Mario
Giacomelli
Premessa
Brevi
cenni biografici
Il
“suo” manifesto
Le
serie di immagini più significative
Il
legame con la “terra”
La
mia conoscenza con il Maestro
Riflessioni
scritte su una moleskine
Premessa
La fotografia non può rappresentare i sogni, raffigurarli
come avviene nel disegno e nella pittura, è questa un’opinione comune, vera ma anche
profondamente falsa. Questa contraddizione è confermata in pieno dall’opera
fotografica di Mario Giacomelli.
Per
quale motivo?
Perché
questo fotografo marchigiano ha fatto qualcosa di speciale, ha messo in scena i
sogni, lo ha fatto con la sua vecchia macchina fotografica, sempre la stessa nel
corso degli anni, tenuta assieme da pezzi di nastro adesivo. No, non è
senz’altro una bizzarria, infatti il suo non è uno strumento della tecnica,
ma uno strumento della mente, un tramite necessario per farci intravedere la
differenza tra la realtà vista e quella esistente.
Brevi
cenni biografici
Mario Giacomelli nasce a
Senigallia (Ancona) nel 1925, è il maggiore di tre fratelli e all’età di 9
anni perde il padre. In questo periodo comincia a dipingere e a scrivere poesie.
La madre trova lavoro come lavandaia presso il locale ospizio. Qualche anno più
tardi (1955) Mario ritornerà in quel luogo, dove realizzerà le immagini della
serie “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, titolo ripreso da Cesare
Pavese.
Avrà modo di dire in seguito che
tra tutte le immagini, quelle dell’ospizio di Senigallia gli hanno procurato
le più grandi emozioni.
La prematura perdita del padre,
costringe Mario ad iniziare presto a lavorare come garzone in una tipografia di
cui diventerà in futuro proprietario. Il tempo della scuola viene sovente
impegnato in tipografia, la magia della stampa lo cattura e a 13 anni decide di
fare il tipografo.
La “Tipografia Marchigiana”
affacciata sulla piazza che, nel centro di Senigallia, celebra con un monumento
Papa Mastai Ferretti (Pio IX), ha chiuso le sue serrande nel Dicembre del 1999.
Il 1953 segna la svolta nella
vita di Giacomelli, acquista infatti per 800 lire una macchina fotografica e il
giorno di natale si reca sulla spiaggia per scattare la sua prima fotografia.
E’ solo di fronte al mare che
lambisce la spiaggia con le sue onde, scatta e movendo la macchina al momento
dello scatto ottiene la sua prima fotografia “L’approdo”, immagine della
battigia carezzata da un’onda come un colpo di pennello.
Vicino alla tipografia abita una
persona che tanto peso ha avuto nell’inserimento delle Marche sul dibattito
che, a livello nazionale, si stava sviluppando sulla fotografia, quest’uomo è
Giuseppe Cavalli.
Avvocato, uomo di lettere,
profondo conoscitore di Croce (cita spesso a memoria passi del “Breviario”
al giovane Giacomelli, chiedendogli poi opinioni a cui il “nostro” risponde
invariabilmente “non ho capito” o “non sono d’accordo”) ma anche
esperto di tecnica e storia della fotografia, fondatore nel 1947 con Leiss,
Finazzi, Vender e Veronesi de “La Bussola”, storico circolo le cui idee
crociane furono espresse nel Manifesto pubblicato da “Ferrania” nel maggio
1947.
Dopo alcuni anni tuttavia il
successo iniziale riscosso da “La Bussola” comincia a venir offuscato dal
progressivo affermarsi di un altro gruppo storico “La Gondola” guidato da
Paolo Monti, alle cui immagini molti giovani si avvicinano, colpiti dal loro grande
vigore espressivo.
E’ forse questo uno dei motivi
per cui, nel 1953, Giuseppe Cavalli fonda proprio a Senigallia il gruppo “Misa”, di cui Giacomelli e
Piergiorgio Branzi rappresentano le “giovani speranze”.
Nel “Misa” non c’è la
presenza egemone delle idee di Cavalli come ne “La Bussola”, è un gruppo
aperto dove ognuno è libero di condurre le ricerche che vuole, sono così
inevitabili gli scontri, soprattutto tra Giacomelli e Cavalli stesso. “Cavalli
purtroppo vedeva solo da una parte e allora litigavamo sempre” avrà modo di
dire Giacomelli.
Del gruppo “Misa” Mario
Giacomelli è cassiere per alcuni anni.
Nel corso delle discussioni
all’interno del “Misa”, Giacomelli conosce le opere di Paolo Monti, apprezzandole al
punto di arrivare a dichiarare “Cavalli diceva che era il nemico pubblico n°
1, ma a me Monti mi faceva morire!”. E sarà proprio Paolo Monti (in giuria
con Roiter e Comisso, tra gli altri) a dargli la soddisfazione del premio al
miglior complesso di opere al Concorso di Castelfranco Veneto nel 1955.
“Apparizione è la parola più propria alla nostra gioia ed emozione, perché
la presenza di queste immagini ci convinse che un nuovo e grande fotografo era
nato” dichiarerà in seguito lo stesso Monti.
Nel 1956 Cavalli, forse nel
tentativo di svecchiarla, lo chiama a far parte insieme a Branzi de “La
Bussola”, da cui uscirà ben presto per insanabili divergenze.
Del 1957-59 è la serie di
immagini riprese a Scanno, Giacomelli rimane affascinato dall’atmosfera
fiabesca del luogo, che aveva già colpito altri grandi fotografi, tra cui Henri
Cartier Bresson.
Sempre del 1957 è la serie
“Lourdes” seguita, nel 1958, da “Zingari”, “Puglia” e, nel 1959,
(ripresa nel 1995) “Loreto”. Del 1961 sono le immagini di “Mattatoio” e
nello stesso anno inizia a lavorare alla serie “Io non ho mani che mi
accarezzino il viso”, titolo ripreso da uno scritto di padre Turoldo. Le
immagini sono riprese nel Seminario Vescovile di Senigallia, che Giacomelli
frequenta per un anno prima di dar forma alle foto vere e proprie. In questo
ambiente i giovani seminaristi sono ripresi in momenti di ricreazione, le foto
restituiscono l’incanto di uno spazio umano, ma al tempo stesso sospeso in una sorta di
astrazione temporale.
Nel 1963 inizia la grande
stagione di mostre che porteranno le sue immagini nei più grandi spazi
espositivi del mondo, dalla Photokina di Colonia nel 1963 al MOMA di New York
(1964), dal Metropolitan di new York (1967) alla Bibliothèque Nationale di
Parigi (1972), dal Victoria & Albert Museum di Londra (1975) al Visual
Studies Workshop di Rochester (1979 e poi Venezia, Providence, Parma, ancora New
York, di nuovo Colonia, Mosca, Arles, Amsterdam, Tolosa, Bologna, Londra, Rivoli
fino alle recenti antologiche di Empoli, Losanna e Roma (purtroppo postuma).
Risale agli anni 1964-66 “La
buona terra”, seguita da “Caroline Branson” del 1971-73, lavoro ispirato
all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, poi “presa di coscienza
sulla natura (1980-94), la grande serie dei paesaggi.
Su testi del poeta Permunian si
fonda “Il Teatro della neve” (1985-87) seguita da “Ninna Nanna” e “A
Silvia” (1987-88), lavoro pensato in origine per un programma televisivo. Nel
1986 muore la madre, a cui aveva dedicato nel 1955 un intenso ritratto.
Tra i lavori più recenti
ricordiamo: “Il mare dei miei ricordi” (1991-94), “Io sono nessuno”
(1994-95) su testi di Emily Dickinson fino ad arrivare a “Questo ricordo lo
vorrei raccontare” (1998-2000) e “Bando” (1998-99) ciclo di immagini in
serie di 4, ispirate ad una poesia di Sergio Corazzini e presentato nel 1999
alla XXIV Biennale d’Arte contemporanea di Alatri.
Il 25 novembre 2000, all’età
di 75 anni, Mario Giacomelli si è spento nella sua casa di Senigallia.
Il
“suo” manifesto
“Per me che uso la
macchina fotografica è interessante uscire dal piano orizzontale della realtà,
avere la possibilità di un dialogo stimolante perché le immagini abbiano un
respiro irripetibile. Riscrivere le cose cambiando il
segno, la conoscenza abituale dell’oggetto, dare alla fotografia una
pulsazione emozionale tutta nuova. Il linguaggio diventa traccia,
necessità, spirito dove la forma si sprigiona non dall’esterno, ma
dall’interno in un processo creativo. Lo sfocato, il mosso, la grana,
il bianco mangiato, il nero chiuso sono come esplosione del pensiero che dà
durata all’immagine, perché si spiritualizzi in armonia con la materia, con
la realtà, per documentare l’interiorità, il dramma della vita. Nelle mie foto vorrei che ci
fosse una tensione tra luce e neri ripetuta fino a significare. Prima di ogni scatto c’è uno
scambio silenzioso tra oggetto e anima, c’è un accordo perché la realtà non
esca come da una fotocopiatrice, ma venga bloccata in un tempo senza tempo per
sviluppare all’infinito la poesia dello sguardo che è per me forma e segno
dell’inconscio. Il linguaggio è così la
coscienza espressiva interna che ha accarezzato la realtà pur rimanendo fuori,
è l’attimo originale, testimone di una realtà tutta mia, un prelievo fatto
sotto la pelle dell’oggetto, guidato fuori dalle regole per una libertà che
è anche allargamento alle possibilità del reale. Mario Giacomelli”
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Le serie di
immagini più significative
PRIME OPERE
1952-1957
"Fin dal primo rullino mi
sono accorto che il mezzo meccanico non conta niente, perché sono sempre
riuscito a far fare alla macchina fotografica quello che volevo". La
vigilia di Natale del 1953 Giacomelli acquista la sua prima macchina
fotografica, una Comet Bencini, per 800 lire e il giorno seguente è già alla
spiaggia dove, inquadrando il movimento delle onde, scatta la sua prima
fotografia, L'approdo. Comprende subito che la fotocamera non è semplicemente
uno strumento per la ripresa della realtà, ma soprattutto un mezzo espressivo.
I soggetti in questo periodo sono diversi, e solitamente molto classici:
ritratti, nudi, nature morte, fondamentali, queste ultime, per la costruzione
compositiva dei suoi lavori futuri: "queste fotografie sono state fatte
perché ho sempre avuto la sensazione che mentre fotografi, le
"figure" non riescono a darti quello che vuoi, come impressione.
Allora ci si rifugia in oggetti che sono già "morti" e che si possono
usare per aggiungere qualcosa di se stessi".
VERRA' LA MORTE E AVRA' I TUOI OCCHI
1955-1956, 1966-1968, 1981-1983
"Sono andato lì per un
anno, nell'ospizio di Senigallia, per ambientarmi, capire, e ho imparato molte
cose, poi due anni per fotografare; le cose più importanti sono quelle che non
sono riuscito a fotografare, quelle che però mi hanno dato di più. Per esempio
c'è l'orario di ingresso, ed in tre anni una vecchietta quando entravano i
parenti aspettava il figlio, e guardava ognuno che entrava per vedere se era lui
e giustificava sempre il figlio dicendo: poverino, magari chissà quanto ha da
lavorare; però in tre anni nessuno è mai andato a farle visita, e questo non
potevo fotografarlo. … Dopo avere lottato tutta una vita, perché la fine di
una vita deve essere questa? Normalmente si dice che la fotografia vale più di
mille parole, ma questa realtà c'è così vicina che le fotografie e le parole
perdono valore. Queste immagini sono più realiste anche nella tecnica, le più
vere e le più essenziali. Perché più che quello che vedevo, volevo rendere
quello che avevo dentro di me: la paura di invecchiare, non di morire, il
disgusto per il prezzo da pagare per una vita". I titoli diversi che negli
anni la serie ha avuto - Ospizio, Vita d'ospizio, Non fatemi domande, E io ti
vidi fanciulla - testimoniano il profondo coinvolgimento per un luogo legato
anche alla sua vicenda famigliare, visto che la madre per anni lavorò in un
ospizio. "Ho fatto in modo di essere uno di loro, come loro. Non sentivano
più la macchina fotografica addosso".
SCANNO
1957-1959
"Scanno è un paese da
favola, di gente semplice, dove è bello il contrasto fra mucche, galline e
persone; tra strade bianche e figure nere, tra bianche mura e neri mantelli. Ho
cercato di fermare alcune di quelle immagini, per dare anche agli altri
l'emozione che ho provato di fronte a un mondo ancora intatto e spontaneo. Ho
fatto tutte queste foto con una velocità bassa, perché le immagini venissero
un po' mosse, per rendere magico questo mondo. Ho sbiancato i fondi annerendo le
figure, ed ho creato spazi vuoti utilizzando i grigi per mantenere l'equilibrio
dell'immagine. La foto più nota è quella delle donne scure e mosse che
sembrano ruotare come se fossero la medesima figura ed il bambino che viene
verso di noi restando a fuoco ed apparentemente fisso in mezzo a loro".
Giacomelli tornerà a Scanno una
terza volta, nel '95 senza però fotografare perché non ritrova più il
contrasto del nero delle vesti, che aveva reso così forte l'impatto della prima
serie. Scanno aveva già affascinato grandi fotografi, come Henri Cartier
Bresson, che vi aveva visto la sopravvivenza in epoca moderna di figure e modi
di vita antichi. Tra le immagini più celebri, quella già citata all'inizio
dall'autore. John Szarkowski, già direttore del dipartimento di fotografia del
Museum of Modern Art di New York, la sceglierà per il volume Looking at
Photographs, che raccoglie le 100 fotografie più significative del secolo.
LOURDES
1957-1959
"Mentre nell'ospizio
vogliono a tutti i costi morire, qui vogliono a tutti i costi vivere. È un
controsenso: questi che soffrono realmente chiedono, sognano di vivere e
inventano qualcosa, una Madonna, perché non sanno più in che buco rifugiarsi.
La speranza è la cosa più bella che ho pensato a Lourdes fra questa gente. La
stampa contrastata vuol dare risalto al senso di vuoto che i malati provano
rispetto al mondo. La gente che si affretta alla grotta, le carrozzelle in fila,
gli accompagnatori con le barelle: come francobolli o pacchi da spedire, pronti
col loro biglietto. Ho poi sfuocato e sgranato i primi piani per mascherare
almeno in parte l'orrore delle malattie più gravi. … Le foto sono l'impronta
del mio intervento in uno spazio, la mia creazione; è il documento di ciò che
pensavo mentre un po' morivo, perché si muore ogni giorno. Le mie immagini sono
intrise di vita, del senso tragico del momento. Un ragazzo e una ragazza: il
dolore lo vedi nel viso della donna e non nel ragazzo che vive la sofferenza
forse inconsapevolmente. Ma quella maschera di dolore sono io: io ho fermato il
dolore. Un'immagine inserita in un racconto deve reggersi autonomamente, far
racconto essa stessa. Il bianco isola la realtà per evidenziare quello che per
me è importante".
ZINGARI
1958
Questo lavoro è stato realizzato in una sola mezz'ora.
"Ancora questo era un tentativo; c'è un senso di vita addosso a questa
gente, nella loro povertà c'è una vita vera. Pensavo di completare questa
ricerca in diverse occasioni ma mi è stato impossibile perché gli zingari non
vogliono essere fotografati".
PUGLIA
1958
"Osservare queste immagini
è come leggere nelle pieghe degli uomini, nelle vene del paese; è sentire la
corteccia della pianta, la fatica sulla terra, i suoni di festa, i giochi
davanti alla chiesa, le vecchie mura assolate, la società e l'amicizia, lo
svago sereno, la vita cerimoniale e religiosa, gli eventi, il prestigio e la
vitalità che si riflettono nella pelle di una civiltà". In questa serie,
che all'inizio era stata denominata Gente del sud, compaiono per la prima volta
i bianchi slavati tipici della fotografia di Giacomelli. Insieme a Scanno,
Puglia prefigura molte delle tecniche che saranno utilizzate nella serie Non ho
mani che mi accarezzino il volto, nei forti contrasti, nelle figure nero cupo
che si stagliano sugli sfondi dal bianco bruciato.
LORETO
1959
e 1995
La serie comprende lavori
realizzati in due momenti diversi e molto distanti tra loro. Nel 1959 Giacomelli
è a Loreto e le prime immagini all'interno della cattedrale, sono di questo
periodo: "Sono riprese di notte, nell'interno della cattedrale, di gente
dell'Abruzzo, attendono mezzanotte per la venuta della Madonna". Ma non è
soddisfatto di ciò che ritrae: "Ho fatto pochissime foto perché non
sentivo il tema, era troppo vuoto, adesso posso fare un confronto, non c'era la
stessa tristezza che c'è nell'aria di Lourdes". Le prime immagini. Poi, a
36 anni di distanza, nel 1995, il fotografo torna. Questa volta è influenzato
non solo dall'esperienza di Lourdes ma anche dai suoi lavori Verrà la morte e
avrà i tuoi occhi, o Io sono nessuno. Le immagini assumono un carattere più
narrativo, attraverso un uso sapiente dei piani differenziati, dello sgranato e
dell'ingrandimento. "Non arretrare lo sguardo di fronte alla realtà ma
entrare sotto la pelle, aggiungere realtà a realtà, quel tempo che è dentro
l'immagine e che appartiene solo alla fotografia".
MATTATOIO
1961
"Serie iniziata e finita in
pochi minuti per il grido spaventato, pauroso dei poveri animali che mi hanno
straziato l'anima e mi hanno portato a scappare da quel posto maledetto".
Questo commento di Giacomelli compare sul retro di una delle stampe, ed è
un'indicazione precisa dei sentimenti che lo agitavano quando realizzava le
fotografie, ma rischia di essere fuorviante se pensiamo a una qualunque tecnica
di ripresa "frettolosa": le immagini mostrano invece la cura estrema
con cui l'autore avvicina un ambiente, ne vive le sensazioni ed entra in
sintonia con i soggetti che intende ritrarre. "Queste bestie, che capiscono
tutto, si accorgono che vengono uccise. Questa volontà di fuga dimostra ancora
una volta la cattiveria umana: si vede quando le colpiscono, le prendono per
forza e le portano lì. Mi facevano soffrire quanto soffrivo all'ospizio oppure
a Lourdes".
IO NON HO MANI CHE MI ACCAREZZINO IL VOLTO
1962-1963
Il titolo si ispira a una poesia
del 1948 di Padre David Maria Turoldo, intitolato semplicemente Io non ho mani:
"Nella serie dei pretini ho trovato una dimensione a me sconosciuta; ho
spogliato il soggetto dai canoni convenzionali per mettere a nudo l'uomo".
Prima identificate con i titoli "Seminaristi marchigiani" e
semplicemente "Pretini", le immagini descrivono i momenti di
ricreazione nel Seminario Vescovile di Senigallia. L'effetto manuale di stampa
amplifica l'effetto grafico e il contrasto con il nero delle tonache su uno
sfondo che appare di sola luce bianca. Inizialmente, nelle prime stampe degli
anni 60, questo effetto non era così accentuato e lasciava trasparire dietro le
figure nere dei seminaristi il segno dell'erba o della pavimentazione. L'idea
del movimento è accentuata dalla bassa velocità che serve a creare immagini
parzialmente sfocate, mentre la neve è scelta per l'effetto di contrasto e
ideale per scatenare la voglia di gioco: "Nevicava, mi sono preparato a
fotografare con loro che facevano le palle di neve, ma li ho avvertiti prima;
un'altra volta ero nascosto sul tetto mentre facevano il girotondo". Anche
in questo caso, Giacomelli ha impiegato molto tempo per comprendere a fondo la
vita dei seminaristi e conquistare la loro piena fiducia. Alla fine del lavoro,
però, i rapporti si sono irrimediabilmente incrinati: "per un concorso
fotografico sui sigari ho mandato una serie sui preti che fumano in un terrazzo
all'aperto pieno di fumo, ed erano sigari che ai preti avevo dato io. Il Rettore
mi trovò e mi mandò via. Ho vinto un concorso importante ma nel seminario non
sono più entrato".
LA BUONA TERRA
1964-1966
"Sono stato spinto a
rivolgere particolare attenzione alla mia terra marchigiana da tanta bellezza di
forme che essa sprigiona, con forza espressiva ed emotiva, da farti sentire
onorato di esserle fratello. In questi anni tutto è cambiato, le ferite
inflitte nel corpo stesso della terra sono sempre più profonde". Il lavoro
nasce dal rapporto con una famiglia contadina allargata. Alcuni momenti chiave
della comunità sono registrati scrupolosamente - le fotografie sono state
scattate in diversi anni nei mesi da giugno a ottobre e comprendono la raccolta
del grano, un matrimonio, la vendemmia e i "personaggi" conosciuti uno
a uno, nella funzione esercitata all'interno del gruppo. Il rapporto con questo
gruppo è cominciato molto prima del 1964. Come sempre quando fotografava,
Giacomelli cercava sempre, prima dello scatto, di instaurare un rapporto di
conquista reciproca, di fiducia con il soggetto: "Racconto una storia
importante, è l'uomo che lavora, è la vita. C'è stato un intero anno
d'ambientamento per capire che dovevo fare, volevo lasciare un documento del
lavoro nelle stagioni, le stagioni che si ripetono e il lavoro che si ripete per
tutta la vita, almeno per loro. Era la gente più buona di questa terra, oltre
venti persone e tutti si rendevano utili dal più piccolo al più vecchio,
vivevano e mangiavano tutti insieme, c'era anche il nonno, il nonno che
decideva, finché lui non lo faceva, nessuno si sedeva in tavola".
CAROLINE BRANSON
1971-1973
"In Spoon River ho
fotografato il ricordo; non è un riandare ai fatti, è la dimensione della
memoria. Amarsi in mezzo alla natura, il tuo corpo è come un tronco d'albero,
perdi il senso della carne. L'uomo e la donna nel tempo e nella luce serica
della notte, la luce che cade (la poesia sta nei passaggi di luce) e i volti che
si fondono con la natura. Il ricordo e la natura. I fiori disegnano il tessuto
della donna e nel cielo, le stelle, qualcosa si fonde assieme, la natura ha un
valore immenso. Spogliati di giorno, di notte, nudi in mezzo ai campi, la terra,
la luna. Non puoi mentire alla fotografia. In Spoon River distruggo la realtà e
fotografo il ricordo, deformo per rifare la realtà, quello che io vedo e scatto
sono copie della realtà." Giacomelli non solo "legge" il testo
di Lee Masters. Fedele all'idea dell'interpretazione della poesia, che deve
trovare una voce, decostruisce il testo per aggiungervi altro materiale fino a
ricostruire un mito dell'eterno ritorno, della rinascita ciclica.
PRESA DI COSCIENZA SULLA NATURA
1980-1994
Le fotografie di paesaggio sono
di vario tipo: aeree, da terra, al mare. Non tutte le immagini che appaiono
realizzate dall'alto sono in realtà prese dall'aereo. Molte fotografie delle
colline sono scattate dall'altura vicina - la "verticalità" è una
caratteristica propria del territorio marchigiano. Le date precise degli scatti
sono impossibili da definire, anche se sappiamo che l'idea della ripresa
dall'alto viene dall'esperienza di un viaggio a Bilbao negli anni 70. Non si
tratta di semplici riprese del paesaggio: Giacomelli interviene a
"correggere" ciò che vede. "Una buona parte di questi paesaggi
è stata creata e ho cominciato a fare interventi sul paesaggio fin dal 1955: se
trovi davanti ai tuoi occhi un paesaggio che ha solo bisogno di correzione, una
aggiunta di segni, di linee, di buchi, che il caso o il contadino non hanno
saputo fare, allora intervengo io. ...
Attraverso le foto di terra io
tento di uccidere la natura, cerco di toglierle quella vita che le è stata data
non so da chi ed è stata distrutta dal passaggio dell'uomo per ridarle una vita
nuova, per ricrearla secondo i miei criteri e la mia visione del mondo. La
natura è lo specchio entro cui io mi rifletto, perché salvando questa terra
dalla tristezza della devastazione, voglio in realtà salvare me stesso dalla
tristezza che ho dentro. A volte ho addirittura usato un negativo scaduto, uno
strumento già morto, proprio per accentuare questa sensazione, ottenendo un
effetto di neri che diventano tutt'uno con le zone intorno".
IL TEATRO DELLA NEVE
1984-1986
"La dimensione della mia idea ridotta a traccia
simbolica del mio intervento sul reale immaginario. È un impegno, come
estensione della mia esistenza oltre quella del poeta Permunian, in una vita
troppo frammentaria, è un'avventura che coinvolge tutta la mia esistenza."
A proposito della poesia di Permunian, Giacomelli scrive: "Sono entrato così,
in un grande prato, ho penetrato la verità, la creatività, l'immaginazione, la
materia, il colore. È stato prima un segreto e poi un bisogno. Ho sentito il
silenzio che mi interrogava e mi dava il senso di una pienezza che si avverte,
credo, solo in rari casi nella vita".
NINNA NANNA
1985-1987
"Ninna è la parte ormai vecchia dell'anima di una
donna che dice a Nanna: Zitta! Ormai i tuoi ricordi, i momenti più giovani
della tua esistenza si sono incrostati di ruggine, il tempo li ha corrosi e
tutto sta cadendo come polvere. Ma la parte ancora cosciente, ancora viva della
sua memoria non si arrende, e si cela nel dolce ricordo di quando era giovane.
Rivede le immagini di quando era bambina: i gattini, che sono lì quasi a
simboleggiare il carattere eternamente infantile che rimane e che accompagna
ognuno di noi. Poi si rivede tenuta per mano da una figura che non conosciamo,
ma che percepiamo essere il padre, o la madre. Una casa, e tutto è ormai
vecchio, disfatto; tornano le immagini che il dolore le provoca, forse nel
ricordare qualcosa di passato o forse perché è conscia di quello che ora
l'aspetta. Il giorno finisce, mentre l'ombra si espande sempre più in fretta,
portando il buio… " Questa serie, utilizza soprattutto materiali legati
all'esperienza dell'ospizio, che Giacomelli ha fotografato a più riprese a
partire dalla metà degli anni '50. Giacomelli lavorava spesso anni interi su un
soggetto e, a volte, serie anche molto recenti sono in realtà il frutto di
lunghi studi, riflessioni e rielaborazioni di materiali precedenti.
FELICITA’ RAGGIUNTA, SI CAMMINA
1986-1992
Serie di immagini realizzate
ispirandosi all’omonima poesia di Eugenio Montale. Un’ osso montaliano
significativo nelle vaghe figurazioni di una felicità appesa ad un filo,
legata all’ingenuità di un bambino e che, come se niente fosse, può prendere
il volo: al suo posto resta l’inganno finale, quasi vendetta (attraverso il
pianto) per aver osato tenerla per troppo tempo tra le mani.
A SILVIA - L’INFINITO
1987-1988
da "A Silvia"
da "L'Infinito"
La serie è stata realizzata
principalmente a Recanati, nella casa di Leopardi, e all'orfanotrofio di
Senigallia. Il lavoro, originariamente pensato assieme all'amico Luigi Crocenzi
già negli anni 80 per una trasmissione televisiva della RAI, è stato ripreso
più recentemente e rielaborato per una mostra organizzata a Milano nell'ambito
delle celebrazioni per il bicentenario della nascita del poeta.
"È difficile definire la vera sostanza della poesia,
ma se dovessi esprimermi in due parole, per me è la vita stessa. È la cosa più
semplice che esista sulla terra, perché è fatta con le stesse parole che
usiamo tutti i giorni … Le poesie di Leopardi sono una cosa che ti resta
dentro. Mi sono sempre sentito molto vicino alla sua malinconia. Se non fosse
stato in sintonia con quello che sento, non ne sarei stato capace. … Lavorare
a un'opera di Leopardi, per mesi, ogni sera, è dannazione continua. Ho sentito
tutto il tempo che è passato dal suo comporre in versi al momento presente in
cui io lavoravo e vivevo qualcosa già vissuto tanti anni fa. Il tempo sta
fluendo nella mia camera, nei campi, nella mia strada, il tempo mi fa paura: è
il tema delle mie fotografie".
PASSATO
1988-1990
E’ la lirica di Vincenzo Cardarelli ad aver ispirato
questa serie di immagini.
IL MARE DEI MIEI RICORDI
1991-1994
"Il mare dei miei ricordi è
quello di quando ero bambino. Io sono nato al mare. Mi ricordo che una volta mi
morse un pesce ragno, mi dovettero operare quattro volte, e alla fine riuscii a
guarire con impacchi di acqua e sale. Ho scattato queste foto con una concezione
diversa da quella dei lavori precedenti, una questione di forma… Ad esempio,
io adesso sono in questa stanza con voi e parliamo: conosco la vostra immagine,
la struttura fisica del vostro corpo; se mi sposto la vostra immagine ai miei
occhi cambierebbe, ma la sostanza rimane la stessa… Cambia solo la forma, la
composizione. Al mare ho pensato che se avessi fotografato le persone dall'alto,
mi sarebbero sembrate delle stampelle, di quelle che si usano per appenderci i
vestiti. Non sarei più stato in grado di riconoscere il soggetto, non avevo mai
visto un uomo dall'alto".
Durante il primo volo Giacomelli
più che fotografare, si è concentrato sulla percezione delle forme. Il
racconto del suo mare verrà in seguito, durante le uscite successive sul
piccolo aereo di un amico: "Tra l'altro credevo che si potesse volare molto
più basso sul mare, mentre c'è un limite oltre il quale non si può scendere:
una volta ci hanno denunciato… Quello che immaginavo era giusto: la persona la
riconosci se sei di fianco, di fronte, o dietro di lei, ma di lassù… Forse è
così che il Padre eterno ci guarda, forse lui non vede come siamo ridotti male:
vede solo tante stampelle. … Poi ho visto tante altre cose, come i bagnanti
della spiaggia libera, senza lettino né sdraio, che sui loro asciugamani stesi
al sole sembravano francobolli.
Purtroppo il problema della quota
al di sotto della quale non puoi scendere mi ha fatto abbandonare il lavoro. Ci
vuole un permesso per scattare, e il mio amico, che il permesso lo aveva, mi ha
prestato la macchina fotografica. La mia macchina non arriva a un millesimo di
secondo, e poi ci vogliono gli occhiali, l'elastico da mettere allo scatto che
altrimenti con il forte vento lavorerebbe da solo".
IO SONO NESSUNO
1994-1995
Le immagini che compongono questa serie, ispirate alla
lirica di Emily Dickinson, sono frutto di un lavoro eseguito principalmente a
Senigallia. C'è più di un elemento di consonanza fra una poetica come quella
espressa in questo testo e l'ispirazione di Giacomelli, così come colpisce la
molteplicità di tratti che accomunano la vita dell'isolata poetessa
statunitense e del maestro italiano.
BANDO
1998-1999
Le immagini possono essere mappe, sentieri della solitudine. Per questo lavoro,
ispirato ad una significativa lirica del poeta Sergio Corazzini, è stata prevista dall'autore una struttura espositiva a gruppi di quattro opere
molto vicine, quasi a formare una croce.
QUESTO RICORDO LO VORREI RACCONTARE
1998-2000
"In questa serie non mi interessava capire il soggetto
ma comunicare, in uno spazio di libertà, non scenografie mentali ma la mia area
magica dove sfogo l'autoanalisi che nasce dal continuo immergermi in me
stesso". Il lavoro, iniziato nel 1998 con il titolo I ricordi di un ragazzo
nato nel 1925, è stato ripreso dopo qualche tempo, in seguito a un'operazione
chirurgica. Il risultato è una sorta di teatro i cui protagonisti vivono in uno
spazio privo di prospettiva, disposti secondo la geometria del sogno. È spesso
presente un piccione, il solo ad essere apparentemente vivo e a richiamare il
movimento in questo mondo immobile e bidimensionale.
"Ci sono alla base elementi spirituali a sfondo autobiografico chiusi in
immagini dove tutto è dato come essenza, come odore mentale, come simbolo, come
proiezione del pensiero. Nel recinto del linguaggio il soggetto prende una
vitalità nuova, in nuove circostanze, spezza i vecchi schemi per evocare quella
musica che è voglia di vivere ancora, è una preziosa mia confessione critica
dell'avventura della vita, una linea di riflessione legata ai segni nati dalla
nebbia postoperatoria divenuta poi cristallo forte e preciso, un flusso di
immagini tra me e il mondo, miste al mio respiro fragile che sorreggeva il corpo
in quel momento, pieghe dell'anima invase dalla luce, per architettare un
racconto anche come intuizione futura nel silenzioso fiume del tempo".
Il legame con la
“terra”
Dal volume “Storie di Terra”
Il titolo esatto di questa serie è Storie di terra. C’è anche un sottotitolo: “La terra che muore”. L’ ho iniziata praticamente quando ho iniziato a fotografare, dunque la prima foto è del 1955. Si vede un’agricoltura ancora valida. La casa è al centro, serve come punto di riferimento e per dare dimensione a paesaggio e ai campi, come dicevo prima. Vicino c’è il pagliaio e la grande vigna quadrata, poco più sotto quella lunga, rettangolare, e intorno i campi con il grano già tagliato.
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La
seconda è di qualche anno dopo, diciamo due o tre, del 1958, io non sono
mai molto preciso. Come vede rimane il vigneto quadrato, ma già si
modificano le coltivazioni, e l’altro vigneto è stato spiantato. C’è
invece ancora il pagliaio, che poi scomparirà: vuol dire che non ci sono
più le mucche, che sta morendo tutto.
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Poi
possiamo prendere queste tre foto che avevo fatto tra il ’60 e il ’70.
Nella prima ci sono i covoni di grano, la paglia è tagliata. Allora,
siamo nel ’62 mi sembra, la paglia la tagliavano ancora a mano, non come
adesso, che arrivano le macchine, arano, tagliano e rovinano tutto. Ho
continuato a fotografare, ma non ogni anno, solo quando mi interessava,
perché prima di tutto per me doveva essere valida la foto in sé più che
la terra, la situazione… o meglio, dovevano essere valide
contemporaneamente tutte e due.
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La
seconda foto di questi anni, che mi sembra significativa di quello che
dice, è del 1965 0 ’66. Vede come si sono ridotte le coltivazioni,
questo campo grande a sinistra è vuoto e, in alto, già rovinato. Inoltre
è scomparso il pagliaio.
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Ancora
qualche anno e scompare anche il vigneto che era rimasto, quello vicino
alla casa. Siamo all’incirca nel 1970. Il grano è limitato a tre
strisce, e in alto a sinistra ci sono delle macchie bianche, il terreno
comincia a cedere.
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La
conclusione è nelle due foto finali. Questa mostra la terra che già
scivola, la casa c’è ancora, ma non c’è il pagliaio, dunque non ci
sono più neanche le mucche. E questi segni sono dei solchi, dei canaletti
di scolo; è una terra ormai inutilizzata, inutile. |
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Alla
fine è proprio cambiato tutto. È arrivato il progresso, lo vede anche in
alto in tutte e due le foto, ma in questa che è del 1980 si vede meglio:
sopra la collina c’è un grande traliccio della luce, e un altro è qui,
un po’ più in basso. Ne ho fatta una anche l’anno scorso, dopo molto
tempo, e un’altra proprio ieri sera…
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La mia conoscenza
con il Maestro
“Vieni, andiamo da Mario”,
non me lo faccio ripetere e dopo dieci minuti siamo a Senigallia, passiamo per
Palazzo del Duca, dove è allestita “Passaggio di Frontiera”,
mostra-manifesto del “Centro Studi Marche” di cui fanno parte, oltre
Giacomelli, Berengo Gardin, Enzo Carli, Giorgio Cutini, Luigi Erba, Ferruccio
Ferroni, Paolo Mengucci, Aristide Salvalai, Francesco Sartini e Sofio Valenti.
Su tutte mi rimangono
particolarmente impresse le opere di Mario, sembra di vivere un sogno
straordinario, sono impressionato.
Partiamo alla volta di
Summerland, il campeggio poco fuori Senigallia di cui Giacomelli è
comproprietario. Ci accoglie all’ingresso, rimango colpito dai suoi modi
estremamente garbati, gli porgo domande, chiedo spiegazioni, lui si concede con
grande disponibilità, è una situazione per me incredibile, un pezzo vivente di
storia della fotografia che si mette a spiegarmi come nascono le sue opere, che
mi racconta che “sì, proprio così ti dico, avevo la macchina con
l’autoscatto, stavo cercando una posizione quando sono inciampato cadendo e la
macchina ha scattato proprio in quel momento” è una delle foto che ho
visto alla mostra, è straordinaria, Mario sembra un bambino, un bambino che
gioca…
Nel frattempo Stefano, il mio
amico, scatta senza che io me ne renda conto, tanto sono preso dal colloquio con
il Maestro (non vuole assolutamente che lo chiami così, “io sono come
te, ogni volta che prendo la macchina fotografica è come se fosse la prima
volta”… figuriamoci!) alcune foto. Dopo un po’ ci congediamo,
nella via del ritorno sono come in trance, ripercorro quegli istanti sperando
che qualcosa di quanto detto da Giacomelli, mi accompagni nel mio viaggio dentro
la fotografia.
Riflessioni scritte
su una moleskine
Queste sono note che ho appuntato a Luglio del 2000 nel mio
taccuino:
Domenica 16/07/2000
Dopo qualche anno dal primo
incontro rivedo Mario Giacomelli, è stanco, la voce è flebile, lo sguardo un
po’ più perso nel vuoto di qualche anno fa. Mi racconta dei suoi mali, degli
interventi che ha subito… E’ il primo giorno che esce di casa dopo mesi
passati tra malattia, ricoveri e
convalescenza, sta tornando alla sua attività nel campeggio di cui è
contitolare.
Parliamo per alcuni minuti poi mi
congedo, tra un po’ se ne andrà… “per oggi può bastare”
mi dice.
Un passo indietro: quando sono
andato a salutarlo nella guardiola del campeggio ho visto subito che mi ha
riconosciuto “Ah! Il fotografo di Città di Castello!” (il
fotografo???). “Ti piacciono i paesaggi? Qui ce ne sono di molto belli,
vai…” sulle prime non ho afferrato bene, poi Stefano mi ha spiegato
che molti andavano da lui e si facevano accompagnare nei luoghi dove aveva
realizzato i suoi scatti! No, no non è questa la mia “chiave di lettura”,
dove vado Maestro? Le “tue Marche”, la “tua terra” ciò che hai fermato
con la tua Kobell non si può rifare, ti sei “staccato dal piano orizzontale
della realtà, in volo hai pennellato di luce la tua tela fermando quei paesaggi
in un “tempo senza tempo”. E poi, come ho detto, non mi interessa fare foto
“alla Giacomelli”… mi interessa capire cosa significa per te
“fotografia”!
Lunedì 17/07/2000
Entro ed esco da bar del
campeggio, dove sono appese le tue fotografie. I pretini… Spoon River… Le
mie Marche… le nature morte.
Entro ed esco dal bar e ogni
volta mi sembrano nuove le tue immagini, ogni volta le scopro un po’ di più…
Scanno… Io sono nessuno… Hanno ragione: Il Poeta delle Immagini!
Ci rivediamo di nuovo e richiedo
delle tue ultime realizzazioni,
finiamo a parlare del lavoro sui testi (l’ultimo è su Borges e sta appeso a
Milano da Photology) e mi racconti di “Felicità raggiunta, si cammina”, mi
spieghi la metafora dei girasoli a capo chino e il bambino, dell’indifferenza
degli uomini (“sono come sagome di cartone in controluce”) ,
del sole nero (“è a lutto anche lui”), mi piacerebbe avere
con me quel catalogo di immagini e farmele “raccontare” (guai a dire
“illustrare”, è quasi una bestemmia!). Parliamo anche di “Bando”, di
Corazzini… mi dici “alcune le ho cambiate via via, sono 40”.
Mi piace il ritmo di quattro ti dico, ma tu guardi lontano… chissà dove.
Mi piace la grafia essenziale dei
fili neri sul bianco bruciato, sono fili contorti, mi hanno fatto subito pensare
a Corazzini, un filo contorto che si è spezzato presto.
Martedì 18/07/2000
Oggi parliamo di una tua prossima
mostra… “A febbraio ci sarà una mostra al Palazzo delle
Esposizioni… a Roma, devo preparare ‘n bel po’ di roba…trecento
foto…forse nel catalogo ne mettono seicento. Deve essere ‘na roba grossa
‘n bel po’…” (?! Rimango letteralmente a bocca aperta…e non mi
sento di aggiungere altro!).
Lunedì 24/07/2000
Giornata grigia, luce diffusa…
“A me questa luce mi fa incazzare! Io voglio il sole… quando il bianco
è bianco. Il bianco serve per annullare, il nero per documentare, questa luce
qui è quella che piace a Branzi e al tuo amico Stefano…stamattina alle 7
aveva fatto già un rullino giù al molo.”
Giovedì 28/07/2000
Oggi ho
deciso di cercare la tipografia di Mario, mi aggiro per il centro di Senigallia
in cerca di quella vetrina che ho visto in varie foto che lo ritraggono. Seguo
le indicazioni che conosco, la piazza con il monumento di papa Mastai, ormai
dovrei esserci…ma… la vetrina non c’è, o meglio ci sono serrande
abbassate. Mentre penso e cerco di darmi una spiegazione, visto che cartelli non
ce ne sono, lo vedo arrivare, andandogli incontro rivolgo un cenno alle serrande
chiuse “Si, è questa… l’ ho chiusa a dicembre… sai non conveniva
più, oggi molta gente non apprezza più il lavoro dell’uomo, i suoi tempi, i
suoi ritmi…” .
Facciamo un po’ di strada
insieme continuando a parlare…
A sera vengo di nuovo a cercarti,
dopo aver sentito ancora una volta la tua voce all’altoparlante “Questa
sera alle ore 21 ballo, ballo in onore dei nostri gentili ospiti”,
ho in mano il catalogo della mostra di Rivoli del 1992, trovato la sera prima
nella libreria del corso di Senigallia, ti chiedo una dedica che concluderai con
la data “Senigallia 28/7/un anno prima del 2001” “Perché a me
questo 2000 m’ ha portato male ‘n gran bel po’!” mi dici…
Marcello Volpi
2002
Bibliografia
"Storie di Terra Mario Giacomelli" di Giorgio Gabriele Negri CittàStudi scrl Milano
"Bando" Catalogo Mostra nell'ambito della XXVII biennale d'arte contemporanea Città di Alatri - Palazzo Conti Gentili (24 aprile - 13 giugno 1999)
"Mario Giacomelli" Catalogo Mostra Mario Giacomelli 1955 - 1983 Città di Castello Biblioteca Comunale (3-30 dicembre 1983)
"Mario Giacomelli Omaggio a Spoon River" Federico Motta Editore spa Milano
"Felicità raggiunta, si cammina - Mario Giacomelli racconta" Circolo di Confusione - Riflessi Galleria dell'Immagine - Montelparo (AP)
"Omaggio a Mario Giacomelli" a cura di Antonio Rossi Associazione Culturale "Carpe Imaginem" - Alatri (FR)
"Mario Giacomelli" Collana "I Grandi Fotografi" Gruppo Editoriale Fabbri spa Milano
"Mario Giacomelli" Collana "I Maestri della Fotografia" Supplemento Bimestrale a Progresso Fotografico - Novembre 1992
Sito Web del Palazzo delle Esposizioni di Roma
Sito Web CNN Italia