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Da LA STAMPA 9 novembre 2003

Berlusconi non solo mostra di non conoscere la Russia, come teme Prodi. Non conosce nemmeno da dove veniamo noi: da quale idea della democrazia, della correttezza istituzionale, della libertà di stampa

Anticomunista immaginario

di Barbara Spinelli

Finora le democrazie occidentali avevano taciuto, sulla singolare democrazia illiberale che regna nella Russia di Putin. Avevano taciuto sulla guerra che l’esercito russo sta conducendo in Cecenia: guerra cominciata da Eltsin nel ‘94 e poi ripresa da Putin il 30 settembre ‘99. Avevano taciuto sulle costanti violazioni dei diritti dell’uomo nella repubblica caucasica, sulle elezioni truccate, sulle torture e le sparizioni di civili ceceni. Ma anche sul resto le democrazie avevano taciuto: sulla stampa sempre più privata di libertà, sulle televisioni indipendenti messe a tacere, sui due oligarchi Berezovskij e Guzinsky costretti a chiedere asilo in Occidente. Perfino l’ultimo episodio dell’autoritarismo russo - l’arresto brutale dell’imprenditore petrolifero Mikhail Chodorkovsky, il 25 ottobre - aveva allarmato gli occidentali senza tuttavia suscitare speciali proteste. Ma adesso non è più solo col silenzio o l’indifferenza che si fa fronte a quello che l’oppositore Igor Jawlinski, a Mosca, chiama nuovo capitalismo russo dal volto stalinista. Adesso Putin ha trovato addirittura un avvocato che s’impegna volontariamente al suo fianco, un politico europeo che parla il suo stesso linguaggio, che come lui ostenta un profonda diffidenza verso l’opinione libera, verso la stampa indipendente dal potere, e verso quello che in democrazia è l’essenza: il controllo continuativo dei governi tramite organi indipendenti come stampa, televisione o giustizia, e non solo il controllo saltuario di tali poteri attraverso le elezioni.

Chi si è presentato con questo nuovo abito, di avvocato e complice di Putin, è Silvio Berlusconi, che giovedì scorso in occasione del vertice euro-russo ha parlato non solo a proprio nome, ma a nome di tutta l’Europa. L’Unione europea, che pure non ha un comportamento esemplare sulle libertà in Russia, non gli aveva dato questo mandato, e la Commissione di Bruxelles lo ha detto. L’8 ottobre, un consiglio dei ministri europei aveva commentato le recenti elezioni-truffa in Cecenia (un solo candidato, tutti gli altri obbligati a ritirarsi) e "constatato elementi negativi quali, tra l’altro, la mancanza di pluralismo reale delle candidature e l’assenza di media indipendenti". Lo stesso consiglio europeo, presieduto dal governo italiano, aveva espresso "viva preoccupazione per le condizioni in cui queste elezioni si sono tenute", e accennando alla violazione dei diritti umani aveva dichiarato: "L’Unione vuole esprimere ancora una volta la speranza che un miglioramento immediato e sensibile della situazione dei diritti umani in Cecenia possa colmare il fossato che separa le autorità dalla popolazione".

Tutto questo Berlusconi ha finto di ignorarlo, quando ha parlato della guerra cecena come di una "leggenda" inventata da giornali ostili, quando ha messo sullo stesso piano le critiche che la stampa italiana rivolge a lui stesso e le critiche che la stampa internazionale rivolge a Putin, quando ha difeso le elezioni in Cecenia o quando ha giudicato del tutto legittimo l’arresto di Chodorkovsky. Proprio lui, che si vanta d’aver costruito una visione del mondo sulla lotta al comunismo e che sempre ricorda i disastri prodotti dal totalitarismo comunista, abbraccia oggi un regime che di quel disastro è figlio e continuatore, e sul quale regna sempre più fortemente l’ex Kgb da cui Putin proviene.

Così, piano piano, l'anticomunismo di Berlusconi perde parecchio del senso che aveva, così come perde senso l'anticomunismo di tanti intellettuali e politici che l’appoggiano, e che non hanno speso una parola di protesta sull’appoggio dato dal capo di governo al genocidio in Cecenia. Per il momento ha protestato solo l’opposizione, anche se il più esplicito è stato il partito radicale: "Berlusconi ignora un genocidio", così Daniele Capezzone ha commentato la requisitoria del premier contro la libera stampa che denuncia i massacri ceceni.
In effetti, non si può non vedere quel che ancora lega il nuovo regime russo al regime totalitario dell’Urss, controllato ieri dal Kgb e dal partito comunista e sempre più controllato, oggi, dall’ex Kgb ribattezzato Fsb.

Per come è condotta e per l’accanimento contro i civili che la contraddistingue, la guerra in Cecenia ricorda l’offensiva di Breznev contro l’Afghanistan, e somiglia assai poco a una operazione antiterrorista. Se oggi esiste un terrorismo ceceno è perché il Cremlino ha deciso di distruggere un popolo, volendo debellare una o due centrali eversive. Grozny rasa al suolo, la tortura sistematica, la persecuzione in tutta la Russia dell’etnia caucasica, e 200 mila morti civili nel teatro di guerra (su un totale di meno di 1 milione di abitanti): tutto ciò non è assimilabile a un’operazione contro il terrorismo. Tutto ciò crea i terroristi anziché debellarli, come già è accaduto con la guerra sovietica in Afghanistan. Da queste guerre sono nati in Afghanistan Bin Laden e Al Qaeda, è nato Bassaiev in Cecenia.

Non meno giacobino-postcomunista è il rapporto che Putin intrattiene con la stampa libera, con le opinioni contrarie, con gli imprenditori indipendenti. Tre televisioni private sono state chiuse d’arbitrio negli ultimi tre anni (Ntv, Tv6, Tvs) e la stessa lotta tra potere e oligarchi che si sono arricchiti con le privatizzazioni ha aspetti sordidi, illiberali. Di tutti gli oligarchi esistenti in Russia, quello che oggi dà più fastidio a Putin - Mikhail Chodorkovsky - è quello che più aveva tentato di democratizzare e rendere infine trasparente l’azienda Yukos che fino a ieri dirigeva. Chodorkovsky si era rivolto a un organismo occidentale per "ripulire" i propri conti, e non si limitava a finanziare partiti d’opposizione come il Yabloko di Jawlinski e l’Unione delle Forze di Destra di Anatoli Ciubais. Aveva anche cominciato a dedicarsi a attività caritative, e teorizzava la nascita, "non più prorogabile, di una società civile russa" che apprendesse la discussione libera e aperta.

Cento milioni di dollari all’anno venivano destinati da Yukos a progetti di educazione e specializzazione di giovani imprenditori in Occidente. Chodorkovsky non nascondeva di esser stato, alla fine degli Anni Novanta, un capitalista rapinatore (un robber baron come quelli che affollavano l’America alla fine dell’800). Ma ammetteva che da questa corruzione bisognava uscire, perché essa danneggiava immensamente il prestigio del suo paese e la sua stessa stabilità. Per questo si era legato alle Fondazioni "Società Aperta" che George Soros ha creato in Russia, e aveva lui stesso dato vita a una Fondazione chiamata Società Aperta. Soros, che gli è vicino, ha avuto un’esperienza non meno traumatica nei giorni scorsi. Gli uffici moscoviti della sua Fondazione sono stati saccheggiati da forze speciali di sicurezza, in connessione forse con l’affare Chodorkovsky. Soros ha speso più di un miliardo di dollari per promuovere la società civile in Russia, investendo in strutture sanitarie e biblioteche, centri d’educazione e tirocinio in internet. Queste attività erano sorrette da Chodorkovsky, ultimamente.

In realtà è proprio quando gli oligarchi si ravvedono che Putin e il cosiddetto partito dei soloviki - così son chiamati i burocrati dei servizi e dell’esercito - sembrano adombrarsi. E’ come se Putin preferisse a un industriale divenuto onesto un industriale ricco ma tuttora corrotto, perché quest’ultimo sarà sempre ricattabile dallo Stato. Chodorkovsky voleva liberarsi dell’alleanza insana fra oligarchia finanziaria criminale e burocrazia statale corrotta - un’alleanza che ha trasformato la rivoluzione democratica russa in rivoluzione criminale, negli ultimi quindici anni - e probabilmente è stato punito proprio per aver rotto tale patto. Pochi in Russia e Occidente credono che dietro i procuratori russi non ci siano Putin e i soloviki.

Finora l’Europa ha accettato le devianze di Putin sperando che questi desse, in cambio, stabilità e prevedibilità, crescita economica e appoggio all’antiterrorismo. Ma da questa Russia gli europei dipendono sempre di più, per le forniture di petrolio e gas, e in cambio hanno un’instabilità che cresce e un paese minacciato da fughe di capitali. Già oggi un terzo delle importazioni tedesche in gas e petrolio provengono dalla Russia, e il settimanale Die Zeit prevede che la dipendenza raggiungerà il 50 per cento. Questa Russia non è stabile, al momento attuale, perché la stabilità ha bisogno di una società aperta, dell’imperio della legge, di un’opinione pubblica che aiuti a controllare e correggere gli errori dei governanti: è la consapevolezza che cominciava a farsi strada in uomini come Chodorkovsky. Tanto più grave è l'appoggio che Berlusconi dà a un regime che questa consapevolezza non la condivide, e che tanto deve ancora al comunismo sovietico e ai suoi organi.

Berlusconi non solo mostra di non conoscere la Russia, come teme Prodi. Non conosce nemmeno da dove veniamo noi: da quale idea della democrazia, della correttezza istituzionale, della libertà di stampa. Finge di ignorare e mostra di sprezzare tutti coloro che, in nome di questa libertà, si oppongono oggi a Putin: giornalisti indipendenti come Anna Politkovskaja, che sulla Cecenia raccontano non già leggende ma fatti, ed ex dissidenti come Vladimir Bukowski, Sergej Kowaliov, o la vedova di Sacharov Elena Bonner. In Russia torna la paura che vivemmo sotto il comunismo, scrive sull’International Herald Tribune del 7 novembre lo scrittore Viktor Eroféev. Non ha molto senso a questo punto immaginare un Fassino comunista, e vedere in Putin un democratico esemplare vittima di una stampa malevola. Chi, dei due, è più legato al passato? E se l’avversione al comunismo è un argomento che muove ancora tanti elettori italiani, non si capisce perché si debba solidarizzare con chi, del comunismo, sta risuscitando davvero i metodi, lo stile, e le iniquità.




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