesse il cuore così indurito da non perdonare i suoi nemici, o da rifiutarsi di sottomettersi alle pie esortazioni del clero, subito le sue offerte sarebbero ritirate dal carro come immonde, e lui stesso sarebbe cacciato con ignominia e grande vergogna dalla società del popolo santo». (ivi pag. 86)

 

 

 

 

 

              Simbologia  della “figlia  di sion”

 

 

 

 

Anche se brevi, gli estratti di cronaca sopra riportati credo siano sufficienti a dimostrare l’importanza della simbologia che la torre rivestiva nel Medio Evo: infondeva sicurezza, rappresentava tutto lo svolgersi dei germi vitali racchiusi nella cripta e poi maturati nel grande seno della Vergine-Chiesa, attorno all’altare di Cristo,  punto centrale dello spazio e del tempo. Grandi intuizioni, simbolismo efficacissimo, fattore vitale che non esigeva ancora, come oggi, la prova della ragione e le spiegazioni della psicologia. Ispirava e trasformava il senso dell’esistenza, spingeva al contributo personale di pietre e calce ma anche di conversione interiore.

Alla medesima figura della torre vorrei legare, adesso,  anche il significato di «Figlia di Sion», evidenziato soprattutto dal Conc. Vat. II,  apertamente inserito   nel Ct  e, in fin dei conti, raffigurante la stessa rivelazione di bellezza, di fecondità e protezione materna  già prima interpretata dai massicci torrioni delle cattedrali gotiche.

Aggiungo subito però che, su questo argomento, non potrei dire molto più di quanto già si trovi in buoni libri di mariologia. Uno per tutti: quello di A. Serra, dal titolo “Miryam Figlia di Sion” (Ed. Paoline, 1997), ben documentato dal punto di vista scritturistico, attento alle problematiche dell’oggi, sufficientemente generalizzato e comprensibile.

Mi propongo solo di definire strettamente  il senso di “Maria, Figlia di Sion”.

 

·        La parola al Concilio Vaticano II.

Dopo aver elencato  diversi titoli che   legano la Vergine  all’A.T. il paragrafo 55 di LG riporta: «E infine, con Lei, eccelsa Figlia di Sion, dopo la lunga attesa della promessa, si compiono i tempi e si instaura una nuova Economia, quando il Figlio di Dio assunse da Lei la natura umana, per liberare coi misteri della sua carne l’uomo dal peccato».

 

·        Significato letterale dell’espressione «Figlia di Sion».

Non era infrequente nella cultura poetica del Medio Oriente l’abitudine di denominare un territorio o una città con il nome di «Figlia». Babilonia era la «Figlia di Babilonia», Assur era la «Figlia di Assur», quasi a dire: «Babilonia, la Figlia», «Assur la Figlia». (Ogni città antica  era protetta da un dio, padre o madre, fondatore). Alla stessa stregua, Sion, la roccaforte di Gerusalemme, divenne la «Figlia di Sion», la amata da Jahvè, immagine prefigurata della Madre del Signore.

 

·        Sion, naturalmente era il concentrato delle sette bellezze:

maestosa, ornata di scudi d’oro, elevata al di sopra di tutto, vanto di ogni  Ebreo, prediletta e prescelta per il regno del Messia, lentamente divenne anche il luogo della sicurezza, un seno materno di tutte le genti. Una sola citazione per tutte: “Si dirà di Sion: «L’uno e l’altro è nato in essa - e l’Altissimo la tiene salda» - Il Signore scriverà nel libro dei popoli «Là costui è nato» - E danzando canteranno: - «Sono  in te tutte le mie sorgenti». (Salmo 87, 5.6.7).

 

·        Nell’ottavo secolo a.C., fu Michea a chiamare Sion, «Figlia di Sion» (1, 13; 4,10.13), ma quando Zaccaria, duecento dopo, si rivolse a lei con le parole «Esulta grandemente, Figlia di Sion, - giubila, figlia di Gerusalemme! – Ecco, a te viene il tuo re. – Egli è giusto e vittorioso, - umile, cavalca un asino,  un puledro figlio d’asina», allora, l’accostamento a Maria si impose da solo: nella prospettiva tutta messianica, il termine “Figlia di Sion” si fece, prima, rappresentazione astratta di Israele in attesa del Messia,  poi si concretizzò definitivamente in Maria. L’Annunciazione, il Magnificat, la Natività di Gesù, la Presentazione al tempio non furono che la rivelazione graduale di questo mistero mariano.

 

·        E allora, come Sion, il tempio e la rocca designarono l’alleanza di Jahvéh con  Israele, così Maria, concependo Gesù, sanzionò definitivamente il rapporto del nuovo popolo regale, sacerdotale, profetico con il suo Dio. E ne racchiuse in sé tutto il mistero. La Figlia di Sion  divenne - e resta - l’immagine umanamente perfetta della vocazione materna perenne di Dio nei confronti dell’umanità.

 

·        Maria, Figlia di Sion, significa, allora: Colei che realizza, in modo puro e intenso, il mistero della chiesa, preconizzata nell’A.T. e vista come il prolungamento, nel tempo e nello spazio, della presenza di Gesù fra gli uomini. In ogni chiesa succede proprio quello che avevano voluto significare, nel Medio Evo, i costruttori di cattedrali.

 

·        Conclusione.

L    L’espressione «Figlia di Sion» esplicita: l’approfondimento del mistero della chiesa realizzato in Cristo, l’immagine del mistero di Dio nella storia, la vocazione ininterrotta della maternità divina, l’accettazione gioiosa della comunità composta di fratelli, l’affidamento a Colei che, più di tutti, interpreta l’esigenza della nostra rigenerazione. Materia infinita di riflessione, occasione ininterrotta di maturazione. Maria, sempre  Madre di Gesù e degli uomini, sempre Turris Davidica, sempre Figlia di Sion.

 

            inizio