La felicità consiste nell’ignoranza del vero. (Giacomo Leopardi, Zibaldone, I, 232)
Autore: Giacomo Leopardi. Metro: endecasillabi sciolti. Conservare in frigorifero. Composto fra la primavera e l’autunno del 1819. Scadenza: dicembre 1822. Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare
Analisi critico-filologica:
SEMPRE CARO MI FU QUEST’ERMO COLLE “Colle”, E’ il monte Tabor, anagramma di abort (dal latino abortus), dove il poeta soleva recarsi in compagnia di Silvia, alias Teresa Fattorini, figlia non di un fattorino, come l’etimo farebbe intendere, bensì del cocchiere di casa Leopardi, che alcuni studiosi ritengono morta di mal sottile ma in realtà scomparsa a causa di un aborto dopo una relazione con Giacomo. Da qui la doppia allegoria, posta non a caso in apertura della poesia, che è al contempo un omaggio alla donna amata ed un commosso ricordo. “Ermo”. Romito, solitario. Era, infatti, il luogo ideale per appartarsi.
E QUESTA SIEPE, CHE DA TANTA PARTE DELL’ULTIMO ORIZZONTE IL GUARDO ESCLUDE. Si riferisce alla particolarità del posto, lontano da occhi indiscreti. Il padre di Giacomo, Monaldo Leopardi, era severissimo; il cocchiere, invece, lasciava correre. MA SEDENDO E MIRANDO, INTERMINATI SPAZI DI LA’ DA QUELLA, E SOVRUMANI SILENZI, E PROFONDISSIMA QUIETE Segna il passaggio fra la visione fisica, limitata, e l’immaginario. “Ma sedendo e mirando…” Questo passo ha subìto nel corso degli anni dure critiche da parte dell’E.N.P.A. (Ente Nazionale Protezione Animali) e della L.I.P.U. (Lega Nazionale Protezione Uccelli) che vi hanno scorto un velato invito all’attività venatoria. “...di là da quella”. Non è riferito alla siepe ma sempre a Silvia. “sovrumani silenzi”. Esagerazione giovanile. Leopardi all’epoca aveva soltanto ventun anni e, come molti coetanei, amava le iperboli (cfr. P. Villaggio. Fantozzi, Rizzoli 1971. Citato come fonte anche nello Zibaldone, vedi “Il Sabato del Villaggio”). “profondissima quiete”. Descrizione didascalica, inserita per completare il verso. IO NEL PENSIER MI FINGO; OVE PER POCO IL COR NON MI SPAURA. E COME IL VENTO “io nel pensier mi fingo”. Fa finta di pensare. E’ tipico di chi si vuoi dare una posa da intellettuale. Finge di meditare su chissà quali argomenti, lo sguardo fisso nel vuoto, lontano, ma in realtà sta bene attento a quel che succede, pronto ad approfittare del momento buono per le sue avances amorose, temendo (“ove per poco il cor non mi spaura”) di andare in bianco come era successo la sera del dì di festa con Serafina Basvecchi (cfr. G. Mestica. Studi Leopardiani, 1901). ODO STORMIR TRA QUESTE PIANTE, IO QUELLO INFINITO SILENZIO A QUESTA VOCE VO COMPARANDO: E MI SOVVIEN L’ETERNO, “…odo stormir tra queste piante”. Forse in preda a sostanze stupefacenti (le piante in questione secondo F. Flora-Tutte le opere, Milano 1940-49 -altro non sarebbero che cannabis, marijuana) il poeta esce completamente di senno, crede di sentire la voce del vento e di volare in paradiso a fianco di Dio ( “e mi sovvien l’eterno”). Da notare l’uso scriteriato dell’enjambement (“quello/infinito silenzio” e successivamente “questa/immensità”), tipico di chi ha perso il senso della realtà e l’equilibrio interiore. E LE MORTE STAGIONI, E LA PRESENTE VIVA, E IL SUON DI LEI. COSI’ TRA QUESTA “...le morte stagioni”. Contrapposizione tra il tempo passato e l’ancora percepibile (“… la presente e viva”) voce di Silvia (“. . .il suon di lei”) che lo sta insultando (“Debosciato, drogato, laureato. Tu ami tua cugina, fra noi tutto è finito!” Si tratta secondo W. Binni e E. Ghidetti, Tutto Leopardi, Sansoni Firenze 1969; della cugina Geltrude Cassi Lazzari) e che lo lascerà per sempre. Questo sconvolgerà irrimediabilmente la vita di Leopardi che, solo e abbandonato, comporrà mediocri poemetti autoerotici come “A se stesso” e “Il passero solitario”, ben lontano da quelle “Operette Morali” che gli erano valse nel 1828 il premio A.C.L.I. di Recanati. IMMENSITA’ S’ANNEGA IL PENSIER MIO; E IL NAUFRAGAR M’E’ DOLCE IN QUESTO MARE. Infinitamente triste, colto da una grave crisi di sconforto, il poeta medita di suicidarsi gettandosi nell’Adriatico con in bocca una zolletta di zucchero. Ma è troppo vigliacco per farlo e lo scrive soltanto. Da vero mentecatto cercherà miseramente di giustificarsi scrivendo nella lettera a Pietro Giordani del 19 novembre di quello stesso anno, il 1819: “(...) Non ho più lena di concepire nessun desiderio, nè anche la morte; non perch’io la tema in nessun conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene più a consolarmi neppure il dolore”. Dicendo che per lui tra la vita e la morte non c’era differenza alcuna, il furbacchione trovava dunque un pretesto per non fare quello che aveva scritto nella poesia. Cosi turlupinava i suoi lettori e la faceva franca, all’anima della sincerità artistica. Quanto al fatto che non lo consolava neppure il dolore, anche questo non è vero. Ma se ne aveva sempre una! Per lui la letteratura era una vera e propria malattia che lo aveva minato dapprima nel corpo e poi nella mente. Che dire, infatti, del suo vizio nemmeno troppo segreto? (cfr. A. Zottoli. Leopardi. Storia di un’anima, Bari 1927). Frustrato dall’amore non corrisposto da Geltrude, dalla figuraccia con Serafina e dalla rottura con Silvia, passò all’altra sponda e divenne omosessuale come rivela apertamente la già citata lettera a Pietro Giordani: “Mio caro, bench’io non intenda più i nomi di amicizia e d’amore, pur ti prego volermi bene come fai, ed a ricordarti di me, e credere ch’io, come posso, ti amo, e ti amerò, sempre, e desidero che tu mi scriva. Addio”. Come una persona distinta, tal’era il Giordani, di ben ventiquattro anni più vecchio, abbia potuto intrattenere una relazione di oltre quattro lustri con Giacomo Leopardi, rimane un mistero. Infinito.
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