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Da LA STAMPA 28 ottobre 2001

Alle radici del risentimento di chi ha pagato col sangue o con l'esilio per permettere a Israele di esistere

Quel "Mea culpa" che manca nell'ebraismo

di Barbara Spinelli

E’ stato più volte ripetuto che l’11 settembre ha segnato una svolta per l’Occidente oltre che per l’Islam: una sorta di crepa si è aperta nelle certezze che avevamo, destinata a mutare radicalmente il nostro mondo e a rivelarcene l’inaspettato congegno.

E’ stato anche detto che il secolo comincia nel segno di questa nuova guerra, così come il XX secolo cominciò all’insegna della guerre democratiche e di massa nel ’14-18: come allora, la crepa ingenera veri e propri collassi mentali, ma anche occasioni da non mancare. Tuttavia ci sono élite e nazioni che paiono ignare di quel che è accaduto, che si comportano come se il segno non fosse pervenuto, che si muovono e pensano come se ancora fossimo al 10 settembre. E’ il caso di buona parte del mondo musulmano ma anche dell’ebraismo e della comunità israeliana: la più minacciata probabilmente, accanto all’America del Nord.

Per milioni di uomini infatti, e non solo per il terroristi che sfruttano il conflitto medio orientale senza realmente occuparsene, Israele costituisce uno scandalo: e non necessariamente per il fatto che la nazione è tornata a esistere sulle terre d’origine ma per come essa fu instaurata, per i sacrifici che la sua nascita impose a cittadini palestinesi che non avevano preso parte all’annientamento degli ebrei d’Europa. Non per ultimo, per il modo in cui la religione di Mosè abita il nostro pianeta, facendo valere diritti che spesso sono metastorici più che storici, connessi a testi sacri più che al divenire ordinario dei popoli e del tempo.

E’ come se a un unico popolo fosse dato, per volontà divina, di vivere una condizione di libertà assoluta, mentre il resto dei mortali perdurerebbe nel duro regno della necessità. Le grandi potenze egemoni si avvalgono spesso di tale privilegio extrastorico, che le induce a sentirsi inoppugnabili, invulnerabili in quanto terre prescelte da Dio, fino a quando un giorno la corda si spezza e la storia le riassorbe con le sue servitù e le sue finitudini. L’America ha subìto questo risveglio, la mattina dell’11 settembre: sulla scia dell’Europa, ha scoperto anch’essa di essere una civilizzazione mortale.

Israele ancora no, e la nuova incomprensione tra il suo Stato e la potenza tutrice statunitense nasce da questa biforcazione avvenuta nelle menti e nella coscienza di sé. L’America ha scoperto nello sgomento di essere europea. New York si è ritrovata simile a Guernica, a Varsavia. Si è resa conto che il suo mondo - le sue mura, case, piazze - potevano esser spazzate via dal flagello di guerre che colpiscono le città e non lontane linee del fronte. Questo ha disfatto d’un sol colpo ogni senso di onnipotenza, di eccezionalità.

E’ una conversione non ancora compresa fino in fondo dalla nazione israeliana e - quel che è più grave - neppure dalle comunità ebraiche che vivono in diaspora, cioè nella dispersione in mezzo ai gentili europei e statunitensi. D’un tratto America e Israele si parlano, e non si capiscono. Si sentono egualmente minacciate, ma reagiscono in modi diversi. Reduce da un viaggio negli Usa, il ministro degli Esteri Peres è parso disarcionato: "Gli americani sono passati da un’epoca all’altra, e noi non abbiamo neppure cominciato a capire quel che lì è accaduto.

I loro pensieri non vanno affatto alla difesa di Israele, ma alla difesa di se stessi un una guerra folle". L’ebraismo sarà chiamato a meditare sulla corda che si è spezzata con sì subitaneo fragore, negli animi americani e non ancora nei propri. Naturalmente il più importante compito di introspezione spetta oggi all’Islam e anche ai palestinesi: proprio perché personaggi come Bin Laden usano il risentimento anti-israeliano, lo trasformano in odio anti-occidentale oltre che anti-cristiano, e profittano del difficile rapporto dei musulmani con la filosofia del dubbio.

Ma questo non alleggerisce il fardello di responsabilità che grava sull’ebraismo: un monoteismo che ha grandemente inciso sulla cultura occidentale fino a identificarsi con essa, ma le cui immani sofferenze sono risultate paralizzanti, intorpidendo quell’attitudine al dubbio filosofico e teologico che fonda le virtù d’Europa e che caratterizza il monoteismo cristiano, in particolare cattolico: dubbio sulla fusione tra potere spirituale e terreno, virtù di autolimitazione e colpevolizzazione. "In un certo senso noi vittime della Shoah non siamo stati messi alla prova", disse negli Anni 60 il filosofo Jakob Taubes. La prova probabilmente giunge in questi giorni, che sono di massimo pericolo per la seconda volta in settant’anni.

E’ un pericolo spesso sottovalutato, e gli ebrei non hanno torto a sospettare gli europei di peculiare insensibilità. Ma insensibilità e impazienza sono presenti ormai anche in America: questo continente che si riscopre fragile, deperibile, al pari del vecchio continente. Guardare oltre la proprie terribili esperienze, per scoprire il dolore e l’esperienza dell’Altro. Tale è la prova assegnata a tutti e tre i monoteismi, se vogliono sopravvivere spiritualmente e fisicamente, ed essi non possono farlo se non escono dal mito per apprendere l’arte del buon senso e immergersi infine nella storia.

Se non hanno sentore dei forti sconvolgimenti che ne costellano il percorso, e delle minacce che essi racchiudono per le singole genti, istituzioni religiosi, fedi. Il papa di Roma, nell’ultimo scorcio del Novecento, sembra averlo intuito: gli uomini sembrano vivere come se Dio non esistesse - etsi Deus non daretur, ha detto - anche quando agiscono presumendo di rappresentarlo. E ha risposto con la capacità che possiede la chiesa cattolica di darsi un limite, di chiedere perdono per i propri peccati di omissione o indifferenza o violenza.

Il pontefice ha chiesto scusa per le crociate, per il colonialismo, per certi eccessi del proselitismo, per l’atteggiamento sullo sterminio ebraico. E ha colto l’occasione dell’assalto alle Torri per pronunciare un ennesimo mea culpa: questa volta verso la nazione cinese, impegnata nonostante le gravi pecche ideologico-politiche del suo regime nella lotta contro il nuovo nemico totalitario che è il terrorismo islamico. Giovanni Paolo II è spinto da uno stato di estremo allarme: oggi sono in gioco la civilizzazione urbana dell’Occidente, la sua idea del diritto, le sue recenti tradizioni di convivenza pacifica tra individui e popoli. Precisamente questo vasto allarme, che supera i confini del proprio orto di fede, è assente in Israele.

E se c’è una cosa di cui si sente la mancanza, nell’ebraismo, è proprio questo: un mea culpa nei confronti di popolazioni e individui che hanno dovuto pagare il prezzo del sangue o dell’esilio per permettere a Israele di esistere. Naturalmente non c’è un rapporto di causa-effetto fra le sciagure medio orientali e il crimine contro l’umanità di Manhattan. Ma Israele non può ignorare le radici di un risentimento che coinvolge almeno un miliardo di uomini fedeli all’Islam.

E non può metter sullo stesso piano l’aggressione sofferta dagli americani e le aggressioni che Israele subisce dagli estremisti palestinesi. Ci sono territori che esso occupa abusivamente e colonie che vi tiene insediate da trentacinque anni, facendo scorrere molto sangue. Gli americani non stanno conducendo una simile guerra coloniale contro gli Stati legati al terrore. Eppure l’equiparazione fatta da Sharon tra Bin Laden e Arafat non suscita serio sdegno tra gli ebrei, né in patria né in diaspora.

Gli uni e gli altri tacciono quasi fossero afflitti da afasia, come se l’11 settembre non fosse avvenuto. Naturalmente essi hanno ragione a temere per il proprio futuro. Israele è effettivamente in pericolo, e nessuno può escludere che Gerusalemme sia nel mirino così come lo sono state New York e Washington. Ma proprio perché il timore è fondato urge un profondo ravvedimento dell’ebraismo: ravvedimento religioso, e terreno.

Urge quel mea culpa che fa crudelmente difetto, pronunciato a fronte degli individui palestinesi e in genere dell’Islam. In Israele stesso c’è chi sospetta che il popolo d’Israele, per rigenerarsi, voglia strappare nuovi dolori dai giorni futuri, sognando una specie di secondo olocausto. Tanto più urgenti sono il risveglio e la vigilanza di chi non vuole avere a che fare con simile tentazione apocalittica, e ha davvero cura dello Stato ebraico. E se l’iniziativa non parte da Gerusalemme che almeno prenda avvio dalla diaspora, dove tanti ebrei vivono una doppia e contraddittoria lealtà: verso Israele e verso lo Stato cui appartengono e in cui votano.

Un mea culpa solenne proclamato dalle comunità disperse in Occidente, che si schieri a fianco di quest’ultimo, che ne custodisca le mura, che inviti i dirigenti israeliani a metter fine a occupazioni abusive, che ricostruisca una religione non più identificata con l’esaltazione dello Stato coloniale e la superiorità di un popolo, potrebbe essere un inizio importante, benefico per la nazione stessa d’Israele. La campana dell’11 settembre ha suonato per tutti, anche per gli israeliani e soprattutto per gli ebrei della diaspora. Per questi ultimi è forse venuta l’ora di mettere in causa il legame con Israele - se necessario rinunciando alla cittadinanza automatica concessa a chi discende dagli ebrei - e comunque di cambiarne natura: da vincolo di sangue, esso potrebbe divenire vincolo di elezione.

I legami di elezione si scelgono o si rompono, a seconda delle circostanze: quando le ortodossie diventano immobilizzanti, quando cecità e egocentrismi teologici sono troppo palesi e dannosi. I rabbini non possono continuare a far finta di nulla, se non vogliono esser complici dell’integralismo dei propri correligionari e di quello palestinese. Se vogliono presentarsi di fronte all’Islam come eredi della filosofia europea dei Lumi, e del dubbio. Se vogliono evitare Guernica in casa, la distruzione dello Stato edificato nel ’48, e l’esodo in massa, ancora una volta, del popolo di Mosè.




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