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Da LA STAMPA 14 aprile 2002

Gli inganni che rendono difficile la pace tra israeliani e palestinesi

Amore e guerra in Palestina

di Barbara Spinelli

Se si prova a guardare con animo lucido quel che accade in Medio Oriente, e soprattutto quel che succede nelle nostre menti di osservatori, ci si renderà conto che questa non è più guerra classica, e neppure guerra di liberazione o conquista, e neppure guerra contro l’arma assoluta del terrore impersonata dalle bombe umane che il fanatismo palestinese getta nel cuore delle città israeliane. Il conflitto è vissuto ormai come qualcosa di radicalmente diverso, per volontà delle parti in conflitto e anche per volontà di chi vuol prendere posizione, manifestando per strada o con articoli-appelli sui giornali. E’ vissuto, da settimane, come una guerra che mette in gioco la sopravvivenza stessa di Israele, e che può addirittura, per effetto dei terroristi kamikaze, esporre la nazione ebraica a un nuovo Esodo se non a nuovi stermini. Chiunque si pronunci sulle attività belliche degli uni e degli altri è messo alle strette, quasi fosse chiamato a dire innanzitutto questo: se ama Israele oppure no. Se ama i palestinesi oppure se li esecra o li dimentica.

Da molto tempo ormai le passioni hanno travolto ogni diga razionale, capace di contenere il mortifero torrente dei sentimenti. Hanno travolto e sommerso la critica, la capacità di giudizio, il pensiero stesso, oltre al progetto di un negoziato o di una soluzione delle difficoltà presenti. Non è la prima volta che le storie di Palestina soffrono di tale malattia, ma oggi il morbo è dilatato dai fanatismi, religiosi o nazionalisti o identitari. Ogni volta che vengono accampate parole come amore si distorce il senso della vicenda israelo-palestinese e la si svuota della sua essenza politica, che con la ripulsa sentimentale o l’amore non ha nulla a vedere.

L’essenza affonda certo le radici nel magma delle passioni ma per sua natura resta politica, dunque presuppone l’ordine delle idee e non i primordi dei sentimenti, la razionalità dei progetti e non l’irrazionalità dei sogni. E’ il rinvio continuo dell’istituzione di uno Stato palestinese che rende incandescente la situazione locale, spingendo decine di giovani al crimine kamikaze come arma nuovissima della guerra partigiana. E sono soprattutto due grandi inganni a paralizzare le menti: vere e proprie trappole che israeliani e palestinesi si tendono reciprocamente, tendono ai propri popoli, e tendono anche a noi che osserviamo e spesso giudichiamo.

Il primo inganno è palestinese, e riguarda il ritorno dei rifugiati dopo la creazione del loro Stato. Se tre milioni e mezzo di profughi sono convinti di poter tornare in Israele e non vengono educati dai propri dirigenti ad altro pensiero, è chiaro che l’esistenza dello Stato ebraico è legata a un filo, e che la guerra che si combatte in Palestina ha come oggetto la sua stessa esistenza: 3-4 milioni di arabi affluiscono nell’esiguo spazio israeliano (6 milioni di abitanti, per l’82 per cento ebrei) e Israele cessa di esistere nelle sue forme attuali. Il secondo inganno è israeliano, e riguarda non solo il ritiro dell’esercito dai territori ma l’abbandono delle colonie in Cisgiordania e Gaza. Nel 1977, quando Menahem Begin rifiutò la domanda di Carter di congelare gli insediamenti, i coloni erano settemila e le colonie erano 45. Ora sono circa trecentocinquantamila (compresi i dintorni di Gerusalemme Est) e le colonie ammontano a più di centocinquanta. Basta studiare le cartine della Cisgiordania per accorgersi come sia impervia, e irta di rischi letali, qualsiasi uscita dal conflitto. Il territorio cisgiordano è tappezzato di colonie in tutte le direzioni, ogni cittadina palestinese è affiancata da una o più colonie, e nessuno Stato funzionante può nascere in simili condizioni, accanto a Israele. Con queste difficoltà pratiche il politico deve fare i conti, e non con le parole che dietro i moti affettivi nascondono i duri fatti di questa guerra, e non dicono nulla sui propositi futuri.
Parlare dell’attuale conflitto come di una guerra di sopravvivenza non è solo errato politicamente, perché blocca sul nascere ogni soluzione pratica e ogni razionale visione del dopoguerra. E’ una profezia che si autoadempie, e al tempo stesso è una mistificazione. La cosiddetta self-fulfilling prophecy si ha quando una persona o un popolo definiscono reale una situazione non esistente, e quest’ultima lo diventa per il solo fatto di esser stata proclamata insistentemente come tale: "Le definizioni di una situazione enunciata in pubblico (profezia o previsione) divengono parte integrante della situazione stessa, la quale a sua volta suscita gli eventi che seguiranno", scriveva il sociologo Robert Merton negli Anni 40. Lo stesso Jerusalem Post, in un editoriale di David Newman del 10 aprile, scrive che a forza di giustificare la propria politica con le immagini dell’Olocausto, i governanti israeliani hanno banalizzato la Shoah permettendo che si facesse un assurdo parallelo fra la guerra di Sharon e l’annientamento ebraico.

Oltre che falsamente profetica, l’idea di una guerra per la sopravvivenza è una mistificazione, tenuta artatamente in vita dagli integralisti israeliani e palestinesi. Chi conduce una guerra per la vita o la morte del popolo intero ha il diritto di ricorrere a tutti i mezzi, compreso quello del terrore suicida delle donne kamikaze o dei massacri in campi profughi come Jenin. Il guerriero totale coltivato dai vertici dell’Autorità palestinese non è criticabile in un contesto di guerra finale, così come non lo è lo Stato israeliano che annuncia battaglie di sopravvivenza e che considera la guerra come una replica della distruzione del Tempio da parte degli antichi romani. In conflitti di questo genere non si guarda molto ai risultati politici delle operazioni, né si è responsabili del male - il più delle volte inane - che si arreca.

Ma la guerra per la sopravvivenza non si limita solo a cancellare eventuali responsabilità: essa dissimula anche, distorcendola, l’autentica natura del conflitto. E vela consapevolmente la verità. Oggi infatti sono gli integralisti a dettar legge, nel campo palestinese come israeliano, e in ambedue i casi non si combatte per la sopravvivenza della nazione così come esiste o come dovrebbe esistere. Ambedue i campi combattono per qualcos’altro, che dicono e non dicono. L’integralismo di Sharon non conduce la sua battaglia solo per metter fine al terrorismo, ma per creare una grande Israele, resa possibile da quelle centinaia di colonie che coprono a macchia di leopardo i territori. Il nuovo ministro ultrareligioso Effi Eitam, generale di brigata, lo ha ammesso in un’intervista: "La concezione laica del sionismo è fallita (...) e la sola ragion d’essere di Israele è di creare uno Stato realmente ebraico". Stato che dovrà avere tre fondamenti. Primo: "La parte occidentale di Eretz Israele - la terra biblica di Israele fra il mare e il Giordano, costituisce lo spazio vitale del popolo ebraico". Secondo: "La nostra storia, la nostra cultura, la nostra lingua, non sono riducibili ai McDonald’s". Terzo: "Noi soli al mondo intratteniamo un dialogo con Dio in quanto popolo. Il nostro Stato ha un messaggio da trasmettere al mondo, una missione: ricordare l’esistenza di Dio all’umanità" (Le Monde, 4 aprile 2002).

E’ un integralismo speculare a quello islamico: che si nutre di quello e che lo nutre. Arafat da parte sua fa di tutto per non sconfessare i propri integralisti, e nel suo popolo non c’è neppure un’ombra dell’autocritica presente in Israele. Egli aizza anzi i fanatismi e consente che i regimi dell’Iran e dell’Iraq li finanzino, li manovrino. Ha smesso l’abito razionale della pace di Oslo, e pare non curarsi dei requisiti minimi ­ divieto delle bombe umane, netto distinguo fra resistenza militare e attentati compiuti contro i civili - per una riapertura dei negoziati. Il capo dell’Amministrazione palestinese è dunque responsabile, nonostante il passo avanti costituito dalla condanna del terrorismo: quando esalta il martirio per Gerusalemme, quando manda uomini armati nella chiesa della Natività, o quando accetta la distribuzione di mappe palestinesi dalle quali Israele è estromesso. Ma le cartine israeliane non sono molto diverse. Neppure loro, se scrutate con attenzione, consentono l’esistenza effettiva di uno Stato palestinese.

E’ il motivo per cui la profezia rischia di inverarsi rovinosamente, per entrambi i popoli. Ma non perché la storia si ripeta, o perché i palestinesi siano tutti fanatizzati, o perché l’antisemitismo abbia qualcosa di eterno. La profezia corre il pericolo di inverarsi perché si è abusato dei ricordi, e perché non si è costruito sulle sofferenze patite. Perché si è permesso che i sentimenti sommergessero la ragione, e si sono cantati requiem prematuri su Israele senza distinguere fra l’esistenza reale della nazione e il sogno messianico, politicamente blasfemo, di una grande Israele.

Lo vide con chiarezza il filosofo israeliano Jakob Talmon, nel 1980. In una lettera aperta a Begin, lo studioso del totalitarismo messianico denunciò i pericoli dell’irrazionale strategia degli insediamenti: "La combinazione di sottomissione, oppressione nazionale e inferiorità sociale si trasformerà in una bomba a orologeria: cerchiamo di non spingere gli arabi a sentire che sono stati umiliati al punto di credere che ogni speranza sia vana, e che loro dovere sia di morire per la Palestina". Creare uno Stato vero, con le sue forme e la sua coscienza del limite; evitare che esso non si tramuti in un'entità informe, estensibile a seconda delle passioni, come avviene nell’epoca primordiale delle fondazioni: questa è l’educazione sentimentale e politica cui dovranno assoggettarsi i palestinesi, se vorranno divenire una nazione dotata di capacità statuale. Ma una missione non molto diversa spetta a Israele, che a suo modo vive anch’esso lo stato delle nazioni prive di confini chiaramente definiti: una nazione di pionieri simile per molti versi all’americana, con la differenza che il suo territorio è attorniato da milioni di arabi e non da sterminate praterie quasi inabitate.

Anche Israele dovrà prima o poi darsi una forma definitiva, dunque una frontiera che non sia prigioniera di passioni religiose e fedi nazionaliste. E a tutti noi spetta il compito di esser chiari, quando parliamo di amore di Israele e già sembriamo predisporci alla sua sepoltura. Dobbiamo dire quale Israele vogliamo che viva, entro quali confini geografici, accanto a quali Stati, lasciando in anticamera le nostre passioni identitarie, le nostre idee di confini religiosi, i nostri incubi autodistruttivi. Cercando di non cadere nella trappola, prediletta dai fanatismi, delle guerre totali dove si combatte per il tutto o il nulla, per la vita o la morte di intere civiltà, senza concetto alcuno dell’avvenire. L’Europa è l'ideatrice di questo tipo di guerre, fin dalle insensate carneficine del ‘14-’18, e ha anche trovato un modo per uscirne, nel ‘45, accettando due cose: che i confini non corrispondessero ai propri sogni di giustizia ma fossero arbitrari, e che non ci fosse un generale diritto al ritorno dei profughi nelle patrie d’origine. È delittuoso che la sua voce sia così poco ascoltata e che la sua lezione non insegni alcunché di preciso, né in Israele né in terra palestinese.




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