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esperienze, riflessioni, proposte

 

"Sai, disegnare a parole è anch'esso un'arte, che a volte tradisce una forza nascosta e dormiente, come piccoli fili di fumo grigio o blu svelano l'esistenza in un fuoco nel focolare".

Lettera di Vincent Van Gogh al fratello Theo

 

Inviaci le tue esperienze, riflessioni, proposte all'indirizzo: assmariabianchi@hotmail.com
I messaggi pervenuti saranno pubblicati in questo spazio.

 

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1° contributo - Inviato: 03/02/2004 17:46 -

Cari amici docenti della scuola on line (o, se preferite, compagni di viaggio),sono entusiasta della scelta di una delle oltre 1700 poesie di Emily Dickinson come "regalo" iniziale per noi discenti. E che poesia! Scritta con il cuore mentre l'autrice stava diventando cieca, senza usare nessuna delle parole a Lei più care (joy, delight, glee....); parole che io non amo molto perché associate ad un "romanticismo" che l'autrice non vivrà mai, riesumate da autori che hanno significato molto nella sua formazione di donna americana di provincia, culturalmente isolata, nata, vissuta e morta sempre nella stessa cittadina (Ralph Waldo Emerson, Walt Withman, Percy B. Shelley, Keats ed altri).

La Dickinson non ha bisogno di rubare parole ad altri, così forte e vibrante è il sentimento che trasmette !!

La scelta di un' autrice di tale portata ha, a mio avviso, un enorme significato simbolico, permettendoci di spaziare entro i confini della paura, della tristezza, dell'angoscia e della solitudine, sui quali temi dovremo sapere molto.

Con gratitudine,

Bruno Mazzocchi 

 

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2° contributo - Inviato: 05/02/2004 12:39 -

Cari amici del corso on line,

anzitutto mi presento:mi chiamo Marcello Ricciuti, sono un medico anestesista di 44 anni, lavoro a Potenza e mi occupo di terapia del dolore e cure palliative. Purtroppo devo dividere il mio tempo professionale tra l'anestesia e la terapia del dolore e questo toglie molto al tempo disponibile e alla qualità del servizio nei confronti dei pazienti affetti da patologie croniche irreversibili, come il cancro. In passato ho svolto anche un'attività volontaria (e solitaria) sul territorio di cure palliative; oggi, fortunatamente, c'è l'ANT i cui professionisti seguono egregiamente i pazienti a domicilio, e con essi collaboro. Ci manca l'Hospice: è naturalmente previsto ma i nostri tempi sono sempre un po' lenti... Comunque abbiamo creato un bel gruppo di persone (con gli oncologi, i medici dell'ANT, gli infermieri dell'ANT e quelli ospedlaieri che collaborano con me nell'attività ambuatoriale, quelli dell'oncologia), per cui posso dire che sta maturando sempre più la giusta sensibilità verso le cure palliative e verso i pazienti che ne necessitano. Ho molto apprezzato il lavoro della sig.ra Zavagno; ho apprezzato soprattutto la sua esperienza, comunicata nel lavoro; condivido soprattutto il passaggio in cui si dice che la strategia vincente si basa sulla competenza, la motivazione e lo spirito di gruppo. Ora chiudo con una domanda: è veramente possibile realizzare questo percorso nelle strutture pubbliche, dove ci muoviamo tra mille ostacoli, tra tagli di spese, ritardi nelle attuazione dei piani (e quindio anche delle cure palliative), demotivazione del personale, etc.? O è una prerogativa soprattutto delle organizzazioni private, intendo Onlus o Fondazioni e così via? L'Antea mi sembra svolga un ottimo lavoro: del resto è nata per questo! Come è possibile allo stesso le nostre strutture pubbliche? Forse bisogna realizzare un percorso comune. Non che io non abbia idea delle possibili risposte, ma desidero così sentire le esperienze degli altri, soprattutto di quelli che lavorano per le cure palliative e la terapia del dolore nelle strutture pubbliche.

Grazie, Marcello Ricciuti

 

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3° contributo - Inviato: 06/02/2004 12:36 -

Caro Nicola, da Napoli, ti inviamo questa riflessione condivisa con una cara amica. 

Un abbraccio.
Luciana

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Il senso delle parole… un contributo per il Forum. 

Sono Massimo Seguri, psicologo, psicoterapeuta, di formazione psicoanalitica e svolgo la mia attività,  privatamente, da ventitré anni.

Ho pensato, con mia moglie Luciana, che di recente ha vissuto la perdita di sua figlia di ventott’anni, di proporre alcune riflessioni, oggetto di confronto tra noi e una nostra cara amica, Marilena, purtroppo anch’essa attraversata dallo stesso dolore, avendo perduto il suo secondogenito di appena sedici anni.

Il pretesto della nostra discussione, è stato il racconto di un sogno recente della nostra amica, in cui, suo figlio Giovanni, le è apparso con la testa fasciata da una garza candida che non lasciava trasparire alcun segno di ferita.

 Il ragazzo si è presentato alla madre a metà, fino alla vita, e con un’espressione di profonda tristezza. Le parole dolci e rassicuranti della madre lo hanno però confortato e, in una seconda sequenza del sogno, è apparso con la sua consueta espressione solare e il suo bel sorriso.

La nostra amica, Marilena, ha aggiunto che ha immaginato che la scena si fosse svolta in Ospedale, dove Giovanni è deceduto. Marilena ha anche associato il ricordo di una telefonata, ricevuta la sera precedente, da parte di una sua amica, Elena, che a sua volta, le aveva raccontato un suo sogno in cui il ragazzo appariva felice, in mezzo ad un prato verde e luminosissimo.

E’ curiosa la preoccupazione di Elena che, nel voler rassicurare Marilena, usa queste parole: “non ti devi preoccupare per Giovanni perché sicuramente lui sta bene ed è felice”.

A questo punto Marilena ci chiede quale potrebbe essere il significato del proprio sogno (quello della fasciatura della testa di Giovanni). Qui di seguito, ho tentato di ricostruire il nostro dialogo.

 

Massimo:  nel sogno, Giovanni inizia ad avvertire la possibilità dell’incontro con la morte e rivela, alla mamma, tutta la sua angoscia. ( Ricordo a Marilena che, nella realtà, quando Giovanni fu ricoverato in Ospedale, prima di morire, le aveva più volte confidato tutta la sua angoscia per la morte imminente e, lei, lo aveva sempre rassicurato, per quel che era possibile). Forse, Marilena, tu hai costruito il sogno con il bisogno di ripetere e di risentire emozioni già vissute prima della morte di Giovanni e, contemporaneamente, di rivivere ancora il tentativo di attivarti come luogo e contenitore rassicurante. Infatti, nel sogno, ti rivolgi a tuo figlio come se volessi dirgli: ” non ti fasciare la testa prima del tempo”, in quanto, da una parte, ciò ti serve per rassicurare Giovanni che in realtà si rassicura ma soprattutto per rassicurare te stessa (sognatrice) che tuo figlio vive ancora da qualche parte.

(Il sogno di Marilena potrebbe essere stato fecondato dal racconto del sogno di Elena?) 

Luciana: non credo sia possibile l’elaborazione del lutto nel caso della perdita d’un figlio…

La morte di mia madre, per esempio, pur nella sua tragica e improvvisa verità, l’ho vissuta come una perdita più naturale….La forte emozione che m’ ha attraversato, per un lungo periodo, è stata quella della perdita del mio contenitore, da qui gli attacchi di panico, la paura di affrontare la vita… poi, con il tempo, la ripresa del progetto. Con Annalaura, mia figlia, è stato diverso. Niente attacchi di panico o paure incontrollabili ma la consapevolezza tragica della perdita del mio contenuto e l’emozione, che non credo mi abbandonerà più, di un’atroce mutilazione. Non si vive senza futuro. 

Marilena: si, hai ragione. In effetti, io non ho più progetti. Anche se il lavoro ancora mi gratifica, come mi gratificano i progetti di mio figlio Vittorio. 

Massimo: ma allora non parlerei di totale assenza di progetto…. 

Marilena: penso che il lavoro e l’attenzione a Vittorio, mi permettano solo di non sprofondare nella follia… 

Massimo: vedi, Marilena, oltre ad aver scelto qualche piccolo progetto, nel sogno riveli una ‘creatività emotiva’ che possiamo chiamare speranza, che si sostanzia nel dire a tuo figlio Giovanni” non ti fasciare la testa prima del tempo” e, che, specularmente, è un dire anche a te stessa “non ti fasciare la testa prima del tempo” e, pertanto, rassicurando Giovanni, ti rassicuri tenendolo in vita, sia pure a metà, nell’aldilà. Non è un caso, che tuo figlio si presenti, nel sogno, appunto, “a metà”. 

Luciana: si, credo che Marilena, forse come tutti i  genitori non possa elaborare il lutto per la morte del proprio figlio semplicemente perché la nega, al di là dell’evidenza della realtà. Forse è questo il motivo che mi rende impossibile accettare l’espressione “elaborazione del lutto” per la morte di mia figlia. Se è vero, come lo è, che le parole rappresentano simbologie e emozioni, le emozioni che mi attraversano, da quando Annalaura non è più qui, accanto a me, vanno nella direzione della sospensione del tempo, che sento in lei terminato e, in me, irrimediabilmente spezzato.

 

Massimo: anche alla luce di quello che dice Luciana, possiamo pensare che l’operazione che fai, cara Marilena, è un’elaborazione del lutto un po’ anomala, non intesa in senso classico anche se il sogno ti consente di trovare un compromesso che si traduce nel vissuto dell’essere vivi e morti a metà, entrambi: fai continuare a vivere a metà il figlio morto, in un altrove, e ti senti tu viva, seppure morta a metà. Si può evitare di utilizzare il termine elaborazione del lutto e vedere questo tuo compromesso emotivo, come un modo “sufficientemente” vitale per continuare a convivere con il dolore.

Da qui, un’ulteriore riflessione che propongo ad entrambe, sull’impossibilità di coniugare il vivere, sia pure saturo di dolori, in assenza di un “granello” di progetto. Sarebbe la vera morte, quella che per ora, a nessuno di noi, in quanto vivi, è consentito conoscere.

E concluderei, con questa domanda che pongo anche a me stesso: conosceremo, poi, la morte? 

Luciana: aggiungerei che il percorso di una madre, forse, può solo essere quello di imparare piano piano a convivere con quest’atroce mutilazione e accettare d’essere vivi a metà. 

Concludo questo breve racconto con l’invito, a chi lo desidera, di apportare contributi sulla questione e sulle emozioni di cui abbiamo discusso.

Un saluto a tutti voi. 

Massimo Seguri 

 

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4° contributo - Inviato: 09/02/2004 17:46 -

Un saluto per tutti.

Mi presento, sono Carmelo Bartolo Crisafulli sociologo, ma anche volontario AIL (Associazione contro le Luecemie Linfomi e Mielomi), presto la mia opera presso la Divisione di Ematologia dell'Ospedale "V.Cervello" di Palermo.

Ho deciso di partecipare a questo corso perchè complementare al mio Master in bioetica all'I.S.B. presso la Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia e anche perchè è motivo di studio da un punto di vista sociologico.

Ho apprezzato molto gli articoli dei due docenti Di Masi e Zavagno, dai quali traspare la passione con la quale svolgono la loro professione e l'umanità nei rapporti interpersonali.

C'è molto bisogno di persone che oltre a svolgere il lavoro per realizzarsi, donino ai pazienti quel sorriso che non costa nulla, che a volte vale più della stessa terapia praticata.

Un grazie a tutti e buon lavoro.

Carmelo Bartolo Crisafulli.

 

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5° contributo - Inviato: 23/02/2004 13:25 -

ALCUNE RIFLESSIONI SU LUTTO E CORDOGLIO
di Bruno Mazzocchi

A seguito dello splendido articolo di Enrico Cazzaniga (formalmente bello ed originalissimo nel modo di proporre un argomento così difficile), vorrei anch’io fare alcune riflessioni attinenti al tema, frutto della mia formazione culturale e della mia esperienza personale. Mi scuso per usare un linguaggio scarsamente “psicologico”: io sono un medico oncologo che si occupa di medicina palliativa, ed il contributo che cercherò di fornire alla discussione è purtroppo visto e mediato attraverso il mio tecnicismo, del quale non riesco ancora a liberarmi, pur avendo fatto dei progressi in tal senso (almeno a detta dei miei amici). Faccio ammenda di ciò e spero di riuscire lo stesso a farmi comprendere!

Come tutti ben sappiamo, il lutto “normale” è inteso come una risposta affettiva alla perdita di una persona amata. O meglio, il lutto rappresenta la perdita, mentre la sofferenza per la perdita è, più propriamente, il cordoglio (dal latino “cor”, cuore, e “dolere”, soffrire).
A parte le questioni lessicali, è necessario, a mio avviso, puntualizzare alcuni aspetti del problema:

A) Quand’è che il lutto può essere definito patologico?
Il lutto ed il cordoglio di un particolare individuo, in una particolare cultura, possono essere etichettati come patologici quando appaiono “devianti” nel modo di associarsi ad una eccessiva o prolungata morbosità psicologica o fisica. Questo vuol dire che gli aspetti antropologici, sociali, culturali, ecc., hanno un ruolo preminente nel definire i rituali ed i comportamenti degli individui di fronte alla perdita di una persona cara. E’, a mio avviso, sostanziale comprendere ciò, perché in una società multietnica e multiculturale dovremo sempre più confrontarci con atteggiamenti diversi, che renderanno più problematica la diagnosi di “lutto patologico”. Non è necessario evocare il mondo islamico o la cultura buddista per esprimere un tale concetto. Basti pensare alla diversa compostezza, al pianto, alla disperazione, ai rituali di accompagnamento al lutto che differenziano le persone delle varie regioni d’Italia!
D’altra parte, la classica elaborazione del lutto, di freudiana memoria (distacco dalla persona amata, idealizzazione della stessa, riconoscimento di “non necessità” del defunto man di mano che vengono sublimate le sue caratteristiche ideali, superamento del lutto), è tipicamente un modello occidentale ed ha molti aspetti non generalizzabili ad altre culture.

B) Ma il lutto è davvero unico per ogni individuo?
Quanto sopra esposto per dire che, se è vero che il lutto è “individuale” e ci sono tanti lutti (diversi) quanti sono gli individui che hanno avuto una perdita, paradossalmente non solo la società ma anche gli individui stanno divenendo “collettivi”, e questa modalità “collettiva” del nostro “io” individuale, questa sorta di “destino comune” o di “globalizzazione” (se preferite), sembra essere più prepotente nel mondo occidentale, dove invece le libertà individuali hanno rappresentato uno dei valori aggiunti che hanno reso la nostra civiltà più forte (“vincente”, oserei dire, nella storia del mondo).
Il film “Moonlight & Valentino”, utilissimo per far comprendere didatticamente le ipotesi proposte da Cazzaniga, tuttavia conferma anche le mie ipotesi, narrando di una società fatta di stereotipi, di belle ville, di donne borghesi ed in carriera (rapportata alla nostra vita di tutti i giorni, sembra una storia di marziani). Ebbene, il modello a cui si tende (il “destino comune” di cui dicevo) è proprio quello: è la perdita di parte dell’individualità in nome di “valori” comuni, predicati dalla società, dalla cultura corrente, dai media e dalla pubblicità.
Per orientarsi meglio bisogna riprendere in mano non solo le letture, i film, ecc., che parlano di morte e morire, ma anche i libri, film, ecc. che parlano di vita e dei giovani di fronte alla vita, poiché è da lì che tutto nasce e si elabora. (propongo, per iniziare, alcune riflessioni sui “cult” della mia generazione, quali “Sulla strada” di Kerouac, il “Giovane Holden” o, se preferite, “The catcher in the rye” di Salinger, “A sangue freddo” di Truman Capote, “Luce d’Agosto” di Faulkner, e chi più ne ha più ne metta).

C) IL LUTTO COME ADDIO E COME SPERANZA
Per finire, vorrei avere un parere su questo spunto che ho trovato in Internet (joyce@danzemeditative.com, www.danzemeditative.com).
La vita è piena di addii, separazioni, perdite. Dire addio vuol dire andare via , ma anche andare sulla nostra via, compiere il percorso che ci porta verso il nuovo. Il lutto è anche una speranza, un'occasione per dare una nuova direzione alla nostra vita.
Ogni esperienza di morte ci porta a vivere questa doppia esperienza di lasciar andare il vecchio per accostarci al nuovo.
Ognuno di noi sperimenta la separazione, il dolore, la gioia, la fatica di rimettersi in piedi dopo una malattia o un trauma.
Non possiamo scegliere se accettare o no la perdita o la separazione, possiamo solo decidere come affrontarla.
Se riusciamo a viverla fino in fondo, possiamo sperimentarne l'effetto curativo. Se invece la respingiamo, rifiutando di accettarne l'evidenza, rischiamo di trovarci in una situazione di squilibrio.
Il lutto è un processo che ci accompagna nella vita, in risposta alla perdita, al vuoto doloroso della separazione. Dobbiamo ricordare che la vita si manifesta attraverso due forze contrapposte, il desiderio di amare e la capacità di lasciar andare.
L’esperienza del lutto è un’esperienza al tempo stesso dolorosa e curativa,….un'esperienza che coinvolge l'essere umano nella sua totalità in quanto corpo e intelletto, sensazioni e sentimenti. Allo stesso modo, l'elaborazione del lutto non deve essere vissuta solo con la parola, ma con il corpo e con tutti i nostri sensi.
Bruno Mazzocchi

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6° contributo - Inviato: 04/03/2004 14:59 -

Sto lentamente assaporando i vari testi inviati: come già detto è stato un ripasso quello dell’infermiera professionale, adeguata nella sua lettura dei bisogni del malato. 

Il collega, giornalista medico anestesista – dr. Pierfrancesco Di Masi – mi ha provocato molto a fare verità quotidiana sulla comunicazione con la persona malata, interagendo con la sua storia personale, offrendo quella speranza reale che la può far reagire.Lo stesso gusto interiore avverto nella lettura, appena iniziata, del testo di Livia Aite Crozzoli, che conosco e con cui ho collaborato. E che ringrazio anche per questo suo contributo. 

La riflessione – sinceramente velata di amarezza, perché la vedo spesso disattesa, o peggio malcompresa – mi dice che occorre mettersi accanto, cercando di entrare dentro alla paura e all’angoscia del malato. Vuol dire non negarla (se qualcuno lo fa, ammette la sua incapacità emotiva a gestirla, la sua paura ad affrontarla…), ma prenderla su di sé e dipanarla.

Sto facendo così con A.P., donna di 58 anni, toscana di origine, con un tumore ovario avanzato, in stato subocclusivo, anzi ormai occlusivo. Nubile, vive con la mamma 89enne, con poche colleghe dal lavoro – ora è già  pensionata. Ma ora non vuole vedere nessuno. Definibile donna ‘formale’, riservata, con poche parole…Occorre starle accanto per ca-r-pire dal suo sguardo, dai suoi ‘sì’ laconici, il bisogno di sapere, graduale.

Mi dice che se sa che ‘non c’è più niente da fare’ (e già lo comprende), preferisce morire subito. Le chiedo perché: afferma di avere paura della sofferenza, di soffrire. Le viene garantito che controlleremo comunque il dolore fisico,e che saremo accanto a lei per rispondere ad ogni interrogativo.

Le diamo comunque la possibilità di sognare la vacanza ad Ischia (sognare è quasi sperarla; ma è ben diversa dal programmarla…Vuol dire, a mio parere, permettere alla malata di una progettualità, anche se lei stessa è consapevole del suo essere irrealizzabile.

Nella congiura del silenzio, mi chiede di non dire alla mamma questo discorso: aveva cominciato con il chiedermi se era terminale. Le avevo risposto che non lo era, se si trattava di ore o di pochi giorni. Per l’oltre, ho affermato che non so prevedere il futuro, facendole intendere che non sarebbe stata comunque una lunga sopravvivenza.

La mamma, dal canto suo, è ben consapevole di quanto sta avvedendo alla figlia…

La storia è di sabato 28.02.04 e sta evolvendo penso rapidamente.

Il condividerla con voi, mi offre la possibilità di un confronto su uno stile di comunicazione, sempre in miglioramento per il bene delle persone coinvolte in questa avventura, operatori compresi.

Caterina De Nicola

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7° contributo - Inviato: 06/03/2004 11:04 -

La riflessione, che per motivi tecnici invio con ritardo, nasce in risposta a quella del dr. Marcello Ricciuti, di cui ho apprezzato la sensibilità verso l'assistenza domiciliare ai pazienti terminali.

Associazioni Onlus come l'Antea, l'ANT, ecc. sono nate per assistere a domicilio e migliorare la qualità di vita di questi pazienti, proprio perchè manca, a livello sanitario pubblico, una rete tra ospedale, che assiste pazienti acuti, ed il territorio, dove, almeno nella realtà capitolina, tutto è affidato ai medici di base ed ai servizi ASL di zona, che variano come tempi e servizi e, molto spesso, non sono in grado di coprire tutti i bisogni dei pazienti, e non solo oncologici.

Alla domanda del dr. Ricciuti non è facile rispondere, in quanto bisogna analizzare i problemi di ogni singola struttura, ma è soprattutto la mentalità che deve mutare, in quanto, indipendentemente dal tipo di patologia da cui è affetto e dovunque si trovi, il paziente è il centro della nostra assistenza, ha diritto quindi ad essere informato, se lo desidera, sulla diagnosi, accompagnato nel percorso terapeutico attraverso un lavoro d'èquipe (ovvero varie figure professionali, con diverse competenze, ma che collaborano con obiettivi comuni attraverso una comunicazione che porti al confronto e ad una crescita), in cui gli venga data la possibilità e gli strumenti per scegliere cosa vuole fare, ha diritto a terapie efficaci mirate al controllo dei sintomi della malattia e, sempre se è un paziente che vuole sapere, ha il diritto di conoscere la prognosi e tutto questo si deve attuare negli ospedali, attraverso una comunicazione ed una conoscenza vera e globale del paziente (e della situazione familiare), che permetta agli operatori di affrontare nel modo migliore argomenti come la comunicazione di una prognosi infausta ed il passaggio alle terapie palliative, servizi che possono costituirsi in una struttura ospedaliera, ma che devono diramarsi sul territorio.

La realtà quotidiana, tranne qualche esempio, ci porta, invece, a vedere i pazienti nelle Unità Operative di Cure Palliative, senza conoscere diagnosi e prognosi, abbandonati dai servizi oncologici, che diradano gli appuntamenti di controllo fino a tre mesi, ben sapendo che quel paziente può non arrivarci, in balia dei disservizi territoriali e delle lungaggini burocratiche, senza una valida terapia sintomatica, con medici di medicina generale non adeguatamente formati per assisterli, alcuni ancora con reticenze culturali sulla richiesta di oppiacei, inoltre spesso arrivano in condizioni tali da non far in  tempo a dar loro una dignità di morte come meriterebbe qualsiasi persona, visti i tempi brevissimi (giorni, settimane,...).

L' Antea ha puntato sulla formazione, parallelamente all'assistenza domiciliare ed in Hospice, proprio per scardinare dall'interno tutti quei problemi, più culturali, che organizzativi, che, ancora oggi, rendono l'assistenza ai malati oncologici, ma ripeto non solo loro, un doppio calvario, quindi è rimuovendo da noi stessi quelle resistenze ("solo io la penso così", "ci sono troppi ostacoli", "il personale è demotivato", ...) che ci impediscono di agire, nel nostro piccolo, per fare una buona assistenza, anche perchè credo che occasioni di confronto come questa offerta dalla Maria Bianchi, ci faranno scoprire che siamo in tanti a voler fare un'assitenza qualitativamente valida, riscattando la nostra professionalità agli occhi di un'utenza ormai delusa e prevenuta, quindi creando sempre più occasioni, anche nelle singole strutture, dove medici, infermieri, psicologi, amministrativi, ecc..., si comunichino in modo e tempo diversi dal reparto, rimotivandosi vicendevolmente, si possa fare molto, anche se, soprattutto all'inizio, non sarà facile.

Maria Laura Zavagno

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8° contributo - Inviato: 09/03/2004 08:51 -

Carissimi amici ,

mi permetto di sottoporVi alcune considerazioni personali che spero possano servire come base per una discussione libera, chiara, e franca senza i condizionamenti di vario tipo che influenzano l’argomento che mi interessa e che scoprirete di seguito .

Mi riferisco ai problemi di ordine diverso che accompagnano l’argomento “Eutanasia” o meglio la verifica della dignità del morire nella nostra società che ipocritamente abbandona gli anziani alla loro solitudine ed al vegetare negli ospizi ma si rifiuta di lenire le loro sofferenze e di “aiutarli” ad andarsene, nel momento cruciale .

Spesso dove il “modello palliativo” non viene applicato, si muore soli ed intubati in reparti di rianimazione o in corsie, dietro a paraventi, soffrendo come cani. Nelle conclusioni della pregevole 1° dispensa di questo corso la sig. M.L.Zavagno parla della “dolce morte” con riferimento alle proprie esperienze personali: ecco, io non vorrei che la relazione d’aiuto presa in considerazione diventasse esaustiva di una troppo ottimistica e taumaturgica attuazione risolutiva delle cure palliative .

Mi riferisco, chiaramente, a quello che si definisce “dolore totale” con tutti gli aspetti della sofferenza:fisici,spirituali,religiosi,economici,sociali,ecc. 

Infatti, malgrado tutti i nostri sforzi nel realizzare l’empatia con un morente, dobbiamo essere persuasi che ogni uomo è un universo originale ed esclusivo e che i modi di “sentire” personali sono molto variegati e influenzano le modalità delle reazioni. Mi sembrano ragionevoli, in questa fase, gli autori successivi alla Dr. Kùbler Ross che introducono modifiche agli schematismi troppo rigidi delle fasi delle reazioni seguenti alla diagnosi infausta e sua evoluzione.

Riprendo in questa sede il logo di un convegno della Associazione Floriani: “Aiutare a morire è sempre eutanasia?” sperando in uno scambio di opinioni che spero molteplici anche per le future prospettive sulle decisioni mediche alla fine della vita. Penso all’etica della sedazione terminale e la dottrina del “doppio effetto”: è moralmente lecito l’alleviamento dei sintomi in un paziente pur sapendo (ma non con l’intenzione) che il trattamento potrebbe abbreviarne la vita . Quando ci sentiamo chiedere da qualcuno con prospettive di fine vita: “Dammi, ancora, una ragione per cui valga la pena di vivere” cosa dobbiamo rispondere ?  

Uno dei fattori che disturbano la comunicazione sul fatto della morte è il diffusissimo ideale della longevità, che ha sostituito quello dell’immortalità dell’anima. Si pensa che “il meglio” coincida con la maggior possibile durata della vita.

Forse dovremmo trovare  il coraggio di ritornare a pensare e a parlare della “buona morte” senza farci spaventare  dal fatto che la versione greca del termine “eutanasia” suona tanto male: per la delinquenziale ipocrisia o la semplice malafede con cui è stata e viene usata dai suoi sostenitori e da tanti che sono contro. 

“IL CUORE CHIEDE PIACERE, PRIMA.

POI, ASSENZA DI DOLORE.

POI, QUEI PICCOLI CALMANTI

CHE OTTUNDONO LA SOFFERENZA.

E POI, ADDORMENTARSI.

E POI, SE E’ VOLONTA’ DEL SUO INQUISITORE,

IL PRIVILEGIO DI MORIRE.”

 

                                      E. DICKINSON

 

Enzo Cassano

Tortona, 8 marzo 2004                                   

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