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"Sai, disegnare a parole è anch'esso un'arte, che a volte tradisce una forza nascosta e dormiente, come piccoli fili di fumo grigio o blu svelano l'esistenza in un fuoco nel focolare". Lettera di Vincent Van Gogh al fratello Theo
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Inviaci
le tue esperienze, riflessioni, proposte all'indirizzo:
assmariabianchi@hotmail.com |
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1° contributo - Inviato: 03/02/2004 17:46 - Cari amici docenti della scuola on line (o, se preferite, compagni di viaggio),sono entusiasta della scelta di una delle oltre 1700 poesie di Emily Dickinson come "regalo" iniziale per noi discenti. E che poesia! Scritta con il cuore mentre l'autrice stava diventando cieca, senza usare nessuna delle parole a Lei più care (joy, delight, glee....); parole che io non amo molto perché associate ad un "romanticismo" che l'autrice non vivrà mai, riesumate da autori che hanno significato molto nella sua formazione di donna americana di provincia, culturalmente isolata, nata, vissuta e morta sempre nella stessa cittadina (Ralph Waldo Emerson, Walt Withman, Percy B. Shelley, Keats ed altri).
La Dickinson non ha bisogno di rubare parole ad altri, così forte e
vibrante è il sentimento che trasmette !!
La scelta di un' autrice di tale portata ha, a mio avviso, un enorme
significato simbolico, permettendoci di spaziare entro i confini
della paura, della tristezza, dell'angoscia e della solitudine, sui
quali temi dovremo sapere molto.
Con gratitudine, Bruno Mazzocchi
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2° contributo - Inviato: 05/02/2004 12:39 - Cari amici del corso on line,
anzitutto mi presento:mi chiamo Marcello Ricciuti, sono un
medico anestesista di 44 anni, lavoro a Potenza e mi occupo di
terapia del dolore e cure palliative. Purtroppo devo dividere il
mio tempo professionale tra l'anestesia e la terapia del dolore
e questo toglie molto al tempo disponibile e alla qualità del
servizio nei confronti dei pazienti affetti da patologie
croniche irreversibili, come il cancro. In passato ho svolto
anche un'attività volontaria (e solitaria) sul territorio di
cure palliative; oggi, fortunatamente, c'è l'ANT i cui
professionisti seguono egregiamente i pazienti a domicilio, e
con essi collaboro. Ci manca l'Hospice: è naturalmente previsto
ma i nostri tempi sono sempre un po' lenti... Comunque abbiamo
creato un bel gruppo di persone (con gli oncologi, i medici
dell'ANT, gli infermieri dell'ANT e quelli ospedlaieri che
collaborano con me nell'attività ambuatoriale, quelli
dell'oncologia), per cui posso dire che sta maturando sempre più
la giusta sensibilità verso le cure palliative e verso i
pazienti che ne necessitano. Ho molto apprezzato il lavoro della
sig.ra Zavagno; ho apprezzato soprattutto la sua esperienza,
comunicata nel lavoro; condivido soprattutto il passaggio in cui
si dice che la strategia vincente si basa sulla competenza, la
motivazione e lo spirito di gruppo. Ora chiudo con una domanda:
è veramente possibile realizzare questo percorso nelle strutture
pubbliche, dove ci muoviamo tra mille ostacoli, tra tagli di
spese, ritardi nelle attuazione dei piani (e quindio anche delle
cure palliative), demotivazione del personale, etc.? O è una
prerogativa soprattutto delle organizzazioni private, intendo
Onlus o Fondazioni e così via? L'Antea mi sembra svolga un
ottimo lavoro: del resto è nata per questo! Come è possibile
allo stesso le nostre strutture pubbliche? Forse bisogna
realizzare un percorso comune. Non che io non abbia idea delle
possibili risposte, ma desidero così sentire le esperienze degli
altri, soprattutto di quelli che lavorano per le cure palliative
e la terapia del dolore nelle strutture pubbliche. Grazie, Marcello Ricciuti
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3° contributo - Inviato: 06/02/2004
12:36 - Un abbraccio. - - -
Il senso delle parole… un contributo per il Forum.
Sono Massimo Seguri, psicologo, psicoterapeuta, di formazione
psicoanalitica e svolgo la mia attività, privatamente, da ventitré anni.
Ho pensato, con mia moglie Luciana, che di recente ha vissuto la perdita
di sua figlia di ventott’anni, di proporre alcune riflessioni, oggetto
di confronto tra noi e una nostra cara amica, Marilena, purtroppo
anch’essa attraversata dallo stesso dolore, avendo perduto il suo
secondogenito di appena sedici anni.
Il pretesto della nostra discussione, è stato il racconto di un sogno
recente della nostra amica, in cui, suo figlio Giovanni, le è apparso
con la testa fasciata da una garza candida che non lasciava trasparire
alcun segno di ferita.
Il ragazzo si è presentato alla madre a metà, fino alla vita, e
con un’espressione di profonda tristezza. Le parole dolci e rassicuranti
della madre lo hanno però confortato e, in una seconda sequenza del
sogno, è apparso con la sua consueta espressione solare e il suo bel
sorriso.
La nostra amica, Marilena, ha aggiunto che ha immaginato che la scena si
fosse svolta in Ospedale, dove Giovanni è deceduto. Marilena ha anche
associato il ricordo di una telefonata, ricevuta la sera precedente, da
parte di una sua amica, Elena, che a sua volta, le aveva raccontato un
suo sogno in cui il ragazzo appariva felice, in mezzo ad un prato verde
e luminosissimo.
E’ curiosa la preoccupazione di Elena che, nel voler rassicurare
Marilena, usa queste parole: “non ti devi preoccupare per Giovanni
perché sicuramente lui sta bene ed è felice”.
A questo punto Marilena ci chiede quale potrebbe essere il significato
del proprio sogno (quello della fasciatura della testa di Giovanni). Qui
di seguito, ho tentato di ricostruire il nostro dialogo.
Massimo:
nel sogno, Giovanni inizia ad avvertire la possibilità
dell’incontro con la morte e rivela, alla mamma, tutta la sua angoscia.
( Ricordo a Marilena che, nella realtà, quando Giovanni fu ricoverato in
Ospedale, prima di morire, le aveva più volte confidato tutta la sua
angoscia per la morte imminente e, lei, lo aveva sempre rassicurato, per
quel che era possibile). Forse, Marilena, tu hai costruito il sogno con
il bisogno di ripetere e di risentire emozioni già vissute prima della
morte di Giovanni e, contemporaneamente, di rivivere ancora il tentativo
di attivarti come luogo e contenitore rassicurante. Infatti, nel sogno,
ti rivolgi a tuo figlio come se volessi dirgli: ” non ti fasciare la
testa prima del tempo”, in quanto, da una parte, ciò ti serve per
rassicurare Giovanni che in realtà si rassicura ma soprattutto per
rassicurare te stessa (sognatrice) che tuo figlio vive ancora da qualche
parte.
(Il sogno di Marilena potrebbe essere stato fecondato dal racconto del
sogno di Elena?)
Luciana:
non credo sia possibile l’elaborazione del lutto nel caso della perdita
d’un figlio…
La morte di mia madre, per esempio, pur nella sua tragica e improvvisa
verità, l’ho vissuta come una perdita più naturale….La forte emozione
che m’ ha attraversato, per un lungo periodo, è stata quella della
perdita del mio contenitore, da qui gli attacchi di panico, la paura di
affrontare la vita… poi, con il tempo, la ripresa del progetto. Con
Annalaura, mia figlia, è stato diverso. Niente attacchi di panico o
paure incontrollabili ma la consapevolezza tragica della perdita del mio
contenuto e l’emozione, che non credo mi abbandonerà più, di un’atroce
mutilazione. Non si vive senza futuro.
Marilena: si, hai
ragione. In effetti, io non ho più progetti. Anche se il lavoro ancora
mi gratifica, come mi gratificano i progetti di mio figlio Vittorio.
Massimo:
ma allora non parlerei di totale assenza di progetto….
Marilena:
penso che il lavoro e l’attenzione a Vittorio, mi permettano solo di non
sprofondare nella follia…
Massimo: vedi,
Marilena, oltre ad aver scelto qualche piccolo progetto, nel sogno
riveli una ‘creatività emotiva’ che possiamo chiamare speranza, che si
sostanzia nel dire a tuo figlio Giovanni” non ti fasciare la testa prima
del tempo” e, che, specularmente, è un dire anche a te stessa “non ti
fasciare la testa prima del tempo” e, pertanto, rassicurando Giovanni,
ti rassicuri tenendolo in vita, sia pure a metà, nell’aldilà. Non è un
caso, che tuo figlio si presenti, nel sogno, appunto, “a metà”.
Luciana:
si, credo che Marilena, forse come tutti i
genitori non possa elaborare il lutto per la morte del proprio
figlio semplicemente perché la nega, al di là dell’evidenza della
realtà. Forse è questo il motivo che mi rende impossibile accettare
l’espressione “elaborazione del lutto” per la morte di mia figlia. Se è
vero, come lo è, che le parole rappresentano simbologie e emozioni, le
emozioni che mi attraversano, da quando Annalaura non è più qui, accanto
a me, vanno nella direzione della sospensione del tempo, che sento in
lei terminato e, in me, irrimediabilmente spezzato.
Massimo: anche alla
luce di quello che dice Luciana, possiamo pensare che l’operazione che
fai, cara Marilena, è un’elaborazione del lutto un po’ anomala, non
intesa in senso classico anche se il sogno ti consente di trovare un
compromesso che si traduce nel vissuto dell’essere vivi e morti a metà,
entrambi: fai continuare a vivere a metà il figlio morto, in un altrove,
e ti senti tu viva, seppure morta a metà. Si può evitare di utilizzare
il termine elaborazione del lutto e vedere questo tuo compromesso
emotivo, come un modo “sufficientemente” vitale per continuare a
convivere con il dolore.
Da qui, un’ulteriore riflessione che propongo ad entrambe,
sull’impossibilità di coniugare il vivere, sia pure saturo di dolori, in
assenza di un “granello” di progetto. Sarebbe la vera morte, quella che
per ora, a nessuno di noi, in quanto vivi, è consentito conoscere.
E concluderei, con questa domanda che pongo anche a me stesso:
conosceremo, poi, la morte?
Luciana: aggiungerei
che il percorso di una madre, forse, può solo essere quello di imparare
piano piano a convivere con quest’atroce mutilazione e accettare
d’essere vivi a metà.
Concludo questo breve racconto con l’invito, a chi lo desidera, di
apportare contributi sulla questione e sulle emozioni di cui abbiamo
discusso.
Un saluto a tutti voi.
Massimo Seguri
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4° contributo - Inviato: 09/02/2004 17:46 -
Un saluto per tutti.
Mi presento, sono Carmelo Bartolo Crisafulli sociologo, ma anche
volontario AIL (Associazione contro le Luecemie Linfomi e Mielomi),
presto la mia opera presso la Divisione di Ematologia dell'Ospedale "V.Cervello"
di Palermo.
Ho deciso di partecipare a questo corso perchè complementare al mio
Master in bioetica all'I.S.B. presso la Pontificia Facoltà Teologica di
Sicilia e anche perchè è motivo di studio da un punto di vista
sociologico.
Ho apprezzato molto gli articoli dei due docenti Di Masi e Zavagno, dai
quali traspare la passione con la quale svolgono la loro professione e
l'umanità nei rapporti interpersonali.
C'è molto bisogno di persone che oltre a svolgere il lavoro per
realizzarsi, donino ai pazienti quel sorriso che non costa nulla, che a
volte vale più della stessa terapia praticata.
Un grazie a tutti e buon lavoro.
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5° contributo - Inviato: 23/02/2004 13:25 - ALCUNE RIFLESSIONI SU
LUTTO E CORDOGLIO
6° contributo - Inviato: 04/03/2004 14:59 - Sto lentamente assaporando i vari testi inviati: come già detto è stato un ripasso quello dell’infermiera professionale, adeguata nella sua lettura dei bisogni del malato. Il collega, giornalista medico anestesista – dr. Pierfrancesco Di Masi – mi ha provocato molto a fare verità quotidiana sulla comunicazione con la persona malata, interagendo con la sua storia personale, offrendo quella speranza reale che la può far reagire.Lo stesso gusto interiore avverto nella lettura, appena iniziata, del testo di Livia Aite Crozzoli, che conosco e con cui ho collaborato. E che ringrazio anche per questo suo contributo. La riflessione – sinceramente velata di amarezza, perché la vedo spesso disattesa, o peggio malcompresa – mi dice che occorre mettersi accanto, cercando di entrare dentro alla paura e all’angoscia del malato. Vuol dire non negarla (se qualcuno lo fa, ammette la sua incapacità emotiva a gestirla, la sua paura ad affrontarla…), ma prenderla su di sé e dipanarla. Sto facendo così con A.P., donna di 58 anni, toscana di origine, con un tumore ovario avanzato, in stato subocclusivo, anzi ormai occlusivo. Nubile, vive con la mamma 89enne, con poche colleghe dal lavoro – ora è già pensionata. Ma ora non vuole vedere nessuno. Definibile donna ‘formale’, riservata, con poche parole…Occorre starle accanto per ca-r-pire dal suo sguardo, dai suoi ‘sì’ laconici, il bisogno di sapere, graduale. Mi dice che se sa che ‘non c’è più niente da fare’ (e già lo comprende), preferisce morire subito. Le chiedo perché: afferma di avere paura della sofferenza, di soffrire. Le viene garantito che controlleremo comunque il dolore fisico,e che saremo accanto a lei per rispondere ad ogni interrogativo. Le diamo comunque la possibilità di sognare la vacanza ad Ischia (sognare è quasi sperarla; ma è ben diversa dal programmarla…Vuol dire, a mio parere, permettere alla malata di una progettualità, anche se lei stessa è consapevole del suo essere irrealizzabile. Nella congiura del silenzio, mi chiede di non dire alla mamma questo discorso: aveva cominciato con il chiedermi se era terminale. Le avevo risposto che non lo era, se si trattava di ore o di pochi giorni. Per l’oltre, ho affermato che non so prevedere il futuro, facendole intendere che non sarebbe stata comunque una lunga sopravvivenza. La mamma, dal canto suo, è ben consapevole di quanto sta avvedendo alla figlia… La storia è di sabato 28.02.04 e sta evolvendo penso rapidamente. Il condividerla con voi, mi offre la possibilità di un confronto su uno stile di comunicazione, sempre in miglioramento per il bene delle persone coinvolte in questa avventura, operatori compresi. Caterina De Nicola
7° contributo - Inviato: 06/03/2004 11:04 - La riflessione, che per motivi tecnici invio con ritardo, nasce in risposta a quella del dr. Marcello Ricciuti, di cui ho apprezzato la sensibilità verso l'assistenza domiciliare ai pazienti terminali. Associazioni Onlus come l'Antea, l'ANT, ecc. sono nate per assistere a domicilio e migliorare la qualità di vita di questi pazienti, proprio perchè manca, a livello sanitario pubblico, una rete tra ospedale, che assiste pazienti acuti, ed il territorio, dove, almeno nella realtà capitolina, tutto è affidato ai medici di base ed ai servizi ASL di zona, che variano come tempi e servizi e, molto spesso, non sono in grado di coprire tutti i bisogni dei pazienti, e non solo oncologici. Alla domanda del dr. Ricciuti non è facile rispondere, in quanto bisogna analizzare i problemi di ogni singola struttura, ma è soprattutto la mentalità che deve mutare, in quanto, indipendentemente dal tipo di patologia da cui è affetto e dovunque si trovi, il paziente è il centro della nostra assistenza, ha diritto quindi ad essere informato, se lo desidera, sulla diagnosi, accompagnato nel percorso terapeutico attraverso un lavoro d'èquipe (ovvero varie figure professionali, con diverse competenze, ma che collaborano con obiettivi comuni attraverso una comunicazione che porti al confronto e ad una crescita), in cui gli venga data la possibilità e gli strumenti per scegliere cosa vuole fare, ha diritto a terapie efficaci mirate al controllo dei sintomi della malattia e, sempre se è un paziente che vuole sapere, ha il diritto di conoscere la prognosi e tutto questo si deve attuare negli ospedali, attraverso una comunicazione ed una conoscenza vera e globale del paziente (e della situazione familiare), che permetta agli operatori di affrontare nel modo migliore argomenti come la comunicazione di una prognosi infausta ed il passaggio alle terapie palliative, servizi che possono costituirsi in una struttura ospedaliera, ma che devono diramarsi sul territorio. La realtà quotidiana, tranne qualche esempio, ci porta, invece, a vedere i pazienti nelle Unità Operative di Cure Palliative, senza conoscere diagnosi e prognosi, abbandonati dai servizi oncologici, che diradano gli appuntamenti di controllo fino a tre mesi, ben sapendo che quel paziente può non arrivarci, in balia dei disservizi territoriali e delle lungaggini burocratiche, senza una valida terapia sintomatica, con medici di medicina generale non adeguatamente formati per assisterli, alcuni ancora con reticenze culturali sulla richiesta di oppiacei, inoltre spesso arrivano in condizioni tali da non far in tempo a dar loro una dignità di morte come meriterebbe qualsiasi persona, visti i tempi brevissimi (giorni, settimane,...). L' Antea ha puntato sulla formazione, parallelamente all'assistenza domiciliare ed in Hospice, proprio per scardinare dall'interno tutti quei problemi, più culturali, che organizzativi, che, ancora oggi, rendono l'assistenza ai malati oncologici, ma ripeto non solo loro, un doppio calvario, quindi è rimuovendo da noi stessi quelle resistenze ("solo io la penso così", "ci sono troppi ostacoli", "il personale è demotivato", ...) che ci impediscono di agire, nel nostro piccolo, per fare una buona assistenza, anche perchè credo che occasioni di confronto come questa offerta dalla Maria Bianchi, ci faranno scoprire che siamo in tanti a voler fare un'assitenza qualitativamente valida, riscattando la nostra professionalità agli occhi di un'utenza ormai delusa e prevenuta, quindi creando sempre più occasioni, anche nelle singole strutture, dove medici, infermieri, psicologi, amministrativi, ecc..., si comunichino in modo e tempo diversi dal reparto, rimotivandosi vicendevolmente, si possa fare molto, anche se, soprattutto all'inizio, non sarà facile. Maria Laura Zavagno
8° contributo - Inviato: 09/03/2004 08:51 - Carissimi amici , mi permetto di sottoporVi alcune considerazioni personali che spero possano servire come base per una discussione libera, chiara, e franca senza i condizionamenti di vario tipo che influenzano l’argomento che mi interessa e che scoprirete di seguito . Mi riferisco ai problemi di ordine diverso che accompagnano l’argomento “Eutanasia” o meglio la verifica della dignità del morire nella nostra società che ipocritamente abbandona gli anziani alla loro solitudine ed al vegetare negli ospizi ma si rifiuta di lenire le loro sofferenze e di “aiutarli” ad andarsene, nel momento cruciale . Spesso dove il “modello palliativo” non viene applicato, si muore soli ed intubati in reparti di rianimazione o in corsie, dietro a paraventi, soffrendo come cani. Nelle conclusioni della pregevole 1° dispensa di questo corso la sig. M.L.Zavagno parla della “dolce morte” con riferimento alle proprie esperienze personali: ecco, io non vorrei che la relazione d’aiuto presa in considerazione diventasse esaustiva di una troppo ottimistica e taumaturgica attuazione risolutiva delle cure palliative . Mi riferisco, chiaramente, a quello che si definisce “dolore totale” con tutti gli aspetti della sofferenza:fisici,spirituali,religiosi,economici,sociali,ecc. Infatti, malgrado tutti i nostri sforzi nel realizzare l’empatia con un morente, dobbiamo essere persuasi che ogni uomo è un universo originale ed esclusivo e che i modi di “sentire” personali sono molto variegati e influenzano le modalità delle reazioni. Mi sembrano ragionevoli, in questa fase, gli autori successivi alla Dr. Kùbler Ross che introducono modifiche agli schematismi troppo rigidi delle fasi delle reazioni seguenti alla diagnosi infausta e sua evoluzione. Riprendo in questa sede il logo di un convegno della Associazione Floriani: “Aiutare a morire è sempre eutanasia?” sperando in uno scambio di opinioni che spero molteplici anche per le future prospettive sulle decisioni mediche alla fine della vita. Penso all’etica della sedazione terminale e la dottrina del “doppio effetto”: è moralmente lecito l’alleviamento dei sintomi in un paziente pur sapendo (ma non con l’intenzione) che il trattamento potrebbe abbreviarne la vita . Quando ci sentiamo chiedere da qualcuno con prospettive di fine vita: “Dammi, ancora, una ragione per cui valga la pena di vivere” cosa dobbiamo rispondere ? Uno dei fattori che disturbano la comunicazione sul fatto della morte è il diffusissimo ideale della longevità, che ha sostituito quello dell’immortalità dell’anima. Si pensa che “il meglio” coincida con la maggior possibile durata della vita. Forse dovremmo trovare il coraggio di ritornare a pensare e a parlare della “buona morte” senza farci spaventare dal fatto che la versione greca del termine “eutanasia” suona tanto male: per la delinquenziale ipocrisia o la semplice malafede con cui è stata e viene usata dai suoi sostenitori e da tanti che sono contro. “IL CUORE CHIEDE PIACERE, PRIMA. POI, ASSENZA DI DOLORE. POI, QUEI PICCOLI CALMANTI CHE OTTUNDONO LA SOFFERENZA. E POI, ADDORMENTARSI. E POI, SE E’ VOLONTA’ DEL SUO INQUISITORE, IL PRIVILEGIO DI MORIRE.”
E. DICKINSON
Enzo Cassano Tortona, 8 marzo 2004
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