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Da LA STAMPA 24 agosto 2003

Le guerre di Bush a due anni dall'11 settembre

Politica delle armi
e armi della politica

di Barbara Spinelli

FORSE è venuto il momento di fare un primo bilancio della lotta ingaggiata dall’amministrazione americana e dall’Occidente contro il terrorismo islamico, sia globale che locale. La storia comincia l’11 settembre 2001 - quasi due anni fa - anche se gli attentati alle due torri di New York e ad altri interessi occidentali precedono quel giorno infausto in cui l’America divenne d’un sol colpo, agli occhi del mondo, la grande e tuttavia vulnerabile potenza che di fatto oggi rappresenta.

A quell’evento rivelatore l’amministrazione Usa reagì in maniera affatto nuova, rispetto all’atteggiamento che aveva caratterizzato per quasi mezzo secolo la resistenza alla sfida totalitaria. Anche l’avversario islamico fu presto definito totalitario - per come prendeva d’assalto non solo le vite umane ma le menti dei popoli, per come usava l’ideologia o la religione a fini politici -, ma radicalmente diverso è stato il modo di fronteggiarlo.

Questa volta non è stato scelto il contenimento del pericolo, ma lo scontro frontale e per di più immediato, dunque mal preparato. Non è stata scelta la strategia del lento logoramento e della dissuasione, ma quella delle guerre in serie, una dopo l’altra, in tutti i luoghi dove era sospettata l’esistenza del nemico. Un fine ragionamento politico aveva fondato la cosiddetta deterrenza nucleare: io brandisco la minaccia atomica ma non voglio correre il rischio di esser a mia volta annientato, la pace "è improbabile ma la guerra diventa impossibile", diceva lo studioso Raymond Aron. Ora le cose non stanno più così, e con l’improbabilità della pace neppure più si tenta di convivere in modo politico, non bellicoso. Oggi ogni guerra è possibile, subito e dappertutto, e l’obiettivo politico delle guerre si fa con l’andare del tempo sempre più confuso e inafferrabile.

Perché si combatte? Per sconfiggere il terrorismo? Per convincere le popolazioni arabe a prender le distanze dall’estremismo islamico? O invece l’obiettivo di Bush è un altro: salvaguardare l’immagine di una superpotenza invulnerabile, far vedere alle Nazioni Unite e all’Europa che il comando del mondo è sempre in salda mano statunitense, controllare da vicino i regimi che possiedono la risorsa di cui tutti abbiamo bisogno (il petrolio) e che hanno mostrato di voler usare tale risorsa come arma? Quasi due anni sono passati, e nessuno di questi presunti obiettivi è stato raggiunto. Anzi, in questo lasso di tempo i conflitti e le asperità si sono accentuati, con danni gravi per i cittadini europei e americani, per quelli arabi e asiatici, per la stabilità degli ordinamenti politici e anche per l’economia globale. Si sono accentuati a tal punto che l’obiettivo ha smarrito i contorni chiari che sembrava avere. Che la caduta stessa di Saddam, ardentemente desiderata da tanti iracheni, assume l’aspetto di un incidente di percorso. La guerra, battello ebbro, naviga verso lidi che il pilota Usa cerca con occhi ciechi. Sembra esser divenuta fine a se stessa.

E’ stato detto più volte che Karl von Clausewitz è la segreta guida di Bush, e di quei dirigenti che vengono chiamati in America neoconservatori. La guerra è descritta come continuazione della politica con altri mezzi, e questo sarebbe il metodo adottato dall’amministrazione: quando i mezzi della politica falliscono, si ricorre alle armi. Ma Clausewitz viene tradito dall’impaziente approssimazione dei suoi epigoni. E’ vero, la guerra clausewitziana è uno strumento cui si ricorre quando la politica e dunque la pace fanno bancarotta. Ma se deve continuare con altri mezzi la politica, essa deve riempire solo saltuariamente un vuoto, e il suo scopo dev’essere di riabilitare la politica e la pace che al momento paiono invalidate. Agli occhi di Clausewitz essa non deve surrogare la politica, come per Bush e i neoconservatori: non è un dono caduto dal cielo l’11 settembre, per sollevare le mediocri sorti d’un Presidente impolitico. Non è fine a se stessa, altrimenti anche il potere politico si trasforma in un bene fine a se stesso. Per Clausewitz la guerra è uno strumento impiegato per un obiettivo (uno Ziel) che resta politico, e deve dunque operare perché siano restaurate sia la politica, sia la pace: questa è la strategia quale la descrive il teorico delle guerre napoleoniche, e qui è la differenza fra tattica e strategia: "Nella tattica i mezzi sono costituiti da forze armate qualificate cui si affida la conduzione della battaglia, e lo scopo è la vittoria. Mentre nella strategia, la vittoria - il successo tattico - si trasforma in mezzo, e lo scopo vero sono le condizioni che al più presto ricondurranno alla pace".

E’ questa concezione che non riesce facile alle forze statunitensi, e che l’amministrazione non sembra neppure volere. Se la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, qual è la politica di Bush? Qual è il suo Ziel, diverso dalla guerra fine a se stessa, dunque dal potere fine a se stesso e dal mero calcolo di rielezione presidenziale?
La risposta politica al terrore potrebbe assumere abiti di varia natura - potrebbe essere di carattere poliziesco, militare o finanziario, potrebbe coinvolgere le Nazioni Unite e divenire una forma globale di resistenza a un pericolo percepito come globale, potrebbe mirare al cuore e alle menti delle "strade arabe" e creare le condizioni perché il loro risentimento antioccidentale diminuisca - ma fra tutti questi abiti Bush ne ha scelto uno soltanto: quello militare, che è il solo a dargli statura.

E’ la stessa scelta adottata dal governo d’Israele, e non si sa bene chi imiti chi, in questa fatale concentrazione sull’indispensabilità delle armi. Non solo: anche quando le guerre mostrano di fallire, è ancora una volta alla guerra che Washington s'affida, come a suo ultimo scopo. Se la politica precipita si ricorre alla guerra, ma l’inverso per Bush non è vero: se la guerra precipita, non è alla politica che si ricorre ma a un’ennesima guerra.

Anche in questo la somiglianza con Israele è impressionante. La guerra in Afghanistan s'insabbia, e Washington apre il fronte iracheno. S’insabbia il conflitto iracheno, e si pensa a nuovi conflitti armati, lasciando Israele combattere il terrorismo con l’esclusivo uso delle rappresaglie. Per Israele non è stato diverso negli ultimi decenni. E’ fallita la guerra in Libano, e i dirigenti israeliani hanno guerreggiato in Cisgiordania e Gaza. La stessa guerra dei sei giorni, nel ‘67, fu un tradimento di Clausewitz. Fu un trionfo militare accoppiato a una sconfitta politica. Invece di restituire subito i territori occupati Israele li ha colonizzati, tramutando quello che era stato uno scopo tattico in obiettivo strategico. I liberali d'Israele lo ripetono spesso: "Abbiamo perso la guerra del ‘67 al settimo giorno, politicamente e moralmente, tenendo territori che avremmo subito dovuto restituire".

L’attuale guerra in Medio Oriente non è disgiunta da quella che Bush combatte in Afghanistan con l’Onu, e in Iraq senza Onu: Ariel Sharon ha appeso le sue sorti a quelle della guerra globale contro il terrore, e continua a non voler esaminare le cause locali del suo conflitto. Sicché sono tre oggi i fronti bellici - Afghanistan, Iraq, territori palestinesi - e in tutti i fronti esiste il rischio, reale, di una disfatta politica multipla.
Primo rischio di disfatta: il terrorismo continua e anzi si acuisce, unificando tre fronti che potevano esser tenuti divisi. Esso ha anzi affinato i suoi ragionamenti politici, e l’attentato di martedì a Baghdad lo conferma. Simili in questo alla nostra mafia degli Anni Novanta, le centrali terroriste fanno politica, con l’arma degli attentati: si inseriscono nelle discussioni tra Usa, Onu ed Europa, approfittano del bisogno che Bush ha delle Nazioni Unite, e uccidono proprio Sergio Vieira de Mello, che anticipava con la sua azione in Iraq il proseguimento politico della guerra-occupazione americana.

Secondo rischio: le relazioni tra America e Inghilterra sono forse destinate a frantumarsi durevolmente, a seguito dell'affare legato alla morte di David Kelly, l’esperto in armi di distruzione di massa che aveva espresso le sue riserve alla Bbc e a tanti altri interlocutori. Ormai è chiaro che una guerra fu lanciata in marzo senza che esistesse un pericolo d’imminente aggressione da parte di Saddam: un’uguale menzogna vede accomunate Inghilterra, America e Australia. Furono manipolati dossier, discorsi, pur di salvaguardare il legame privilegiato tra Londra e Washington. I futuri dirigenti britannici saranno ben più circospetti, in futuro. Non metteranno in pericolo il proprio prestigio morale, pur di compiacere la Casa Bianca.

Terzo rischio: l’America voleva invalidare l'Onu e perfino la Nato, ma ora è sola e vulnerabile. E’ una falsa iperpotenza. L’Onu può ora dettare le sue condizioni, soprattutto dopo l’attentato di martedì: o ci date vere responsabilità di comando, o non vi assisteremo in Iraq.
Quarto rischio: concerne l’avvenire della mondializzazione, meno ordinato di quanto si potesse sperare prima dell’11 settembre. Il mondo è di nuovo diviso lungo linee ideologico-religiose, e con le sue guerre in serie l’amministrazione Usa dà l’impressione di voler combattere contro l’Islam in genere, non contro questo o quel dittatore.

Sono tanti rischi, che gradino dopo gradino minacciano da vicino le arti della politica. A due anni dall’11 settembre conviene forse rileggere Clausewitz, e riscoprire che le armi della politica e non la politica delle armi sono il vero scopo delle guerre, quando queste sono condotte con giusto senso delle proprie e delle altrui possibilità. Altrimenti le vittorie militari si tramutano presto, come la storia spesso dimostra, in disfatte politiche.




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