Esci

             

Marco G. Corsini

 

La vera storia di Romolo

e

Il substrato pelasgo-celtico della nazione etrusca      

Rovescio di denario emesso dal magistrato monetale Sex(tus) Po(mpeius Fostlus) nel 124 a. C. ca. con da sinistra a destra Faustolo la lupa con Romolo e Remo e nello sfondo il fico ruminale, su cui è appollaiato un picchio (G. G. Belloni, Le Monete Romane dell’Età Repubblicana. Catalogo delle Raccolte Numismatiche del Civico Museo Archeologico di Milano, Milano 1960, n. 532, p. 55).

   

 

Scrive Dionisio d’Alicarnasso nella prefazione della sua Storia di Roma arcaica:      « per quasi tutti i Greci la parte più antica della storia romana è ancora sconosciuta e così circolano false tradizioni, originate da racconti occasionali che hanno tratto in inganno molti… Allo scopo di rimuovere queste opinioni molto diffuse che, ripeto, sono errate e di ristabilire la verità...  per quel che concerne i fondatori della città… Attraverso questa mia opera mi riprometto di dimostrare che essi erano Greci e, per di più, provenivano da stirpi greche che non erano tra le più infime e trascurabili…  per quanto è in me, cercherò di non omettere nulla che sia degno di essere storicamente ricordato. In tal modo, oltre a fornire una ricostruzione veritiera, si mettono a disposizione gli elementi perché chi avrà appreso il vero possa giudicare in modo equo questa città… » (Dion. Hal. I, 4,2; 5, 1-2). Dunque Dionisio d’Alicarnasso si propone di scrivere con metodo scientifico, sostenendo una tesi e appoggiandola con la documentazione delle fonti: « Io sbarcai in Italia quando Cesare Augusto pose termine alla guerra civile, nel mezzo della 187a  olimpiade e da allora vissi a Roma, dove imparai a parlare e a scrivere in latino. In tutto questo tempo la mia attività è stata parallelamente rivolta ad acquisire i dati utili per l’opera che mi proponevo. Pertanto alcune informazioni le ho derivate dalle conversazioni avute con gli studiosi che ho frequentato, altre consultando le opere storiche dei più quotati autori: Porcio Catone, Fabio Massimo, Valerio di Anzio, Licinio Macro, nonché le tradizioni conservate da famiglie romane, come gli Elii, i Gellii, i Calpurnii, e da molte altre di non oscura stirpe. Solo dopo aver consultato le opere di tutti questi storici, le quali sono simili agli annali greci, ho steso la mia storia » (Dion. Hal. 7,2-3).  Dionisio d’Alicarnasso non si lasciò prendere la mano dalla tesi che voleva dimostrare ma affiancò la sua tesi con le fonti che lasciò inalterate in modo che il lettore potesse farsi la sua idea. E’ solo grazie a questo storico intellettualmente onesto che ho potuto fare la scoperta di cui do qui notizia.

 

Secondo Dionisio d’Alicarnasso Roma è tributaria di una serie di popoli e personaggi. A noi, in questo lavoro, interessa soffermarci sui tempi più recenti di Enea, Latino e Romolo, che gli storici romani consideravano contemporanei (Dion. Hal. I, 73, 1-3).  Sulla storicità di Enea, o meglio dello pseudo-Enea troiano, un capo di avventurieri o mercenari che giunto sulle coste di Lavinio « fece scorrerie nel territorio circostante  e raccolse… [materiali] la cui perdita appariva particolarmente molesta a chi li possedeva: ferro, legno, attrezzi agricoli »  e che secondo l’Eneide si scontrò con la popolazione e l’esercito  di Latino (Dion. Hal. I, 57ss), Dionisio non è stato in grado di fornire un solo straccio di prova, tranne che lo pseudo-Enea originava da Samotracia (Dion. Hal. I, 68) da cui provenivano anche i Penati che Enea aveva portato con sé  da Troia a Lavinio. Secondo lo storico Timeo di Taormina « gli oggetti sacri contenuti nei santuari di Lavinio sarebbero alcuni caducei di ferro e di bronzo, e vasellame di fabbricazione troiana. Aggiunge che queste notizie le ha avute dagli abitanti del luogo » (Dion. Hal. I, 67,4). Fra  Samotracia e  Imbro (XXIV, 78; isola, insieme a Lemno, da cui    provenivano  i Pelasgi, secondo la tradizione, Dionisio contrario, antenati degli Etruschi) era la sede marina di Teti madre di Achille e figlia di Nereo, il dio   della Nahrina, la ‘regione dei fiumi’ dell’alta Siria. Samotracia Imbro e Lemno sono citate insieme in Iliade XXIV, 753. E’ evidente dunque che questo pseudo-Enea era un pirata dei Tirreni dell’Egeo, in egizio Turša, probabilmente immigrati in Etruria dall'Egeo, e forse di origine semitica perché secondo i documenti egizi praticavano la circoncisione. Più di queste generiche informazioni non era possibile trarre dal racconto di Dionisio.  Era però tale la serietà e l’onestà intellettuale dello storico greco che il sottoscritto ha cercato e trovato conferma dell’esistenza dello pseudo-Enea sulla celebre stele di Lemno, del VI sec. a. C., che trascrive l’unica lingua confrontabile con l’etrusco, e una volta tanto grazie a Tito Livio, che per il resto tratta la storia predinastica di Roma  con estrema superficialità. La stele di Lemno, nell’area egea da cui Dionisio dice provenire lo pseudo-Enea, attesta il gentilizio Holaies che corrisponde al greco Hylaios e al latino Silvio (Dion. Hal. I, 70,2). Orbene Livio attesta che secondo la tradizione albana i dinasti discendenti di Enea portavano il gentilizio Silvio: « Quindi regna Silvio, figlio di Ascanio, nato nei boschi per un qualche caso fortuito. Egli genera Enea Silvio che a sua volta mette al mondo Latino Silvio.  Da quest’ultimo vennero fondate alcune colonie che furono chiamate dei Latini Prischi. In séguito il nome Silvio rimase a tutti coloro che regnarono ad Alba Longa » (I, 3). E’ altresì evidente che la lista regale albana è una maldestra duplicazione  di quella predinastica di Roma. Dunque un pirata in cerca dei  metalli dei Monti della Tolfa (area sotto influenza di  Tarquinia e poi di Cere: « tutti quanti i Rutuli marciarono dalle loro città contro di lui [Enea], ed era con loro Mesentio, re dei Tirreni [Livio, I, 2: re di Cere], che temeva per la sua terra e si turbava al veder crescere grandemente la potenza dei Greci » Dion. Hal. I, 64,4) nella prima metà dell’VIII secolo poteva frequentare Ischia, fondazione euboico-calcidese e da qui cercare di penetrare in un’Etruria già saldamente in mano degli Etruschi dal Villanoviano (IX sec. a. C.) con azioni veramente e propriamente militari possibili solo nell’area latina, mentre gli Etruschi occupavano già saldamente oltre all’Etruria propria, l’Etruria campana. Scrive M. Pallottino: « i Greci non arriveranno sul versante tirrenico della penisola più a nord di Cuma e salteranno l’Etruria fino a riapparire in Liguria con le colonie di Monaco, Nizza e oltre » (Etruscologia, Hoepli, 1985, p. 113-114). Dunque Enea poteva aver usurpato il trono di Lavinio e del suo scalo marittimo di Laurento solo attraverso un atto di forza. La figlia (Lavinia-Rea Silvia) del re locale Latino di Lavinio aspettava un figlio  dal suo legittimo sposo, un principe etrusco che la tradizione chiama Tirreno e che può essere stato di origine veiente o cerite. Tirreno era non solo fidanzato ma sposato con Lavinia/Rea Silvia: « i Rutuli si erano di nuovo ribellati a Latino sotto la guida di Tirreno, un disertore, cugino di Amita, moglie di Latino. Egli rimproverò il re in occasione delle nozze di Lavinia, perché aveva ignorato i legami di parentela e si era imparentato con stranieri; era incitato in questa azione da Amita e aveva l’appoggio di altri » (Dion. Hal. I, 64, 2). Dunque Lavinia era già incinta di Tirreno, ma Latino dovette cedere alla forza maggiore e stringere alleanza per via matrimoniale  con lo pseudo-Enea. C’è un buco di cinque anni  nella tradizione romana, e in quella latina che ne è un duplicato: Amulio « nominò vestale la figlia di Numitore, Ilia [da Hylaios!], o, come altri scrivono, Rea Silvia, che era in età da marito, per paura che presto andasse sposa a qualcuno e mettesse al mondo i vendicatori della sua stirpe. Non meno di cinque anni era necessario che stessero senza sposarsi le sacre vergini… Quattro anni dopo, mentre Ilia si recava nel bosco consacrato ad Ares per prendervi acqua pura da utilizzare per i sacrifici, qualcuno la violentò nel sacro recinto. Alcuni affermano che questa fu opera di uno dei pretendenti della fanciulla, altri che Amulio stesso, spinto non meno dall’intenzione di tenderle un’insidia che dalla passione per lei, si rinchiuse in un’armatura per apparire più terribile e mascherò quanto più gli era possibile i suoi lineamenti. La maggior parte, però, favoleggia che fosse un’apparizione del dio del luogo… » (Dion. Hal. 76, 3-4, 77, 1-2). Per quanto possa sembrare strano tutte e tre queste ipotesi sono logiche. Rea Silvia aspettava un figlio regolarmente da Tirreno, frequentatore della reggia di Lavinio (essendo il suo generale al tempo della guerra contro i Rutuli, prima che arrivasse Enea), che, analogamente a quella di Roma, era sede anche del culto, oltre che del re, ed era dunque facile attribuire al re uno stupro e al dio un intervento soprannaturale di fecondazione della vergine. Nella versione latina Enea fondò Lavinio al secondo anno dalla presa di Troia (Dion. Hal. I, 63, 3), sposò  Lavinia dopo la fondazione di Lavinio (Dion. Hal. I, 60, 1) e morì  al settimo anno dalla conquista di Troia (Dion. Hal. I, 65,1). Sette meno due fa cinque. Allo pseudo-Enea successe lo pseudo-Ascanio. E’ emblematico che   « al momento della salita al trono di Ascanio, Lavinia aveva avuto paura di subire qualche maltrattamento da parte di lui, a causa del suo ruolo di matrigna. Trovandosi dunque incinta, si affidò a un certo Tirreno, guardiano dei porci reali, che sapeva esser stato in stretti rapporti con Latino. Egli la condusse come se fosse una donna qualunque in boschi remotissimi, badando bene che non fosse scorta da qualcuno che la conoscesse e la mantenne in una casa che aveva costruito nel bosco, nota a poche persone. Quando il bambino nacque lo prese con sé, lo allevò, e gli diede nome Silvio…  » (Dion. Hal. I, 70, 2). Torniamo alla tradizione di parte romana. Amulio/Ascanio ovviamente perseguitò Rea Silvia e ordinò l’uccisione dei gemellini (in realtà del solo Romolo/Silvio) affidati alle acque del Tevere in una cesta (ogni riferimento a Mosè e alle acque del Nilo non è affatto  casuale). Romolo fu realmente allattato dalla madre, come abbiamo appena detto, e accuditi dal padre, che sotto le mentite spoglie di guardiano di porci si chiamava ovviamente Faustolo. La storia della lupa è connessa non solo con l’animale totemico etrusco-romano, ma anche con la mammella/mammelle simili ai colli di Roma/Ruma che in semitico significa Altura/Colle/i, e col nome lupa = prostituta che rinvia alle prostitute sacre che accompagnavano i santuari emporici  orientali incentrati sul culto di Ištar/Astarte, come quello che sorse poi sul Tevere per volere di Romolo, dove aveva passato l’infanzia, facendo decollare Roma come città mercantile (non solo agricolo-pastorale come volevano gli antichi patrizi): « Colei che allevò i bambini e offrì loro le sue poppe non fu una lupa, ma, naturalmente, una donna, la moglie di Faustolo, alla quale gli abitanti dei dintorni del Pallantio avevano applicato il nomignolo di Lupa, perché un tempo aveva prostituito la sua bellezza. E’ questo un termine greco ed inoltre antico, usato per designare coloro che procurano i piaceri dell’amore a pagamento, ora chiamate col nome più dignitoso di etere » (Dion. Hal. I, 84, 4). Dunque in entrambe le versioni la donna è incinta all’ultimo anno, l’anno della morte di Enea, l’anno dello scadere del sacerdozio di vestale, ed è quello stesso l’anno in cui la donna scappa con il marito naturale e in esilio partorisce suo figlio o l’anno in cui il piccolo,  erede al trono, viene affidato alle acque per sbarazzarsene ma viene poi allattato dalla ‘lupa’ Acca Larenzia  e da suo marito il porcaro Faustolo. I cinque anni di vuoto servono per cancellare la verità e cioè che Lavinia-Rea Silvia era in attesa di Silvio/Romolo (avuto da  Tirreno/Faustolo) già all’arrivo dello pseudo-Enea. La realtà è dunque che all’arrivo dell’usurpatore pseudo-Enea/pseudo-Ascanio la figlia del re Latino fuggì immediatamente da Lavinio col suo sposo legittimo Tirreno.

Romolo/Silvio crebbe ovviamente col padre, la madre e i fuoriusciti di Lavinio nei boschi del Palatino, possedimento dei re di Lavinio, come una specie di Robin Hood e i suoi fuorilegge. Nella versione latina, « Trascorso un po’ di tempo, quando seppe che la donna era oggetto di lunghe ricerche da parte dei Latini e che Ascanio era accusato dal popolo di aver ucciso la giovane,  rivelò loro tutta la faccenda [e cioè che lui Tirreno era il padre di Romolo e marito della figlia del re Latino] e fece uscire dalla foresta la donna e il suo bambino. Grazie a questi fatti Silvio… assunse il regno…  sebbene la successione gli fosse contestata  dal maggiore dei figli di Ascanio, Iulo, che intendeva succedere nella carica paterna. Il popolo decise col suo voto la contesa, e assieme ad altre considerazioni fu influenzato non poco dal fatto che la madre di Silvio era l’erede del regno  » (Dion. Hal. I, 70,3-4).

La versione romana è più cruda: « Romolo chiamò a raccolta tutti gli abitanti del villaggio [del Palatino] e li pregò di recarsi al più presto ad Alba, senza entrare però tutti dalla stessa  e in gruppi numerosi, per non destare il sospetto dei cittadini, e di attendere nel foro, pronti a operare come fosse stato loro comandato » (Dion. Hal. I, 81,1) « Anche i campagnoli che erano entrati in città abbandonarono il foro e convennero a palazzo, tenendo le spade nascoste sotto la veste, ed era davvero uno stuolo gagliardo. Dopo aver forzato con un attacco massiccio l’ingresso, che era presidiato solo da pochi soldati, uccisero facilmente Amulio e successivamente occuparono la rocca. Questo è il racconto di Fabio e degli storici da lui dipendenti » (Dion. Hal. I,  83,3). Si trattò di un’avventura straordinaria che avrebbe meritato da parte di Omero un poema a sé e non una trasposizione, per altro ancora straordinaria come la Vendetta sugli usurpatori di Odisseo, il re porcaro fra i porcari del fedele  Eumeo. Ora dovrò deludere i lettori parlando male del buon nonnino dei gemellini, Numitore. Non è difficile smascherare questo squallido personaggio capo dell’Aventino e dunque avversario storico della comunità del Palatino su cui Romolo fondò Roma. Debellati gli usurpatori di Lavinio, che fuggirono ad Alba Longa, vedremo poi con quali conseguenze, rimaneva in mano a costoro il caposaldo dell’Aventino, con funzione di controllo del guado del Tevere in contrapposizione alla roccaforte del Palatino, dipendente da Lavinio. Come re di Lavinio Romolo procedette alla fondazione di Roma sul Palatino ma si trovò ad avversarlo la comunità dell’Aventino retta da Numitore e dal suo agente provocatore Remo. Innanzitutto Numitore e Romolo erano avversari, e lo dimostra il fatto che i gemelli del Palatino, divenuti adulti,   « ebbero una controversia relativa ai pascoli coi pastori di Numitore, che tenevano le greggi sul colle Aventino, di fronte al Pallantio [il Palatino]. Si accusavano spesso reciprocamente di pascolare le bestie su terreni che non appartenevano loro e di monopolizzare quelli di proprietà comune, e altre dispute del genere. Da questa disputa derivarono scambi di pugni e si ricorse anche alle armi. I pastori di Numitore subirono parecchie ferite ad opera dei giovinetti, persero anche alcuni dei loro e furono scacciati a forza dalle terre contese; prepararono allora un’insidia contro di loro. Disposero un’imboscata in una forra oscura e, accordatisi sul momento dell’attacco con quelli che spiavano i giovinetti,  tutti gli altri attaccarono di notte le greggi dei due. In quel momento Romolo si era recato, assieme ai più eminenti abitanti del villaggio, in una località denominata Cenina, per farvi i tradizionali sacrifici a favore della comunità. Ma Romos [Remo], informato del loro attacco, subito si armò e, presi con sé pochi abitanti del villaggio che si erano già radunati, fece una sortita. E quelli, anziché sostenerne l’impeto, si volsero in fuga, attirandolo nel luogo loro favorevole… Allora coloro che erano appostati balzarono in piedi… avendoli così circondati e feriti con lanci di pietre, li fecero prigionieri » (Dion. Hal. I, 79, 12-14). Questa storia ci serve per comprendere una sola cosa. Remo era un volgare ladro di bestiame (almeno come ci presenta il paesaggio la storia antica; penserei piuttosto ad una taglieggiatore delle carovane lungo le vie interne terrestri colleganti l’Etruria con l’Etruria campana). Ma proseguiamo il racconto: « coloro che avevano condotto via Romos comparvero alla presenza del re [Amulio], denunciando tutte le offese che avevano subito da parte dei giovinetti e mostrando le loro ferite, minacciando di abbandonare le mandrie qualora non avessero ottenuto vendetta. Amulio, volendo compiacere i paesani venuti in gran numero, e Numitore stesso, comparso anch’egli a condividere lo sdegno dei suoi clienti, e insieme sollecito che la pace regnasse su tutta la campagna e sospettoso dell’audacia del giovane, dalle cui risposte era assente la paura, pronunciò la condanna contro di lui. Lasciò però a Numitore l’autorità di procedere alla punizione, affermando che a nessun altro più che all’offeso spetta il diritto di punire chi ha commesso un’ingiuria… Quando giunsero a casa  Numitore ordinò a tutti gli altri di ritirarsi… [e] gli disse: “ Non occorre, o Romos, ricordarti che è in mio potere infliggerti la punizione che voglio, e che coloro che ti hanno qui condotto tengono moltissimo alla tua morte, per le numerose e gravi offese subite. Ora, se io ti liberassi dalla morte e da ogni altro male, avresti riconoscenza per me e mi aiuteresti in caso di bisogno in un’impresa che sarebbe vantaggiosa per entrambi? ”. Poiché il giovane rispose quello che la speranza di salvezza fa dire e promettere nei confronti di chi ne è arbitro a chi dispera di vivere, Numitore ordinò che lo si liberasse » (Dion. Hal. I, 81,2-6). La tradizione latina ci dice con estremo candore che dopo aver ripreso il potere usurpatogli dal fratello Amulio, Numitore, invece di lasciare il regno, da buon nonnino, ai due servizievoli nipoti li mandasse allo sbaraglio a fondarsi una città, togliendoseli  dai piedi insieme a tutta la marmaglia di Lavinio,  « pensò che fosse conveniente distaccarne una parte, specialmente quella che gli era stata un tempo ostile, per non dover sospettare di essa » (Dion. Hal. I, 85, 1). Tutto falso, perché Roma fu fondata a partire da Lavinio e comunque non certo da Alba Longa, ma vero nel senso che Romolo era un avversario di Numitore che se ne sarebbe liberato volentieri. E ci provò in effetti a liberarsene, e per sempre, tramite il suo infiltrato Remo. E’ nota la discordia fra Romolo e Remo sul luogo dove fondare Roma, sul  Palatino o sull’Aventino. In realtà Romolo partì tranquillo a fondare Roma sul Palatino ma ebbe subito ostacoli dalla comunità dell’Aventino retta da Numitore e dal suo agente provocatore Remo, che ovviamente andò a disturbare i lavori con atti ostili: « scoppiò una dura battaglia con molta strage da entrambe le parti. Alcuni riferiscono che nel corso di questo scontro Faustolo… [fu ucciso]. Alcuni poi affermano che il leone di pietra che sorgeva nella parte più eminente del foro, presso i rostri, era stato eretto proprio sopra il capo di Faustolo, che era stato seppellito da coloro che lo avevano ritrovato nel punto dove era caduto » (Dion. Hal. I, 87, 1-2). Un bel sepolcro per un umile guardiano di porci… Un’ipotesi che faccio ben volentieri, data l’origine alto-siriana di Romolo come emerge inequivocabilmente a partire dai poemi omerici (vedi l’Introduzione all’Iliade e all’Odissea di Omero sul mio sito), è che il leone sia il simbolo dei re (di Giuda, e curiosamente il lupo è quello di Beniamino, con cui la tribù di Romolo ha in comune anche il ratto delle mogli, cf. Genesi 49, 9 e 27).

Romolo fondò Roma secondo il rituale etrusco, ma sarebbe più corretto dire secondo il rituale rasennio, cioè della casta d’origine siriana dominante dall’VIII secolo su Tarquinia, Roma e Cere e da qui sull’Etruria, ed assunse i simboli del potere d’origine etrusca (ma probabilmente rasenna, cioè, tanto per semplificare, simboli analoghi a quelli di cui s’erano potuti  circondare Davide e Salomone; si pensi alla toga praetexta bordata di porpora, la porpora  fenicia). Quanto all’apparato dei dodici littori (Dion. Hal. I, 29; Livio, I, 8) è verisimile  che Romolo sia stato ciclicamente eletto capo della  lega etrusca.  

Parliamo ora di Alba Longa. Alba Longa è geograficamente troppo lontana dal Palatino per pretendere seriamente di aver dato i natali a Roma. Ad Alba Longa si rifugiarono effettivamente, come esiliati, non come classe dominante, gli usurpatori stranieri di Lavinio che più tardi vantavano origini dai Troiani giunti nel Lazio al seguito di Enea. I Latini al tempo in cui Roma non se la passava troppo bene dopo la cacciata dei re etruschi propugnarono la falsa tradizione, modellata su quella romana, della dinastia dei re latini e della fondazione di Roma da parte di due ecisti provenienti da Alba Longa. La tradizione è falsa e credo di averlo dimostrato a sufficienza mettendo a confronto i passi più significativi della tradizione romana e latina raccolti minuziosamente da Dionisio d’Alicarnasso. C’è ancora da dire, ad abundantiam, che se Alba Longa fosse stata fondazione di Lavinio vi troveremmo il lari e penati di Lavinio stessa, ma ciò è alla radice smentito da Dionisio, il quale racconta: « Si racconta che all’epoca della fondazione della città [Alba Longa] avvenne un grandissimo prodigio: una volta completata la costruzione di un tempio e di un santuario destinato ad accogliere le immagini degli dèi che Enea aveva portato con sé da Troia e collocato a Lavinio, vi si trasferirono da quest’ultima città i sacri simulacri. Ma la notte successiva, nonostante che le porte fossero rimaste chiuse e i muri e il tetto non recassero tracce di effrazione, si trovò che le statue avevano mutato posto ed erano tornate sopra i vecchi basamenti. Benché fossero state là riportate da Lavinio, in mezzo a supplicazioni e sacrifici propiziatori, ritornarono comunque nello stesso luogo. Per qualche tempo gli abitanti rimasero perplessi su come dovessero comportarsi, perché non intendevano vivere lontani dai loro dèi patrii e neppure fare ritorno nella sede appena abbandonata; alla fine ricorsero a un espediente che doveva soddisfare entrambe queste esigenze. Le sacre immagini le lasciarono dov’erano, e gli uomini che avevano il compito di prendersene cura dovevano ritrasferirsi da Alba a Lavinio » (Dion. Hal. I, 67, 1-2).

Per quanto riguarda la tradizione poi prevalente (accolta dall’omerida argolico –  che forse rielabora materiale omerico –  che nel libro III dell’Iliade a fianco di Elena/Afrodite menziona i Dioscuri/Gemelli) dei due fondatori di Roma la si spiega facilmente con l’esigenza della pacificazione fra le due comunità da cui sorse Roma, per cui secondo l’antica consuetudine pacificatrice  italica, a Romolo come fondatore venne affiancato Remo. Questi sono i due Penati, « due giovinetti seduti che impugnano lance, opera di antica fattura » visti da Dionisio in vari templi antichi e in particolare in uno della Velia (Dion. Hal. I, 68, 1-2).

A conclusione di questo studio se ne devono evidenziare le due sole  importanti verità emerse, e cioè che Roma non fu colonia di Alba Longa, bensì Alba Longa fu ‘colonia’ dei rifugiati Turša/Tirreni dell’Egeo al seguito dello pseudo Enea e dello pseudo Ascanio,  e cacciati da Lavinio dai legittimi titolari della regalità Tirreno/Faustolo (Turno re dei Rutuli dell’Eneide) e Romolo/Silvio; e che appunto lo pseudo Enea e suo figlio giunto con lui sulle coste laziali non erano greci bensì appartenenti ad una delle componenti qualificanti la nazione  etrusca. Dionisio d’Alicarnasso non è in mala fede nel sostenere che lo pseudo Enea e gli pseudo Troiani al suo seguito fossero greci. Se qualcuno è in mala fede si tratta dei greci che lo hanno preceduto. Per gli antichi Greci era inconcepibile che un popolo civile potesse avere un’origine indipendente da quella greca e così (il fenomeno si può studiare anche attraverso le manipolazioni postomeriche all’Iliade e all’Odissea) per loro sia gli Etruschi che i Romani derivavano dai Greci, i primi secondo la tradizione prevalente derivavano dai Pelasgi, cioè da una popolazione preellenica da cui si dicevano originari gli stessi Ateniesi, i secondi da una serie di diverse etnie greche che tutte pretendevano aver contribuito alla nascita di Roma, e fra i personaggi più quotati era  Odisseo (Dion. Hal. I, 72).

 

Prima di Enea arrivano sui luoghi della futura Roma l’Arcade Evandro e Eracle. La tradizione di entrambi si confonde nel senso che Pallante (da cui avrebbe, ma ciò è falso, preso nome il Palatino) sarebbe ora figlio dell’uno ora dell’altro. Eracle ha dei connotati che lo avvicinano  ad un siriano, mentre « gli Arcadi avrebbero per primi introdotto in Italia l’uso dell’alfabeto greco, che, presso di loro, era apparso da poco, e la musica ricavata da strumenti, quali la lira, il tritone e il flauto » (Dion. Hal. I, 33, 4), e ancora : « I Romani parlano una lingua che non è completamente barbara e neppure del tutto greca, ma è un misto delle due, con una prevalente componente eolica » (Dion. Hal. I, 90, 1). Omero è un rasennio (della cultura mista cilicio-cipriota-siriana) che si esprime  in arcado-cipriota. Dunque la tradizione di un Enea greco (di lingua) anche se etrusco di costumi avrebbe potuto nascere da questa realtà che però appunto è etrusca di fatto.

La comunità del Palatino aveva come rivale quella dell’Aventino (fin dai tempi mitici di Eracle e Caco) che aveva parteggiato per gli usurpatori ‘troiani’. Attraverso il Palatino (e disturbata dai ‘troiani’  dell’Aventino) correva una via di comunicazione interna fra Etruria propria ed Etruria campana estremamente preziosa al tempo in cui la marineria greca (ad esempio degli Euboici) disturbava i collegamenti marittimi fra i due lembi di terra etrusca con un’intensità sempre maggiore fino a isolare l’Etruria, in concomitanza con la guerra  portatale da Roma che alla fine la sottometterà.

In un isolamento sottolineato dall’archeologo (M. Pallottino) come da Nausicaa, l’Etruria visse  una serie di vicende di popolamento che rimasero per lo più poco note o male note al punto che le notizie divulgate da qualche navigatore poterono apparire frutto di fantasia. Nel X sec. a. C. ogni tre anni la flotta di Taršiš riportava a re Salomone oro, argento, avorio, scimmie e babbuini dall’estremo occidente. Toccavano queste navi anche le coste tirreniche (« Viviamo in disparte, nel mare flutti infiniti », VI, 206, dice Nausicaa a Odisseo ed Esiodo « molto lontano, in mezzo ad isole sacre, regnavano su tutti gli illustri Tirreni », Teogonia, 1015-1016) e risalivano il Tevere fino ai luoghi alti che da loro presero il nome di Roma (il Colle/i Colli) e che già l’Eracle della tradizione raccolta da Dionisio d’Alicarnasso cominciò a civilizzare abolendo i sacrifici umani (I, 38,2ss).

La più importante ondata di diffusione culturale (più che colonizzazione o immigrazione in grande stile) fu quella dei Pelasgi (la tradizione relativa è stata documentata e discussa da Dionisio d’Alicarnasso che nega il loro rapporto con gli Etruschi, e fa male perché costituiscono un substrato culturale importante degli Etruschi come dei Romani: Dion. Hal.  I, 30, 5) – che attraverso Dodona in Epiro, l’Adriatico, Spina, la Padania e gli Appennini giungono in Etruria e nel Lazio (Dion. Hal. I, 17ss) – i  primi indeuropei che toccano non solo l’Italia ma anche l’Europa nel suo insieme e dietro i quali io vedo gli antenati del gruppo celto-germano-italico, e che  convenzionalmente chiamo  celtico con riguardo al fatto che il celtico è il gruppo linguistico indeuropeo attestato nell’estremo occidente europeo. Ero da tempo giunto alle medesime conclusioni mettendo a confronto il De Bello Gallico (e la Germania di Tacito), specie laddove si dilunga sugli usi e costumi dei Celti, e la tradizione, specie di Livio, riguardante gli Etruschi e i Romani, scoprendo straordinarie e strettissime analogie fra le due culture. L’origine dalla Tessaglia è sostenuta da tutti gli antichi a partire da Omero, ma a mio vedere porta fuori strada perché in realtà l’influenza culturale indeuropea proviene da molto più lontano e cioè dal Caucaso e dal Mar Nero. Dunque i Celti/Pelasgi costituirono l’ultimo  substrato culturale dell’Etruria e del Lazio fondendosi col substrato  ‘autoctono’ anindeuropeo appenninico e dando luogo al Villanoviano del IX sec. a. C. Questi sono già gli Etruschi, come ha insegnato M. Pallottino. Bisogna però aggiungere che questi Pelasgi sono provenienti dalla Siria-Palestina dove hanno assunto costumi semitici e sono dunque Pelasgi/Palestinesi. Come ho dimostrato con la decifrazione del Disco di Festo o Apoteosi di Radamanto, gli indeuropei arrivano in Beozia  dalla Siria (la Tessaglia è fuori), cioè da sud a nord (o meglio, considerando il movimento complessivo dal Caucaso, con un movimento in senso orario da est a ovest, che passando per la Siria arriva alla Beozia e alla Grecia in genere) al seguito degli Hyksos dal XVIII sec. a. C. in poi. Sono dunque i Filistei/Pelasgi della testina piumata del guerriero Sirio del sillabario del Disco di Festo. La cosa interessante è che la stessa tradizione ebraica che ci attenderemmo di origine semitica fa invece riferimento, come quella etrusca semitica (sia dei Rasenna che Turša/Tirreni dell’Egeo) con cui è strettamente legata, alle stesse origini dal Mar Nero e dal Caucaso (vedi Adamo ed Eva originari del giardino dell’Eden posto in Armenia - da dove si dipartivano quattro fiumi fra cui gli attuali Tigri ed Eufrate - e  l’arca di Noè, arenatasi sull’Ararat, sempre in Armenia). Di origine indeuropea è anche la tradizione della Spada nella Roccia che legittima al trono il re celta Artù, di origine hurrita, che ritroviamo presso gli Ittiti e, sia pure alterata, nella legittimazione al potere di Teseo. Una eco di questa origine la ritroviamo ricordata presso i Celti  dal monaco gallese Geraldo di Cambria della fine del XII secolo e si tratta della storia di Cessair (una donna) tra i primi ad andare in Irlanda, che compie un percorso fra l’altro affine a quello di Odisseo all’Altro Mondo da oriente a occidente. Sul popolo d’età villanoviana, e qui hanno ragione i sostenitori dell’origine orientale, nel corso dell’VIII secolo si impongono, a partire da Cere, i principi guerrieri siriani o Rasenna – cf. il nome della costa siriana che gli Egizi chiamavano Rtnw/Rsnw - il nome nazionale etrusco secondo Dionisio d’Alicarnasso, I, 30,3; i Feaci omerici  imparentati coi Giganti siriani (e vicini ai Ciclopi artigiani e metallurgi, non pastori antropofagi  come Polifemo, che comunque, scherzosamente, Omero colloca sempre in Siria) e come questi figli degli dèi. Parafrasando Virgilio (Eneide VIII, 479-480) che questo avrebbe detto se non fosse stato all’oscuro dei fatti come Erodoto (influenzato da tardi logografi lidi in un periodo di intensi rapporti dell’Etruria con la  Ionia d’Asia) e seguenti da cui attingeva, la siria gente in guerra illustre di Agylla/Cere che ci ha lasciato i  tumuli monumentali di Cere e Palestrina ricchi di oggetti preziosi siro-ciprioti di stile orientalizzante,  impose ben presto la sua leadership sul resto dell’Etruria e sulla confinante Roma, fino a Pontecagnano in Campania. Si tratta di una fase di esplosivo arricchimento e civilizzazione dell’Etruria che viene proiettata in cima a tutte le altre dell’Europa, Grecia compresa. Ciò determina un ottimismo direttamente proporzionale al pessimismo degli Eubei in declino che a celebrare i funerali del re di Calcide con la Teogonia chiamano  il pessimista Esiodo delle Opere.

Se Omero conobbe la storia di Romolo la conobbe o come testimone o dal racconto degli antichi testimoni di quella straordinaria avventura.  Certo Omero fu affascinato da questa storia che narrava di un principino destinato a regnare e defraudato dei suoi diritti da un usurpatore, che era stato costretto a vivere tra i porci come il cencioso Odisseo presso il fedele Eumeo, ma che alla fine s’era presa la sua vendetta ed era salito sul trono che gli spettava per diritto di nascita. Omero fu affascinato da questa storia perché visse una storia analoga, lui di nobile nascita rasenna esattamente come Romolo, dovette vivere forse all’inizio ai margini di quella splendida società aristocratica. E forse egli dovette partire da zero e divenire quel grande cantore imparando da autodidatta, ma, come Romolo, anche lui alla fine riuscì a prendersi quel posto che gli competeva,  come divino cantore di corte (e la posizione non era di piccolo conto), nella società aristocratica da cui proveniva almeno per parte di madre. Così si esprime per bocca del porcaro Eumeo: « dei nostri affanni tristi godiamo a vicenda, riandandoli; ché anche dei mali, passato il tempo, si gode, chi molto ha dovuto soffrire e molto vagare » (Od. XV, 399ss).

La strage dei Proci, ovvero dei pretendenti di Penelope, non è altro che la strage di usurpatori stranieri che  distruggono gli averi di Odisseo mentre attendono che Penelope si decida a sposare uno di loro. Ma questa è una scusa, come capisce la stessa Penelope: « pretendenti alteri, che su questa casa d’un uomo da tanto tempo lontano piombate a mangiare e bere continuamente, e non poteste trovare nessun pretesto di finte parole, ma solo perché mi fate la corte e mi volete sposare » (Od. XXI, 68ss). I Proci non si curano infatti di stabilire sull’isola un regolare governo, che si preoccupi dell’esazione dei tributi per le spese pubbliche in cui rientra anche il banchetto pubblico. Da vent’anni a questa parte i beni pubblici amministrati a suo tempo da Odisseo sono  esauriti e nessuno s’è preoccupato di reintegrarli, cosicché sono i beni propri di Odisseo che i Proci depredano, dunque i Proci sono invasori stranieri, popoli del mare o Dori, non certo i principi del regno d’Odisseo.

                               

 

Esiste una relazione di parentela fra Beniaminiti e Romani  

Al seguito di Mosè gli ultimi Hyksos (vedi il culto del serpente Apopi) giungono in Israele. Costituiscono una federazione intorno alla città santa di Silo verso il 1200 a. C. e un quartiere fenicio a Memfi con culto di Afrodite/Elena e Dioscuri dove bazzicano i mercenari/giganti guerrieri Ceretei/Ceriti? (vedi il vaso di Bocchoris da Tarquinia; ai Ceretei possiamo aggiungere in ipotesi anche i pirati Tjekker o Teucri – altro nome dei Troiani non impiegato da Omero – di Dor in Palestina, e i Tirreni/Tursha mercenari degli Egizi) che poi giungono a Roma al seguito di Romolo. Anche se l’Enea di Dionisio d’Alicarnasso in quanto figlio di Afrodite e mercenario potrebbe apparire della stessa origine di Romolo, non è altro che un tirreno dell’Egeo  (che con gli Ebrei può aver avuto in comune la circoncisione ma probabilmente nulla di più)  e dunque va semmai riferito alla precedente stratificazione villanoviana e non agli  Etruschi/Rasenna. Enea è più che altro frutto di ipotesi cervellotiche sulla base di indizi anche epigrafici (stele di Lemno) e linguistici e delle menzogne di Omero. E’ evidente che il dio sciacallo Seth degli Hyksos e dei Siropalestinesi diventa il lupo  dei Romani, o meglio la lupa trasfigurazione di Elena, che prende vari nomi a seconda dei culti e delle tradizioni. I Ceretei vivevano nel Neghev (1 Samuele 30,14) e dunque adoravano verisimilmente lo sciacallo del deserto. Anche i Beniaminiti avevano tale origine (intermedia) e culto se consideriamo l’etimologia del loro nome, Ben Iamin, Figlio del Sud (questa era e rimane una mia adattazione del nome  “figli della destra” riguardo alla sede intermedia – il deserto – da cui i Beniaminiti mesopotamici devono essere passati prima di confluire nella sede storica). Tutto parte dal santuario di Memfi dove era stato trovato Mosè (nella cesta come Romolo e Remo), dove si tramandavano le tradizioni del santuario di Silo e dove Erodoto (II, 112) colloca il fatto che ispirò a Omero il ratto di Elena. Si tratta certamente di un mito che intende spiegare l’arrivo a Memfi (da Ascalona in Siria) e poi da Memfi a Sparta (e a Roma) del culto di Afrodite/Elena e dei Dioscuri, cioè dei Cabiri/Pateci protettori della navigazione. Ovviamente il culto dei Dioscuri si sovrappone a quello del fondatore Romolo (aggiungendo Remo) per motivi anche di pacificazione fra le due comunità del Palatino e dell’Aventino e poi con Tullo Ostilio fra le due comunità ramnense/romana e latina/albana, la cui tradizione faceva capo all’Aventino. Il  lupo di Beniamino (Genesi, 49,27) è la tribù più guerriera di tutto Israele, costituente la forza militare e lo stato di Israele a partire da Saul, che quando si rivolge ai suoi sudditi in armi  li chiama appunto Beniaminiti, ricomprendendo in questo nome tutti gli altri guerrieri di Israele.   

L’origine dei Beniaminiti, letteralmente  i “figli della destra”,  è però più antica e parte da almeno il secondo millennio a. C. quando erano stanziati  sulla riva destra dell’Eufrate, contrapponendosi all’interno dei beduini Hanei  all’altra grossa tribù dei Bensim’aliti (i “figli della sinistra”). Al tempo in cui Zimri-Lim divenne re di Mari e dunque dei Hanei e degli Akkadi della regione « alcuni Beniaminiti, forse scacciati dalla loro tribù, andarono a rafforzare un gruppo di hābiru (grosso modo gruppi nomadi di “zingari” di allora), che spostandosi verso occidente e vagando qua e là andò probabilmente a formare il primo nucleo di Ebrei » C. Saporetti, La rivale di Babilonia, Storia di Ešnunna ai tempi di Hammurapi, Newton & Compton, Roma, 2002, p. 259.

Akkad era la grande potenza (ai tempi di Sargon) a nord della Mesopotamia, mentre al tempo di Zimri-Lim l’unica grande potenza era la babilonia di Hammurapi, a sud.

Gli usi e costumi di Mari erano particolari. Un fido di Zimri-Lim gli consiglia di entrare per l’intronizzazione a Mari su una portantina accompagnato da muli, come era in uso tra i sovrani amorrei, e non su cavalli (Saporetti, op. cit.,  p. 259). In questo periodo fa la sua rapida ascesa, seguita da un’altrettanto rapida fine, il regno di Ešnunna a sud, che si avvale dell’alleanza dei terribili guerrieri Beniaminiti. Questi avevano occupato Ahumâ e Tuttul sul fiume Balih e avevano stretto alleanza coi re della confederazione di Zalmaqqu tramite l’uccisione rituale… di un asino nel famoso tempio di Sin a Harrān (Saporetti, p. 270). In una lettera inviata a Zimri-Lim da un suo fido si legge un avvertimento datogli dagli dèi: « C’è da temere che il re, senza sentire il parere degli dèi, faccia un trattato con l’uomo di Ešnunna, così come aveva fatto prima, quando i Beniaminiti sono scesi e si sono installati a Saggarātum. Allora ho detto al re di non uccidere un asino maschio per i Beniaminiti: li rimanderò nella confusione dei loro nidi, ed il fiume li finirà per te… » (Saporetti, p. 298).

Dunque, nonostante io stesso abbia cercato di aggiustare le cose pensando (in altri lavori) piuttosto ad un cavallo (animale di Poseidone/Proteo/Conso), è proprio vero quello che sostiene unanime la tradizione greco-romana: gli Ebrei (di cui i Beniaminiti costituivano il nocciolo duro) adoravano l’asino. Ci si chiederà allora come si concili l'asino con lo sciacallo, poi lupa romana. L'asino era l'animale impuro del malvagio Seth/Tifone (uccisore del buon fratello Osiride) che gli Egizi raffiguravano come un canide dalla testa strana con le lunghe orecchie mozze e un muso simile a quello del formichiere (anche se l'animale di Seth non è stato ancora identificato con precisione: e probabilmente perché è di fantasia, come la sua coda a forma di freccia, del resto) e che verisimilmente  gli Hyksos, che ne fecero appunto uso antiegizio, raffigurarono anche con Anubi, il dio sciacallo, figlio di Neftis, moglie di Seth. Per il rituale si veda anche la lettera in cui si dice che Atamrum e Asqur-Addu      « strinsero alleanza e l’asino maschio fu ucciso. L’uno fece prestare all’altro il giuramento sul dio, e si misero presso la coppa.  Come arrivarono alla coppa e ne ebbero bevuto il contenuto, l’uno fece dono all’altro », (Saporetti, p. 360) e poi ognuno se ne tornò a casa sua. Concludendo, le sole due tribù evidenziate col racconto della loro storia antica nell’Antico Testamento (Giudici 17ss) sono i Daniti o Danai, giunti via mare (Popoli del mare) da occidente e da cui Omero fa derivare i Danai o Greci, e i Beniaminiti, i guerrieri da cui originano i Ramnenses di Romolo, i Romani. I Romani sono dunque un popolo assai antico, che visse ai tempi d’oro di Egizi, Babilonesi e Cretesi-Micenei. Tutto il resto degli Ebrei  era costituito da quell’accozzaglia di popoli che erano gli Hyksos cacciati dall’Egitto e dagli indigeni integrati in Palestina.  

   

 

 

Esci