Dal Sudan all’Iran mappa della discriminazione anti-cattolica
Le mille facce della mezzaluna di
Riccardo Cascioli
La situazione dei cristiani nei Paesi a maggioranza musulmana è diversa a seconda dei casi, ma esiste comunque un minimo denominatore comune: ovvero la discriminazione per i non-islamici.
Per l’islam infatti c’è una identificazione immediata tra religione e politica che non ammette eccezioni (almeno finora) e che giustifica l’inferiorità giuridica di chi appartiene ad altre religione.
Nei Paesi
islamici perciò – moderati o fondamentalisti che siano – i governi sentono
come primario il compito di proteggere la religione musulmana e di favorirne la
diffusione in tutto il mondo. Esempio di questo è l’impossibilità, ovunque
nel mondo islamico, di convertirsi al cristianesimo, cosa che equivale ad una
sentenza di morte.
Ovviamente i modi di intendere la protezione dell’islam sono diversi.
Ci sono Paesi islamici che
non tollerano alcuna manifestazione religiosa che non sia quella islamica: non
sono quelli più conosciuto come fondamentalismi, ad esempio Afghanistan e Iran (dove
peraltro si tollera l’esistenza di una piccola comunità cristiano-ortodossa),
ma anche tra quelli comunemente considerati filo-occidentali. E’ il caso
dell’Arabia Saudita, dove il Corano
è la Costituzione e anche i lavoratori stranieri rischiano arresti e violenze
se vengono sorpresi in pratiche religiose che attirino l’attenzione. Poco
migliore è la situazione in Turchia,
dove l’islam non è religione di Stato, la Costituzione garantisce libertà di
credo religioso, ma la realtà quotidiana parla di impedimenti ai cristiani di
manifestare in alcun modo la propria fede. Restrizioni che peraltro in Turchia
valgono anche per gli estremisti
islamici, temuti dal governo come minaccia al proprio potere. Analoga è la
situazione in Egitto, dove
l’assoluta parità di tutti i cittadini, senza distinzioni di razza e di
religione (garantita dalla Costituzione)
è contraddetta dalla cronaca di tutti i giorni.
Paradossalmente tra i paesi arabi del Golfo, i cristiani godono di una reale tolleranza (sempre relativa) soltanto in Siria e Iraq (a parte il Libano dove però i cristiani erano maggioranza fino agli anni ’70), dove – pur essendo l’Islam religione di Stato – al governo ci sono dittatori provenienti dal partito Baath, una formazione di impronta laica e nazional-socialista.
In Iraq, tuttavia, le condizioni si sono complicate con la Guerra del Golfo nel ’91. In realtà proprio quella guerra insieme al crollo del comunismo e alle vicende dell’Afghanistan, hanno fatto da volano al fondamentalismo islamico in molti altri paesi a maggioranza musulmana, con conseguente peggioramento delle condizioni di vita dei cristiani.
E’ ciò che
avviene in Pakistan dove - in una
situazione già fortemente discriminatoria per i cristiani – crescono le
pressioni per l’adozione di uno «stile» islamico sul modello dei taleban
che, peraltro, sta attecchendo nelle repubbliche ex sovietiche dell’Asia
centrale. Ma è anche il caso dei
paesi tradizionalmente più tolleranti, come quelli asiatici: in Bangladesh,
la progressiva islamizzazione del Paese (culminata con la proclamazione
dell’islam religione di stato nel 1988) ha conosciuto una accelerazione negli
anni ’90, con saccheggi e violenze nei confronti della piccola comunità
cristiana. E’ anche il caso della Malaysia
e, soprattutto dell’Indonesia, il
Paese islamico più popoloso del mondo, dove è entrato completamente in crisi
il Pancalisa, cioè l’ideologia di Stato che nelle intenzioni dei padri
della nazione doveva garantire la convivenza tra le diverse religioni. In
realtà gli anni ’90 hanno visto
un’ascesa del nazionalismo politico che
ha favorito il fondamentalismo religioso, una miscela esplosiva i cui effetti si
sono visti a Timor Est e nell’arcipelago delle Molucche.
Proprio il caso
dell’Indonesia mette in mostra un altro aspetto che caratterizza alcuni Paesi
islamici, ovvero la coincidenza tra appartenenza religiosa e appartenenza
etnica, che si aggiunge a motivi politici ed economici. Fu così per Timor Est,
lo è stato anche per la caccia ai cinesi durante la rivolta scoppiata nel 1998
contro Suharto (la minoranza cinese, che detiene la maggior parte della
ricchezza del Paese, è cristiana o buddista). E’ anche il caso del Sudan
dove il Sud cristiano, abitato da «neri», tenta di resistere all’arabizzazione
perseguita dal regime militare del nord, sostenuto da una ideologia islamica
fondamentalista, ma anche dalla volontà di controllare i giacimenti petroliferi
situati nella parte meridionale del Paese.
Nello scenario
preoccupante qui tracciato non va, però, dimenticato lo sforzo tenace e, in
alcuni casi sorprendente per intensità e risultati, ad opera di singoli e
gruppi impegnati nel dialogo fra islam e cristianesimo.
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