a... b... c... d... e... f... g... h... i... l... m... n... o... p... q... r... s... t... u... v ...
... qualcuno mi aiuti a trovare l’ultima lettera dell’alfabeto, che si è smarrita, perduta, svanita, una lettera infingarda che ritarda la chiusura della collana di perle delle lettere mai spedite, ma scritte e recitate in quanto lettere e non missive, quindi non messe lì ma spedite là, lascive carte vagabonde in giro per il mondo.
Lettere vive, cellule della parola, unite per diletto, per difetto, cresciute nell’orto della grafia, per comporre parole e concetti, lingue e dialetti, dichiarazioni di guerra e d’amore, di redditi ed atti di dolore, epigrafi e lapidi oppur versi sapidi.
Non trovo la zeta l’avrete capito, dovrei dire la z che ronza all’infinito, prima di finire su un foglio, stordita, da un tratto di penna che la taglia a metà. Voilà.
Eccola qua l’ultima arrivata, che chiude gli elenchi e i concetti pedanti dall’a alla zeta, dall’alfa all’omega se fossimo in Grecia o dotti d’antan.
Vi chiedete perchè si comincia dalla lettera A?
Ah... chissà, volendo, potremmo partire dalla B, dalla D, dalla TRI. Se ci fosse la TRI...
Ma non c’è. Si è arrabbiata perchè in questo libro non c’è. Vabbè. Però c’è la E.
Ma non serve lì... e neppure la I. Almeno non qui.
Servirebbe la H ma non parla, è muta, si sa. La O è troppo tonda e la Q è quasi uguale ma ha una gambetta in più: e questo non mi va giù.
V.
La V va bene. Iniziamo dalla V.
Con la U.
La V con la U fanno VU.
Allora la U non serve a niente.
Ma fa compagnia.
Va bene, teniamo anche la U.
Le lettere servono tutte, chi più chi meno; tranne la TRI, che infatti non c’è.
Ma l’ho già detto.
Dicevamo che iniziamo dalla V.
Anzi dalla W che vive all’estero in una casa con la I greca e la I lunga (Y e J) e con la K in cucina. Della misteriosa X nessuno sa niente, nemmeno il nome ma firma così.
Allora iniziamo con la doppia V che qualcuno legge double U e qualcun altro Viva, una sorta di esclamazione, di invito alla vita, di esaltazione di un Qualsivoglia Non So.
E diciamolo dunque Viva! Viva la doppia W! e abbasso chi la gira a testa in giù!
W le lettere dell’alfabeto, allora, e il loro antro segreto, un voluminoso volume che aprire non oso se non vengo aiutato dal fato e dal fiato per soffiare le pagine all’indice che è già
partito inumidito.
Questo libro cos’è?
Vi darò un indizio: qualcuno lo chiama Dizionario, qualcun altro Vocabolario, ma quello che ho in mano è diverso, e se si agita un po’ diventa un libro Confusionario, Parolario, Incavolario.
In una parola: Boccavolario
Boccavolario? Che libro è?
Un volario per bocche che possono o meno librarsi in volo, un cavolario dell’ohibò, un vocabolo sboccato, una voce che vola da sola o qualcosa che non vola?
Un libro chiuso come un recluso, come un refuso, come un errore, come un orrore da non mostrare, da non leggere da non rivelare, nascosto tra le righe di un volume polveroso, ponderoso, pesante e pedante come solo un vocabolario può essere, o può diventare se si sente male, se si sente male la parola e si equivoca la voce che pronuncia boccavolario invece della sua vece, del suo vice, vale a dire vocabolario - appunto - vale a dire, ma non vale.
Mi sento male, si sente male? Parlo più forte o debole è il suono? Si sente qualcosa o qualcuno non osa, dire che è vero, che è vero il falso, ma non capisce e non lo dice; oppure sente ma invece mente e sente anche bene e si sente bene, sentendosi bene. Intendo si sente. Si sente niente?
Fa niente, si deve leggere.
Apro una pagina a caso anche se il caso non esiste, anche se qui c’è scritto caso, ma non è scritto così, non è cosa, però per caso è proprio caso.
(apre il volume e legge)
Caso: avvenimento imprevisto, circostanza fortuita. Femminile: Casa: edificio, abitazione ad uso domestico. Plurale: Casi: Eventi casuali che portano a cose così.
Avete visto cosa può combinare un Boccavolario?
E’ qualcosa di più che un timido tomo, è un libero libro che libera spiriti nati da lettere vive e pagine aperte. Sostantivi sostanziosi, aggettivi aggressivi, verbi e avverbi superbi.
E complimenti ai complementi.
Questo è un libro magico che ho trovato nella biblioteca di un paesino che dire sperduto è
forse un po’ poco e allora diciamo che non l’ho più trovato quando l’ho cercato.
So solo che il nome era Quasi Così.
Volete un pronome? Aprite a casaccio e lui ve lo trova, ed è sempre corretto, va prima del nome, da buon scolaretto.
Vi serve un bignè? Lui tosto ne ha tre. Ma quello alla crema risolve il problema di chi prende il che. Si prende col the.
Una preposizione? Lui la mette lì, davanti alle altre parole, che sono nuove. E nessuna si muove, financo da sè.
Una congiunzione? Va bene anche il ma, laddove ci va.
Il Boccavolario, lui questo lo sa e per voi lo fa.
Non crediate che una volta chiuso e riposto in un posto nascosto il Boccavolario si spenga come una abat-jour. Continua a ruminar versi diversi per conto suo ed è sempre pronto per lo studente, il giornalista, la massaia, il chicchessia e per chi ne sa far buon uso.
L’altro giorno un dentista lo ha aperto ed ha tirato fuori un dente senza la D.
A proposito la Q di quadro non c’è più.
Ma è rimasto il quadro su.
Questo succede quando nessuno lo usa per un po’, dimenticandolo sullo scaffale dell’età che va.
Ogni libro di questo tipo ha la sua sensibilità.
C’è chi ha ritrovato un vecchio padrone al mercatino dell’usato e chi si è suicidato scompaginandosi.
Spesso un libro è chiuso in se stesso,
Spesso qualcosa non va e resta per lustri nell’oscurità.
Ma le parole sono tutte qui.
(Quo.
Qua.)
- E’ più forte di me, faccio sempre così -
Anche le parole mancanti, si formano d’incanto se gli state accanto.
Quel tanto che basta, o poco di più.
Il Boccavolario è come sei tu.
Anch’io oggi l’ho riaperto dopo tanto tempo, quasi l’avevo dimenticato nella stanza di là, tutto preso dal mio computer che mi parla ma non mi dice niente; ha un vivavoce poco vivace che dice e non dice e se dice non tace ma nulla realmente di magico scuce.
Ed oggi è mancata la luce.
Così sono andato a vedere una cosa con l’aria di quello che chiosa ma cosa non sa.
L’ho aperto e ne ho letto l’alfabetica prosa.
Poi l’ho richiuso.
Tac.
Più tardi ho scritto una canzone ma senza musica; avevo il pianoforte scordato, dimenticato sulle scale di un posto che più non conosco e che non trovo anche se provo; avevo le note, ma un po' sconosciute e allora ho provato a metter le lettere al posto loro, con un po' di decoro ho formato una muta armonia che risuona in silenzio come fosse poesia, ma è molto di meno.
Una specie di canzone senza suono e senza nome che fa così...posso farvela sentire?
...fa così:
Non ci sono le parole
ho cercato di……….
Non si sentono le…..
guarda, ascolta…. mi
Non ci sono le………
ho cercato di………..
io volevo anche prova... re
ma non ci riesco, non ci riesco.
Non ci sono
più persone
che mi ascolta... no.
Per favore, per favo... re
fatemi parlare:
“Volevo dire che”.
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