CENNI SULL’EVOLUZIONE DELLA FOTOGRAFIA

La fotografia si basa su due procedimenti fondamentali: la formazione dell’immagine di un soggetto mediante un obiettivo su una superficie e l’impressione di questa immagine su un materiale sensibile che si altera permanentemente quando esposto alla luce. I fenomeni fisici e chimici su cui si fonda la fotografia sono noti all’Uomo già da secoli.

Già nell’antichità si era osservato che la luce entrando in una stanza buia da un piccolo foro forma sulla parete opposta un’immagine rovesciata della scena esterna.

 

Aristotele scrisse di un marchingegno, lo stenoscopio funzionante in base a questo principio, Canaletto aveva adoperato una primitiva camera oscura per "fissare" su un piano una scena a cui ispirò alcuni dei suoi capolavori. Anche Il Genio Universale di Leonardo da Vinci aveva osservato questo fenomeno e se ne trova una trattazione nei suoi appunti. Oggi si parla dell’Ottocento come secolo della fotografia ma due innovazioni che hanno ottimizzato questo processo sono state introdotte verso la metà del Cinquecento, in Italia. Girolamo Cardano scoprì in quel periodo la lente, un vetro a forma di lenticchia, appunto che intendeva adoperare per consentire una visione migliore a chi fosse affetto da miopia o presbiopia. Successivamente, un altro scienziato Daniele Barbaro applicò ad alcuni strumenti ottici il diaframma. Entrambi questi dispositivi furono incorporati nelle camere oscure e resero l’immagine ottenuta di qualità e nitidezza superiore. Il livello tecnologico di questi dispositivi era ormai sufficiente per osservare scene che successivamente potevano essere dipinte o schematizzate. Furono infatti i pittori, primi fra tutti, a dare l’impulso per un ulteriore evoluzione di questa tecnica. Gli artisti potevano interpretare perfettamente la prospettiva osservando l’immagine all’interno di una superficie piana della camera oscura. Nacquero così le progenitrici delle macchine fotografiche moderne: le camere oscure portatili; avevano le dimensioni di una capanna, erano dunque portatili, cioè trasportabili e montabili in qualche ora da due uomini.

Gli artisti stessi esigevano un apparecchio più maneggevole. Nel 1620 venne messo al punto un accessorio simile ma più versatile: la camera a tenda.

Montata su un treppiede, creava un ambiente oscuro grazie ad una tenda di tessuto, catturava l’immagine esterna da un obiettivo posto in cima e la proiettava verticalmente su un piano dove l’artista poteva studiarla. Nacquero allora camere di varie dimensioni, alcune con sistemi di messa a fuoco (ottenuti grazie all’unione di due camere di cui una, più piccola, inserita nell’altra in modo che potesse scorrere) e con l’adozione di gruppi di lenti che ingrandivano e perfezionavano l’immagine. Nel 1660 Jan Vermeer, un pittore olandese, aveva approfondito attraverso l’uso di imagini catturate con la camera oscura, lo studio dei particolari nei dipinti. Significativo è il suo dipinto "Veduta di Delft" realizzato con grande precisione e cura dei dettagli. Esso riporta un istante fuggente della piccola cittadina, il cielo occupa oltre la metà del riquadro, gli edifici riflessi nel acqua appaiono confusi, tra il sottile strato di nubi presenti nel cielo un raggio penetra ad illuminare il campanile ed alcuni edifici circostanti. Molti hanno voluto vedere in questo dipinto un predecessore diretto dell’arte della fotografia.

Verso la fine del Seicento le invenzioni fisiche avevano già applicato alla fotografia tutte le soluzioni presenti nelle macchine fotografiche moderne, compresa la possibilità di variare la lunghezza focale. Ciò che mancava era la possibilità di imprimere l’immagine ottenuta non tramite il disegno dell’artista ma con un processo chimico istantaneo.

Nel Settecento l’evoluzione di questi strumenti ottici conobbe un rallentamento. Prima ancora degli ostacoli scientifico - tecnologici da superare vi era la necessità della richiesta di un prodotto innovativo. Si disponeva già di uno strumento ottico di buona qualità, leggero, portatile che consentiva ai pittori di interpretare più facilmente e con maggiore realismo i soggetti da dipingere. Gli studiosi non si posero la questione della immagine permanente perché non ve n’era la necessità. Eppure il fenomeno che è alla base dell’impressione dell’immagine era già noto da centinaia di anni. L’argento, materiale usato per addobbi, gioielli e posate annerisce. Nel 1727 uno studioso di anatomia, il tedesco Schulze, aveva casualmente notato che il nitrato d’argento se esposto ad una luce violenta anneriva, ma costui non è riuscito a trovare un’applicazione pratica del fenomeno. Quarant’anni più tardi, lo svedese Scheele scoprì che il cloruro d’argento era insolubile in ammoniaca che agiva da fissatore.

La prima applicazione della "scrittura della luce" fu una scrittura simpatica; una soluzione di nitrato d’argento usata come inchiostro rimaneva invisibile finché non veniva esposta.

Thomas Wedgwood nei primissimi anni dell’Ottocento cercò di ottenere immagini permanenti appoggiando degli oggetti sopra particolari lastre impregnate dei sali d’argento.

Egli riuscì a creare ottime riproduzioni delle sagome degli oggetti ma non scoprì mai un metodo per la rimozione dei residui dei sali che causavano l’annerimento di tutta la lastra dopo la rimozione dell’oggetto. Al suo procedimento mancava un fissatore ed uno stabilizzatore.

L’inventore della fotografia odierna è Nicephore Niepce, uno scienziato francese che sperimentò per primo l’esposizione di una lastra fotosensibile alla luce diurna. Inizialmente anch’egli si dedicò alla ricerca di un processo che potesse arrestare il proseguimento spontaneo dell’annerimento dei composti d’argento ma non ebbe fortuna. Successivamente sperimentò un processo innovativo: una lastra metallica veniva ricoperta con del bitume; questa vernice induriva nei punti raggiunti dalla luce mentre rimaneva molle nelle zone oscure. Dopo l’esposizione venivano rimosse con un solvente i residui non induriti. Niepce applicò le lastre così ottenute come matrici per la stampa. Nacque così la prima fotografia

La famosa lastra del 1827 ritrae la veduta dalla finestra di casa dello scienziato che esposte la sua "pellicola" per otto ore.

Il processo di fissazione venne scoperto da Jaques Daguerre, ancora una volta grazie ad una circostanza fortuita. Egli sperimentò per anni l’esposizione delle lastra ricoperta di ioduro d’argento, sensibile alla luce. Questi esperimenti fallirono: egli non riuscì mai ad ottenere un immagine dopo il contatto delle lastre con la luce. Una delle sue fotografie, però, restò per dimenticanza chiusa in un armadio dove vi era un termometro rotto che provocava una fuoriuscita di vapori di mercurio. Daguerre osservò che quell’immagine si era sviluppata tramite un processo di amalgamazione tra le particelle d’argento (provenienti dallo ioduro d’argento della lastra) ed il mercurio. Pochi anni dopo si scoprì che con una concentrata soluzione del comune sale da cucine si poteva anche fissare l’immagine ottenuta.

Il "dagherrotipo" (così venne battezzato il procedimento brevettato poi in Inghilterra) permetteva di ottenere immagini positive, non riproducibili e difficili da conservare. Inoltre la ridotta sensibilità delle lastre richiedeva tempi di esposizione troppo lunghi perché questa tecnica potesse essere adoperata per l’esecuzione dei ritratti. Nel 1840 John Goddard verificò che il trattamento con una miscela di ioduro e bromuro rendeva molto più sensibili le lastre e quindi riduceva i tempi di esposizione. Nel decennio successivo la ritrattistica commerciale ebbe una diffusione imponente in tutta l’Europa con l’eccezione dell’Inghilterra dove la presenza del brevetto imponeva alte quote per i diritti.

Un altro scienziato inglese, Henry Fox Talbot, inseguiva da tempo il sogno di creare immagini permanenti nel tempo ma era completamente disinformato circa i risultati ottenuti da Daguerre e Niepce. Durante un soggiorno sul Lago di Como egli rimpiangeva di non avere con sé una "camera obscura" per imprimere quei meravigliosi paesaggi. Talbot riprese i suoi esperimenti e scoprì che il nitrato d’argento anneriva più rapidamente se la concentrazione di sale era inferiore a quella usata precedentemente. Effettivamente lo scienziato aveva abbandonato per circa un decennio i suoi studi, scoraggiato dal fatto che riusciva sì ad ottenere delle immagini su carta ma ciò richiedeva tempi di esposizione inaccettabili. Quando seppe della diffusione delle tecniche migliorate scoprì appunto un metodo per imprimere su carta sensibilizzata un’immagine negativa, fissata successivamente con una soluzione salina concentrata. Negli anni seguenti Fox Talbot scoprì la tecnica che chiamò callotipo: una breve esposizione di carta trattata con gallo-nitrato d’argento e con uno strato di ioduro d’argento veniva poi sviluppata con del gallo-nitrato riscaldato e fissata con iposolfito di soda. Il negativo così ottenuto poteva essere usato per le riproduzioni di immagini positive tramite sovrimpressione su altri fogli trattati nello stesso modo. Il livello tecnico raggiunto dalla callotipia permetteva di ottenere buoni risultati in poco tempo così il ritratto divenne un’attività commerciale con un numero di clienti in forte crescita. Nacquero in tutta l’Europa studi e laboratori specializzati nell’impressione di immagini di persone e di paesaggi, richiesti spesso dai pittori. Rispetto alla dagherrotipia questa tecnica non richiedeva attrezzature così specializzate ma non poteva raggiungere la medesima qualità. Scienziati definirono "infantili" le prime immagini di Talbot in confronto con quelle ottenute da Daguerre. Successivamente alcuni laboratori specializzati, come quello inglese di Robert Adamson perfezionarono la callotipia con ottimi risultati.

Nel 1851 Daguerre morì mentre lo scienziato Frederick Scott Archer scopriva una nuova tecnica per l’impressione delle immagini basata sul collodio umido. Questo fece aumentare incredibilmente la popolarità della fotografia tra i cittadini della nuova borghesia benestante. Il nuovo procedimento sperimentato usava come supporto per lo strato fotosensibile il vetro. La sua struttura era più stabile e compatta rispetto alla carta cerata ed il suo costo e peso erano inferiori a quelli delle lastre metalliche. Si cercò di trovare un "adesivo" che trattenesse ottimamente le emulsioni dei sali d’argento sul vetro. Inizialmente veniva usata una sostanza a base di albume. Questo trattamento si diffuse tanto da consumare, nella sola Inghilterra, 18 milioni di uova all’anno per la produzione di emulsioni fotografiche. Archer sperimentò l’applicazione di una sostanza usata precedentemente per medicare le ferite: il collodio che per questo utilizzo veniva trattato con lo ioduro di potassio. Dopo questo trattamento le lastre dovevano essere esposte ancora umide, perché una volta essiccate risultavano molto meno sensibili; la tecnica richiedeva un bagno di sviluppo con acido pirogallico o con solfato ferroso e infine un fissaggio con cianuro di potassio o con tiosolfato di sodio. Per questi processi era necessaria l’oscurità e quindi chi era dedito alle foto in "plein air" doveva disporre di equipaggiamento come tende e contenitori con le lastre, nonché bottiglie con i liquidi indispensabili e lastre stesse che in alcuni casi pesavano oltre dieci chilogrammi l’una. Archer dovette affrontare anche la questione dei brevetti presenti in Gran Bretagna ed ottenne vittorie legali importanti che permisero la diffusione della sua tecnica indipendentemente da quella di Talbot. In collaborazione con Peter Fry egli sviluppò un procedimento ritrattistico che riscosse grande popolarità: l’ambrotipo. Simili alle immagini dagherrotipiche erano dei negativi sottoesposti, sbiancati con acido nitrico ed anteposti ad uno sfondo scuro che dava loro l’apparenza di positivi.

In Francia le tecniche al collodio ebbero un exploit incredibile con l’idea delle "cartes de visite" lanciata da Andrè Disderi. Alla fine dell’epoca vittoriana la fotografia era già molto diffusa ma restava un procedimento meticoloso da svolgere con diligenza in particolare quando se ne voleva ottenere una applicazione artistica in concorrenza con le pitture realistiche.

Le tecniche al collodio permettevano di ottenere eccellenti risultati ma la loro messa in uso richiedeva particolari abilità da parte del fotografo. Perché la fotografia si fosse potuta diffondere tra il pubblico di massa occorreva un metodo più semplice ed immediato. A partire dagli anni ’70 l’evoluzione della tecnologia in questo campo ha intrapreso un cammino parallelo portato avanti da molti addetti al settore. Professionisti e dilettanti, tecnici, ingegneri e scienziati ma anche semplici appassionati cercavano di apportare migliorie alla tecnologia fotografica. Un passo fondamentale era rappresentato dalla produzione di lastre secche. Si atribuisce al maggiore Charles Russell il merito di aver scoperto uno sviluppatore alcalino ed un conservante al tannino. Furono poi due dilettanti inglesi W. Blanchard Bolton e B.J.Sayce ad applicare un’emulsione di tannino, bromuro d’argento e collodio per ricavare lastre secche fotosensibili. Ricerche successive ripresero la gelatina, il cui utilizzo era già stato sperimentato, con scarsi risultati, da Niepce negli anni ’40. R.Maddox, anch’egli fotografo dilettante, usò un’emulsione di gelatina mista con composti di cadmio e d’argento. I risultati da lui ottenuti furono incoraggianti. Nel 1873 J.Burgess migliorò la comopsizione di quella miscela e la diffuse su larga scala commerciale. Negli anni successivi R.Kennet e C.Bennet, lavorando indipendentemente, scoprirono che l’esposizione al calore delle lastre secche le portava ad una sorta di maturazione rendendole molto più sensibili. Nel 1878 in Inghilterra quattro aziende producevano lastre secche alla gelatina per uso fotografico. Poco più tardi fu depositato il brevetto di una macchina che trasferiva automaticamente l’immagine impressionata sulla pellicola alle lastre di vetro per successiva stampe a contatto. Il tempo di esposizione necessario per ottenere i negativi era stato ormai ridotto al punto che si poteva fare a meno del treppiede. Cominciò allora la produzione di piccole macchina portatili a cassetta; esse prevedevano l’avanzamento della pellicola mediante la rotazione di una manopola. Si parlava già della possibilità di scattare 10 fotogrammi al secondo. Anno storico, più per questioni commerciali che non storico - tecnologiche, fu il 1888 quando George Eastman propose al pubblico la prima macchina fotografica compatta dal nome "Kodak". La grande novità di questo nome che segnò la storia della fotografia sino ai giorni nostri ma anche di altri apparecchi simili prodotti all’epoca era la possibilità di utilizzarle senza nessuna competenza specifica. Le macchine avevano dimensioni tascabili e venivano vendute cariche di un rullino; l’utente eseguiva le proprie fotografie e riportava l’intero apparecchio alla casa costruttrice od ad un concessionario che provvedeva allo sviluppo, al trasferimento delle immagini su lastre di vetro ed alle stampe e riconsegnava il dispositivo carico di un nuovo rullino.

Successivamente fu sperimentata la produzione di macchine binoculari e di quelle a sviluppo istantaneo. Il grande vantaggio di queste ultime era la possibilità di ottenere immagini già sviluppate all’interno del congegno. Questa soluzione, proposta sotto il nome Nodark, apparentemente valida trovò il suo fallimento in una sentenza giudiziaria, in quanto la Kodak aveva precedentemente citato la sigla scelta (riferentesi ovviamente alla possibilità di sviluppo "senza biuo") come anagramma della propria vincendo il processo. La praticità di questo processo venne ripresa poi nel 1947 con l’invenzione della Polaroid. Nel corso del Novecento la Germania conobbe grande fermento nel settore della produzione di macchine fotografiche compatte. Nel 1924 la Ermanox era stato il primo apparecchio "bello e compatto" mentre nel 1925 alla fiera di Lipsia era stata presentata da Leitz l’ormai "leggendaria" Leica.

All’evoluzione della fotografia mancava, a questo punto, solo l’impressione di immagini colorate. Già i pionieri Niepce e Daguerre avevano teorizzato la possibilità di realizzare foto a colori tramite un’opportuna combinazione delle emulsioni fotosensibili ed una corretta esposizione; un preciso connubio tra fisica e chimica che la tecnologia di allora non consentiva. Nel 1861 Clerk-Maxwell aveva diffuso la sua teoria riguardante la composizione cromatica a partire dai tre colori fondamentali (rosso, verde, blu). Questo processo, chiamato sintesi additiva, portò uno studioso francese, Du Hauron a scoprirne uno uguale ed opposto, la sintesi sottrattiva, nel 1869. Nel 1891, galvanizzato dalle teorie enunciate al riguardo, F.I. de Filadelfia costruì un marchingegno in grado di esporre contemporaneamente tre negative, ciascuna sensibile ad uno dei tre colori basilari. L’immagine così ottenuta veniva poi trasformata in positiva e poteva essere osservata solo tramite un altro apparecchio, il fotocromoscopio. Anche in questo campo molti furono costoro che dedicarono anni al perfezionamento della fotografia a colori. L’invenzione viene attribuita ai fratelli Auguste e Louis Lumiere che nel 1904 brevettarono un sistema che richiedeva un’esposizione molto prolungata rispetto alle tecniche per il bianco e nero e che permetteva di ottenere immagini multicromatiche di discreta qualità. Nel 1912 R.Fischer applicò tre strati di emulsione, ciascuno sensibile ad un colore fondamentale, su un medesimo supporto. Ci vollero oltre vent’anni perché questa tecnica consentisse di realizzare immagini valide. Nel 1935 due appassionati,in collaborazione con la Eastman Kodak Company misero in commercio la prima pellicola Kodachrome per apparecchi fotografici a 35mm. Questa era costituita da tre strati fotosensibili che con una sola esposizione formavano tre immagini latenti, successivamente sviluppate; l’immagine ottenuta era poi trasformata in positivo con un procedimento di inversione. Lo sviluppo di queste pellicole era piuttosto complesso e richiedeva apparecchi ingombranti, costosi e necessari di grande perizia da parte dell’operatore. Poco dopo furono messe in commercio le pellicole Anso-Color e Ektachrome. Queste permettevano lo sviluppo delle immagini al fotografo stesso ma presentavano l’inconveniente del Dagherrotipo: ogni immagine era unica. Nel 1941 la pellicola Kodacolor applicava in principio negativo-positivo e quindi permetteva stampe multiple.