Esci  

 

 

L’Odissea è a giudizio di chi scrive la più antica opera letteraria e il più grande capolavoro della letteratura occidentale e dunque mondiale. Incentrandosi sul culto del santuario pirgense di Ino Leucothea faceva di Odisseo, il protagonista, una incarnazione di Adone, l’amante che moriva e risorgeva di Afrodite di Cipro,  che a Pyrgi non è ancora stato identificato con questo nome (come invece a Gradisca porto di Tarquinia) ma può essere venerato sotto le sembianze di Apollo, dio che sostiene Odisseo nella prova dell’arco e nella strage dei Proci o di Eracle, in età postomerica. Che l’Odissea sia stata un capolavoro mediatico lo dimostra il fatto che su di essa e sul culto di Adone che essa adombrava in Odisseo (ma anche sulla figura di Ettore nell’Ira d’Achille, sempre omerica) Giovanni evangelista creò il mito di Gesù di Nazareth e una religione che ha varcato il secondo millennio di  vita.

 

Marco G. Corsini

 

 

Apollo dall'arco d'argento è protagonista della peste pretesto dell'Ira d'Achille, e della prova dell'arco e della strage dei Proci con cui si chiude l'Odissea

 

« L'uomo ricco d’astuzie raccontami, o Musa, che a lungo

errò dopo ch’ebbe distrutto la rocca sacra di Troia;

di molti uomini le città vide e conobbe la mente,

molti dolori patì in cuore sul mare,

lottando per la sua vita e pel ritorno dei suoi.

Ma non li salvò, benché tanto volesse;

per loro propria follìa si perdettero, pazzi!,

che mangiarono i bovi del Sole Iperìone,

e il Sole distrusse il giorno del loro ritorno.

Anche a noi di’ qualcosa di queste avventure, o dea, figlia di Zeus »

                      (Proemio dell’Odissea, trad. di Rosa Calzecchi Onesti)

 

L’Odissea di Omero,

L’epopea dell’Impero etrusco-romano

 

(Preliminare alla lettura di questo lavoro è l’altro, sul mio sito: Introduzione all’Iliade e all’Odissea)

 

Così inizia l’Odissea, ma tale era già l’inizio del nucleo originario del poema, il Viaggio d’Odisseo (salvo eventualmente l’invocazione esplicita ad Aurora/Leucothea di Pyrgi piuttosto che alla Musa o ad Atena figlia di Zeus, introdotta dalle  manipolazioni ordinate da Pisistrato tiranno d’Atene nella seconda metà del VI secolo a. C.), che s’occupava del solo viaggio di ritorno dalla guerra decennale di Troia a Itaca e non prevedeva  l’uccisione dei pretendenti della moglie Penelope, alla latina Proci, gli usurpatori del suo regno. E’ anche evidente che in questa fase del poema Omero riteneva Odisseo e i suoi compagni perseguitati dall’egizio Sole “Che cammina in alto” e non da Atena, e soprattutto da Poseidone siro-etrusco (irato perché Odisseo ha accecato l’occhio a suo figlio Polifemo), come poi stabilirà nell’Odissea. Per questo motivo,  completata l’Odissea, Omero dové allungare il proemio, che diventa così un prologo:

« Allora tutti gli altri, quanti evitarono l’abisso di morte,

erano a casa, scampati dalla guerra e dal mare;

lui solo, che sospirava il ritorno e la sposa,

la veneranda Calipso, la splendida dea, tratteneva

negli antri profondi, volendo che le fosse marito.

E quando anche l’anno arrivò, nel girare del tempo,

in cui gli filarono i numi che in patria tornasse,

in Itaca, neppure là doveva sfuggire alle prove,

neppure fra i suoi. Tutti gli dèi ne avevan pietà,

ma non Poseidone; questi serbava rancore violento

contro il divino Odisseo, prima che in patria arrivasse » (I, 11-21)

L’Odissea si svolge durante 24 giorni di durata assai disuguale, ciò che ha dato l’idea agli editori alessandrini  di dividere l’opera in 24  libri di ampiezza simile. Nel mio lavoro seguirò l’originale suddivisione omerica  per giorni.

 

Primo giorno, libro I

Poseidone però è andato presso gli Etiopi, che gli hanno offerto dei sacrifici, e così il concilio degli dèi presieduto da Zeus s’è riunito per decidere il ritorno di Odisseo dall’ « isola in mezzo all’onde, dov’è l’ombelico del mare », Ogigia, nome di fantasia berbero, punico,  perché chiaramente inizia con la “u”, dunque  identificabile con buona probabilità con la Sardegna (colonizzata dai punici, i fenici occidentali).

I moderni non hanno compreso cosa significa in realtà il “ritorno” di Odisseo nello sfondo (e nemmeno troppo nello sfondo) della concezione omerica. Non è un ritorno fisico dalla guerra di Troia quanto un ritorno metafisico dall’al di là dove il pirata distruttore di rocche (che è morto da qualche parte, probabilmente nella Colchide di Circe, la porta dell’Inferno) s’è purificato dai suoi peccati e ha imparato che a comportarsi bene, seguendo le regole del buon commercio propugnato da Tarquinia sotto Demarato corinzio (il committente del Viaggio d’Odisseo), ci si guadagna più che a distruggere Troia e a depredarne le favolose ricchezze e le donne stupende. Dunque, scontati un anno nell’Inferno di Circe, e sette  nel Purgatorio di Calipso, Odisseo è pronto per passare dal Paradiso di Arete, o piuttosto di Nausicaa, e, reincarnato, tornare a Itaca, dove i suoi necessitano del suo aiuto. Si può anche ritenere che gli dèi abbiano deciso una riduzione di pena per Odisseo proprio in considerazione di Telemaco e Penelope che tribolano sotto l’oppressione dei pretendenti, gli occupanti dori o chi per loro.

Omero era consapevole delle tradizioni celto-siriane secondo cui Ogigia (che secondo Plutarco, De facie in orbe Lunae, 26, era ad occidente della Britannia) e l’isola di Crono e Giapeto cui  accenna il libro VIII dell’Iliade (sempre secondo Plutarco la più occidentale fra le isole a occidente di Ogigia) si trovavano ad occidente oltre le colonne d’Ercole, nell’oceano Atlantico settentrionale, come  i Campi Elisi di tradizione egizia del libro IV dell’Odissea. V’è da dire che a queste tradizioni secondo cui i defunti vivono sul suolo in una parvenza della vita terrena, alla maniera della credenza egizia ed etrusca, Omero intreccia la concezione ebraica (ed etrusca tarda) dell’Ade sotterraneo, dove vagano senza uno scopo le spente ombre degli uomini che furono. Questo diventa il suo Inferno, presso il popolo dei Cimmeri, all’estremo  occidente, sulle rive del fiume Oceano  che si raggiunge dalla Colchide della maga  Circe, cui contrappone il Purgatorio della ninfa Calipso e il Paradiso della Scheria della regina Arete e di sua figlia Nausicaa (da cui Odisseo, anima reincarnata, si ritrova a Itaca in un battibaleno sulla nave magica dei Feaci che viaggia con la velocità del pensiero fasciata di nebbia). E’ Omero che ha inventato il Purgatorio e non i preti medioevali. Questo è lo sfondo, da tenere sempre presente dietro quello che solo in apparenza è  un ritorno in carne ed ossa. In carne ed ossa (o meglio anima reincarnata) Odisseo è realmente solo nella seconda parte dell’Odissea, da quando si risveglia a Itaca.

Il ritorno a Itaca nell’Odissea è perorato da Atena, perché a  Itaca, isola greca, il numen loci è Atena. Atena pertanto è già presente nella Telemachia premessa da Omero stesso al Viaggio proprio perché sarà sempre lei la protettrice di Odisseo a Itaca. Ciò ha comportato una discrepanza col Viaggio, dove Atena non era prevista come protettrice di Odisseo perché qui la protettrice era  Ino Leucothea  numen loci di Pyrgi, la città dei Feaci dove  Odisseo –  in origine –  l’etrusco, cioè l’alto siriano, riferiva al suo re e alla sua regina sul suo viaggio esplorativo nel Mediterraneo orientale e nel Mar Nero, dove per gli scali aveva sempre preferito le isole e mai la terraferma, proprio come i suoi cugini Fenici. Di più, Atena vi era menzionata proprio come la dea ostile agli Achei e a Odisseo nel ritorno da Troia, come dicono senza mezzi termini nel Viaggio d’Odisseo Nestore di Pilo e Ermete, che riporta il  messaggio dello stesso Zeus alla ninfa Calipso. L’Odissea fu completata da Omero probabilmente senza nessuna sponsorizzazione e semmai per la sponsorizzazione di un re di Roma, probabilmente lo stesso Tullo Ostilio dell’Ira d’Achille, perché le vicende di Odisseo a Itaca sono ispirate alla storia di Romolo e suo padre per la riconquista del trono perduto dal secondo. Pertanto non c’è da fare per l’Odissea il discorso che riguarda solo l’Iliade, che non è omerica bensì opera di Greci che esaltano l’elemento greco e degrada quello troiano:

« Ma il mio cuore si spezza per Odisseo cuore ardente,

misero!, che lunghi dolori sopporta lontano dai suoi,

nell’isola in mezzo all’onde, dov’è l’ombelico del mare:

isola ricca di boschi, una dea v’ha dimora,

la figlia del terribile Atlante, il quale del mare

tutto conosce gli abissi, regge le grandi colonne,

che terra e cielo sostengono da una parte e dall’altra.

La figlia sua trattiene quel misero, affitto,

e sempre con tenere, malïose parole

lo incanta, perché scordi Itaca. Invece Odisseo,

nel desiderio di scorgere sia pure il fumo che s’alza

dalla sua terra, vuole morire… » (I, 48-59)

 

Dunque Zeus decide il ritorno di Odisseo a Itaca, e Atena propone di mandare subito Ermete da Calipso a riferirle la volontà degli dèi mentre lei stessa si recherà da Telemaco per fargli coraggio e indurlo a compiere un viaggio fino a Pilo e Sparta per chiedere informazioni sulla sorte del padre e anche perché         « nobile gloria lo coroni fra gli uomini ».

Se vogliamo questo intervento di Atena (strettamente legata a Zeus in quanto nata dalla sua testa, cioè dalla cosa più importante di Zeus, il suo pensiero) che decide tutto da sola è uno dei più infelici di Omero, perché non ha senso allontanare Telemaco da Itaca proprio ora che Odisseo sta per tornarvi (quale gloria può poi acquistare Telemaco con un viaggio di piacere, comunque mai paragonabile alla gloria di Oreste che, alla stessa età, ha già vendicato l’assassinio  del padre Agamennone?), e perché poi nel libro V ritroveremo Atena a chiedere il ritorno d’Odisseo e a lamentarsi che i Proci vogliono uccidere Telemaco nel viaggio di ritorno a Itaca. Ma se questa ripetizione è il risultato del difficile raccordo fra Telemachia e Viaggio d’Odisseo che iniziava appunto dall’attuale libro V, cui era unito il proemio dell’attuale libro I, una ragione per cui Omero ha realizzato la Telemachia, a parte introdurci Telemaco e Penelope e i loro guai, è che il racconto delle avventure di Menelao era troppo bello per non essere inserito, e ugualmente suggestivo era il soggiorno presso Nestore di Pilo, il saggio Matusalemme greco. Il viaggio non rende Telemaco più sveglio, dato che poi, per distrazione, lascerà aperta la porta del magazzino delle armi, fatto di cui approfitteranno i Proci e che renderà più problematica la difesa di Odisseo e dei suoi due allevatori di bestiame. Viceversa è una occasione per gettare lo sguardo sugli antefatti del ritorno, sulla favola della guerra di Troia (che è una trasfigurazione del movimento dei popoli del mare e della colonizzazione greca dell’Asia Minore), sullo scenario epocale in cui si inserisce, sulla civiltà che ne fa da cornice.  In Egitto Menelao incontra il dio profetico  Proteo che sta a Jahvè e Zeus come la figlia Eidotea (detta poi Theonoe) sta alla Sapienza e ad Atena. Ne deduciamo che come  gli Ebrei hanno preso la scrittura dai Fenici che a loro volta l’hanno derivata dagli Egizi, con lo stesso identico percorso hanno tratto il loro dio da quello diffuso a partire dall’Egitto nel Levante e dal quale gli stessi Romani hanno tratto il loro Conso/Poseidone. Mentre il Conso romano era rappresentato dal cavallo ora è appurato che il dio ebreo era rappresentato dall’asino, come del resto la tradizione greco-romana ha sempre sostenuto (vedi il mio lavoro su Romolo su questo sito, e in particolare l’appendice su Romani e Beniaminiti).

Atena dunque arriva al palazzo d’Odisseo sotto le mentite spoglie di Mente re dei Tafi e subito si imbatte nei Proci che se la godono a spese di Telemaco                (« …divorano impunemente l’altrui, gli averi di un uomo di cui l’ossa bianche alla pioggia marciscono sopra la terra, o forse nel mare l’onda le rotola.  …il giorno del suo ritorno è perduto!… l’hanno travolto le Arpie, senza gloria »):

« La vide per primo Telemaco simile a un dio;

sedeva tra i pretendenti, crucciato nell’anima,

sognando il nobile padre nel cuore, se a un tratto venisse

e liberasse da tutti i pretendenti la casa,

e riavesse il suo onore e sopra i suoi beni regnasse.

Questo, seduto fra i pretendenti, sognava, e vide Atena » (I, 113-117)  

Abbiamo visto che Odisseo si strugge e  « nel desiderio di scorgere sia pure il fumo che s’alza dalla sua terra, vuole morire… » (I, 58-59) e che il concilio degli dèi ha deliberato finalmente il suo ritorno, ma probabilmente è proprio l’intensità con cui Telemaco è concentrato sulla figura del padre di cui desidera ardentemente il ritorno a mettere in moto le potenze superiori in base al potere della mente dell’uomo quando sia esercitata a pensare o sia emotivamente alterata.  

Atena/Mente dice di avere con Odisseo un rapporto di ospitalità di lunga data (e del resto i Tafi vivono sul ‘continente’, l’Epiro appunto, a poca distanza da Itaca; tra l’altro proprio le loro –  anche dei Tesproti e degli Itacesi –  azioni piratiche contro le navi mercantili di passaggio per il golfo di Corinto, città d’origine del mecenate del Viaggio, Demarato Bacchiade, diede ad Omero l’idea dell’Odisseo pirata e furbo matricolato figlio di degno padre Sisifo corinzio da collocare a Itaca) e di aver caricato ferro, ovviamente a occidente, nei Monti della Tolfa (che al tempo erano sotto il controllo di Tarquinia come il porto di Pyrgi), per scambiarlo con bronzo a Temèse di Cipro. Invita Telemaco a mettersi in viaggio in cerca di notizie riguardanti il padre. Lei stessa gli procurerà nave e compagni. Quella sera Telemaco

« andò a letto, pensando molte cose nel cuore.

E accompagnandolo, fiaccole accese portava la saggia,

fedele Eurìclea, figlia d’Opo Pisenorìde,

che un giorno Laerte si comprò coi suoi beni,

giovanissima ancora, e pagò venti buoi...

Costei, seguendo Telemaco, portava le fiaccole accese: ché molto

tra tutte le schiave lo amava, lo aveva nutrito da bimbo.

Gli aprì la porta della solida stanza,

e lui sedette sul letto, si tolse la tunica morbida

e la gettò fra le mani della vecchia prudente:

essa piegò, lisciò con cura la tunica,

e l’appese a un piolo, vicino al letto a trafori:

poi uscì dalla stanza, tirò per l’anello d’argento

la porta e ne fece scorrere con la correggia il paletto.

Là tutta notte, ravvolto in un vello di pecora,

meditò nel suo cuore il viaggio che Atena ispirava » (I, 427-444)  

Con questo passo entriamo nell’intimità del mondo etrusco vissuto da Omero, che fu certamente un antico Emilio Salgari che viaggiò più che altro con la fantasia, vivendo fra Tarquinia e Roma e dunque immaginando il mondo del 1200 a. C. ca. con gli occhi di un etrusco (o Rasenna come si chiamavano gli Etruschi dopo che i  principi orientali della costa siriana arrivarono e fondarono la civiltà etrusca detta orientalizzante) del VII secolo la cui civiltà, attardata su modelli siro-micenei di provenienza cipriota e siro-cilicia, facilitava questo processo. Dunque quando leggiamo i poemi omerici dobbiamo tenere presente che il loro contenuto è prima di tutto etrusco-romano e subordinatamente, quasi solo per la lingua, greco, ma greco cipriota, vale a dire sempre un aspetto della civiltà siriana, ovvero fenicia. E’ stato un grosso errore dei moderni quello di credere alla grecità di Omero e dei suoi poemi.  Di greco i poemi omerici hanno solo il committente corinzio (il solo Viaggio d’Odissea) e i destinatari, e solo per questo hanno come protagonisti dei greci, Odisseo o Achille (nell’Ira d’Achille, il nucleo originario di quello che poi sarà il poema non omerico dell’Iliade), e devono divertire i Greci, soprattutto i ricchi mercanti e gestori di capitali da investire nell’Alto Lazio presso i santuari-banca di Ino Leucothea a Pyrgi (Santa Severa) e di Mater Matuta sul Tevere a Roma. Ma il vero protagonista è il  marinaio etrusco con la sua curiosità (e la “talassocrazia” di Tarquinia, per cui Lemno e Imbro potrebbero essere fondazioni etrusche d’età rasennia), nel caso di Odisseo e il soldato cittadino che combatte per la sua patria destinata a perire ma dalle cui ceneri rinascerà Roma capitale del mondo, nel caso di Ettore.

 

Secondo giorno,  libro II.  

Telemaco convoca l’assemblea, che mai prima d’ora era stata convocata dalla partenza di Odisseo e cioè da quasi vent’anni. Se si pensa poi che Telemaco riesce a convocarla nonostante sia praticamente sequestrato in casa dagli occupanti dori (e poi riesca a partire senza che Euriclea riferisca alla sovrana Penelope) ne deriva senz’altro che l’Odissea è una favola, una bellissima favola. Naturalmente Omero cerca (ma nemmeno troppo) di dare alla favola un aspetto realistico e allora cerca di spiegare la riuscita della partenza di Telemaco con nave e compagni con una sottovalutazione del pericolo da parte dei Proci e con la loro ubriacatura che fa sì che Telemaco se la possa svignare in tutta tranquillità. Infatti Atena, che questa volta prende le sembianze di Mentore cui Odisseo aveva affidato la cura della casa,  si incarica di trovare nave e marinai per il viaggio e poi, recatasi a palazzo,   

« là sui pretendenti dolce sonno versava: e li faceva

tentennare nel bere, faceva cadere di mano le coppe.

Quelli a dormire si sparsero subito per la città, non rimasero

ancora a sedere dopo che il sonno sulle palpebre cadde » (II, 395-398)

 

Allora Atena/Mentore, Telemaco e gli altri  salpano:  

« Per loro buon vento moveva Atena occhio azzurro,

Zefiro acuto stridente, urlante sul livido mare.

Telemaco, incitando i compagni, esortava

a manovrare i paranchi, e quelli obbedivano all’ordine:

l’albero, un tronco d’abete, nel foro del trave mediano

piantarono sollevandolo, poi gli stragli legarono,

issarono le vele bianche con forti ritorte di cuoio.

Il vento riempì la vela e l’onda spumosa

urlava forte intorno alla chiglia, mentre correva la nave.

Correva sull’onda la nave, affrettando il cammino.

Tutta la notte corse la nave e all’alba compiva il cammino » (II, 400-434)

 

Nell’Introduzione, influenzato dalle mie letture, ho eccessivamente enfatizzato l’importanza dei versi identicamente ripetuti (come quest’ultimo) nell’Odissea e nell’Ira d’Achille (e a maggior ragione nell’Iliade che ci interessa ma non come opera omerica). Omero scrive poeticamente e come gli viene, liberamente,  senza alcuno schema predeterminato. Solo rarissimamente, a parte gli epiteti ripetitivi che scandalizzano qualcuno (ma questi non possono  essere continuamente variati senza diventare inutili, perché non caratterizzerebbero più il personaggio) ricorre a ripetizioni di versi per le azioni più ovvie e normali e cioè il mangiare, la navigazione, il girare del giorno, ecc. Personalmente anche in ciò trovo varietà rispetto ad un testo che fosse tutto e monotonamente vario.

 

Terzo giorno, libro III.  

Al mattino la nave sbarca sulla riva di Pilo dove regna Nestore, quello della famosa coppa a due manici che regna sulla terza generazione, ciò che gli conferisce anche un’aureola di saggezza.  Egli non sa che fine abbia fatto Odisseo perché di ritorno da Troia hanno preso due vie differenti (c’è un passo che sembra imitare il passaggio del Mar Rosso: « Chiedevamo che il dio ci mostrasse un prodigio: e ce lo mostrò, ci spinse a fendere il mare nel mezzo, verso l’Eubèa, perché più presto sfuggissimo ai mali » III, 173-175).  

Omero esprime per bocca del saggio Nestore la sua credenza epicurea e democritea ante litteram secondo cui il destino la vince perfino sugli dèi, che dunque sono impotenti:  

« Certo, la morte crudele nemmeno gli dèi

possono allontanarla da un uomo, anche amato, nel giorno

che Moira funesta di morte lungo strazio lo colga » (III, 236-238)  

Questa visione proviene ad Omero dalle sue origini culturali alto-siriane dove da millenni gli dèi stanno a guardare dall’alto con apprensione le vicende dei re ed eroi loro figli. Questi ultimi agiscono e spesso si uccidono in battaglia. Quelli non ci possono fare niente e se anche si mettono a combattere in difesa dei loro figli terreni, e per avventura si feriscono, ciò non sarà mai sul serio, perché sono immortali. Questa loro onnipotenza sterile diventa comica nell’Ira d’Achille a scapito degli dèi greci.  

Nestore consiglia a Telemaco di recarsi a chiedere se ne sa qualcosa a  Menelao, che da poco è tornato dalla guerra di Troia,  

« da popoli, donde non spererebbe nel cuore

di tornare chiunque le procelle spingessero

in mare tanto vasto, dove neppure gli uccelli

lo stesso anno ripassano, perché è vasto e terribile » (III, 319-322)

 

Alla mattina del giorno seguente, quarto giorno, Nestore fa accompagnare Telemaco da suo figlio Pisistrato alla guida di un cocchio. Pernottano nel palazzo di Diocle d’Ortiloco a Fere.

 

Il quinto giorno i due partono da Fere e arrivano a sera al palazzo di Menelao a Sparta.  

 

Sera del quinto giorno, libro IV.  

Menelao sta festeggiando con un banchetto le nozze della figlia Eurinome con Neottolemo figlio d’Achille e del figlio Megapente con la figlia d’Alettore spartano:  

« Così banchettavano nell’alta, gran sala

vicini e compagni di Menelao glorioso,

con gioia: cantava tra loro il divino cantore

sonando la cetra, due acrobati intanto

davano inizio alla festa roteando in mezzo » (IV, 15-19)

 

Menelao ha molto viaggiato in paesi noti, come Fenicia, Cipro, Egitto, Libia, Etiopia, altri forse solo di fantasia, come il paese degli Erembi. Omero rende così favolosi anche i paesi perfettamente noti. Del resto dice che:  

« in Libia… gli agnelli nascono già con le corna,

tre volte nel giro d’un anno figliano i greggi:

là padrone   o pastore mai prova mancanza

di cacio, di carne, di dolce latte,

ché inesauribile il latte offrono sempre da mungere » (IV, 85-89)  

Si tratta di una relazione commerciale di viaggio, di quelle che i mercanti etruschi facevano al loro re di ritorno dai viaggi di perlustrazione in oriente.  

Arriva Elena e riconosce in  Telemaco i tratti del viso di Odisseo. Per far cessare il dolore dei ricordi mescola nel vino un farmaco egiziano datogli da Polidamna moglie di Toni. Toni o Toone secondo Erodoto  era il funzionario egizio che aveva fermato Paride, Elena e le ricchezze sottratte  da questi dal palazzo di Sparta. Dunque Elena a Sparta non era mai arrivata. Di più, Elena non era fuggita  da Sparta, bensì da Ascalona in Siria dove era venerata in un santuario, il più antico dedicato ad Afrodite Urania, come ci conferma Erodoto. Elena era una dea e non una donna. Elena era un aspetto o un nome con cui Afrodite Urania veniva chiamata in occidente. Elena o Afrodite Straniera aveva un tempio anche a Memphi, in Egitto, nell’accampamento dei Tiri (Τυρίων στρατόπεδον, Erodoto, II, 112). Qui stanziavano i mercenari che a bordo di navi da guerra veloci combattevano a servizio di tutti i re del tempo, e fra questi mercenari c’erano i famosi Beniaminiti ebrei il cui emblema guerriero era il lupo e un cui ramo  ad un certo momento,  forse abbastanza prima dell’VIII secolo, prese il nome di Ramnenses, i Romani di Romolo. Fu da Memphi che Menelao riportò Elena a Sparta. Omero intendeva attraverso Elena, dea del matrimonio tramite rapimento (i Romani rapirono latine e sabine nel corso delle festività del dio federale Conso nel 749 a. C. come i Beniaminiti, originari del medio corso dell’Eufrate, rapirono molto tempo prima le ragazze delle tribù ebree – con cui si volevano fondere diventando ebrei essi stessi –  nelle festività del santuario federale di Silo), ovvero del matrimonio di elementi stranieri (per lo più mercenari) con quelli locali, costituire un antico legame di sangue fra Troiani (e dunque Romani) e Siriani (ma questo era riconoscibile solo ai Romani stessi che conoscevano bene le loro origini) e in apparenza  Greci (e forse ancor più Spartani) in quanto il poema era diretto ai Greci e doveva solleticare il loro orgoglio nazionale e invitarli a commerciare a Roma intorno al santuario-banca di Elena e i Dioscuri  sul Tevere. Elena e i Dioscuri, i protettori dei naviganti, in origine erano stati gli dèi protettori dei mercenari Ramnenses a Memphi. D’altra parte, poiché l’elemento latino di Roma si riteneva di origine greca, attraverso il mito del rapimento di Elena e della guerra di Troia Tullo Ostilio, il terzo re di Roma di origini latine e committente dell’Ira d’Achille  si riprometteva di pacificare fra loro l’elemento romano e quello latino da poco sottomesso completamente a Roma con la distruzione di Alba Longa e la deportazione a Roma della sua popolazione.

 

Il giorno seguente, sesto giorno dell’Odissea, Menelao chiede a Telemaco il motivo della sua visita e gli dice che  non sa che fine abbia fatto Odisseo.

La cosa più degna di nota della permanenza a Sparta di Telemaco è il racconto dell’incontro di Menelao col dio Proteo di Faro in  Egitto, che consente di notare che questa divinità uranica (perché probabilmente rappresentata col disco solare sulla testa) siriana verisimilmente dalla forma affine a quella di Dagan alto-siriano, cioè metà uomo e metà pesce (vedi anche il Poseidone del Disco di Festo su questo sito), corrispondeva al dio ebraico delle origini, data la sua capacità di assumere tutte le forme di tutte le essenze, proteiforme appunto:  

« Dunque ancora in Egitto, bramoso di tornar qui, mi tenevano

i numi, perché non avevo compito rituali ecatombi

Un’isola c’è nel mare flutti infiniti,

davanti all’Egitto, la chiamano Faro,

tanto lontana quanto in un giorno una concava nave

cammina, a cui soffi dietro un vento sonoro;

e in quella c’è un porto buoni ancoraggi, donde le navi diritte

spingono in mare, quando hanno attinto acqua bruna.

Qui venti giorni gli dèi mi trattennero e mai a soffiare

i venti marini s’alzavano…

E ormai le provviste tutte si consumavano e le forze degli uomini,

se una dea non aveva pietà e mi salvava,

la figlia di Proteo gagliardo, il Vecchio del mare,

Eidotea; a lei moltissimo il cuore commossi » (IV, 351-366)  

Notiamo prima di tutto che secondo la prassi fenicia, e i poemi appartengono a quella che si può definire civiltà fenicia (anche se è soprattutto civiltà etrusca), i marinai cercano di stabilirsi sulle isole davanti alla costa, isole idonee soprattutto per gli ancoraggi e per l’approvvigionamento d’acqua.

Eidotea sta ad Atena e alla Saggezza divina dei Proverbi come il Vecchio del mare, cioè Proteo, sta a Zeus e al Dio ebraico, che poi è il Conso romano. Poiché gli stessi Ebrei sostengono di essere giunti dall’Egitto con Mosè è evidente che a partire dal Delta, circolava nel Mediterraneo  una divinità proteiforme che ha dato vita al Conso dei Romani/Beniaminiti (i Beniaminiti adoravano l’asino, trasformato dai Romani nel cavallo di Conso/Poseidone) e più tardi, dopo una lunga evoluzione e soprattutto in età post-esilica sotto la direzione dei profeti, al dio ebraico che conosciamo. Il dio ebraico non nasce dal nulla bell’e formato come Atena dalla testa di Zeus, ma è frutto di evoluzione storica come tutti gli altri dèi dell’uomo, fatti a sua immagine e somiglianza. Il dio degli ebrei è soprattutto irascibile e inutilmente tirannico. Inutilmente perché la Palestina (sia detto con la più grande obiettività) è un dono troppo misero per giustificare un così totale asservimento dell’uomo ai  dictat di qualsiasi dio, o meglio a quelli del clero. (Viceversa l’Italia è – solo naturalisticamente parlando – fra i  paesi più belli del mondo e non a caso ha dato vita al poeta più laico del mondo.)  E infatti tutta la storia degli Ebrei si può sintetizzare così. Un dio che insegue il suo popolo prediletto che a sua volta lo rinnega di continuo preferendo gli dèi degli altri popoli.

Per comprendere le cause della contrarietà degli dèi e trovare la via del ritorno, Eidotea suggerisce a Menelao di interrogare suo padre Proteo « il quale del mare sa tutti gli abissi » e così preparano un agguato al dio proteiforme:  

« Quando il sole raggiungerà il mezzo del cielo,

allora esce dal mare il Vecchio marino verace,

nascosto nel brivido bruno,  sotto il soffio di Zefiro,

e, uscito, dorme nelle cave spelonche;

intorno a lui le foche piedi natanti della bella Figlia del mare

dormono strette, uscite dal mare schiumoso,

l’acuto odore del mare ricco d’abissi emanando.

E ti dirò anche tutte le malizie del Vecchio:

prima riconterà le foche, le passerà in rassegna,

e poi quando tutte le avrà numerate e vedute,

si stenderà in mezzo a loro come pastore fra greggia di pecore » (IV, 400-413)  

Ecco allora che Menelao e i suoi compagni, travestiti con pelli di foche, si appostano sulla spiaggia e appena Proteo si mette a dormire gli saltano addosso e lo afferrano. Questo, nel tentativo di liberarsi diviene  « ogni cosa che in terra si muove, e acqua e fuoco che prodigioso fiammeggia ». E’ evidente  che Proteo è il Vertumnus (quasi Vertomenos, participio di  verto,  ‘Colui che si trasforma’) etrusco. Può assumere tutti gli aspetti solo perché contiene in sé tutte le realtà, come il dio degli ebrei.

Interrogato, Proteo afferma che Menelao deve tornare al Nilo, il « fiume caduto dal cielo » e fare sacrifici agli dèi. Solo così potrà finalmente ripartire verso casa. Menelao ne approfitta per chiedere la sorte degli altri eroi greci e fra questi Agamennone, suo fratello, assassinato « a banchetto, come s’uccide un toro alla greppia. Nessuno restò dei compagni d’Atride che lo seguivano, nessuno di quelli d’Egisto, ma nel palazzo s’uccisero », e Odisseo che « ancora vivo nel vasto mare è impedito » da Calipso.  

Proteo predice a Menelao che dopo morto andrà nella pianura Elisia, ai confini del mondo, dov’è il biondo Radamanto, e ciò perché è marito d’Elena, e per i numi è genero di Zeus. Questo discorso ci fa capire che Elena era legata all’Egitto anche se connessa all’elemento siriano; e anche Radamanto era un faraone egizio, probabilmente uno di quelli che aveva contribuito alla cacciata degli Hyksos dall’Egitto durante la XVII dinastia.  

Intanto a Itaca Penelope, venuta a sapere della partenza di Telemaco è prostrata dal dolore e alla fine  

                   « un sonno profondo la colse:

dormì appoggiata all’indietro, e tutte le giunture si sciolsero.

Allora altra cosa pensò la dea Atena occhio azzurro,

fece un fantasma e il corpo formò simile a donna,

a Iftime, la figlia del magnanimo Icario.

Entrò nella stanza lungo la cinghia del chiavistello,

le stette sopra la testa e le disse parola:

“ Dormi, Penelope afflitta nell’animo?

No, non vogliono i numi che vivono facile vita,

che tu pianga e ti crucci, perché è già di ritorno

il tuo figliolo… ”

E le rispose allora la saggia Penelope,

soavemente assopita dentro le porte del sogno:

“ Perché vieni, sorella? Tu prima

non ci venivi spesso, abiti casa molto lontano…” » (IV, 793-811)  

Il fantasma la tranquillizza sulla sorte di Telemaco mentre non risponde riguardo a quella di Odisseo:  

« “ No, questo non te lo dirò chiaramente,

se è vivo o morto: è male far chiacchiere al vento. ”

Così dicendo pel chiavistello svanì

nei soffi del vento: balzò su dal sonno

la figlia d’Icario: e il suo cuore era pieno di gioia,

perché chiaro sogno nel cuore della notte le venne » (IV, 836-841)  

Intanto i Proci  preparano l’agguato a Telemaco nascosti dietro l’isoletta di Asteride, fra Itaca e Same.

 

Settimo giorno, libro V.  

Con questo libro iniziava il Viaggio d’Odisseo. Nella sua stesura attuale pone problemi per il suo raccordo con la Telemachia in quanto il libro I suggerisce che inizio del viaggio di Telemaco alla ricerca del padre e ritorno di Odisseo dall’isola di Ogigia avvengano contemporaneamente (e infatti Odisseo e Telemaco arrivano a Itaca a breve distanza uno dall’altro). Dato però che Omero non altera il Viaggio d’Odisseo per armonizzarlo con l’Odissea, ne risulta che Atena è costretta di nuovo a lamentarsi del ritardato ritorno di Odisseo e solo ora Zeus invia Ermete con il messaggio per Calipso:  

« … non fu sordo il messaggero Argheifonte.

Subito sotto i piedi legò i sandali belli,

ambrosii, d’oro, che lo portavan sul mare

e sulla terra infinita, insieme col soffio del vento.

E prese la verga con cui gli occhi degli uomini affascina,

di quelli che vuole, e può svegliare chi dorme.

Questa tenendo in mano, volò il potente Argheifonte.

Sulla Pieria balzato,  piombò dal cielo sul mare;

e si slanciò sull’onde, come il gabbiano,

che negli abissi paurosi del mare instancabile,

i pesci cacciando, fitte l’ali bagna nell’acqua salata;

simile a questo, sui flutti infiniti Ermete correva » (V, 43-54)  

Omero identifica indubbiamente Ogigia con la Sardegna, che costituisce l’ombelico del bacino occidentale del Mediterraneo. Dalla Sardegna in (dice nel Viaggio) venti giorni (in realtà la permanenza di Poseidone per dodici giorni presumibili presso gli Etiopi riduce a tre i giorni impiegati per raggiungere la terra Feacia, il dodicesimo giorno dall’inizio dell’Odissea) Odisseo raggiunge con una zattera e poi a nuoto la Scheria dei Feaci e cioè l’Etruria degli Etruschi e più esattamente Pygi porto (allora) di Tarquinia. L’interpretazione del Purgatorio di Sardegna e del Paradiso d’Etruria (l’Inferno è pure a occidente ma vi si accede da oriente, dalla Colchide di Circe a sottolineare che l’occidente è assai più favorevole ai Greci dell’oriente da cui provengono) è confortata dal fatto che Esiodo nella Teogonia definisce l’Italia  ‘isole sacre’ (anche la penisola, ritagliata dal continente dai fiumi Po e Rodano  considerati confluenti fra loro  e col Reno che sbocca nell’Oceano).  

Degna di nota è la descrizione dell’‘isola lontana’, come Omero chiama Ogigia:   

« Ma quando arrivò nell’isola lontana,

allora, dal livido mare balzato sul lido,

andava, finché fu alla grande spelonca, dove la ninfa

trecce belle abitava: e la trovò ch’era in casa.

Gran fuoco nel focolare bruciava e lontano un odore

di cedro e di fissile tuia odorava per l’isola,

ardenti; lei dentro, cantando con bella voce

e pecorrendo il telaio con spola d’oro, tesseva.

Un bosco intorno alla grotta cresceva, lussureggiante:

ontano, pioppo e cipresso odoroso.

Qui uccelli dall’ampie ali facevano il nido,

ghiandaie, sparvieri, cornacchie che gracchiano a lingua distesa,

le cornacchie marine, cui piace la vita del mare.

Si distendeva intorno alla grotta profonda

una vite domestica, florida, feconda di grappoli.

Quattro polle sgorgavano in fila di limpida acqua,

una vicina all’altra, ma in parti opposte volgendosi.

Intorno molli prati di viola e di sedano

erano in fiore; a venir qui anche un nume immortale

doveva incantarsi guardando, e godere nel cuore » (V, 55-74)  

E’ questa un’immagine del Paradiso Terrestre di biblica memoria con i suoi quattro fiumi che nascono da un’unica sorgente. Ermete fa il suo rapporto, nel quale la divinità che si oppone al ritorno di Odisseo è… Atena:  

« Dice dunque [Zeus] che un uomo c’è qui, su tutti infelice,

quanti eroi intorno alla rocca di Priamo lottarono

nove anni, e al decimo anno, distrutta la rocca,  partirono

verso la patria: ma nel ritorno offesero Atena,

che contro di loro scagliò mal vento e flutti giganti.

Poi tutti gli altri perirono, i suoi forti compagni;

lui il vento e l’onda, spingendolo, gettarono qui.

Questo Zeus ti comanda di far partire al più presto » (V, 105-112)

 

La povera Calipso raggiunge Odisseo seduto su un promontorio che guarda lontano l’orizzonte, desideroso di raggiungere Itaca:  

« Accanto gli stette e gli parlò, la dea luminosa:

“ Infelice, non starmi più a piangere qui, non sciuparti

la vita: ormai di cuore ti lascio partire ” » (V, 159-161)  

Eppure la dea gli aveva proposto di sposarlo e di renderlo immortale. Ogni orientale, da Gilgameš in poi, avrebbe dato un occhio o un braccio pur di diventare immortale. Perfino gli Ebrei, per cui la vita su questa terra è anche peggio della morte (vedi ad esempio il libro di Giobbe), vorrebbero rendere questa parvenza di vita o parvenza di morte, eterna (gli Ebrei antichi non credono come gli Egizi ad un al di là felice, bensì  squallida ombra della vita terrena), e ciò solo per… ringraziare o anche farsi notare da un dio – degno di essere adorato solo perché ritenuto onnipotente; una specie di sindrome da rapimento –  che li ignora, come del resto loro ignorano lui. A questa visione davvero limitata del senso della vita Omero, che pure trae origine da quello stesso mondo, accetta la morte come destino degli uomini, anzi, la preferisce, perché ad essa sono legate delle persone che si sono conosciute e amate (Penelope) e si vuol condividere la loro stessa sorte piuttosto che perderle per una vita immortale che non solo sarebbe priva di quelle persone ma anche estremamente noiosa, come appare tutta la vita degli dèi omerici, risvegliati da una botta di vita solo quando sono costretti ad occuparsi  delle vicende   dei loro protetti umani, ma con la stessa efficacia di tifosi che guardano una partita di calcio. E’ la vittoria definitiva del bene contro il male, della civiltà occidentale contro l’orientale, e mai, dico mai, nessuno riuscirà a metterla in crisi, nemmeno i nuovi barbari, nutriti di ideologia giudeo-cristiana e con l’esercito più potente del mondo.

 

Il giorno seguente, ottavo giorno, dopo che Calipso gli ha giurato che non gli macchinerà alcun danno (Odisseo non si fida degli dèi, nemmeno della sua “protettrice” Atena; può essere più ateo di così, Omero?) si mette a costruire una zattera. Qui c’è da dire che Omero ha dovuto raccordare la cronologia del Viaggio con quella dell’Odissea e dunque certe indicazioni che dava sulla durata della costruzione della zattera o sulla durata del viaggio fino alla terra dei Feaci non possono più essere accolte. Dunque dovremo aggiustare noi la cronologia e ritenere prima di tutto che si contano i giorni in cui  l’azione di Odisseo è descritta nel suo svolgersi effettivo e non come un ricordo riassuntivo, e così diremo che il nono giorno  dall’inizio dell’Odissea, Odisseo prende il  mare navigando seguendo il corso delle stelle. Naviga per qualche giorno e il dodicesimo giorno è in vista della terra dei Feaci. Ma a questo punto Poseidone torna dalla terra degli Etiopi. Conferma di questa cronologia è data dal fatto che anche nell’Ira d’Achille, l’altro poema omerico, Zeus è stato nella terra degli Etiopi per dodici giorni e dunque questo era stato programmato da Omero come arco di tempo idoneo ad inserirvi un intermezzo. Abbiamo anche visto che nell’Odissea i viaggi di Telemaco e Odisseo sono concepiti, nei limiti del possibile (cioè senza alterare il Viaggio d’Odisseo) come simultanei e della stessa durata:  

« Eccolo là, certo i numi han cambiato pensiero

per Odisseo, mentr’ero in mezzo agli Etiopi:

Già s’avvicina alla terra Feacia, dove gli è fato

sfuggire  al  termine grande di pianto  che lo minaccia:

ma voglio spingerlo ancora a saziarsi di mali » (V, 286-290)

 

Così Poseidone suscita una tempesta  che sballotta la zattera d’Odisseo. Si avvede di tutto la dea Ino-Leucothea dal suo santuario di Pyrgi nelle cui acque Odisseo si trova. Gli si presenta in forma di folaga, uccello acquatico, e gli dice:  

« “ Infelice, perché Poseidone Enosìctono

t’odia paurosamente, e tanti mali ti semina?

ma non potrà distruggerti, per quanto lo brami.

Fa’ dunque a mio modo…

togliti queste vesti, in preda ai venti la zattera

lascia, e a forza di braccia, nuotando, avvicinati

alla terra Feacia, dove è fato per te di salvarti.

E tieni, questo velo sotto il petto distendi,

immortale: non avrai più timore di soffrire o morire.

Appena avrai toccato con le mani la terra,

scioglilo e scaglialo ancora nel livido mare,

molto lontano da terra, ma tu voltati indietro. ”

Così dicendo gli diede il velo la dea,

e lei di nuovo nel mare s’immerse,

come una folaga: la coprì il flutto nero » (V, 339-353)  

 

Come sempre Odisseo non si fida degli dèi e allora solo quando la zattera si sfascia si lega al petto il velo magico e si mette a nuotare:  

     « … lo vide il possente Enosìctono,

e scosse la testa e disse al suo cuore:

“ Adesso erra pel mare così, molte pene soffrendo,

finché verrai tra uomini alunni di Zeus.

Spero che non potrai lamentarti della tua parte di mali. ”

Così dicendo frustò i cavalli belle criniere,

e venne ad Ege, dov’è il suo nobile tempio » (V, 375-381)  

Nell’Introduzione (vedi nel mio sito) ho rilevato la stretta dipendenza del formulario omerico e di alcune storie dall’Antico Testamento e più in generale, com’è presumibile, della cultura letteraria cipro-siro-cilicia che  Omero, probabile poliglotta per nascita, conobbe nelle lingue originarie, greco e aramaico. Da un rapido esame della letteratura egizia (E. Bresciani, Letteratura e poesia dell’antico Egitto, Einaudi) pare doversi ricavare che, sia pure attinta in modo  ovviamente indiretto, fu proprio da questa che Omero ricavò i maggiori suggerimenti e il canovaccio della sua Odissea, come il naufrago e il gigante (Il racconto del naufrago, Medio regno), l’arco duro piegato come da un costruttore esperto, come nella Prova dell’arco (Stele della Sfinge di Amenofi II, Nuovo regno), la schiava che lavora alla macina e che può dire, perfino lei, una bella parola, magari profetizzando a favore di Odisseo (Insegnamento di Ptahhotep, Antico regno), gli uomini ricordati perché sono buoni e dimenticati perché cattivi, come dice Penelope (Stele di Montuhotep, Medio regno), i palazzi ornati d’oro col soffitto di lapislazzuli, le pareti d’argento, i pavimenti di sicomoro, le porte di rame e i chiavistelli di bronzo, come quelli di Menelao e Alcinoo (Insegnamento di Amenemete I figlio di Sesostri, Medio regno), quanto è bello raccontare perfino i momenti dolorosi quando sono passati, come dice Eumeo, e rivedere i propri cari e la propria casa come ritiene Odisseo (Il racconto del naufrago, Medio regno),  ancor più il precetto di dar da  mangiare all’affamato, vestire l’ignudo e, cosa importante, traghettare chi non ha barca (Autobiografia di Herkhuf, Antico regno; meno bene Le avventure di Sinuhe, Medio regno), e anche il parlare al proprio cuore, cioè con se stessi,  come fanno Poseidone e lo stesso Odisseo (Lamentazioni di Khakheperraseneb, Medio regno). A questo stadio del mio approfondimento della questione sarei perfino tentato di affermare metà e metà l’apporto siro-egizio nell’Odissea anche se Omero dovette avere dell’Antico Testamento (e della cultura siriana più in generale) un apporto diretto tramite la madre di nobiltà rasenna, e uno indiretto della cultura egizia, tramite i racconti dei mercenari tirreni a servizio dei faraoni del periodo oscuro. Se Ege menzionata è quella di Eubea, com’è probabile, allora l’attacco di Poseidone ad un vascello (la zattera) nelle acque antistanti Pyrgi richiama le scorrerie dei greci Euboici di Pitecusa, dopo che la cordata di imprenditori etruschizzati ed etruschi guidati dal corinzio Demarato   assunsero in proprio la gestione dei traffici dei beni locali con l’oriente escludendone gli Euboici che prima ne avevano il monopolio (vedi anche il vaso di Aristhonotos da Cere con battaglia navale fra oneraria etrusca e nave pirata greca euboica). Altro accenno agli euboico-calcidesi ci sarà nel libro VII, 321ss quando Alcinoo racconta un episodio della più antica storia dei Feaci/Etruschi quando erano nient’altro che Siriani, o Rasenna, e fornirono a Radamanto faraone egiziano (e anche re di Creta con capitale Festo) la nave con cui questo si recò (andata e ritorno in un giorno presumibilmente da Festo) in Eubea a punire il gigante (dunque appartenente alla casta regale) Tizio che aveva offeso Latona madre del Sole e dunque del faraone stesso, incarnazione del dio Ra.

 

Odisseo erra per il mare due giorni e dunque il 12° e 13° dall’inizio del poema. Al terzo, il quattordicesimo, un’immane ondata lo trascina contro un’aspra costiera e nuotando giunge alla foce di un fiume, quello nel cui alveo fu realizzato il canale d’ingresso al porto di Pyrgi.  Uscito dal fiume Odisseo getta nel fiume il velo che  Leuchotea emerge ad afferrare, poi trova un riparo di fortuna per la notte e sfinito si addormenta.

 

Quindicesimo giorno, il primo tra i Feaci, libro VI.  

Ispirata in sogno da Atena (sostituita  senza necessità alcuna ad Aurora/Ino Leucothea e dunque con una interpolazione che potrebbe essere stata voluta da Pisistrato d’Atene) Nausicaa si reca a lavare i panni con la speranza di incontrare marito. La fonte, dove si lavano le sporcizie anche spirituali, è quella del paradiso di Scheria e Nausicaa ne è la dea. Stesi i panni ad asciugare in riva al mare Nausicaa e le sue ancelle giocano a palla ma questa finisce  in acqua e le grida delle fanciulle fanno svegliare Odisseo che dorme nei pressi. Odisseo si presenta a Nausicaa quasi questa fosse una manifestazione di Ino Leucothea e certamente questa figura femminile, la più bella dell’Odissea, può essere stata la musa ispiratrice del Viaggio, forse una figlia di Demarato corinzio, mecenate e committente del poema, forse una giovane etrusca amata dal poeta. Vorremmo saperne di più:  

« Io mi t’inchino, signora: sei dea o mortale?

Se dea tu sei, di quelli che il cielo vasto possiedono,

Artemide, certo, la figlia del massimo Zeus,

per bellezza e grandezza e figura mi sembri.

Mai cosa simile ho veduto con gli occhi,

né uomo né donna: e riverenza a guardarti mi vince.

In Delo una volta, così, presso l’ara d’Apollo,

vidi levarsi un fusto nuovo di palma:

Così, ammirandolo, fui vinto dal fascino

A lungo, perché mai crebbe tale pianta da terra,

come te, donna, ammiro, e sono incantato e ho paura tremenda

ad abbracciarti i ginocchi: ma duro strazio m’accora » (VI, 149-169)  

La similitudine della palma ha un parallelo nel Cantico dei Cantici (attribuito dalla tradizione a re Salomone), la cui redazione attuale è del V o IV sec. a. C.: « La tua statura rassomiglia a una palma » (7,8).  

Odisseo chiede aiuto. Vuole uno straccio da mettersi addosso e recarsi alla rocca a chiedere di essere accompagnato a Itaca. Nausicaa replica che è stato fortunato a capitare tra i Feaci perché nulla gli mancherà di ciò che è necessario. I Feaci sono gli Etruschi, che hanno una civiltà di tipo orientale trapiantata nel lontano occidente. E’ una civiltà isolata, non un’isola. Dice Nausicaa:  « Viviamo in disparte, nel mare flutti infiniti, lontani ».  

L’attardamento dovuto all’isolamento periferico rispetto alla civiltà orientale ha conservato in Etruria in età storica quegli elementi della civiltà antica micenea e orientale  trasmessile dall’area siro-cipriota-cilicia prima che anche questa cadesse sotto il colpi dei movimenti dei popoli del mare prima e degli assiri poi. La civiltà etrusca dunque è la punta avanzata in  occidente della civiltà antica, la testa di ponte fra oriente e occidente, fra mondo anteriore e posteriore agli anni bui.  

Secondo uno spirito caritatevole che trova il suo corrispondente più vicino nella Autobiografia di Herkhuf dell’Antico regno e poi nel libro di Giobbe, che però è più tardo dell’Odissea e dove non si parla di trasporto del bisognoso a casa, Odisseo vien fatto lavare, ungere d’olio, vestire, mangiare e bere. (Alcinoo dirà: « L’ospite, il supplice, è come un fratello per l’uomo che abbia anche solo un poco di senno » VIII, 546-547) Poi Nausicaa decide che è ora di tornare a palazzo e sale sul carro con le ancelle mentre Odisseo segue a una certa distanza per non suscitare pettegolezzi sulla giovane che è ancora vergine e priva di fidanzato.

Arrivati in città egli entra nel palazzo di Alcinoo. Nausicaa infatti gli aveva dato questo consiglio:  

« traversa subito la grande sala e avvicinati

alla madre: al focolare lei siede, nella luce del fuoco,

girando un fuso purpureo, meraviglia a vederla,

a una colonna appoggiata: dietro le ancelle siedono.

Qui, accanto a lei, s’appoggia il trono del padre,

che beve il vino, seduto, e pare un nume immortale.

Passagli avanti e abbraccia le ginocchia alla madre

nostra, ché il giorno del ritorno tu veda

con rapida gioia, anche se vieni da molto lontano.

Se lei per te è ben disposta nell’animo,

allora spera di rivedere gli amici e tornare

alla tua solida casa e alla terra dei padri » (VI, 304-315)  

Qui abbiamo anche l’accenno al matriarcato etrusco e ai lavori di porpora tipici dei fenici e dunque dei Rasenna, di origine fenicia, gli Etruschi.

E’ nella terra dei Feaci che cominciamo a trovare l’ossessiva presenza di Atena che non solo deve ammettere di non essere stata presente durante il Viaggio (ha avuto paura, dice, di suo zio Poseidone irato con  Odisseo perché ha accecato l’unico occhio a suo figlio Polifemo), quando Odisseo ha dovuto affrontare da solo tanti pericoli mortali, ma si avventura addirittura in apprezzamenti non richiesti contro i Feaci che invece soli aiuteranno Odisseo e lo riempiranno di doni, più di quelli che aveva arraffato a Troia e perduto in mare (e questo non può che derivare da interpolazioni da parte di greci,  invidiosi della civiltà etrusca che non ha diritto di superarli e dunque va sminuita facendola apparire barbara, ed è questa l’impressione che si ha a leggere certi passi interpolati probabilmente per iniziativa di Pisistrato d’Atene):

 

Continua il 15° giorno nel libro VII.  

« Tu cammina in silenzio, e io mostrerò la via;

e non guardare, non interrogare persona.

Costoro non vedono volentieri gli estranei,

non fanno cordiale accoglienza a chi venga da fuori » (VII, 30-33)  

Questa è palesemente propaganda cattiva contro gli Etruschi (il corinzio Demarato può a buona ragione essere considerato un etruschizzato convinto) che hanno creato l’Odissea e di cui Pisistrato d’Atene si vuol servire come cosa sua per celebrare Atene tramite l’omonima dea Atena nemica di Odisseo e degli Achei (la cosa curiosa è che Eracle l’eroe caro a Pisistrato, è trattato malissimo da Omero in tutte le circostanze in cui è citato). Dunque l’usurpazione operata da Pisistrato d’Atene è tanto assurda quanto facilmente smascherabile.  

I Feaci occidentali, cioè gli Etruschi, appartengono alla casta orientale dei Giganti, cioè dei re guerrieri che a loro volta si identificano con i più antichi Hyksos. I Giganti vivono in Siria vicini ai Ciclopi (VII, 205-206), la casta dei mirabili estrattori di metalli (raffigurati con un occhio, quello del lume indossato in testa che illumina il loro lavoro nelle miniere) e metallurgi che realizzano opere d’artigianato inimitabili. Polifemo, pastore, è con tutta evidenza un Centimane  di fatto, un membro dell’ultima casta, quella degli agricoltori e allevatori. E tuttavia Odisseo incontra Polifemo in oriente e non in occidente, prima di passare lo stretto fra Calabria e Sicilia verso occidente dove toccherà Sicilia (le vacche del Sole di Trinacria), Sardegna (Ogigia di Calipso) ed Etruria di Arete e Alcinoo.

Alcinoo, figlio di Nausitoo (capostipite dei Feaci  occidentali, figlio di Poseidone e Peribea figlia di Eurimedonte re dei Giganti superbi, popolo che fu sterminato come dice anche Genesi 6, che riguarda la corruzione dell’umanità e il diluvio) sposò la figlia di suo fratello Rexenore dunque sua nipote Arete:  

« e l’onorò, come nessuna sulla terra è onorata,

fra quante donne reggono ora una casa, sottomesse al marito,

tanto di cuore è stata onorata ed è ancora

dai figli suoi, da Alcìnoo medesimo,

e dal suo popolo, che, come una dea guardandola,

con saluti l’accoglie quando passa in città.

Né certo manca di nobile senno,

e a quelli che ama, anche a principi, appiana contese » (VII, 67-74)

 

Odisseo giunto davanti al palazzo di Alcinoo si ferma estasiato ad ammirare:  

« Come splendore di sole c’era, o di luna,

nell’alta casa del magnanimo Alcìnoo.

Muri di bronzo di qua e di là s’allungavano

dalla soglia all’interno; e intorno un fregio di smalto.

Porte d’oro la solida casa dentro chiudevano,

d’argento s’alzavano  su bronzea soglia gli stipiti;

e l’architrave di sopra era d’argento, d’oro l’anello: » (VII, 84-90)  

Ritengo che Omero debba aver avuto davanti agli occhi l’Insegnamento di Amenemet I figlio di Sesostri, del Medio regno:  

« Mi sono fatta una casa ornata d’oro, con il soffitto di lapislazzuli

e le pareti d’argento, i pavimenti di legno di sicomoro,

le porte di rame e i chiavistelli di bonzo » (E. Bresciani, op. cit., p. 132)

 

Ma il palazzo del re di Tarquinia Alcìnoo è ancora più ricco di quello del faraone:  

« d’oro e d’argento ai due lati eran cani,

che Efesto fece con arte sapiente,

per custodire la casa del magnanimo Alcìnoo;

per sempre immortali erano e senza vecchiezza.

Lungo il muro si appoggiavano i troni, di qua e di là,

in due file, dalla soglia all’interno, e pepli sopra

sottili, ben tessuti, eran gettati, lavori di donne.

Là dei Feaci sedevano i principi,

a bere e mangiare: in abbondanza ne avevano.

Fanciulli d’oro sopra solidi piedistalli

si tenevano dritti, reggendo in mano fiaccole accese,

illuminando le notti ai banchettanti in palazzo.

Cinquanta ancelle erano in casa d’Alcìnoo:

alcune con mole moliscono giallo frumento,

altre tessono tele e girano fusi,

sedute, simili a foglie d’altissimi pioppi:

dalle tele in lavoro goccia limpido l’olio.

Quanto i Feaci sono sapienti sugli uomini tutti

a reggere l’agile nave sul mare, altrettanto le donne

son tessitrici di tele; a loro Atena donò in grado massimo

di far opere belle e d’aver savia mente » (VII, 91-111)  

Segue la descrizione del giardino del palazzo, un’altra versione di Paradiso Terrestre che, anche se meno aderente all’A. T. di quello di Ogigia, è però il vero Paradiso secondo Omero. Naturalmente Omero scherza, perché con ciò vuol dire ai Greci di venir tranquillamente in Etruria a commerciare perché qui si troveranno bene come in Paradiso, come ci si è trovato bene il loro compatriota Odisseo.  

Qui interessa notare che in questo e in altri passi la città dei Feaci si distingue per la tessitura delle tele, le tele che servono prima di tutto alle vele delle navi, ciò che la fa identificare con Tarquinia, la regina dei mari (che secondo Livio, XXVIII, 45, fornisce a Scipione l’Africano nella seconda guerra punica tela per le vele delle navi) cui i Monti della Tolfa e il porto di Pyrgi appartennero prima di passare, poco tempo dopo il Viaggio d’Odisseo, a Cere. Che si tratti di Tarquinia, la città madre della dodecapoli e sede iniziale della lega, è confermato dal fatto che qui e soprattutto in VIII, 390-391, si accenna alla confederazione delle dodici città etrusche guidate dal praetor Etruriae Alcìnoo: « Dodici re gloriosissimi fra il popolo nostro governan sovrani, e io tredicesimo ».

 

Odisseo entra nel palazzo di Alcìnoo e si inginocchia davanti ad Arete e così prega:  

« “ Arète, figlia del divino Rexènore,

al tuo sposo, alla ginocchia tue vengo, dopo molto soffrire,

e a questi tuoi commensali; diano loro gli dèi

di vivere felici…

E a me voi date accompagno, che in patria io ritorni

presto, perché da molto, lontano dai miei, soffro dolori. ”

Così detto sedeva sul focolare, in mezzo alla cenere,

vicino al fuoco: tutti eran muti, in silenzio » (VII, 146-154)  

Delle ultime due righe  c’è un equivalente nel libro di Giobbe (Odisseo si siede nel luogo più umile mostrando tutta la sua afflizione in balìa dell’aiuto degli altri;  Giobbe fa un’analoga manifestazione di umiltà, di fronte a Dio: « faccio penitenza in polvere e cenere » 42,6), che ha molto in comune con il nocciolo di fondo dell’Odissea (la punizione divina e il risarcimento finale; ma l’Odissea è piena di morale e di logica, mentre il libro di Giobbe è pieno di tale (ingiusto) arbitrio divino da apparire non solo demenziale, ma perfino immorale)  e che però ci è pervenuto in una redazione posteriore a quella dell’Odissea. 

Alcìnoo, fa alzare dal suo trono il figlio Laodàmante (« lo amava moltissimo ») e vi fa sedere Odisseo. Questo Laodàmante cela il personaggio storico di Lucumone (il lucumone era un “Signore del popolo” etrusco, traduzione di Laodàmante) cioè Tarquinio Prisco (quinto re, “etrusco”, di Roma) figlio di Demarato corinzio (questo s’era stabilito a Tarquinia dopo l’instaurazione della tirannide di Cipselo a Corinto nel 657) committente del Viaggio d’Odisseo fra 657 (ma  Demarato  deve essere influente  a Tarquinia e committente del Viaggio già nel 680 ca.) e 650 a. C. (opera che fu verisimilmente recitata dallo stesso Omero nella spianata di fronte al santuario di Pyrgi; non quello attuale, del 500 a. C. circa, in fase decadente) e capocordata dei capitalisti che fecero  decollare il porto di Pyrgi  come porto internazionale – in mano a capitalisti domiciliati in Etruria –  per l’esportazione diretta (escludendo il monopolio degli Euboico-calcidesi di Ischia) dei metalli dei Monti della Tolfa in primo luogo.

Avendo Alcìnoo congedato gli ospiti rimane da solo con la moglie Arete e Odisseo. Questa nota gli abiti di Odisseo (le sono noti perché glieli ha dati Nausicaa) e gli chiede da dove arriva e chi gli ha dato gli abiti che indossa.

Odisseo racconta in breve il viaggio da Ogigia a Pyrgi e l’incontro con Nausicàa.

Egli definisce il fiume di Pyrgi (di cui mi piacerebbe conoscere il nome se mai fu registrato) come sacro, come il Nilo egizio, « il fiume caduto dal cielo ».

Alcinoo esprime il desiderio che Odisseo si stabilisca a Scheria e sposi Nausicaa. L’offerta di matrimonio lampo con lo straniero  è stata criticata dai Greci, ma a parte che Alcinoo esprime solo un desiderio,  quello che va focalizzato è il matrimonio come mezzo per creare legami fra popoli diversi. E’ una prassi siriana antichissima che si ritrova non a caso in Etruria nel VII secolo nel palazzo di Murlo (Siena). Il matrimonio era il modo più perfetto per creare un legame di sangue (nella stessa Iliade il ratto di Elena da parte di Paride vuol sottolineare un legame di sangue fra Greci e Troiani/Romani), in questo caso fra Etruschi e Greci tramite Odisseo greco per far risalire a questo antico rapporto (poi sostituito da quello di ospitalità – libro IX, 18 – perché Odisseo è già sposato; ma è il pensiero che conta) le relazioni commerciali intorno al santuario-banca di Ino Leucothea a Pyrgi.

Fin d’ora comunque Alcinoo ordina di apprestare la nave per il ritorno d’Odisseo.

Omero è consapevole che il Viaggio d’Odisseo costituirà gloria immortale per Demarato, il mecenate Alcinoo, come dice Odisseo:  

« inestinguibile sopra la terra dono di biade

sarà la sua gloria, e io arriverò in patria! » (VII, 331-332)

 

2° giorno tra i Feaci, 16° dall’inizio dell’Odissea, libro VIII.  

Questo libro è stato rimaneggiato più degli altri dal solito omerida  pisistratide.

Di prima mattina Alcinoo riunisce l’assemblea dei capi feaci in piazza, sul porto. Qui Alcinoo ordina di mettere in mare una nave con 52 marinai. A questo punto dovevano seguire i giochi atletici, che prefigurano quelli olimpici, seguiti dal banchetto offerto da Alcinoo.  Dunque andranno depennati i versi da 37 a 99 circa che costituiscono una brutta ripetizione del pianto di Odisseo durante il banchetto ascoltando il cantore che rievoca episodi della guerra di Troia. E’ infatti evidente che, vedendolo piangere, Alcinoo avrebbe in questa circostanza chiesto a Odisseo la sua identità, e non sorvolato come se niente fosse. I giochi devono svolgersi in uno spiazzo presso il santuario di Ino Leucothea e probabilmente anche in piazza, dopo una rapida doccia, dovrà svolgersi il successivo banchetto pubblico.

Durante i giochi Eurialo invita Odisseo a partecipare ai giochi e poiché egli declina l’invito l’offende Odisseo dandogli del mercante; poi per farsi perdonare gli dona una bella spada. Odisseo si mostra un valido lanciatore del disco.

Alcinoo celebra a Odisseo la raffinatezza degli Etruschi/Feaci:  

« …corriamo veloci e siamo a navigare eccellenti.

E sempre il festino c’è caro, la cetra, la danza,

vesti mutate, e bagni caldi, e l’amore » (VIII, 248-250)  

Davanti a noi sembrano riprendere la loro vita di ogni giorno gli Etruschi degli affreschi ipogei di Tarquinia.  

Quindi Alcinoo invita  i giovani etruschi a danzare. Si porta la cetra al cieco Demòdoco, si eleggono nove giudici di campo che dispongono l’arena a regola d’arte.

Demodoco si sistema in mezzo e i giovani intorno si mettono a battere coi piedi il ritmo divino:  « Odisseo l’agile gioco dei piedi ammirava e stupiva nel cuore  »  

Demodoco « tentando le corde intonò un bel cantare…

… gli amori d’Ares e d’Afrodite bella corona,

quando la prima volta s’unirono nella casa d’Efesto

furtivi, e molti doni le diede  e il letto disonorò

del sire Efesto; ma a lui fece la spia

il Sole, perché li vide abbracciati in amore  » (VIII, 266-271)  

Il poemetto dura dal  verso 268 al 366 e tratta il classico tema che piace tanto agli Etruschi anche d’oggi del marito cornuto. Se non che Efesto è cornuto ma si prende una bella rivincita con una trappola tesa ai due amanti ignari che vengono messi alla berlina di fronte agli altri dèi.  

Poi Alcinoo « volle ch’Alio e Laodàmante

danzassero soli, poiché nessuno gareggiava con loro.

E quelli, dunque, una bella palla si presero in mano,

purpurea, che il saggio Pòlibo aveva fatto per loro,

e uno l’andava lanciando fino alle nuvole ombrose,

piegato all’indietro; l’altro balzando alto da terra,

agilmente la riprendeva, prima di ritoccare il suolo coi piedi.

E dopo che con la palla diedero prova di lancio,

danzarono sulla terra nutrice di molti,

spesso scambiandosi: gli altri giovani battevano il tempo

in piedi nell’arena: strepito grande saliva » (VIII, 370-380)  

Si offrono doni a Odisseo (e Eurialo gli dona la spada), ci si lava la polvere accumulata durante le gare atletiche e ci si siede a banchetto, non dentro il palazzo, credo, bensì all’aperto. Si tratta dei giochi e del banchetto pubblici con cui si è festeggiata l’inaugurazione del santuario di Ino Leucothea al tempo di Demarato. Lo si capisce bene, credo, dalle stesse parole di elogio di Odisseo:  

« Alcìnoo potente, gloria di tutto il popolo,

questa è cosa bellissima, ascoltare un cantore 

com’è costui, che ai numi per voce somiglia.

E io ti dico che non esiste momento più amabile

di quando la gioia regna fra il popolo tutto,

e i convitati a palazzo stanno a sentire il cantore,

seduti in fila; vicino son tavole piene

di pane e di carni, e vino al cratere attingendo,

il coppiere lo porta e lo versa nei calici:

questa in cuore mi sembra la cosa più bella » (IX, 2-11)  

Nonostante il riferimento al palazzo qui si parla di popolo tutto ammesso ai festeggiamenti ed è evidente che ciò può accadere solo nello spiazzo davanti al santuario di Ino Leucothea.  

Omero ha voluto anticipare qui il commiato di Odisseo da Nausicaa per non affollare quello da Alcinoo e Arete, ma anche perché Nausicaa è incarnazione della dea Ino Leucothea ed appare a Odisseo da sola a solo:  

« …Nausicàa, che aveva bellezza per dono dei numi,

s’arrestò davanti al pilastro del solido tetto,

e stupì d’Odsseo, a vederlo con gli occhi,

e gli si volse e disse parole fugaci:

“ Sii felice, straniero: tornato alla terra dei padri,

non scordarti di me, perché a me per prima devi la vita. ”

E rispondendole disse l’accorto Odisseo:

“ Nausicàa, figlia del magnanimo Alcìnoo,

così faccia Zeus, lo sposo tonante d’Era,

ch’io arrivi a casa e veda il ritorno.

E anche laggiù, come a un dio, a te farò voti,

sempre ogni giorno: tu m’hai salvato, fanciulla. ” » (VIII, 457-468)  

E’ evidente che Nausicaa è la vera dea del Paradiso, incarnazione dell’Aurora, Ino Leucothea, dea di Pyrgi.  

Durante il banchetto Demodoco su invito non di Odisseo (è sciocco che Odisseo pianga dopo aver lui stesso invitato il cantore a cantare lo stratagemma del cavallo e la fine di Troia) bensì di Alcinoo (per cui occorrerà espungere versi – ad esempio da 474 a 484 – o comunque attribuire le parole ad Alcinoo e non ad Odisseo):  

« Disse così; e quello, movendo dal dio, tesseva il suo canto,

da quando sopra le navi solidi banchi

saliti, tornavano indietro, dato fuoco alle tende,

gli Argivi…

Queste cose cantava il cantore glorioso; e Odisseo

si commosse e le lacrime bagnavano le guance sotto le ciglia.

Come donna, su  lui gettandosi, piange lo sposo

Che cadde davanti alla città e ai suoi guerrieri,

per difendere i figli e la rocca dal giorno fatale,

e lei, che l’ha visto annaspare e morire,

gli s’abbandona sopra, alto singhiozza: i nemici

dietro con l’aste la schiena e le spalle pungendole,

la traggono schiava, ad aver pianto e travaglio,

e le sue guance si scavano in uno strazio angoscioso,

così Odisseo sotto le ciglia pianto angoscioso versava » (VIII, 499-531)

 

16° giorno, libro IX, Polifemo.  

Ormai Odisseo deve dire il suo nome e da dove viene. Vedremo che prima di giungere a Scheria  non era noto ad Alcinoo e Arete (e questi a lui) presunti (secondo antichi e moderni) regnanti di Corcira, ad un tiro di schioppo da Itaca. Ma da questo momento fra essi si è instaurato un rapporto di ospitalità e dunque li invita, « pur abitando casa lontano », ad andarlo a trovare a Itaca quando tutto sarà tornato alla normalità.

Odisseo racconta le sue avventure dal ritorno da Troia che lo portano in ben 12 località, tante quante le fatiche di Eracle (una delle  personificazioni di Adone): Ciconi, Lotofagi e Polifemo nel libro IX, Eolo, Lestrigoni e Circe nel libro X, Il mondo dei morti nel libro XI, Sirene, Scilla e Cariddi, vacche del Sole Iperione nel libro XII, cui si devono aggiungere Calipso e Feaci.

Nel suo peregrinare da oriente a occidente  Odisseo incontra dapprima popoli incivili e barbari nonché l’ingresso all’Inferno (la Colchide di Circe) e poi, oltrepassato lo Stretto di Messina, il mondo degli dèi, la Sicilia sacra al Sole Iperione, la Sardegna purgatorio di Calipso e l’Etruria paradiso di Nausicaa e Arete, ma in realtà terra civilissima degli Etruschi. Ovviamente la realtà è che la civiltà propaga dall’oriente verso l’occidente, ma la trovata di Omero oltre ad essere divertente per un Greco serviva a propagandare gli scambi commerciali fra Greci ed Etruschi mostrando ai primi che venendo in Etruria non vi avrebbero trovato pericoli naturali o da parte di barbari, bensì un ambiente accogliente, paradisiaco, di una civiltà pari se non superiore a quella greca, di « uomini alunni di Zeus » coi quali grazie all’antico rapporto di ospitalità fra il naufrago Odisseo e il mitico re Alcinoo e alla sua mitica figlia Nausicaa personificazione di Ino Leucothea, possono riconoscersi xeînoi ex arkhês intorno all’appena inaugurato santuario-banca.

Le tappe rilevanti del viaggio d’Odisseo sono i Ciclopi del libro IX, Circe del libro X, Mondo dei morti del libro XI e di pari livello le tappe del libro XII. Qualcosa val la pena di dire a proposito dei Lotofagi, i mangiatori di loto, la pianta che dà l’oblìo e che oggi sono rappresentati da quei farabutti che spacciano droga e mirano a far perdere all’uomo il senso stesso della sua vita, ridotto ad un vegetale. Ma esistono anche altre droghe meno appariscenti eppure egualmente dannose, che hanno lo stesso effetto: il lavaggio del cervello. Sono le droghe dell’informazione o meglio della disinformazione politica. Insomma, credo che se Odisseo vivesse oggi ben difficilmente riuscirebbe a tornare a Itaca. In altre parole, oggi i bambini e i ragazzi sono costretti a maturare più in fretta e a difendersi purtroppo da soli da pericoli maggiori di quelli affrontati da Odisseo.  

Polifemo è un pastore che produce latte e formaggi come gli antichi pastori maremmani (la cui capanna è servita a modello della tenda del gigante Achille). E’ in realtà un Centimane allevatore ma la sua classificazione fra i Ciclopi (artigiani e metallurgi) siriani serve a localizzarlo senza ombra di dubbio in Siria e non in Italia.

Odisseo e i suoi dunque approdano all’isola dei Ciclopi:  

« A questo porto arrivammo, e un dio ci guidava,

in una notte scura, non c’era un filo di luce;

c’era una nebbia fonda intorno alle navi, e la luna

non brillava nel cielo, era coperta di nuvole.

Nessuno l’isola poteva vedere con gli occhi,

nemmeno la lunga risacca frangentesi al lido

vedemmo, prima che vi s’appoggiassero le navi bei banchi » (IX, 142-148)  

Entrati nella spelonca di Polifemo, Odisseo e i suoi si mettono a curiosare ma s’accorgono dalla dimensione delle attrezzature casearie che sono entrati nella dimora di un gigante:  

« Subito allora mi supplicarono con parole i compagni,

che, rubati i formaggi, tornassimo indietro; che in fretta

all’agile nave gli agnelli e i capretti spingendo

fuori dai chiusi, rinavigassimo l’acque del mare;

ma io non volli ascoltare – e sarebbe stato assai meglio –

per vederlo in persona, se mi facesse i doni ospitali » (IX, 224-229)  

Dunque Odisseo pur rendendosi conto del rischio che corre e che fa correre ai suoi compagni non riesce a trattenere la curiosità, anche perché egli non condanna gli altri sulla base di preconcetti ma solo in base alle loro azioni. In altre parole,  uno non è necessariamente un violento solo perché di dimensioni  gigantesche.

Purtroppo Polifemo, figlio di Poseidone, è un antropofago e si mangia sei compagni di Odisseo, due per volta. Per disfarsi dell’avversario Odisseo avrebbe pur potuto pensare di ucciderlo con la spada ma sarebbero poi morti tutti dentro la grotta che Polifemo aveva richiuso con un masso enorme che solo lui poteva spostare.

Preferì ricorrere all’astuzia e prima lo fece addormentare offrendogli il vino che s’era portato dietro come dono (preda delle ruberie a Ismaro, città dei Ciconi) in previsione di uno scambio, come avveniva fra popoli civili:  

« “ Ciclope, to’, bevi il vino, dopo che carne umana hai mangiato,

perché tu senta che vino è questo che la mia nave portava.

Per te l’avevo recato come un’offerta, se avendo pietà,

m’avessi lasciato partire; invece tu fai crudeltà intollerabili,

pazzo! Come in futuro potrà venir qualche altro

a trovarti degli uomini? Tu non agisci secondo giustizia. ”

Così dicevo, e lui prese e bevve; gli piacque terribilmente

bere la dolce bevanda; e ne chiedeva di nuovo:

“ Dammene ancora, sii buono, e poi dimmi il tuo nome,

subito adesso, perché ti faccia un dono ospitale e tu ti rallegri.

Anche ai Ciclopi la terra dono di biade

produce vino nei grappoli, e a loro li gonfia la pioggia di Zeus.

Ma questo è un fiume d’ambrosia e di nettare. ”

Così diceva: e di nuovo gli porsi vino lucente;

tre volte glie ne porsi, tre volte bevve, da pazzo.

Ma quando al Ciclope intorno al core il vino fu sceso,

allora io gli parlai con parole di miele:

“ Ciclope, domandi il mio nome glorioso? Ma certo,

lo dirò; e tu dammi il dono ospitale come hai promesso.

Nessuno ho nome: Nessuno mi chiamano

Madre e padre e tutti quanti i compagni. ”

Così dicevo; e subito mi rispondeva con cuore spietato:

“ Nessuno io mangerò per ultimo, dopo i compagni;

gli altri prima; questo sarà il dono ospitale. ” » (IX, 347-370)  

Mentre Polifemo, caduto all’indietro, giace domato dal vino ruttando rivoli di vino e brandelli di carne, Odisseo e compagni, preso un ramo dall’antro e avendolo appuntito al fuoco, lo cacciano a forza nell’unico occhio del gigante, e mentre l’occhio frigge letteralmente, un buio eterno cala sulla vista del mostro. Il mostro, risvegliato dal dolore, si mette a urlare richiamando l’attenzione degli altri Ciclopi che vivevano nei dintorni, ognuno per conto suo. I Ciclopi accorrono alla spelonca e da fuori chiedono chi gli stia facendo del male. Polifemo risponde che Nessuno gli fa del male:  

« “ Se dunque nessuno ti fa violenza e sei solo,

dal male che manda il gran Zeus non c’è scampo;

piuttosto prega il padre tuo, Poseidone sovrano. ”

Così dicevano andandosene: e il mio cuore rideva,

come l’aveva ingannato il nome e la buona trovata » (IX, 410-414)  

Mentre, aperta la porta dell’antro,  il Ciclope fa uscire il gregge al pascolo, sotto le pecore, legate tre a tre, si aggrappano i compagni e sotto l’ariete Odisseo. Arrivati alle navi Odisseo e compagni caricano il gregge sulle navi e si allontanano in tutta fretta. Ma Odisseo non trattiene la sua voglia di proclamare  la vendetta attuata e mentre Polifemo getta a caso sul mare i picchi delle montagne circostanti, Odisseo gli grida parole di scherno e lo rimprovera di aver esercitato violenza sugli ospiti mangiandoseli. Per questo è stato punito da Zeus e dagli altri dèi. E con animo irato, rivolto a Polifemo, dice:  

« Ciclope, se mai qualcuno dei mortali ti chiede

il perché dell’orrenda cecità del tuo occhio,

rispondi che il distruttore di rocche Odisseo t’ha accecato,

il figlio di Laerte, che in Itaca ha casa » (IX, 502-505)  

E così Polifemo ricorda  un’antica profezia secondo cui sarebbe stato accecato da Odisseo:  

« Ma sempre un eroe grande e bello aspettavo

che qui venisse, vestito di forza grandissima.

Invece un piccoletto (ολíγος), mingherlino, da nulla

m’accecò l’occhio, dopo che m’ebbe vinto col vino » (IX, 513-516)  

Così Polifemo prega Poseidone « che cinge la terra, chioma azzurra » di non far tornare Odisseo a Itaca e se invece è destino, allora « tardi, male ci arrivi, perduti tutti i compagni, su nave altrui, trovi in mare sciagure »

 

16 ° giorno, libro X, Maga Circe.  

Qualcosa diremo anche della permanenza di Odisseo presso Eolo, re dei venti, che per consentire a Odisseo di raggiungere Itaca senza problemi raccoglie tutti i venti in un’otre di pecora salvo uno, che spinge la nave in vista dell’isola. Se non che, come accade in questi casi, Odisseo s’addormenta sul più bello e i compagni, come sempre senza cervello, hanno modo di interrogarsi sul contenuto dell’otre e sulla loro povertà una volta a casa e dopo averne passate di tutti i colori. Ha il sopravvento la gelosia e l’invidia e la rapacità tipica del popolo che spesso ingiustamente (e per lo più senza averne le prove, perché non conosce i fatti) accusa i governanti di fare i propri  interessi privati e non quelli generali. Per questa loro colpa i compagni di Odisseo invece di tornare, poveri, a casa, non tornarono affatto.  

Circe ci porta a parlare incidentalmente della saga etrusca degli Argonauti. Forse meglio dire preetrusca, cioè appartenente a quei Tirreni orientali che poi immigrarono in Etruria. Ma non sono riuscito a risolvere definitivamente la questione. Anche Omero conosce la distinzione, analoga, di Feaci orientali e occidentali o Etruschi. Gli Argonauti rappresentano i protoetruschi orientali, Tursha, praticanti la circoncisione, che percorrevano l’Egeo e il Mar Nero in cerca di metalli e per le cui imprese rimase attaccata agli Etruschi la fama di signori del mare e di pirati. Nel VII secolo, ridotta la marineria etrusca al solo Tirreno dopo l’espansione, questa sì piratesca, dei Greci in occidente, non è possibile parlare di talassocrazia etrusca. Dunque tutte le notizie che Omero attinge per questo libro dedicato a Circe provengono dalle navigazioni di popoli dell’Egeo che arricchirono del loro apporto la nazione etrusca.

Divisi in due schiere gli uomini della sua nave (le altre sono state affondate con gli equipaggi dai Lestrigoni di Porte Lontane, una copia dei Ciclopi)  il gruppo guidato da Euriloco, parente d’Odisseo, viene sorteggiato per andare in esplorazione sull’isola di Eèa di Circe.

La casa della Maga era circondata da bestie feroci ammansite come cani da guardia. Da dentro si sentiva cantare Circe mentre tesseva. Chiamarono e quella aprì le porte e li invitò ad entrare. Solo Euriloco rimase fuori temendo l’inganno, e infatti:  

«  Li condusse a sedere sopra troni e divani

e per loro del cacio, della farina d’orzo e del miele

nel vino di Pramno mischiò: ma univa nel vaso

farmachi tristi, perché del tutto scordassero la terra paterna.

E appena ne diede loro e ne bevvero, ecco che subito,

con la bacchetta battendoli, nei porcili li chiuse.

Essi di porci avevano testa, e setole e voce

e corpo: solo la mente era sempre quella di prima » (X, 233-240)  

Odisseo con l’aiuto dell’erba magica moly datagli da Ermete (dio infero per Omero, perché qui da Circe siamo alle porte dell’Inferno come da Calipso nel Purgatorio) riesce a dominare Circe e a far tornare  come prima i suoi compagni. Restano da Circe un anno, allo scadere del quale vogliono tornare a casa, ma prima Circe li invita a compiere il viaggio nel mondo dei morti, a nord-ovest, lungo il fiume Oceano che circonda la terra, dove vivono i Cimmeri (popolazione che  fece parlare di sé nella prima metà del VII secolo e fornisce dunque una delle più precise fonti di datazione del poema), per sapere dall’indovino tebano Tiresia come sarà il ritorno. Più che altro questo è un espediente per fare un po’ di storia e narrare la tradizione tanto cara ai Greci quanto falsa della civilizzazione del luogo dove sorgerà Roma da parte di Odisseo che vi praticherà per primo il rito nazionale del suovetaurilia. Tutto serve a rinsaldare maggiormente le relazioni fra etrusco-romani e Greci e a aumentare gli investimenti dei secondi nei commerci coi primi. Se ai Greci piace la fama, agli Etruschi piacciono i contanti. A giudicare dalla politica attuale l’Italia non è cambiata per nulla. Forse è un tantino più attaccata ai contanti e un tantino più miope sugli sviluppi futuri, ma ciò dipende dall’età avanzata.

Dopo due terzi della narrazione Odisseo chiede licenza per andare a dormire. La regina Arete si fa grande di fronte ai presenti per la levatura del suo ospite. Anche Alcinoo si complimenta con Odisseo    (« Ma tu hai bellezza nelle parole e, dentro, saggi pensieri, e il tuo racconto, come un aedo, con arte l’hai fatto, gli affanni di tutti gli Argivi, e i tuoi propri » XI, 367-369) e lo invita a raccontare ancora:  

« La notte è lunga, infinita: e non è adesso l’ora

di dormire in palazzo: narraci ancora le te prodigiose avventure.

Fino all’Aurora lucente io resterei, quando tu

acconsentissi a narrarmi le pene tue nella sala » (XI, 373-376)  

Odisseo allora racconta il ritorno da Circe:

« La nave pel fiume Oceano portava sul flutto scorrente

la forza dei remi, prima, e poi un bellissimo vento  » (XI, 639-640)

 

16° giorno, libro XII. Sirene, Scilla e Cariddi, vacche del Sole.  

Partiti dall’isola Eea Odisseo e i suoi passano attraverso le secche delle Sirene (l’altra via possibile che però Odisseo abbandona è quella degli scogli che cozzano fra loro, le Simplegadi, attraverso cui riuscì a passare la sola nave Argo), parenti della sirenetta Loreley  sul Reno e di quella di Copenaghen. Ciò è possibile perché nella geografia omerica lo stretto dei Dardanelli deve aver corrisposto alle Simplegadi e le secche delle Sirene all’imbocco del Danubio immaginato collegato al Po (e al Reno, da cui si raggiunge il fiume Oceano), da cui Odisseo dunque ridiscende per l’Adriatico per poi passare attraverso lo stretto di Messina:  

« Chi ignaro approda e ascolta la voce

delle Sirene, mai più la sposa e i piccoli figli,

tornato a casa, festosi l’attorniano,

ma le Sirene col canto armonioso lo stregano,

sedute sul prato: pullula in giro la riva di scheletri

umani marcenti; sull’ossa le carni si disfano » (XII, 41-46)  

Oggi le Sirene stanno in agguato su internet e il navigatore, come moderno Odisseo, deve stare attento a non incappare nel loro canto ammaliante, altrimenti oltre a perdere i soldi non riesce nemmeno a concludere ciò che si era prefisso.  

Scilla è un mostro pauroso con dodici piedi invisibili (probabilmente perché stanno sott’acqua) e sei colli lunghissimi. Ogni bocca ha tre file di denti fittamente serrati. Vive in una grotta ed esce con le sei teste per pescare. Ghermisce con ogni bocca un uomo.

Mentre Odisseo sta attento a non fare ingoiare la nave dal gorgo di Cariddi, Scilla gli ghermisce sei compagni:  

« Mi volsi all’agile nave e ai compagni,

ma potei solo scorgere braccia e gambe lassù,

sollevate nell’aria: mi chiamavan gridando

invocando il mio nome – per l’ultima volta – angosciati.

Così il pescatore su un picco, con la lenza lunghissima

insidia ai piccoli pesci l’esca gettando,

butta nel mare il corno di bove selvatico,

poi, preso un pesce, lo scaglia fuori guizzante;

come guizzavano quelli, tratti su per le rocce.

E sulla bocca dell’antro se li divorò, che gridavano

e mi tendevan le mani nell’orrendo macello:

fu quella la cosa più atroce ch’io vidi con gli occhi,

fra quanti orrori ho affrontato, le vie del mare cercando » (XII, 247-259)  

Si sarà notato che le similitudini di Omero nell’Odissea, il poema iniziale e soprattutto finale (dunque si potrà pensare anche al loro inserimento nello stesso Viaggio nella stesura finale), raggiungono l’estrema perfezione, tanta che non ci si accorge nemmeno della loro presenza, che invece balza all’occhio  nell’Iliade, specie nelle parti maldestre non omeriche. Quanto al corno di bove selvatico, c’è un parallelo con il cantico di Mosè (in Esodo, 15,10: « sprofondarono come piombo in acque profonde ») via Iliade XXIV, 80ss: « calò nell’abisso, come fa il piombo che, versato nel corno di bove selvaggio, scende a portar morte tra i pesci voraci »

L'indovino Tiresia, come  Circe del resto, hanno messo in guardia Odisseo dal mangiare le vacche sacre del tempio del Sole Iperione in Sicilia, perché in tal caso, sempre che fosse tornato a Itaca, sarebbe tornato dopo aver perso tutti i compagni.

Odisseo vuole evitare l’isola ma i compagni vogliono fermarsi per cacciare e rifornirsi d’acqua. Così Odisseo è costretto a scendere ma prima li fa giurare che per nessun motivo toccheranno le vacche sacre. Se non che, al momento di ripartire, per un mese ne sono impediti dalla bonaccia, cioè dal fatto che non si muove un filo di vento che spinga le vele. I viveri durano per un po’ di tempo, ma poi manca il cibo e approfittando del fatto che Odisseo dorme i compagni decidono di cucinarsi le vacche, pensando di riparare una volta tornati a casa con sacrifici espiatori:  

« E all’improvviso gli dèi mostrarono prodigi ai compagni:

si movevan le pelli, muggivano intorno agli spiedi le carni

cotte e crude: come di vacche s’udiva la voce » (XII, 394-396)  

Quando finalmente riprendono il mare Zeus fa la sua vendetta per il Sole Iperione che altrimenti ha minacciato di andare nell’Ade a brillare per i morti:  

« ma appena l’isola avevamo lasciata, e ormai nessun’altra

delle terre appariva, ma solo cielo e mare,

ecco livido nembo distese il Cronide

sopra la concava nave, s’abbuiò sotto il mare:

la nave correva, ma non fu per molto: venne improvviso

Zefiro urlando, soffiando con raffica grande,

stroncò le dritte dell’albero la bufera del vento,

l’una e l’altra: l’albero cadde indietro, tutti i paranchi

s’afflosciarono nella stiva; l’albero, a poppa cadendo,

colpì il pilota alla testa, gli spezzò tutte l’ossa

della testa d’un colpo: un tuffatore parendo,

precipitò dal ponte: lasciò l’ossa l’animo altero.

E Zeus tutt’insieme tuonò e scagliò sulla nave la folgore:

tutta girò su se stessa, colpita da Zeus con la folgore

e fu piena di fumo sulfureo: caddero fuori i compagni,

e come cornacchie in giro alla nave nera

furon preda dell’onda: il dio negò loro il ritorno! » (XII, 403-419)  

Odisseo, su un’asse della nave (che aveva passato Scilla e Cariddi entrando così in acque etrusche) si tiene a galla e viene risucchiato verso Scilla e Cariddi. Preso lo slancio si aggrappa al fico che cresce sullo scoglio di Cariddi e qui rimane aspettando il riflusso dell’acqua che dopo aver portato i relitti della nave a oriente li riporta a occidente dello stretto. A questo punto Odisseo, che evidentemente  sfrutta una corrente a nord del Mediterraneo che va in senso occidentale (mentre quella a sud va verso oriente), si lascia cadere su un legno e al decimo giorno arriva all’isola di Ogigia (Sardegna) e qui  termina il racconto d’Odisseo perché aveva già narrato la permanenza e il viaggio da Ogigia a Scheria.

 

16° giorno, libro XIII.  

« Così narrava: e tutti rimasero muti, in silenzio,

erano vinti dal fascino nella sala ombrosa » (XIII, 1-2)

 

17° giorno (31 dicembre), il terzo e ultimo tra i Feaci, libro XIII.  

La mattina Alcinoo in persona si accerta del carico della nave coi doni per Odisseo, poi offre il banchetto di risurrezione nel giorno di Samain celtico ovvero il 31 dicembre, Halloween, quando è possibile passare dalla dimensione dell’al di là all’al di qua secondo il riflusso di  marea.  Demodoco allieta il banchetto:  

                                 « ma intanto Odisseo

spesso al sole raggiante volgeva la testa,

e n’affrettava il tramonto: molto bramava partire.

E a un tratto ai Feaci amanti del remo parlò,

e specialmente rivolto ad Alcìnoo, diceva parole:

“ Alcìnoo potente, gloria di tutto il popolo,

libiamo, e poi accompagnatemi felicemente e abbiate fortuna anche voi! ” » (XIII, 28-39)

 

Alcinoo propone un ultimo brindisi a Zeus:  

                       « ma in piedi sorse Odisseo luminoso,

e nelle mani d’Arète pose la duplice coppa,

e a lei rivolto parole fuggenti parlava:

“ Siimi felice, o sovrana, per sempre, finché la vecchiaia

venga e la morte, che agli uomini son comuni.

Io me ne vado: e tu, in questo palazzo,

godi dei figli, del popolo e d’Alcìnoo sovrano ” » (XIII, 56-62)

 

Accompagnato dagli ultimi doni, Odisseo varca la soglia del palazzo e sale sulla nave che salpa immediatamente:  

« intanto a lui dolce sonno sulle ciglia cadeva,

un sonno profondo simile in tutto alla morte.

Come nella pianura quattro cavalli maschi

balzano tutti insieme a un colpo di frusta,

alti rampando, e in fretta compion la via,

così della nave s’alzava la poppa, e dietro l’onda

del mare urlante spumeggiava sconvolta.

Così correndo veloce, l’onda del mare solcava,

portando un uomo che aveva saggezza simile ai numi,

e molti dolori aveva patito nell’anima  » (XIII, 79-90)  

I momenti di comunicazione e passaggio fra le due dimensioni terrena e dell’al di là sono sottolineati dal sonno simile alla morte e/o dal momento di passaggio dalla notte al giorno:  

« Come la lucentissima stella brillò, che più di tutte

annuncia salendo il raggio dell’alba nata di luce,

ecco che all’isola  già s’accostava la nave marina » (XIII, 93-95)  

Le navi dei Feaci (quando non ci si soffermi sul fatto che sono gli Etruschi) trasportano i trapassati come Odisseo e dunque sono le navi fantasma del Paradiso:  

« Perché i Feaci non hanno nocchieri,

non ci sono timoni, come ne han l’altre navi,

ma sanno da sole il pensiero e l’intendimento degli uomini,

e san le città e i pingui campi di tutti,

e l’abisso del mare velocissime passano,

di nebbia e nube fasciate; mai hanno paura

di subir danno o d’andare perdute » (VIII, 557-563)

 

Dunque la nave dei Feaci approda a Itaca e i marinai depositano in luogo sicuro Odisseo e i doni fattigli dai Feaci. Nel tornare da Itaca a Scheria s’accorge di loro Poseidone che va a protestare da Zeus e poi mentre la nave è in vista delle coste di Scheria:  

      « …Ecco che molto vicino arrivò la nave traversatrice  del mare, nella sua rapida corsa: ma addosso le fu l’Enosìctono,

che pietra la fece, la radicò nel profondo,

a mano aperta colpendola: e poi se n’andò » (XIII, 161-164)  

Allora a Scheria, vedendo il prodigio, ci si ricordò  di un’antica profezia fatta dal padre di Alcinoo, Nausitoo,  secondo cui un giorno Poseidone adirato perché i Feaci riportavano a casa tutti , ma soprattutto Odisseo che aveva accecato suo figlio Polifemo, avrebbe coperto la città di Scheria con un monte. La profezia non si avvererà perché Pyrgi è ancora al suo posto, ma serve a identificare la Scheria dei Feaci col monte Perge dei Tirreni di cui ci parla Licofrone nell’Alexandra. Nel timore dell’avverarsi della profezia i Feaci si mettono a far sacrifici a Poseidone. Qui terminava il Viaggio d’Odisseo, poema destinato a celebrare Tarquinia e il suo porto internazionale di Pyrgi attraverso il santuario-banca di Ino Leucothea, l’Aurora.   

La lettura illuminante di L’universo fenicio (Michel Gras, Pierre Rouillard e Javier Teixidor, Einaudi Tascabili) mi ha consentito di perfezionare la mia conoscenza sul culto catactonio  di Pyrgi e di identificare con quello di Adone il culto che avevo intuito aleggiare intorno alla figura di Odisseo. Il Viaggio d’Odisseo ruota intorno al santuario di Ino Leucothea (Aurora, dunque anche Lucifero e Astarte/Afrodite Urania) di Pyrgi di cui costituisce il poema inaugurale. Il protagonista Odisseo col suo viaggio agli Inferi  (Inferno, Purgatorio e Paradiso) e con la sua resurrezione a Itaca (resurrezione a tempo determinato perché periodicamente muore e risorge), rappresenta Adone (antico Tammuz) che muore durante la caccia al cinghiale (secondo J. G. Frazer, animale incarnazione del dio e dunque sacro e intoccabile per gli antichi Siriani; da qui  nell’ambiguità del mito secondo cui è l’animale che uccide il dio – il dio uccide se stesso – la sua impurità, secondo islamici ed ebrei; il cinghiale è associato a Odisseo) e risorge. Vittima sacrificale, rappresentava la vita che scaturiva  dal suo sangue. La sua morte era la vita per gli altri. Nausicaa soprattutto  ma  anche Penelope può essere intesa come incarnazione dell’Aurora/Lucifero/Venere dunque Afrodite, la grande madre cui il re divino (i fenici lo conoscono come Melqart, il ‘re della città’) nella rotazione del ciclo della vita e della morte si accosta e se ne allontana. Il culto di Adone/Afrodite ha dato origine a quello di Gesù/Maria (detta Stella del mattino, ovvero Lucifero,  ‘portatore di Luce’, l’astro Venere; secondo J. G. Frazer – che tratta di Adone in molteplici passi de Il ramo d’oro –  la dea Astarte scendeva come stella Venere o cometa a risvegliare l’amante morto  dal suo giaciglio terreno, e fu questa la stella che guidò i Magi a Betlemme, la Casa del Pane, il luogo santo che aveva ascoltato i lamenti per Adone e poi il pianto di Gesù Bambino) ponendo un accento differente sull’importanza della divinità, femminile la prima, maschile (la religione giudeo-cristiana è maschilista) la seconda. 

Quanto al  santuario di Pyrgi, consta di due templi, uno più antico (B) e uno più recente (A) affiancati e di una terza area  (C) intertemplare annessa al tempio B più antico, 510 a. C. ca. (che sull’altro fianco è delimitato da circa venti cellette), costituita da un pozzo sacrificale (da cui furono estratte ossa di tasso, bue, porcellino, gallo), un altare cilindrico anch’esso attraversato da un foro largo la metà del precedente, suppongo per i liquidi,  e una base parallelepipeda monolitica di peperino (dove verisimilmente si ammazzavano gli animali), destinati ad un culto catactonio. Ebbene, delle divinità menzionate dalla documentazione relativa al santuario pirgense solo Apollo (che aveva il suo doppio infero in Dioniso, detto anche Libero), il dio dell’arco che protegge la vittoria di Odisseo sui Proci, divinità frequentemente invocata insieme a Zeus e Atena nell’Odissea e nell’Iliade; ed Eracle (in Omero non ben trattato forse perché espressione fenicia del culto), che la tradizione etrusca fa divenire figlio di Uni (a Uni/Astarte è dedicato il complesso templare che ruota attorno al tempio B; dunque possiamo pensare che la dea fosse Afrodite Urania, la dea che a Biblo faceva coppia con Adone: Luciano, Sulla dea sira, 6), possono identificarsi nel dio dell’amore sessuale che muore e risorge grazie ad un banchetto eucaristico (dove compare il calice, e dunque il vino e l’immancabile pane), prototipo di tutti i re cittadini divinizzati dopo morti, culto che da Ebla ritroviamo a Ugarit, dove il dio è Adone o Eracle o Melqart  (il ‘re della città’), e infine approda con i Rasenna a Pyrgi con Apollo/Cautha. Apollo è  il dio che favorisce la navigazione a  Odisseo che riporta Criseide da suo padre Crise (lo stesso doveva accadere nel passo, anch’esso nel secondo libro ma dell’Odissea, del viaggio di Telemaco a Pilo, ma qui le necessità dell’impostazione del poema su Atena dea greca protettrice dei re d’Itaca, ha indotto Omero ha escludere Apollo, poi introdotto alla fine del poema nella gara dell’arco). Il culto di Adone/Astarte ha un forte contenuto sessuale e dunque non si spiega come semplice culto del ciclo naturale vegetativo. Intorno gli ruota la prostituzione sacra, per cui verisimilmente le cellette da originari thesauroi  ospitano poi le prostitute sacre. Probabilmente il culto di Adone celebra l’amore sessualmente libero e sfrenato,  amato soprattutto dalle donne, poi costretto dentro soffocanti regole dalla convivenza civile. Ma nell’offerta di congiungimento carnale c’è dietro anche l’offerta di legame di ospitalità per via matrimoniale attraverso il dio e la dea, questa volta, come al tempo di Odisseo attraverso la figlia del re.

Nella lamina aurea punica si parla di « mese del sacrificio del sole » e di « mese di krr, il giorno del seppellimento del dio », dunque il giorno del funerale di Tammuz = luglio, per cui il mese di krr sarà verisimilmente luglio. Di questo dio sole al momento massimo di calore e dunque di morte della natura  che anela l’acqua si ha notizia in  un testo etrusco (TLE 447, sopra una statuetta muliebre bronzea da Montalcino):  

θa cencnei θuplθal cauzna śuvluśi lapiś menaχzi  

Than(i)a Cencne  al sacrificale di Cautha (l’‘Occhio del Sole’,  cf. TLE 823; probabilmente caustico, che brucia, è un altro vocabolo di origine etrusca) dono votivo in adempimento perché è  stata guarita.  

In Omero il Sole Iperione (verisimilmente nel Viaggio era lui il dio avverso a Odisseo)  di giorno solca il cielo e di notte scende dentro la terra ad illuminare il regno dei morti. Le vacche del sole sono state collocate da Omero in Sicilia, Trinacria, ma io ritengo che il mito fosse eliopolitano e nato nella Trinachia, il delta egizio. Ne consegue che possiamo ricercare l’omologo siro-cipriota di Adone che è Osiride, il dio dei morti raffigurato come una mummia. Oltre ai ‘giardini di Adone’ esistono infatti i ‘giardini di Osiride’, coltivazioni artificiali di vegetali.  

A Gravisca, porto di Tarquinia, è attestato inizialmente il culto di Afrodite/Turan con iscrizione del 560 a. C. ca. su cratere laconico, associata ad Adone/Atunis, dio della fertilità. Anche Enea, figlio di Afrodite e che scende agli Inferi può essere considerato una personificazione di Adone e infatti a Laurento è identificato con Giove Indigete, una divinità catatonia, ciò che rinvia alla sua identificazione con Poseidone/Conso. L’itinerario che Dionisio d’Alicarnasso fa percorrere allo pseudo-Enea da Troia a Lavinio è costellato di centri fenici dedicati al culto di una Afrodite Aineias (da cui Enea) spesso associata ad una divinità maschile identificata con Enea ma che  è detta Aineias dai ‘luoghi alti’  su cui si trovano i suoi santuari.  

 

18° giorno, il primo di Odisseo a Itaca, libro XIII.  

Omero stesso ha introdotto Atena fin dalla Telegonia  in quanto dea di Itaca e dunque protettrice del viaggio di Telemaco e poi anche della guerra di Odisseo contro i Proci. L’omerida, cioè il cantore seguace della poetica omerica, al soldo di Pisistrato tiranno d’Atene nella seconda metà del VI secolo a. C. va il più possibile oltre questi limiti perché cerca, inutilmente, di far passare per greco, ateniese, un poema etrusco, anzi, di farlo passare anche come poema antietrusco. Resta il fatto che tra l’Omero del Viaggio e l’Omero, più anziano, dell’Odissea c’è un abisso e cioè l’ultimo Omero è diventato credente per la paura del tutto naturale che hanno i vecchi per la morte. Questo processo si riscontra in  altri autori, come ad esempio nel Boccaccio.

La seconda parte dell’Odissea inizia subito con un episodio davvero divertente, che bene illustra la vena comica di Omero. Odisseo si sveglia a Itaca ma non la riconosce e comincia a sbraitare (come potrebbero fare un Arpagone o uno strozzino ebreo) contro i Feaci credendo di essere stato imbrogliato:  

« Balzò  in piedi e là fermo guardava la patria,

e ruppe in un gemito e si batteva la coscia

a mano aperta, e singhiozzava e diceva:

“ O povero me, di che uomini ancora arrivo alla terra?

Forse violenti, selvaggi, senza giustizia,

oppure ospitali, e han mente pia verso i numi?

E tutte queste ricchezze dove le porto? Dove io stesso

andrò errando? Era meglio restar tra i Feaci,

laggiù, forse a un altro dei potenti signori

sarei venuto, che m’ospitasse e mi desse accompagno.

Ora non so dove mettere i i beni, ma certo

qui non posso lasciarli, ché d’altri non diventino preda.

Ahi, non del tutto giusti e sapienti

erano i principi e i capi feaci, che in altra

terra m’han fatto condurre: dicevano

di volermi guidare a Itaca ben visibile, e non l’han fatto.

Ma li punisca Zeus supplice, che tutti vede

i mortali dall’alto, e castiga chi pecca.

Almeno voglio contare le mie ricchezze e vedere

che non sian partiti portandomi via qualcosa nella concava nave. ”

Così dicendo, i lebeti e i bellissimi tripodi

contava, e l’oro e le belle vesti tessute:

ma nulla ebbe a rimpiangere. Solo la patria piangeva,

trascinandosi lungo la riva del mare urlante,

con molti singhiozzi… » (XIII, 197-221)  

E gli appare Atena simile a un giovane figlio di re e gli spiega che si trova a Itaca. Lui, come al solito, non rivela di essere itacese ma si finge cretese. Finge addirittura d’aver ucciso un uomo. Parlando con il suo porcaro Eumeo, che ascolta senza scandalizzarsi, si fingerà un pirata cretese che scorre i mari uccidendo per fare bottino. Anche Telemaco, di ritorno da Sparta, offre asilo sulla sua nave ad un omicida dichiarato, Teoclimeno. Questa indifferenza nei confronti di comportamenti banditeschi ha due origini precise. La prima dall’Antico Testamento, che è il patrimonio culturale di un popolo di ladri che più è ladro e più viene elogiato e aiutato dal proprio dio. La seconda è che i luoghi di rifugio istituiti da Romolo (sulla base di quelli istituiti da Mosé, che erano assai più morali, in quanto servivano a garantire un processo giusto all’omicida incolpevole sottraendolo alle faide tribali) servirono a questo per aumentare la popolazione di Roma, accogliendovi cani e porci che, qualsiasi cosa avessero fatto all’estero, a Roma si sarebbero rifatti una fedina pulita iniziando una nuova vita, quella di signori del mondo. Omero aveva questa visione romana delle cose e non quella della pirateria che nel mondo greco era ritenuta non disonorevole.  

Atena è l’espressione vergognosa della divinità ebraica (è uscita dalla testa di Zeus come la Sapienza da quella di Dio), infatti dice a Odisseo di gettare la maschera e fa un elogio della loro mascalzonaggine:  

« Furbo sarebbe e scaltrito chi te superasse

in tutti gli inganni, anche se è un dio che t’incontra.

Impudente, fecondo inventore, mai sazio di frodi, non vuoi

neppur ora, in patria, lasciar da parte le astuzie,

e i racconti bugiardi, che ti son cari fin dalle fasce.

Via, non parliamone più, perché ben conosciamo

le astuzie entrambi: tu sei il migliore fra tutti i mortali

per consiglio e parola, e io fra tutti gli dèi

sono famosa per saggezza e accortezza…  » (XIII, 291-299)  

Anche i patriarchi ebrei, Abramo, Giacobbe, i fratelli di Giuseppe capostipiti delle tribù d’Israele, furono tutti assassini e ladri, e Dio fu sempre felice di loro dandogli perfino consigli per condurre a buon fine le loro malefatte (vedi l’Antico Testamento sul mio sito). Con questo comportamento ladronesco si sono arricchiti gli Ebrei, nient’altro che pastori che hanno visto aumentare i loro greggi grazie ad assassini e furti e alla complicità del loro dio fatto a loro immagine e somiglianza. La tecnica più usata, da far invidia al peggior truffatore napoletano, era quella di far passare la moglie per sorella. Il sovrano locale dunque si sentiva libero di fare delle avances. Nel frattempo una vocina sussurrava all’orecchio del malcapitato che era la moglie e non la sorella dell’ospite, e quello cacciava il patriarca di turno con tante scuse accompagnate da tante pecore. La Bibbia va letta tutta e personalmente, e non ci si può dire cristiani stando a quanto il clero fa gocciolare ben filtrato e ad uso e consumo proprio. Chi ha letto la Bibbia non può essere seriamente né ebreo né cristiano.  

Omero ha le stesse origini culturali, però lui è onesto, precursore della civiltà del diritto di Roma. Lui è un occidentale e non più un orientale; scherza sopra queste cose perché la sua è una favola e perché si prende degli spazi per insegnare la retta via di una civiltà urbana e non pastorale. Poiché l’Antico Testamento è parola (di parte ebrea) di menzogna, magari c’è la possibilità che menta anche sulla primogenitura di Isacco l’ebreo rispetto a Ismaele l’arabo, nato sicuramente prima ad Abramo dalla schiava Agar. (Personalmente ritengo di gran lunga migliore la civiltà araba, e l’arabo la lingua  più bella fra tutte, porta dell’oriente, che tutti dovrebbero imparare, come lingua importante cui sono pari solo francese e inglese,  specie  coloro che hanno recentemente devastato –  per ignoranza –  la millenaria civiltà assiro-babilonese). Certamente è frutto di inganno al padre Isacco (e a Dio stesso) la benedizione (leggi: la primogenitura) estorta con l’inganno da Giacobbe a danno di Esaù.    Le civiltà fondate sull’Antico Testamento sono criminali e prima o poi se ne vedono gli effetti deleteri.  

Odisseo si lamenta con Atena perché prima d’ora non lo ha protetto, ciò che prova che gli inserimenti di Atena prima d’ora sono in linea di principio delle interpolazioni successive a Omero.  

Atena mette in guardia Odisseo circa i pericoli che incontrerà, lo invita a recarsi dal porcaro Eumeo e lo rende irriconoscibile:  

« Così dicendo con una verga lo toccò Atena;

e gli avvizzì la bella pelle sulle agili membra,

i biondi capelli fece sparire dal capo, una pelle

da vecchio antico gli fece intorno alle membra,

rese cisposi gli occhi, prima bellissimi;

e un lurido cencio gli buttò addosso e una tunica,

stracciati, sporchi, neri d’orrido fumo;

sopra gli vestì una gran pelle di rapida cerva,

spelata: gli diede un bastone e una brutta bisaccia,

tutta strappi: n’era tracolla una corda » (XIII, 429-438)

 

La seconda parte dell’Odissea, commissionata forse dal terzo re di Roma Tullo Ostilio che già aveva commissionato l’Ira d’Achille, è sicuramente ispirata alla vera storia di Romolo (vedi sul mio sito) come sono riuscito a scoprire grazie alla preziosa documentazione di Dionisio d’Alicarnasso nella sua Storia di Roma Arcaica. Romolo, figlio del legittimo titolare del regno di Lavinio (un etrusco che nella latitanza faceva il guardiano di porci e si faceva chiamare Faustolo), crebbe nei boschi del Palatino. Ormai capace di gestire i suoi interessi come Oreste, il vendicatore di Agamennone, riprese il potere con l’aiuto del padre e dei contadini, boscaioli, pastori del Palatino, abbattendo l’usurpatore, il nonno cattivo Numitore e il suo sgherro Remo. Sulla tomba di Faustolo fu eretto un leone in pietra, emblema dei re.

 

18° giorno, libro XIV.  

L’Odissea  è un poema educativo. Eumeo accoglie Odisseo con la stessa cura dei Feaci, una fratellanza che par nata dentro un ambiente di gente di mare e che ha i maggiori punti in comune con  le affermazioni contenute nell’Autobiografia di Herkhuf (Antico regno) e subito dopo con il libro di Giobbe che però potrebbe avere origini alto-siriane, cioè le stesse dell’arte di Omero e comunque ci è noto in una redazione posteriore all’Odissea.

Eumeo afferma:  

« Eppure non amano le male azioni gli dèi beati,

solo giustizia onorano, le azioni oneste degli uomini.

Anche quei tristi e ribaldi che nelle terre

altrui sbarcano, e Zeus concede loro la preda,

e riempite le navi tornano indietro in patria;

anche nel loro cuore cade forte paura dell’occhio divino » (XIV, 83-88)  

Come  se niente fosse, dopo aver udito ciò Odisseo si spaccia per un predone (e lo è davvero) cretese  che prima e dopo la presa di Troia ha fatto scorrerie in Egitto, ciò che ci fornisce con esattezza storica (non per la guerra di Troia, inventata di sana pianta, ma per le effettive scorrerie dei popoli del mare contro l’Egitto) il 1200 come data approssimativa del mito di Odisseo.

La realtà è che già il Viaggio d’Odisseo era stato scritto per i Greci, affinché smettessero la pirateria nel Tirreno. Anche gli Etruschi nel  passato anche recente erano stati pirati (e tutti i  ricordi  e le finzioni di  Odisseo, Menelao, Nestore, sono frutto delle tradizioni dei pirati Tirreni in Egeo e in Egitto. Ma adesso Tarquinia e Roma commerciano onestamente dei propri prodotti e non amano interferenze al libero mercato. D’altra parte che fine hanno fatto le ricchezze predate dal pirata Odisseo? Sono andate in fondo al mare e in mano non gli resta nulla proprio come accade quando si intraprendono azioni illegali. Cosa è successo invece quando ha espiato e capito il suo errore e s’è messo sulla strada diritta? Tutti hanno preso a benvolerlo e i Feaci  (« gli han fatto doni infiniti, bronzo, oro, e molte vesti tessute, quanta ricchezza da Troia mai Odisseo avrebbe preso, se incolume fosse tornato con la sua parte di preda », si rammarica Poseidone; lo stesso capita al Giobbe del libro omonimo ma senza un filo di logica e di morale). Inoltre Telemaco può andare in giro a testa alta perché figlio di un uomo onesto. E l’azione buona (o cattiva) si ripercuote direttamente sui parenti, ora, e non in una vita dell’al di là. Questo è il messaggio civilizzatore laico, il più onesto e corretto che esista, che troviamo in bocca a Penelope:  

                   « …Gli umani han vita breve.

Ora chi senza cuore si mostra,

tutti gli auguran dietro del male i mortali

da vivo, e morto lo disprezzano tutti;

chi, invece, ha cuore nobile e cuore nobile mostra,

di lui larga fama gli ospiti portano intorno

fra tutti gli uomini, e molti lo dichiarano buono » (XIX, 328-334)  

Anche mentre dissimula e mente (e il fatto in sé non è negativo perché Odisseo non può scoprirsi subito e deve prima essere sicuro di chi puo’ fidarsi e di chi no) Odisseo enuncia un messaggio civilizzatore:  

« Odioso per me come le  porte dell’Ade è colui,

 che alla miseria cedendo, spaccia menzogne » (XIV, 156-157)  

E’ evidente che mentire abitualmente non è bene da parte di uno che non ha bisogno di farlo per necessità. Ebbene Odisseo dice che non va fatto in alcun modo, anche da parte di chi mente in cambio di un’elemosina. Non si deve dire il falso sapendo che è tale e puo’ danneggiare gli altri. E’ evidente che c’è un’altra menzogna che invece Odisseo caldeggia, quella fatta a fini precauzionali, quando serve a saggiare chi ci troviamo davanti, ed ha come fine la nostra stessa salvezza e incolumità. Questo non è più mentire ma saper vivere.

 

18° giorno, libro XV.  

Atena va a Sparta a sollecitare la partenza di Telemaco, lo avvisa dell’agguato dei Proci e lo invita a recarsi subito alla capanna di Eumeo:  

« Ella, detto così, se n’andò all’alto Olimpo.

Ma lui svegliò il figlio di Nestore dal sonno soave,

col piede toccandolo… » (XV, 43-45)

 

19° giorno, libro XV.  

All’alba Telemaco esprime a Menelao il desiderio di congedarsi e Menelao e Elena offrono i doni ospitali a Telemaco, un cratere sbalzato d’argento con gli orli ageminati d’oro, lavoro dei Sidonii (Fenici), una duplice coppa, cioè a due manici, un peplo a ricami grande, « come stella brillava ». Elena, immagine di Afrodite, dea del matrimonio, glie lo dona « pel giorno delle nozze bramate ». Il matrimonio avviene per rapimento della sposa sia presso i Romani che presso i Beniaminiti da cui i Romani discendono. Paride ha rapito Elena per realizzare un legame di nazione fra due popoli distinti, il troiano (Romano; perché i Romani vengono considerati discendenti dei Troiani) e l’acheo (il Greco, o forse proprio lo Spartano, perché Elena viene collocata a Sparta, dove aveva un santuario).  

Telemaco e Pisistrato prendono congedo e pernottano dal solito Diocle di Fere.

 

20° giorno, libro XV.  

Riprendono il viaggio e Telemaco chiede a Pisistrato di esonerarlo dal ripassare da Pilo, come vorrebbe l’etichetta, per congedarsi dal vecchio Nestore. Egli vuole reimbarcarsi e tornare a Itaca al più presto. Mentre sta per salpare si avvicina l’indovino Teoclìmeno, omicida dichiarato e ricercato dal clan dell’ucciso, che vien fatto salire a bordo senza alcun commento, e ciò a parte l’eredità dei luoghi d’asilo romulei discende forse dalla solidarietà che si instaura fra gente di mare dove sarebbe troppo lungo accertare i fatti e poi alla fin fine nulla sarebbe dimostrato circa la reale colpevolezza o meno dell’assistito.

La storia di Melampode antenato di Teoclimeno è derivata in parte dalla storia di Giacobbe che come Biante, fratello di Melampode, voleva sposare una figlia di dell’alto-siriano Labano/Neleo (non a caso si parla di Iperesia che fa assonanza con Ipereia, l’alta Siria di Omero) e cioè Rachele/Pero. Ho detto “derivata”, però è bene dire una volta per tutte che si tratta di supposizioni. Nessuno si azzarderebbe a dire in linea di principio che l’antica civiltà ebraica ha copiato da Omero. La situazione di fatto però è che la redazione dell’Antico Testamento è posteriore a Omero e dunque almeno in qualche caso si potrebbe sostenere che ha copiato da Omero, come del resto hanno copiato i vangeli. Insomma non mi stupirei se un giorno si dimostrasse che l’Antico Testamento ha copiato da Omero più di quanto Omero abbia copiato dall’Antico Testamento o meglio da tradizioni ebraiche (magari più fluide, come questa di Melampode) che poi sono confluite  nell’Antico Testamento.

A notte la nave arriva fra le isole di Odisseo. Intanto nella capanna di Eumeo Odisseo gli chiede di parlargli della famiglia d’Odisseo e così veniamo a sapere che Odisseo (come Gesù) che secondo una tradizione accolta dallo stesso Omero (in bocca a Telemaco), secondo un’altra aveva altri fratelli, infatti Eumeo fu cresciuto da Anticlea  

                                 « con Ctimène lungo peplo,

la figlia fiorente, che ultima partorì tra i suoi figli » (XV, 363-364)  

Commovente è la storia del piccolo Eumeo rapito dalla schiava fenicia e venduto a Laerte. Dice Eumeo:  

« Nella capanna noi due mangiando e bevendo,

dei nostri affanni tristi godiamo a vicenda,

riandandoli; ché anche dei mali, passato il tempo, si gode,

chi molto ha dovuto soffrire e molto vagare » (XV, 398-401)

 

21° giorno, libro XV. 

Telemaco approda a Itaca.  

 

21° giorno, libro XVI.  

Telemaco arriva alla capanna di Eumeo e lo manda a informare Penelope del suo arrivo. Atena allora giunge alla capanna di Eumeo visibile a Odisseo, che è un redivivo, e ai cani, che hanno  una grande sensibilità, ma non a Telemaco:  

« Si fermò sulla soglia della capanna, solo a Odisseo manifesta;

Telemaco non la vide, non poté scorgerla,

perché non a tutti si manifestano chiaramente gli dèi.

Odisseo, sì, la vide, e i cani: e non abbaiavano,

ma uggiolando fuggirono dall’altra parte del chiuso » (XVI, 159-163)

 

Atena ringiovanisce Odisseo con la solita bacchetta magica e questo si rivela a Telemaco:  

« “ Il padre tuo sono, per cui singhiozzando,

soffri tanti dolori per le violenze dei principi. ”

Così dicendo baciò il figlio e per le guance

Il pianto a terra scorreva: prima l’aveva frenato...

                                    …allora Telemaco,

stretto al suo nobile padre, singhiozzava piangendo.

A entrambi nacque dentro bisogno di pianto » (XVI, 188-215)

 

Padre e figlio preparano la vendetta sui Proci. Penelope, avvisata dell’agguato dei Proci, scende dai piani alti a rimproverarli e in particolare Antinoo.

A sera il porcaio torna alla capanna da Telemaco e Odisseo, ma prima Atena ha reso di nuovo vecchio Odisseo per non farlo riconoscere da Eumeo. Eumeo ha fatto il suo rapporto (e s’è incontrato con l’araldo  inviato dalla nave di Telemaco che pure ha fatto il suo rapporto alla regina Penelope avvisandola che Telemaco è sano e salvo) e ha visto dalla collina d’Ermete sopra il borgo giungere la nave piena di armati che non ha capito bene, ma era proprio quella dei Proci beffati. Telemaco scambia un sorrisetto compiacente col padre quasi a dire che Eumeo è scemo e lui intelligente. La realtà, se ho capito bene, è che Telemaco è poco intelligente, come sempre, visto che ha dato due volte l’incarico di informare Penelope, la prima – anche solo implicitamente –  all’araldo che era sulla nave o che hanno contattato fuori del palazzo e la seconda, ad abundantiam, ad Eumeo. Eumeo era ignaro di come Telemaco era partito, con che nave e con quali uomini a bordo, e dunque non poteva riconoscere immediatamente la nave giunta in porto come la nave di Telemaco o quella dei Proci. I Proci rafforzano la loro  decisione di uccidere Telemaco perché avendo scoperto il loro agguato  non avrà pietà di loro e cercherà di rovinarli.  

 

22° giorno, libro XVII.  

Telemaco giunge a palazzo e racconta il suo viaggio alla madre. Anche Odisseo giunge a palazzo (« sale a spire profumo d’arrosto e la cetra risuona ») accompagnato da Eumeo e si mette a mendicare come se l’avesse fatto da sempre. Evidentemente Odisseo ha bisogno di entrare in contatto col nemico, ovviamente in incognito,  e saggiarne le potenzialità per poter essere sicuro di batterlo.

Prima di entrare però Odisseo scorge Argo, il suo cane da caccia, buttato là in un angolo fra il letame, pieno di zecche. Il cane, benché vecchio e abbattuto,  si accorge subito di Odisseo:  

« E allora, come sentì vicino Odisseo,

mosse la coda, abbassò le due orecchie,

ma non poté correre incontro al padrone.

E il padrone, voltandosi, si terse una lacrima...

        …entrò nella comoda casa,

diritto andò per la sala fra i nobili pretendenti.

E Argo la Moira di nera morte afferrò

appena rivisto Odisseo, dopo vent’anni » (XVII, 301-327)

 

Odisseo gira per i tavoli (e infatti i commensali mangiano seduti all’etrusca e non sdraiati alla greca) e chiede la carità di un tozzo di pane o di un po’ di carne e qualcuno gli fa la carità ma Antinoo gli scaglia addosso il proprio sgabello.

Penelope, saputo dell’arrivo dello straniero, manda Eumeo a invitarlo da lei per interrogarlo – come è solita fare con gli stranieri di passaggio da Itaca –  se sappia qualcosa a proposito di Odisseo. Eumeo anticipa alla regina che il mendico afferma d’essere un ospite antico d’Odisseo quando questo passò per Creta e che trovandosi preso i Tesproti ha sentito dire che Odisseo era vivo ed era passato dall’oracolo di Dodona (santuario druidico) prima di tornare a Itaca. In tutti i suoi comportamenti Odisseo si presenta come sovrano celtico con profonde conoscenze druidiche. Se ne deve concludere che la civiltà celtica era connaturata a quella siriana, come del resto prova il Disco di Festo (vedi il mio sito) fin dal II millennio a. C.

Odisseo accetta di parlare alla regina, ma di notte, quando i Proci se ne saranno andati a dormire fuori dal palazzo.

 

22°  giorno, libro XVIII.  

Avviene la lotta fra il mendicante Iro, che aveva l’esclusiva dell’accattonaggio a palazzo in cambio di semplici commissioni, e Odisseo, che vince e lo rende malconcio.

Penelope scende fra i pretendenti e dichiara che è pronta a sposare uno di loro, chi gli farà il dono più bello. Anche Eurimaco getta il suo sgabello contro Odisseo ma lo manca.

 

22° giorno, libro XIX.  

Telemaco e Odisseo portano via le armi dalla rastrelliera della sala. Un fenomeno paranormale avverte della presenza di Atena che con una luce splendente illumina la loro salita per le scale fino al magazzino dove chiuderanno le armi per impedirne l’accesso ai Proci.

E’ arrivata la notte dell’incontro fra Odisseo e Penelope:  

« O donna, nessun mortale sopra la terra infinita

può biasimarti, anzi fama di te sale al vasto cielo

come d’un re perfetto, che, pio verso i numi,

su numeroso popolo  e fiero  tenendo lo scettro,

alla giustizia è fedele: porta la terra nera

grano e orzo, piegano gli alberi al peso dei frutti,

figliano senza soste le greggi, il mare offre pesci,

per il suo buon governo: prospera il popolo sotto di lui » (XIX, 107-114)  

Questo elogio del re legittimo potrebbe benissimo averlo fatto la regina di Saba in visita al saggio Salomone. Però è curioso che il tanto celebrato Salomone possa vantare l’ammirazione di  una donna (lo dico non perché ne penso male, ma perché ne pensavano male, anzi, non ne pensavano affatto, gli Ebrei), una beduina del deserto, non del faraone d’Egitto o del re di Babilonia, che non pare si siano scomodati ad andarlo a trovare.  

Odisseo si spaccia, con la sua donna, per cretese. E’ il colmo dell’azzardo. Ma proprio per questo Odisseo ha scelto un incontro notturno, le sue fattezze alterate da Atena e comunque nella  penombra della luce fatta dai bracieri. Avrà poi cercato di alterare la sua voce:

                                                         « …Odisseo

nel cuore aveva pietà della sua donna gemente,

ma i suoi occhi eran fermi come il corno e l’acciaio,

immoti fra le palpebre: ad arte tratteneva le lacrime » (XIX, 209-212)  

Penelope gli chiede di fornirle una prova del fatto che davvero ha incontrato Odisseo e lui le parla di come Odisseo era vestito e del particolare della fibula d’oro (ve ne sono parecchie di fibule etrusche in oro anche eseguite con la tecnica della granulazione) raffigurante un cane che azzanna un cerbiatto. Penelope ricorda di aver attaccato lei stessa la fibula al manto color porpora.  

Penelope ordina a Euriclea di lavare Odisseo. Dunque in disparte da Penelope, che si trova al centro della sala illuminata dai bracieri, più in penombra, Euriclea comincia a lavare Odisseo partendo dai piedi, dentro un catino e via via salendo su per la gamba riconosce al tatto prima ancora che alla vista la cicatrice lasciatagli dalla zanna di un cinghiale quando giovanetto si recò a caccia sul Parnaso col nonno Autolico.

La vecchia nutrice rimane scioccata dalla notizia di avere di fronte a lei Odisseo, pianto a lungo dapprima nella attesa del suo ritorno e poi come morto:  

« Ora la vecchia, toccando la cicatrice con le due mani aperte,

la riconobbe palpandola, e lasciò andare il piede.

Dentro il lebete cadde la gamba, risonò il bronzo

e s’inclinò da una parte: in terra si sparse l’acqua.

A lei gioia e angoscia insieme presero il cuore, i suoi occhi

s’empiron di lacrime, la florida voce era stretta.

Carezzandogli il mento, disse a Odisseo:

“ Oh sì, Odisseo tu sei, cara creatura! E non ti ho conosciuto

prima d’averlo tutto palpato il mio re! ”

Disse e a guardar Penelope si rivolse con gli occhi,

volendo dire ch’era tornato il suo sposo » (XIX, 467-477)  

Da qui nasce la figura di… Tommaso (colui che non crede se non mette il dito nei buchi delle mani e dei piedi e nella ferita di lancia nel costato di Gesù) nel vangelo di Giovanni.  

Ma Odisseo la zittisce di fatto e anche con  minacce. Odisseo torna accanto al fuoco tenendo coperta la cicatrice coi cenci che ha indosso. Penelope gli confida il sogno delle oche e Odisseo glie lo spiega con la facilità di un Giuseppe in Egitto. Il sogno vuol dire che Odisseo torna e farà strage  dei Proci. Penelope gli confida la sua volontà  di proporre ai pretendenti la gara dell’arco. Sposerà chi riuscirà a far passare una freccia attraverso dodici scuri. Odisseo l’incoraggia a farla subito questa prova dell’arco:  

« O donna fedele del Laerzìade Odisseo,

non ritardarla più ormai questa gara in palazzo;

perché prima, sì, prima l’accorto Odisseo sarà qui,

che costoro maneggino il lucido arco che dici

per tender la corda e traversare l’acciaio » (XIX, 583-587)

 

22° giorno, notte, libro XX.  

Odisseo si fa approntare un giaciglio nell’atrio e per tutta la notte non riesce a prendere sonno tanto è preso dalla voglia di vendetta sui Proci e sulle serve infedeli che non solo lo insultano, come Melantò, ma se la godono coi Proci in casa sua:  

       « … dentro latrava il suo cuore, sdegnato dalle azioni malvage...

          … lui si voltava da una parte e dall’altra.

Come su un gran fuoco ardente un ventriglio ripieno

di grasso e sangue di qua e di là gira

un uomo e, impaziente, vorrebbe che molto in fetta arrostisse;

così da una parte e dall’altra Odisseo si voltava, pensando

come poteva gettare le mani si pretendenti sfrontati,

solo fra molti… » (XX, 16-30)

 

Mentre lui si addormenta  

            « …si destava la sposa fedele,

e piangeva, seduta sul morbido letto.

… [e  si mette a pregare Afrodite] ...

“ Sì, con me questa notte ha dormito qualcuno identico a lui,

qual era  quando andò con l’esercito: e dunque il mio cuore

godeva, perché non pensavo che fosse un sogno, ma il vero. ”

 

23° giorno, libro XX.  

« Così diceva, e a un tratto l’Aurora trono d’oro arrivò,

e la sua voce piangente sentì Odisseo luminoso;

e fu in dubbio un momento, gli sembrò in cuore

che lei, già sapendo, accanto al capezzale gli fosse.

Ma il panno prese e le pelli, sulle quali dormì,

e in sala le riportò su uno scanno… » (XX, 91-96)  

In questo caso è esemplificato perfettamente ciò che voglio dire quando nel passaggio dalla notte al giorno c’è un breve attimo in cui i due mondi terreno e dei morti s’incontrano e così Odisseo il redivivo e Penelope nel silenzio della notte hanno avuto entrambi la percezione di incontrarsi e stare vicini, come avviene nel film Lady Hawk in cui lei trasformata da una maledizione del vescovo in falco diurno e lui in lupo notturno hanno solo un attimo in cui potrebbero vedersi mentre si trasformano in animale o essere umano, ma è troppo breve perché facciano in tempo a percepire l’immagine nettamente.  

Di prima mattina a palazzo arrivano i mandriani con le bestie da macellare. Fra questi c’è il bovaro Filezio che mostra nostalgia per Odisseo:  

« Padre Zeus, nessuno fra i numi è più funesto di te:

non t’importa che gli uomini, a cui tu stesso dai vita,

sian sempre in mezzo a sciagure e mali crudeli.

Ho sudato, appena t’ho visto, e gli occhi son pieni di lacrime,

ricordando Odisseo: lui pure, m’immagino,

vestito così di cenci, va errando tra gli uomini,

se vive ancora, se vede il lume del sole » (XX, 201-207)  

Eppure, sentendo questa dichiarazione di Filezio e poi quella di Penelope dopo il riconoscimento di Odisseo, si deve dire che Omero ha ancora degli sprazzi di autentico ateismo e più che ateismo.  

Ctesippo, uno dei Proci, scaglia contro il mendico Odisseo una zampa di bue ma quello la schiva. Allora  

                            «  fra i pretendenti Pallade Atena

inestinguibile riso eccitò, travolse loro la mente.

Ridevano allora d’un riso involontario, inconsulto,

mangiavano carni insanguinate; ma i loro occhi

erano pieni di lacrime, l’animo pianto voleva.

Ed ecco tra loro parlò il divino Teoclìmeno:

“ Ah sciagurati, che rovina vi tocca? Di tenebra avete

fasciate le teste e le facce e, sotto, i ginocchi,

il singhiozzo vi brucia, son lacrimose le guance,

di sangue sono spruzzati i muri e i begli architravi;

d’ombre  è pieno il portico, pieno il cortile,

che scendono all’Erebo, sotto la tenebra; il sole

dal cielo s’è spento, fatale è scesa una notte di morte 

Il pranzo, dunque, sempre ridendo quelli finirono,

pranzo ricco e dolce, ché molte bestie avevano ucciso;

ma nessuna cena doveva esser più amara

di quella che presto la dea e il fortissimo eroe

avrebbero dato: per primi, del resto, avevan tramato indegni delitti » (XX, 345-394)

 

23° giorno, libro XXI.  

E’ arrivato il momento della prova dell’arco e Penelope:  

« La scala alta salì della sua casa, e prese

la chiave…

Mosse con le sue ancelle verso la stanza

ultima; qui stavano i tesori del re,

bronzo, oro e faticosissimo ferro.

Qui l’arco flessibile stava, e la faretra

riserve di frecce, e dentro eran molte frecce causa di gemiti

Ora, come arrivò alla stanza la donna bellissima,

e la soglia di quercia salì…

subito sciolse rapida la cinghia dell’anello,

spinse dentro la chiave e dei battenti allontanò i chiavistelli

con un colpo…

Allora sull’alto palco salì, dove l’arche

stavano, e dentro l’arche le vesti odorose.

Di lì protendendosi, dal chiodo staccava l’arco

con la custodia, che lo fasciava splendente.

E seduta per terra, sulle ginocchia tenendolo, 

piangeva forte, togliendo dalla custodia l’arco del re » (XXI, 5-56)

 

Dunque, rivolta ai pretendenti, Penelope propone la gara dell’arco. Sposerà chi fra i pretendenti riuscirà a tendere l’arco di Odisseo e a far passare la freccia attraverso il foro superiore di dodici scuri  piantate per il manico, una   di fianco all’altra. Si tratta di scuri siriane dette fenestrate e cioè con due fori in corrispondenza del manico (la freccia « non fallì di tutte le scuri l’anello alto, ma li traversò e ne uscì fuori il dardo greve di bronzo »).

Odisseo chiama in disparte Eumeo e Filezio e si rivela loro assicurandosene l’aiuto. I Proci tentano di curvare l’arco ma non vi riescono e Antinoo attribuisce il fatto alla festa di Apollo, rimandando la gara al giorno dopo. Ne approfitta Odisseo per una richiesta apparentemente innocua, provare se è ancora in grado di tendere un arco come ai bei tempi. I Proci si oppongono non perché ne abbiano paura ma perché non vogliono farsi ridere dietro se un mendicante è riuscito dove loro, i nobili, sono falliti. Penelope ordina di fargli fare la prova perché a suo tempo è stato un nobile. Che paura hanno di un vecchietto? Anzi promette di dargli in caso di successo vesti e sandali nuovi e un’asta e di farlo accompagnare dove desidera. Telemaco, come al solito, rimanda Penelope alle sue stanze. Queste sono cose da uomini e ora l’uomo in casa è lui. Telemaco ordina ad Eumeo di dare l’arco a Odisseo, ma Eumeo ha paura dei Proci che lo minacciano. Alla fine porta l’arco nelle mani d’Odisseo. Questo rigira l’arco fra le mani come un esperto e lo scalda al fuoco e ne tasta la corda come un arpista la sua cetra. Tende l’arco e scocca il dardo, passando tutte  e dodici le scuri:  

« Adesso è ora di preparare la cena agli Achei,

fin ch’è giorno; e poi variamente prendersi svago,

col canto e la cetra: questi son corona al banchetto » (XXI, 428-430)

 

23° giorno, libro XXII.  

Ha così inizio la strage dei pretendenti. Odisseo incocca un’altra freccia indirizzata ad Antinoo, l’Avversario:  

« Quello stava per alzare il bel calice,

d’oro, a due anse, lo teneva già in mano,

per bere il vino; in cuore la morte

non presagiva: chi avrebbe detto che tra banchettanti

un uomo, solo fra molti, fosse pure fortissimo,

doveva dargli mala morte, la tenebrosa Chera?

Ma Odisseo mirò alla gola e lo colse col dardo:

dritta attraverso il morbido collo passò la punta.

Si rovesciò sul fianco, il calice cadde di mano

al colpito, subito dalle narici uscì un fiotto denso

di sangue, rapidamente respinse la mensa

scalciando, e i cibi si rovesciarono a terra:

pane e carni arrostite si insanguinarono… » (XXII, 9-21)  

La cultura di Omero incorrotta dalla sub-cultura da schiavi cristiana non è una cultura del perdono ma della giustizia. Il re è tornato e ristabilisce la giustizia. Uno dei Proci gli propone un risarcimento del danno (tra l’altro irrisorio, che pare aggravare il danno con la beffa) ma Odisseo rifiuta. La giustizia si mantiene con l’ordine e con la certezza della pena. E’ per colpa del permissivismo legislativo e giudiziario che la delinquenza dilaga. Omero ci da una bella lezione, anche se dura, di coerenza. Una lezione di come si comportano gli uomini liberi e padroni della loro vita e di quella degli altri, non gli schiavi.  

Che il linguaggio omerico derivi dalla tradizione orientale lo dicono anche i riferimenti in questo stesso libro a leoni e avvoltoi (a proposito di questi mi chiedo se non  si faccia riferimento ad una specie di caccia col falcone) che non stavano in Grecia e nemmeno a Itaca. Trasferendosi nell’Alto Lazio i leoni diventano lupi o cani  e gli avvoltoi  falchi o altri rapaci nostrani.  

Odisseo, Telemaco, Eumeo e Filezio uccidono tutti i Proci tranne il cantore Femio e l’araldo Mèdonte:  

« Guardava… Odisseo per la sala, se ancora qualcuno

vivo gli fosse sfuggito, scampando alla tenebrosa Chera.

Ma tutti li vide fra il sangue e la polvere,

riversi i più, come pesci, che i pescatori

in un seno del lido, fuori dal mare canuto

hanno tratto con rete dai mille buchi: e là tutti,

l’onda del mare bramando, stan sulla sabbia riversi:

il sole raggiante toglie loro la vita;

così i pretendenti stavano uno sull’altro riversi  » (XXII, 381-389)

 

Euriclea appena vede la scena e realizza che i Proci sono tutti morti lancia un grido di gioia che è lo stesso (ci informa Erodono) che ancor oggi possiamo sentire in bocca alle donne berbere, cioè di cultura fenicia, cioè siriana, e che in greco si dice ololyghè (ululatus). Anche le donne troiane nell’Ira d’Achille invocano Atena con l’ololyghè.

Odisseo la frena: « In cuore, balia, godi, ma frènati, non esultare: non è pietà su omini uccisi far festa.

Costoro la Moira dei numi travolse, e le azioni malvage;

peché nessuno onoravano degli uomini in terra,

né il tristo, né il buono, chi arrivasse tra loro:

così, pel folle orgoglio, turpe fine trovarono »  (XXII, 411-416)

 

Se Odisseo è Adone e Penelope è Afrodite, i Proci chi sono? La risposta che mi viene più semplice in questo momento è che sono i tanti paredri maschili con cui si unisce  la Grande Madre e che Odisseo ha sconfitto nella gara per l’accoppiamento. In altre tradizioni più realistiche Penelope non era la mogliettina fedele che attendeva Odisseo per venti anni.

Odisseo ordina la punizione delle ancelle infedeli, e Telemaco (di solito sono le persone più miserabili ad infliggere le pene più dure) decide di impiccarle a un cavo di nave teso in alto, non prima d’aver ripulita tutta la sala dei corpi e dal sangue:  

« così quelle avevano le teste  in fila, al collo

di tutte era un laccio perché nel modo più tristo morissero.

E coi piedi scalciavano; per poco, però, non a lungo » (XXII, 471-473)

Poi il traditore Melanzio (fratello di Melantò e che aveva fornito le armi ai Proci dal magazzino distrattamente lasciato aperto da Telemaco ed era stato sorpreso a prendere armi e legato ad un trave in attesta di punizione) viene punito secondo le crude pene con cui gli Egizi punivano i popoli del mare o anche gli assiro-babilonesi o gli stessi Ebrei punivano i nemici vinti in battaglia, e cioè col taglio del naso, delle orecchie, dell’organo virile, dei piedi e delle mani.

 

23° giorno, libro XXIII.  

Penelope, avvisata da Euriclea della strage dei Proci e del ritorno di Odisseo, scende incontro a Odisseo:  

                                                        « …e il suo cuore

molto esitava, se di lontano al caro sposo parlasse,

o gli corresse vicino a baciargli il capo e le mani, stringendolo.

Ma come entrò, com’ebbe passato la soglia di pietra,

si mise a sedere in faccia a Odisseo, nel chiarore del fuoco,

presso l’altra parete: lui contro un’alta colonna

sedeva, guardando in giù, aspettando se gli direbbe qualcosa

la forte compagna, appena lo vedesse con gli occhi.

Ma lei muta a lungo sedeva, stupore il petto le empiva;

guardandolo, a volte lo conosceva in modo evidente,

a volte non lo conosceva, così coperto di cenci » (XXIII, 85-95)  

Qui Omero non è convincente, perché sebbene sporco di sangue, Odisseo è stato riconosciuto da Filezio come  fortemente somigliante a Odisseo, e gli stracci che indossa  non possono impedire il riconoscimento. E poi la voce, è quella che cambia meno, per cui veramente Omero s’è dovuto arrampicare sugli specchi. Tuttavia sarebbe stato più realistico giocare sul fatto che erano passati vent’anni e tante sventure che avevano solcato il volto di Odisseo.

Telemaco, che non ha mai visto il padre fin’ora, e ci crede solo perché glielo ha detto lui, dunque deve credere per fede, è anche meno realistico perché critica la madre per la sua freddezza. Odisseo pure si rammarica ma anch’egli ingiustamente perché deve pur riconoscere che non è più lo stesso di vent’anni fa, è piombato all’improvviso in questa casa spacciandosi per un mendicante cretese, raccontando un sacco di frottole, ha fatto una strage, e adesso pretende di non incutere perfino paura alla donna che si vede ancor più di prima in mano ad un potere estraneo, questa volta pericoloso, perché i Proci non hanno ucciso, lui sì. Ma la verità è che è impossibile razionalizzare una favola, e l’Odissea è nata come favola.

  

Ma intanto occorre far festa così che il popolo creda che si stanno celebrando le nozze della regina e non abbia il sospetto che invece c’è stato un massacro, perché si tratterebbe di combattere pochi contro tutti gli itacesi o quasi:  

« Del rumore dei piedi la gran volta echeggiava,

mentre uomini e donne bella cintura danzavano.

E così sussurrava chi udiva di fuori:

“ Sicuramente qualcuno sposa la molto ambita regina:

misera, non seppe del suo sposo legittimo

custodire la grande casa, finché ritornasse. ” » (XXIII, 146-151)

 

Odisseo, lavato e vestito a nuovo, chiede di predisporgli il letto e Penelope, presa la palla al balzo, lo mette alla prova e  dice alle serve di portargli il letto, quello che fabbricò lui stesso. E’ facile allora per Odisseo dire che quel letto non può essere spostato perché costruito su un tronco d’olivo che è il perno attorno a cui fu costruito l’intero palazzo.  

Allora Penelope  

« …piangendo corse a lui, dritta,  le braccia

gettò intorno al collo a Odisseo, gli baciò il capo e diceva:

“ Non t’adirare, Odisseo, con me, tu che in tutto

sei il più saggio degli uomini; i numi ci davano il pianto,

i numi, invidiosi che uniti godessimo

la giovinezza e alla soglia di vecchiezza venissimo.

Così disse, e a lui venne più grande la voglia di pianto;

piangeva, tenendosi stretta la sposa dolce al cuore, fedele.

Come bramata la terra ai naufraghi appare,

a cui Poseidone la ben fatta nave nel mare

ha spezzato, travolta dal vento e dalle grandi onde;

pochi si salvano dal bianco mare sopra la spiaggia

nuotando, grossa salsedine incrosta la pelle;

bramosi risalgono a terra, fuggendo la morte;

così bramato era per lei lo sposo a guardarlo,

dal collo non gli staccava le candide braccia.

E certo sul loro pianto sorgeva l’Aurora dita rosate,

se non pensava altra cosa la dea Atena occhio azzurro:

la notte sull’orizzonte allungò, trattenne sopra l’Oceano

l’Aurora aureo trono; i cavalli rapido piede

non le lasciava aggiogare, che luce agli uomini portano,

Lampo e Faètonte, i due cavalli che l’Aurora trasportano » (XXIII, 207-246)  

Sicuramente qui finiva in un primo tempo l’Odissea di Omero. La dea Aurora/Ino Leucothea fermava il suo carro e fermava il tempo. Liberi i lettori (perché l’Odissea, come anche l’Ira d’Achille furono scritti già al tempo di Omero) di credere ad un finale felice o triste, con la nuova partenza di Odisseo per il mondo dei morti (ed è la soluzione iniziale perché Adone muore e risorge annualmente), o per nuove avventure. La parte restante può ancora essere stata aggiunta da Omero (abbiamo visto che nell’Odissea, forse per ordine del committente, Omero crede, salvo eccezioni notevoli, negli dèi, dunque rientra nella norma la dichiarazione di fede negli dèi fatta da Laerte:  « Zeus padre, sì, che esistono gli dèi sull’eccelso Olimpo, se veramente i principi la folle violenza pagarono! ») in un’ultima fase,  e forse proprio ora inserisce anche nella Odissea tutte le espressioni di fede negli dèi e in particolare in Atena. Vero è che molti, invecchiando, tornano bambini e dunque preda delle paure, paure del tutto naturali (un giorno non molto lontano anche il più ignorante degli uomini si vergognerà da vecchio a credere negli dèi),  e quella degli dèi è la peggio di tutte. (E’ per questo che le religioni sono spregevoli, perché fanno leva sulle paure infantili dell’uomo incolto, cioè di quasi tutti gli uomini.)  Sicuramente l’omerida che portò a termine l’Odissea aveva bisogno di esaltare Atena e dunque di infondere la fede negli dèi. Dunque tutte le interpolazioni spdoratamente fideistiche potrebbero essere opera del nostro omerida pisistratide.

Dunque Odisseo racconta a Penelope le sue avventure sottolineando che dovrà ripartire e fondare niente di meno che la grande Roma come gli ha profetizzato all’Ade l’indovino Tiresia. E’ evidente che Omero l’etrusco-romano non avrebbe mai sottolineato senza motivo questo tema, propagandato dai Greci e infondato, nell’Odissea che non era più finanziata per favorire gli investimenti in Italia dei mercanti greci.  

Spunta già l’alba e Odisseo, seguito da Telemaco, Eumeo e Filezio si reca alla tenuta di Laerte.

 

24° giorno, libro XXIV.  

Questo libro potrebbe essere sempre omerico, aggiunto in fine a parte, mentre la dichiarazione di fede negli dèi di Laerte potrebbe essere stata interpolata dall’omerida pisistratide. Questa tesi è per me la più sostenibile al momento. Contiene due passi ben scritti che non possono che essere  omerici. Il primo riguarda il trasporto delle anime dei Proci all’Ade:  

« Ma Ermete Cillenio chiamava le ombre

dei pretendenti; aveva in mano la verga

bella, d’oro, con cui gli occhi degli omini affascina,

di quelli che vuole e puo’ svegliare chi dorme;

le guidava movendola, e quelle gli andavano dietro squittendo.

Come le nottole nel cupo d’un antro divino

Squittendo svolazzano, quando una cade dal grappolo

Appeso alla roccia; poi si riattaccano una all’altra;

così squittendo l’ombre andavano insieme; le conduceva

l’astuto Ermete per putridi sentieri.

Giunsero alle correnti d’Oceano e alla Rupe Bianca;

e alle Porte del Sole e tra il popolo dei Sogni

arrivarono: e presto furono nel prato asfodelo,

dove abitan l’ombre, parvenze di morti » (XXIV, 1-14)

 

L’altro, riportato in parte, riguarda i funerali d’Achille raccontati al medesimo da Agamennone:  

« In essa [nell’urna d’oro data da Teti lavoro d’Efesto] riposano

                                          le bianche ossa tue, splendido Achille,

miste con quelle del morto Patroclo Meneziàde,

e a parte quelle d’Antìloco, che sommamente onoravi tra tutti

gli altri compagni, dopo la morte di Patroclo.

Sopra quell’ossa, poi, grande e glorioso tumulo

versammo, noi sacro esercito dei bellicosi Argivi,

su una lingua di spiaggia, verso il largo Ellesponto,

perché di lontano fosse visibile, dal mare, agli uomini,

quelli che ora vivono e che in futuro saranno » (XXIV, 76-84)  

Gli Etruschi praticarono l’incinerazione in un contesto italico, dunque anche greco, in cui nello stesso tempo si praticava l’inumazione. Omero, che conosceva l’incinerazione dell’Etruria e la riteneva insieme al resto retaggio dell’età micenea, la applicò a tutti i popoli, Achei e Troiani. Nella piana di Troia i tumuli ci sono davvero. Fossero o meno in relazione coi tumuli etruschi di Cere, tali li interpretarono gli antichi e soprattutto Omero.

 

Dopo essersi fatto riconoscere da Laerte non prima d’averlo a mio avviso umiliato inutilmente, si armano e vanno incontro agli itacesi  che nel frattempo hanno saputo della strage e chiedono vendetta.

Allora, secondo l’uso dei druidi celti, l’araldo Mèdonte e il divino cantore Femio si interposero fra i due gruppi d’armati:  

« e ritti stettero in mezzo alla folla, sutpore colse ogni uomo.

Allora fra loro parlò Mèdonte, che saggi pensieri sapeva

Così parlò: e tutti verde terrore vinceva.

E fra loro parlò il vecchio eroe Aliterse

Il figlio di Màstoro: lui solo vedeva il prima e il dopo

Così parlò: e quelli fuggirono via con grande clamore,

più di metà… » (XXIV, 441-464)

 

Atena scende dall’Olimpo e indirizza l’asta scagliata da Laerte che colpisce Eupite, padre di Antinoo e gli altri colpiscono altrettanti attaccanti. Poi Atena ferma la strage e Zeus scaglia la folgore:  

« E un patto per il futuro stabilì fra di loro

Pallade Atena, la figlia di Zeus egìoco,

sembrando Mentore all’aspetto e alla voce » (XXIV, 546-548)

 

Mentre l’Odissea omerica si chiude con la dea del santuario di Pyrgi che è la dea omerica del Viaggio d’Odisseo e mantenuta da Omero anche dopo la necessitata introduzione di Atena, numen loci di Itaca, l’Odissea pure omerica, ampliata, è stata  ritoccata (male e comunque in modo facilmente smascherabile) dall’omerida pisistratide e si chiude con l’esaltazione di Atena, dea di Atene, come dea della pacificazione e della legalità, del diritto.

Pisistrato s’avvalse molto di più del rimaneggiamento dell’Ira d’Achille, già ampliata da Fidone d’Argo alla metà del VII secolo (dunque subito dopo la realizzazione omerica), cui egli aggiunse i suoi ampliamenti facilmente individuabili laddove esalta eccessivamente l’esercito ateniese (che Omero neppure aveva preso in considerazione), e ciò perché egli aveva conquistato Sigeo presso Troia e l’operazione sembrava riprodurre in piccolo una guerra di Troia. L’Iliade si addiceva di più a dei Greci che non avevano capito il messaggio civilizzatore dell’Odissea e dell’Ira d’Achille e continuavano barbaramente sulla strada dell’esaltazione delle virtù guerriere fini a se stesse, che Omero aveva voluto condannare sostituendole dal valore civico di Ettore che moriva per la propria patria avendo di meglio da desiderare, il figlio Astianatte e la giovane sposa Andromaca. E’ un destino comune a tanti grandi Italiani quello di essere stati dei geni  incompresi e dei geni emigranti. L’opera di Omero, il più grande di tutti, non fa eccezione.

   

 

Fine

     

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