Dopo
i miei studi è evidente che gli Etruschi ritenevano di originare dalla Siria ed
è per questo che dicevano di chiamarsi Rasenna (come si deduce dalle iscrizioni
etrusche dove compare il termine rasena, rasna, e dalla testimonianza di Dionisio di Alicarnasso circa la
derivazione del nome che gli Etruschi stessi si davano, Rasenna, dal nome di
uno dei capi, 1, 30, 3), verisimilmente
da Retenu o Ratenu o Rasenu, il nome (nei testi egizi) della costa siriana.
Naturalmente si tratta solo della casta dominante, non della massa della
popolazione etrusca indigena, che del resto ha dato la lingua agli Etruschi,
una lingua che non è semitica e che non possiamo accostare a nessuna lingua
antica – salvo il lemnio, scarsissimamente documentato – e che possiamo definire solo come lingua
anindeuropea in cui sono filtrati elementi indeuropei al tempo
dell'indeuropeizzazione dell'Italia. Però andava, e va, così, che nelle
descrizioni sbrigative e sintetiche la massa prendesse nome dai capi e se
questi erano stranieri la nazione tutt’intera diventava straniera. E’ Omero che
ricollega i capi fondatori di Pyrgi/Scheria (e l’archeologia conferma questa
identità culturale immigrata da un capo –
Palestrina, con gli arredi delle sue tombe principesche di chiara
derivazione siriana – all’altro –
Murlo, dove sul palazzo omonimo dominano figure di antenati come quella
con barba curata all’assiro-babilonese
– dell’Etruria) ai giganti, i
capi guerrieri discendenti dagli dèi e divinizzati dopo la morte, che Baruc ci conferma tipici della Palestina (3, 26:
« i famosi giganti dei tempi antichi, alti di statura – come Achille
omerico, il più gigantesco degli eroi greci a Troia – esperti nella guerra »). Sia Odissea (7, 56ss: il « grande
Eurimèdonte, che regnava sui Giganti superbi. Ma il pazzo suo popolo egli
distrusse, e lui stesso perì. » Ciò
significa appunto che per la tracotanza dei giganti gli dèi distrussero Thera e
mandarono il diluvio che devastò anche la Siria-Palestina) che Genesi (6, dove
Dio per punire l’umanità malvagia al tempo dei giganti mandò sulla Terra il
diluvio) confermano che gli antichi ritennero questi giganti cioè i figli degli
dèi della cosiddetta età dell’oro (in cui rientrano quelli della guerra di
Troia) di Esiodo puniti dalle divinità con l’eruzione del Thera, ciò che gli
Ebrei trasformarono nel Diluvio. Esiodo dunque, pur contemporaneo di Omero, non
attinge all’antichissima tradizione delle grandi civiltà del Vicino Oriente cui
attinge Omero, bensì a quella della barbara Grecia degli albori della storia
(che, lingua a parte, nulla ha a che vedere con la civiltà minoico-micenea),
per cui appare come un fanciullino
stolto e pieno di superstizioni che ammira senza conoscerla un’età che gli è
completamente estranea culturalmente e di cui viene a sapere solo grazie a
personaggi come Omero.
Su
internet leggo che Charles Pellegrino riporta che nel V secolo Diodoro Siculo visitò la parte orientale dell’isola
turca di Samo e riferì che gli abitanti seguivano un'antica tradizione che
consisteva in sacrifici animali su altari elevati sulla spiaggia a indicare la
linea della massima espansione di una terribile alluvione marina. Secondo la
leggenda c’era stato un fuoco nel cielo, e tuoni e buio, e Poseidone, si
raccontava, s’era rivoltato contro i suoi propri figli che abitavano un’isola
molto lontana a occidente; e si diceva che su quell’isola aveva coperto una
città ‘chiudendola con una montagna’ (Unearthing Atlantis, 1991, p. 89). A Samo
c’erano degli omeridi e Samo si trovava nella direzione dell’esplosione
del Thera. E’ dunque possibile che Omero abbia acceduto a questa come a
tradizioni analoghe dell’area anatolica e se ne sia servito per la profezia di
Nausitoo padre di Alcinoo che aveva lo scopo di far identificare dall’
uditorio Pyrgi come Monte Perge dei
Tirreni cioè come città etrusca che –
ma questo dipendeva dalla divinità –
un giorno Poseidone avrebbe nascosto sotto un monte, per punirla per il fatto che i Feaci riportavano sempre
tutti i naufraghi a casa loro, compreso Odisseo che aveva accecato l’unico
occhio a suo figlio Polifemo.
L’esodo
da Creta e dall’Egeo riportò dunque i Pelasgi (di lingua greca e costumi
semitici che scrivevano con la geroglifica del Disco di Festo) in bassa Siria
dove li conosciamo come Filistei e anche a Cipro, in Cilicia e in alta Siria di
cui erano originari. Come ho recentemente dimostrato sul mio Sito, la
tradizione greca dei Sette contro Tebe, degli Epigoni e della guerra di Troia
da una parte e quella dell’Esodo e della conquista della Palestina da parte di
Giosuè dall’altra sono le due facce della stessa medaglia, cioè due tradizioni
che i due popoli hanno tratto
indipendentemente della medesima esperienza di popoli del mare indeuropei
(Pelasgi/Filistei, Danai, forse Achei, ecc.) convissuti con altri popoli del
mare anindeuropei di cui possono avere assimilato o aver avuto in comune
elementi culturali e religiosi (Shardana, Tursha, ecc.) – e con altri semitici
come i Beniaminiti – che invasero prima
l’Egitto e poi il Levante. L’elemento in comune fra Pelasgi/Filistei e
Danai/Daniti (e altri “Greci”) da una parte ed “Ebrei” dall’altra sta nel fatto
che si ambientarono in Palestina divenendo semiti a tutti gli effetti da
indeuropei che erano. Nonostante ciò ritengo sia possibile e probabile che i
redattori dell’Antico Testamento abbiano potuto copiare da Omero e dalla
civiltà occidentale determinate versioni della tradizione storica anche perché
l’Antico Testamento è stato messo per scritto successivamente a Omero e alcune
parti possibilmente anche successivamente alla Repubblica di Platone. Poiché i
Pelasgi erano di lingua greca (si ricordi che anche gli Ateniesi vantavano
ascendenze pelasgiche) era più realistica la pretesa greca di una affinità fra
gli Etruschi e i Greci. Ma i Pelasgi erano di cultura siriana, ciò che appunto
calza alla perfezione con l’orientalizzante, anche se questo venne molto tempo
dopo. Il Villanoviano emerge soprattutto dopo la chiusura dei mercati
orientali dei metalli in seguito alla dominazione assira, dal 750 a. C. a tutto il VII secolo con la
civiltà dei Rasenna con cultura orientalizzante. Il Villanoviano è
l’espressione dello sviluppo della regione in seguito allo sfruttamento delle
miniere della costa e già si manifesta come espansione verso la Campania e la
pianura padana. Gli antenati orientali degli Etruschi per Omero sono sempre
siriani, i Feaci di Siria, i cui marinai servivano gli interessi del faraone
Radamanto/Seqenenra Ta’o II di Creta (Odissea 7,321ss) prima dell’eruzione del
Thera che avrebbe sconvolto la loro vita costringendoli ad emigrare fra l’altro
in Etruria. Possiamo notare un parallelismo
nella storia etrusco-romana fra i giganti siriani, i Rasenna, da una
parte, e dall’altra Romolo e i mercenari Ramnenses strettamente affini ai
Beniaminiti mercenari col lupo come insegna totemica, i semiti nella cui
cultura c’era il ricordo di Sargon affidato in una cesta alle acque come Romolo
all’inizio della sua storia e un Elia assunto in cielo in un carro di fuoco, in
una tempesta, sempre come Romolo, alla fine della sua esperienza terrena. E’
coi Rasenna e coi Beniaminiti di Romolo (mercenari che frequentavano il porto
di Memfi, legato alla tradizioni dei Cabiri e dei Penati affidati alle acque in
una cesta come Mosè verisimilmente nella stessa Memfi dov’era il quartiere dei
Tiri ovvero dei Fenici) che già nel Villanoviano sorgono le prime aggregazioni
di villaggio cinto da palizzata come la città di Scheria dei Feaci. Omero nella
sua cronologia approssimativa che celebra il presente di Demarato corinzio con
gli occhi del mito di Odisseo data il primo insediamento a Pyrgi una
generazione prima di Alcinoo/Demarato, attribuendolo a Nausitoo padre di
Alcinoo (Odissea 6, 7ss). Ma la stessa tradizione indigena attribuisce proprio
a Demarato corinzio l’introduzione dell’alfabeto e l’urbanizzazione
(« di mura circondò la città,
fabbricò case, e fece templi ai numi e divise le terre. » Od. 6, 9-10)
dell’Etruria o più esattamente a partire da Tarquinia dove egli si stabilì. E’
coi Rasenna in cui Demarato è perfettamente integrato che l’Etruria e il Lazio
passano dalla preistoria alla storia. Pertanto allo stato delle conoscenze sarà
esatto parlare di Rasenna invece che di
Tirreni per la civiltà storica etrusca, mentre di Tirreni o Tursha potremo
parlare per l’età precedente del movimento dei popoli del mare in cui questo
popolo era emigrato dall’Italia nell’Egeo. Tutto quel che c’è prima dei Rasenna
è una popolazione primitiva indigena parlante etrusco preindeuropeo. Anche
prima dell’orientalizzante c’è una ininterrotta continuità di frequentazioni
dall’area cretese, egea, siriana, rappresentata dai micenei e dai fenici. Basti
pensare ai marinai fenici di re Salomone che intorno all’anno 1000 si recavano
fino alla lontana Tarshish (che Tarshish sia l’Etruria che con le sue
navigazioni fino alle colonne d’Ercole e oltre si procurava le mercanzie di cui
Salomone si approvvigionava?) Salomone, se mai è esistito un re di tal nome,
aveva uno stato insignificante e non certo marittimo, ma a noi interessa qui il
riferimento alle navi fenicie ed eventualmente a quelle tirreniche. Se Tirreni significa, com’è verisimile, “ costruttori di torri ”, si riferisce più correttamente ai Sardi
nuragici e dunque così i Greci e gli Egizi chiamarono – impropriamente – i Tirreni dell’Etruria confondendoli
nell’ambito dei Tirreni delle isole e della penisola. Tirreni/Tursha,
Sardi/Shardana e Siculi/Sheklesh dall’Italia e assalirono l’Egitto. Dei Tursha
come degli Achei (probabilmente della Troade) abbiamo notizia solo nell’assalto
dell’anno 5 di Merenptah intorno al 1200 a. C. Anche per questo motivo
l’impiego del nome Tirreni/Tursha ed
Etruschi (costruito su E-Tursha > E-Turskoi) è meno affidabile di
quello di Rasenna, il nome che si davano gli abitanti dell’Etruria secondo la
verisimile tradizione raccolta da Dionisio d’Alicarnasso. Ma si noti che Pyrgi
da pýrgos significa “ le mura, le mura fortificate con torri ” dunque anche “
le torri ”, col che potrebbe esservi un appiglio all’identificazione comunque
esteriore degli antichi Etruschi col termine di Tursha/Etruschi.
Fine
Il Fanum Voltumnae di Volsinii/Orvieto, cuore
dell’Etruria-Umbria
Nota 1.
Fine
Trascrizione:
Lato A: aker tavarsio / vanala3ial
seronai morinail / holaies naphoth / siasi / marasm av / 3ialkhveis avis /
evi3tho seronaith / sivai. Lato B: holaiesi phokiasiale seronaith evi3tho
toverona[l?] / romh aralio sivai eptesio arai tis phoke[-?] / sivai avis
sialkhvis marasm avis aomai.
Non ho trovato in giro la traduzione di questa
epigrafe che così leggo:
A: Aker Tavarsio / donò come ufficio funebre, / (A.
T. il) nipote di Holaie, / defunto, / per cinque (e) / quaranta anni / al
servizio di Efesto (il dio) / vissuto. B: Ad Holaie di Focea al servizio di
Efesto Tiberino / sul suolo di Roma, nel settimo anno di residenza a Focea, /
ad anni di vita quarantacinque scomparso.
Reso più scorrevole: A: Aker Tavarsio donò (la
stele) come ufficio funebre. (A. T. il) nipote di Hylaios/Silvio, defunto,
vissuto per quarantacinque anni al servizio del dio Efesto. B: A Hylaios di
Focea servitore di Efesto Tiberino a Roma, scomparso ad anni quarantacinque nel
settimo anno che risiedeva a Focea.
Se leggo bene la stele, che è il documento etrusco-romano
più antico che possediamo, questa
dimostra che nel VI secolo a. C., al tempo della monarchia di origine tarquiniate, cioè di origine corinzia (da
Tarquinio I a Tarquinio II), gli etrusco-romani erano una realtà unitaria e che
la talassocrazia etrusca non era una favola ma una realtà concreta, marcata da
avamposti commerciali che sulla scia delle esplorazioni degli etruschi
Argonauti (vedi sul mio Sito) erano situati nell’Egeo come a Kaminia nell’isola
di Lemno, sulla costa anatolica come Focea di Lidia, ma certo anche lungo il
Mar Nero fino alla leggendaria Colchide. Il nome proprio o soprannome di
Holaies corrisponde al greco Hylaios, da cui Ileo e Ilio, femminile Ilia, e al
latino Silvius (da cui il femminile (Rea) Silvia; la madre di Romolo – e poi
anche di Remo rappresentante della comunità inglobata dell’Aventino –
divinizzata come madre dei Cabiri o Dioscuri, degli antenati divini della
comunità romana), che ritengo fosse il
soprannome dei re di Roma a partire da Romolo che aveva vissuto in
clandestinità nei boschi del Palatino dove era nato. Da Livio emerge che di
questo soprannome si impadronì la falsa tradizione dei re di Albalonga, gli
usurpatori di Lavinio poi abbattuti da Romolo (ovvero probabilmente un Ostilio
della gens omonima che veniva considerato compagno di Romolo ed entrambi mariti
di Ersilia) e da suo padre Faustolo/Tirreno,
e confinati in Albalonga che mai fu all’origine della fondazione di
Roma. E’ dunque perfino possibile che questo sacerdote di Efesto Tiberino che
poi altri non è che Vertumno alias Proteo, del santuario di Volsinii,
appartenga alla famiglia che vantava più direttamente la sua discendenza dal
fondatore di Roma. Addirittura la Stele di Lemno potrebbe avvalorare l’ipotesi
da me avanzata che Vertumno sia stato dapprima venerato nel santuario federale
di o presso Tarquinia anteriormente a Romolo e poi a partire da Romolo, e
precisamente dal 749 a. C., nel santuario federale in Roma verisimilmente in
quello che poi fu il Vicus Tuscus, mentre solo dopo la defezione di Roma dalla
confederazione alla fine del VI secolo il Fanum Voltumnae dové essere
trasferito a Volsinii/Orvieto probabilmente anche per ricercare una unione con
gli Umbri in funzione antiromana nel momento in cui Chiusi sale alla ribalta
come potente centro politico etrusco in seguito al tentativo, fallito, di
Porsenna di riportare Roma nell’ambito della confederazione. Qualcuno si
stupirà del fatto che un sacerdote sia rappresentato con lancia e scudo, ma la
cosa si spiega col fatto che i sacerdoti di Efesto/Vulcano (a Lemno località di
fonditori), assimilato a Zeus nell’Ida cretese (che rimanda all’Ida anatolico),
battevano le lance sugli scudi per occultare i vagiti del dio in fasce affinché
non li udisse Crono che divorava tutti i suoi figli. Questi sacerdoti erano i
Cureti ed erano assimilati ai bronzisti Cabiri che assistevano Efesto nella sua
fucina. Così Holaies di Focea sacerdote di Efesto e discendente di Romolo, come
Romolo è raffigurato nell’aspetto di guerriero armato di scudo e lancia. Dionisio
d’Alicarnasso afferma di aver visto così, armati di lancia, raffigurati gli dèi
troiani, i Penati, certo i gemelli, seduti, opera di antica fattura, in un
antico tempio della Velia non lontano dal Foro, su una viuzza che portava alle
Carinae (I,68). Gli Etruschi dovettero la loro fortuna ai metalli delle loro
ricche miniere e nessun dio meglio di Efesto potevano venerare nei centri di
incontro con le popolazioni del Mediterraneo orientale con cui commerciavano e
scambiavano esperienze metallurgiche. Il lemnio è dunque un dialetto tirreno,
la lingua dei Tirreni che partiti dall’Italia un tempo popolarono Lemno
(Tucidide, VI,109) e che Dionisio d’Alicarnasso distingue nettamente dai
Pelasgi con cui i Greci tendevano a confonderli (I,29 e 30). Erodoto (VI,138)
accenna al rapimento delle Ateniesi che celebravano a Braurone una festa in
onore di Artemide da parte dei Tirreni (che lui chiama Pelasgi) di Lemno.
Dunque i Tirreni volevano integrarsi con la popolazione locale attraverso il
rapimento delle donne, come comandava Afrodite Urania.
Tempo dopo la morte del sacerdote Holaies, nel 509
a. C., cade la monarchia di Tarquinio II il Superbo e di ciò approfitta
probabilmente Milziade per conquistare Lemno entro la fine del VI secolo. Col
crollo della monarchia etrusca a Roma e dunque con l’uscita di Roma dalla
confederazione l’Etruria vede ridursi i collegamenti con la Campania e poi, dopo un iniziale successo
con la sconfitta dei Liparesi, anche quelli con l’Egeo attraverso lo stretto di
Messina a causa della fortificazione
dello Skyllaion (Scilla) da parte di Anaxilas di Regio e delle disfatte dei
Cartaginesi ad Imera (480) e degli Etruschi nelle acque di Cuma (474). Si
interrompono i legami fra Roma repubblicana, che deve ricominciare daccapo la
corsa all’impero, e l’Egeo, mentre gli Etruschi del Tirreno si richiudono
sempre più in se stessi fino alla conquista romana e alla loro integrazione
nella nazione vincente.
Dopo la mia interpretazione della Stele di Lemno, a meno che non si tratti di miraggio, sempre possibile quando si lavora su materiale così scarso, l'ethnos etrusco appare abbarbicato con le sue radici più profonde nell'Italia preistorica, così come lo vedeva il grande storico Dionisio d'Alicarnasso, con la conseguenza che si dovrà studiare l'etrusco con l'etrusco (cosa che del resto abbiamo fatto finora) senza preoccuparci di ricercare affinità linguistiche altrove, che se ci saranno saranno dovute ad esempio all'ambientarsi dell'etrusco nell'Egeo e nel Mar Nero (etrusco orientale, lemnio) e dunque alle imitazioni e agli imprestiti reciproci fra questa lingua e quelle della regione egeo-caucasica. L'auge della civiltà tirrenica si collocherà nel cosiddetto appenninico, quando potrà avere un senso pieno l'osservazione di Catone secondo cui un tempo « quasi tutta l'Italia era stata sotto il dominio degli Etruschi » (Servio, ad Aen., XI, 567) e quella più puntuale di Dionisio d'Alicarnasso secondo cui « il nome di Tirrenia risuonava per la Grecia e tutta l'Italia occidentale, tolte via le denominazioni delle singole popolazioni, assunse quell'appellativo » (I,25,5). Tyrsenoi, Tursha, Turskoi venivano chiamati dai paesi esterni che ne avevano evidentemente una conoscenza confusa perché "costruttori di torri" (così era spiegato il significato di Tyrsenoi) si addiceva propriamente ai Sardi costruttori di nuraghi. Ma certo a quest'epoca i Sardi saranno stati difficilmente distinguibili dagli Etruschi, con cui avevano relazioni reciproche, anche se indicati da un preciso nome distintivo noto agli Egizi. Se infatti i Tirreni che un tempo occuparono l'Attica e rapirono le donne di Braurone sono quelli con elmo cornuto raffigurati sul Cratere dei guerrieri dall'acropoli di Micene (1200 a. C.), allora si tratterà più propriamente di Shardana/Sardi.
Del
resto guerrieri con elmo cornuto si trovano raffigurati su un secchiello dorato
da Chiusi e all'interno di una tomba da Paestum. Certo gli Etruschi impararono
a percorrere il mare soprattutto dopo l'incontro coi navigatori minoico-micenei
e siriani che navigando a occidente si imbattevano necessariamente nell'Italia.
Ma stando a Dionisio d'Alicarnasso si direbbe il contrario, perché i Pelasgi
provenienti dalla Grecia « erano esperti nella navigazione per aver vissuto con
i Tirreni » (I,25,1). Certo è che presto anche loro si misero ad esplorare il
Mediterraneo sia verso e oltre lo stretto di Gibilterra entrando in
competizione coi Punici e Cartaginesi, sia fino al Mediterraneo Orientale
e prima dello stretto dei Dardanelli si
stabilirono a Samotracia, Imbro, Lemno e Antandro, e oltre i Dardanelli nel
mare di Marmara a Placia e Scilace, fino certo al Mar Nero e ai fiumi che da
questo si inoltravano nella sconosciuta Asia. Più che di esplorazioni, secondo
gli antichi si sarebbe trattato di emigrazioni in massa a causa delle carestie
e situazioni climatiche particolarmente sfavorevoli. Il bello è che da questo
momento si parla di declino dei Tirreni il cui floruit era dunque visto nel
bronzo medio, durante l'orizzonte della civiltà appenninica, se non anche
prima. Ma tenuto presente che erano " genti bellicose ", esperte
nella navigazione, è facile concludere che fossero spinte ad espandersi e
cercare nuove fonti di prosperità attraverso le esplorazioni marittime e non
attraverso le emigrazioni da carestia, cosa che invece le riguardò nell'Egeo.
Comunque secondo Dionisio « prevalevano senza difficoltà in qualunque
territorio andassero. Dal resto degli uomini essi venivano denominati
Tirreni... col nome del territorio da cui erano migrati » (I,25,1-2). Non c'è
dubbio che eccettuato Mirsilo di Metimna, che attribuisce la colonizzazione
egea ai Tirreni d'Italia (in Dionisio d'Alicarnasso, I,23,5), i Greci ricorsero
all'immigrazione pelasgica perché non gli andava giù che i Tirreni fossero così evoluti senza avergli chiesto il permesso. Comunque, per
voler interpretare le cose in senso più vicino al vero, invece che di
colonizzazione pelasgica dell'Italia si parlerà di frequentazione da parte dei
minoico-micenei, il che è archeologicamente provato. I Pelasgi erano di lingua
greca e al tempo dell'Apoteosi di Radamanto (1550 a. C.) erano già venuti dalla
o erano già arrivati fino in Siria se la testina piumata del sillabario festio
va letta Syrios, o anche *siranos/*sirenos (cioè divenuto satem da kentum che
era: koiranos, principe, capo). Troia appartiene strettamente alla cultura
etrusca perché era una rocca a guardia dello stretto dei Dardanelli e si doveva
pagare il passaggio al funzionario preposto e ciò era inderogabile perché oltre
all'andata v'era anche un ritorno e dunque chi faceva il furbo veniva
sanzionato necessariamente. Poiché i Tirreni avevano impiantato tante
basi lungo il percorso non è nemmeno da escludere che Troia sia stata per un
determinato arco di tempo una loro roccaforte. Ciò chiarirebbe meglio perché i
Romani (più che i Latini di Albalonga, il cui vanto era un'impostura e semmai
si può spiegare come riferimento di tutte le aristocrazie d'Europa, si può
dire, ai modelli della nobiltà omerica) vantavano ascendenze troiane. Dunque se
i Troiani erano in realtà gli Etruschi, la colonizzazione greca che si
sovrappose alle colonie etrusche fino al Mar Nero poteva far nascere la
leggenda degli Achei che invadevano la Troade e colonizzavano l'Asia, tanto più
che gli Akhiyawa (che davano il nome) erano stanziati dal XIV secolo nella
Troade. Dunque quella dei Romani o meglio degli Etruschi/Troiani (e dunque dei
Romani in quanto Etruschi) non era una fantasia ma una realtà. Lo strangolamento
dell'Etruria da parte dei Greci iniziò nell'Egeo e nel Mar Nero. Dunque i
Troiani (discendenti o meno di Dardano) venivano dall'Italia, che a quel tempo
era una grande Etruria. La stele di
Lemno ci rafforza nella convinzione che gli Etruschi essendo metallurgi
andavano alla ricerca del ferro e degli altri metalli preziosi e li scambiavano
con gli altri popoli fino alla leggendaria Colchide. Erano essi gli Argonauti
(significativamente menzionati da Omero nell'Odissea) di cui poi i Greci si approprieranno
facendoli partire dalla Tessaglia, l'unica regione arretrata che poteva avere
la lingua o i costumi abbastanza vicini a quelli dei mitici Pelasgi con cui
venivano confusi dai Greci i Tirreni, salvo che da Tucidide che li distingue
bene (IV,109). Quando la crisi economica devasta l'oriente mediterraneo tutti
questi popoli mercantili e industri si danno necessariamente alla pirateria
come nel falso eppur verisimile racconto ad Eumeo di Odisseo che dice di essere
partito da Creta per andare a razziare l'Egitto. Orbene all'etrusco Omero
questi racconti provenivano dai pirati tirreni (e prima ancora i testi egizi
menzionano i Dardani alleati degli Hittiti a Qadesh) che almeno dall'anno 5 di
Merenptah intorno al 1200 a. C. assalivano il delta egiziano, diventando poi
mercenari al soldo dei faraoni fino ai tempi tardi, quando uno di loro riportò
a Tarquinia e si fece seppellire (siamo a cavallo fra
Romolo e Numa) con la situla riportante il nome del faraone Bocchoris ovvero
Wahkare Bokenrinef (720-715 a. C.) che forse lo stesso faraone gli aveva donato
come onorificenza pei servizi prestati, sempre che non sia stato il
frutto di un'ennesima rapina. Ma la stele di Lemno è anche importante perché ci
conferma che la storia di Roma è indivisibile, a partire dalla fondazione di
Roma, da quella dell'Etruria su cui primeggia inserendosi e sovrapponendosi
alle sue iniziative. Così la stele di Lemno è certamente etrusca (sia pure di
un etrusco differenziatosi regionalmente) e nello stesso tempo si riferisce ad
un contesto romano di Roma città etrusca fin dal tempo di Romolo. Ma qui
sappiamo per altra via che i Romani di Romolo non erano etruschi e nemmeno
italici, bensì provenivano dalla Siria. Avevano troppo in comune coi
Beniaminiti (i "figli della riva destra") originari della valle
dell'Eufrate: l'asino, animale di Seth e Geova/Tifone, che i Romani
sostituirono col cavallo di Poseidone/Conso; lo sciacallo animale totemico, che
i Romani sostituirono col lupo; la costumanza delle città o luoghi di asilo
(che servivano a Mosè per garantire il processo giusto all'omicida evitando le
faide tribali, e a Romolo come fonte primaria, insieme al ratto delle donne,
del popolamento della nascente Roma); la pratica delle armi come unica o quasi
attività in cui eccellevano per antonomasia; la pratica del ratto delle donne
all'origine della creazione di un nuovo popolo, che deve risiedere
principalmente nel fatto che questi erano dei guerrieri colonizzatori e dunque
solo uomini e dunque le donne dovevano rapirle da qualche parte. Ma sono le
donne ad allevare i figli degli stranieri guerrieri e così i figli delle Sabine
e delle Latine parleranno sabino e latino, non la lingua dei seguaci di Romolo.
Se per costumi i proto-Romani erano semiti non è detto che lo fossero anche per
lingua, che può essere stata indeuropea, perché è possibile una parentela dei
Romani con gli Indo-Iranici adoratori del fuoco e con gli Hurriti carristi
(latino currus), guerrieri. L'Egitto era la terra d'incontro di questi
mercenari e pirati sia Tirreni sia di provenienza siriana, Rasenna, e possiamo
pensare all'isola di Faro dove era venerato il dio Proteo-Apollo prefigurazione
dell'ebraico Geova e probabilmente del dio di Romolo Vulcano/Efesto, il dio del
fuoco a lui tanto caro. Gli Shardana/Sardi della Sardegna, metallurgi come gli
Etruschi poi trasformatisi per necessità in pirati e mercenari, militando
nell'esercito egizio avevano appreso ad adorare un dio della guerra, della
pestilenza, della morte e resurrezione di nome Reshef (composto verisimilmente
su quello di Ra, il sole egizio), prefigurazione di Geova e Apollo. A Memfi,
dove era il quartiere dei Tiri, dunque dei Fenici, era venerata Elena-Afrodite
straniera alias Afrodite Urania di Ascalona, in Filistea, patrona dell'unione
fra popoli mediante il ratto delle donne. Dunque i Rasenna della costa siriana
(egizio Retenu o Ratenu, Rasennu, forse proprio Rasenna), i giganti signori della guerra, si indirizzarono dopo la crisi
della metallurgia orientale verso il nuovo eldorado dell'Etruria e qui si
innalzarono i grandi tumuli che riempirono di ori e argenti e avori frutto
delle loro razzie ma anche delle imprese estrattive e lavorative dei loro
metallurgi ciclopi. Dunque se la civiltà etrusca preistorica (fino a che non si
troverà qualche testo scritto che già siamo in grado di prevedere come
sillabico) è indicata indubitabilmente dalla esistenza della lingua etrusca e
dal nome di Tyrsenoi o Turskoi/Tusci e poi E-trusci da cui Etruschi, a seconda
del suffisso aggettivale in -no o in -ko "quelli delle torri",
viceversa la civiltà etrusca storica, quella della netta identificazione del
popolo con l'Etruria, dell'introduzione della civiltà di case in mattoni
rispetto alla precedente capannicola, della scrittura alfabetica, eccetera, è
sotto il segno della civiltà di provenienza siro-cipriota (è lo stesso
Pallottino a rilevare che l'orientalizzante è primariamente siro-cipriota,
Etruscologia, p. 99). Sono questi gli Etruschi che possiamo studiare più da
vicino e comunque deve pur esserci la possibilità di distinguere questa civiltà
i cui componenti a detta di Dionisio d'Alicarnasso si dicevano Rasenna, da
quella evanescente e primitiva che pure le ha dato il nome e la lingua
etruschi. Questa civiltà etrusco-romana si aggancia dunque a quella dell'Egeo
continuandone la tradizione come conferma la stele di Lemno coi suoi richiami
al dio Efesto/Vulcano dei metallurgi e dunque degli antenati Cureti armati di
scudo e di lancia, col richiamo al nome Hylaios/Silvio, soprannome secondo
Livio dei re latini di Albalonga, mentre lo era di quelli di Roma. Romolo
nacque e visse in clandestinità nei boschi del Palatino da cui uscì maggiorenne
col padre Faustolo/Tirreno per riprendersi il potere usurpato dai Greci di Enea
impostisi su Laurento e sui Latini. Romolo è figlio dell'etrusco-rasennio che
ha sposato la figlia del re locale. E' assai probabile che Faustolo/Tirreno sia
sceso al di qua del Tevere inviato da una città etrusca, forse Vulci, o
Tarquinia, o Veio, per creare una testa di ponte verso il Lazio e la Campania
etrusca. Le popolazioni indigene evidentemente furono sempre ostili e si
opposero efficacemente all'ingerenza etrusca ma gli Etruschi dovettero fare i
conti anche con una contraria spinta colonizzatrice greca mirante anch'essa al
controllo del Tevere attraverso l'Aventino. Anche costoro avevano le loro
tradizioni radicate intorno ad uno pseudo Enea venerato presso i Latini. Per il
momento il braccio di ferro fu vinto dagli Etruschi e Romolo che aveva
indubbiamente costumanze etrusche fondò
la città secondo il rituale etrusco. Romolo fondò Roma nel 753 a. C. e quattro
anni dopo nel 749 a. C., ci informa con la massima precisione Dionisio, ne celebrò la fondazione coi consualia (da
condere = fondare) da celebrare ogni cento anni. I consualia sono la stessa
cosa dei ludi secolari etruschi. Romolo li adottò dagli Etruschi o questi li
derivarono da Romolo? Sappiamo la precisione delle profezie etrusche, e quella
sulla vita della nazione etrusca le attribuiva dieci secoli di vita che,
considerando come punto finale la distruzione del Fanum Voltumnae nel 265 a. C.
ci porterebbe al 1265 a. C. come data ipotetica di nascita della nazione
medesima. Poi abbiamo già visto l'analogia fra i sacerdotes etruschi (così i
Romani chiamavano, ma anche praetores Etruriae, i capi elettivi della
confederazione etrusca, gli zilath mekhl rasnal) e i suffeti, impropriamente
tradotto giudici, che reggono Israele a partire da circa il 1200 a. C., cioè
l'età dei popoli del mare, fino all'elezione di re Saul. Furono i popoli del
mare a creare (per la prima volta o a imitazione di quelle esistenti nei paesi
d'origine) nella da loro invasa Palestina una confederazione con sede a Silo.
In particolare gli Shardana/Sardi o popoli affini o con esperienze simili
dovettero avere un certo peso sulla nascita di Israele sia perché adoravano un
dio prototipo di Geova (che portavano con sé in un'arca o forse meglio in un
sarcofago, dovendo trattarsi di un dio della morte e resurrezione del tipo di
Osiride; che avessero ideato per primi la guerra batteriologica diffusa dai
corpi dei morti in putrefazione? Solo in età tarda quando si mise per scritto
l'Antico Testamento si volle far derivare la morte da contatto con l'arca da
una specie di scossa elettrica causata da un dio indeuropeo intimamente
connesso col dio del fulmine Zeus) sia perché almeno dal XIII secolo nel
territorio di Ugarit (dove è attestato il culto di Reshef) avevano una quercia
oracolare o di manifestazione divina (PRU III, pp. 109 e 131) prototipo di
quella dello Zeus di Dodona pelasgica, venerata tanto da Achille quanto da
Odisseo. Se i Sardi (o meglio uno o più popoli a prevalenza indeuropea con
cultura affine a quella dei Sardi) furono tramite primario dell'istituzione
politico-religiosa israelitica possiamo pensare che analoga fosse la situazione
presso gli Etruschi. Comunque io non mi spingerei fino a ipotizzare una
confederazione etrusca fin dal XIII secolo a. C., mentre sottolineerei che la
distruzione del Fanum Voltumnae nel III secolo a. C. chiude la vita politica
della nazione etrusca come una lastra tombale. Per Omero Tarquinia fu a capo della lega dei dodici
popoli d'Etruria al tempo di Odisseo e della guerra di Troia (Od. VIII,390-391)
ma certo si tratta di licenza poetica, tanto più che Alcinoo (che poi incarna
il corinzio Demarato proiettato indietro nel tempo) rappresenta piuttosto
l'orientalizzante siro-cipriota di provenienza feacia ovvero rasenna. E allora
semmai possiamo discutere se questa istituzione del Fanum Voltumne possa essere
nata all'inizio del villanoviano (IX secolo) nella città-madre dell'Etruria
oppure a Roma con Romolo. E' questo l'orizzonte dei giganti esperti nella guerra (Baruc) che emergono a capo
delle città etrusche come Romolo a Roma. Questo dei ludi secolari con
l'affissione del chiodo è un indizio di nascita di una nazione e dunque sarebbe
un motivo in più per distinguere i Rasenna dai Tirreni, anche se per il nostro
modo di vedere le cose dall'esterno è difficile concepire due popoli distinti
che si succedono sullo stesso territorio parlando la medesima lingua. Sarei
portato a scommettere su Roma, mentre Tarquinia ereditò certo la tradizione da subito, dal momento in cui Roma
mostrò di agire da sola e per i suoi interessi imperialistici anche contro
l'Etruria tutto sommato pacifista ma soprattutto incapace di difendere con la
forza la pacifica convivenza delle sue città-stato. Ciò fu rafforzato dal fatto
che Tarquinia fu la più importante città etrusca e promotrice delle attività al
Fanum in età tarda quando la lega cominciò a funzionare. Qui i sacerdoti etruschi
elaborarono a posteriori la teoria decennale della vita della nazione etrusca,
portandola e portando i ludi secolari etruschi anche più indietro del 749 a. C.
all'inizio nel villanoviano tarquiniate, variando la durata dei saecula per
farli coincidere con la propria storia
e spingendosi ben oltre il 265 a. C. che è la vera fine della nazione
etrusca nel tentativo di allontanare la fine. Del resto dalla mia
interpretazione delle Lamine di Pyrgi (vedi sito principale) risulta che
Tiberio della Velia (regione etrusca di Roma) nominato re di Cere dopo la
caduta di Tarquinio il Superbo (509) istituì nel santuario di Pyrgi
l'affissione del chiodo annuale già praticamente istituita a Roma nel tempio di
Giove Capitolino costruito da Tarquinio
il Superbo e inaugurato all'inizio dell'età repubblicana ma sempre nel 509 a.
C. E questo istituto appare legato da tanti indizi anche archeologici (primo
fra tutti le venti cellette affiancate al tempio B di Pyrgi e costituenti il
tesoro) alla legge serviana sul censimento della popolazione (operante anteriormente al tempio capitolino
di Roma) attraverso l'imposta sulle nascite da versare al tesoro di Ilithia
ovvero Hera Phosphoros ovvero Juno Lucina come ci informa Dionisio (IV,15,5).
Se l'istituto fosse stato di Tarquinia, Cere e soprattutto Pyrgi lo avrebbero
già conosciuto. E' così confermata l'ipotesi dell'istituzione dell'affissione
del chiodo a Volsinii solo dalla fine del VI secolo (come giustamente sostiene
Pallottino), dopo l'uscita di Roma dalla confederazione etrusca. Dunque ancora
una volta la storia di Roma a partire da Romolo sarebbe strettamente legata
alle sorti della storia etrusca della fase rasenna. Ma ipotizzare che i ludi
secolari etruschi siano nati a Roma porta a sospettare seriamente che i Consualia
fondati da Romolo non fossero i festeggiamenti della fondazione di Roma in
quanto città autonoma, bensì in quanto centro della confederazione etrusca. In
sostanza Roma sarebbe nata come città ospite del Fanum ma con amministrazione
autonoma, ciò che poi sarà Volsinii. I Sabini e i Latini che avevano rifiutato
il connubio su livello di parità coi Romani e li avevano offesi proponendogli
di ricorrere anche per le donne ai luoghi d'asilo che avevano aperti (e poi
cosa significa aprire dei luoghi d'asilo? I luoghi d'asilo sorgono sempre
presso dei santuari e dunque Romolo avrebbe dovuto costruire dei santuari coi
rispettivi luoghi d'asilo, e la storia monarchica di Roma è ricca di tali
riferimenti a santuari coi rispettivi luoghi d'asilo) mai e poi mai avrebbero
accettato di convenire alle celebrazioni della fondazione di Roma, sia per
disprezzo, sia per sospetto di tranelli. Viceversa ciò è logico se il centro
cui si accorre è stato fondato in comune da tutti i popoli dei dintorni, ciò
che si ricava dal fatto che nel mundus al centro di Roma, in una trentina di
fosse (che all'inizio saranno state assai meno e aumentarono via via che nuovi
popoli si associavano) furono sepolti gli oggetti sacri di altrettante curie
fondatrici, che portavano guarda caso i gentilizi delle donne sabine rapite, il
che vuol dire, leggendo fra le righe, dei popoli e delle genti che avevano
concorso alla confederazione. Il nome di Quiriti degli stessi Romani deriva
dunque dalla Curia Hostilia (così si chiamava ancora ai tempi di Livio; secondo
me curia ha la stessa radice del greco kyrios e koFiranos, signore, capo, è la
sede del potere, del governo, dei capi tribali che nominano il re) dove
avveniva l'assemblea dei rappresentanti dei populi e poi dei senatori romani.
Dunque o Romolo istituì i Consualia solo per celebrare Roma, e le donne furono
rapite altrove e con altra connessione, oppure li istituì nell'ambito di un
centro politico-religioso di tutta l'Etruria fino al Lazio e alla Campania
etrusca (che ovviamente era interesse etrusco tenere saldamente collegata via
terra all'Etruria propria), dei Sabini, dei Latini, di tutti i popoli
dell'area, e allora il ratto delle donne può aver interessato primariamente
delle etrusche e secondariamente delle latine e sabine straniere ma solo consenzienti,
perché questa era una cerimonia fatta sotto la forma di un ratto ma del tutto
pacifica. Del resto, come ho già scritto, il Fanum Voltumnae doveva essere
connesso al Tevere, anticamente detto Volturnum da Vortumno, la divinità che
non a caso fu venerata nel Vicus Tuscus e cioè il luogo santo sul Tevere,
diciamo la Città del Vaticano, la città santa nella città politica di quel
tempo. Del resto non si riesce a capire come mai gli Etruschi avrebbero
consentito ad un Romolo qualsiasi di venire a fondare la sua città proprio sul
confine meridionale e su un fiume navigabile che delimitava un lato del
Triangolo se non ci fosse stato un vantaggio per l'Etruria. Io credo che il
Tevere fu la prima mira di tutti i popoli che si affacciarono sul Tirreno. Evidentemente
la città santa, in una terra di tutti e di nessuno, che si proponeva come
centro politico-religioso di risoluzione pacifica delle controversie economiche
fra Etruschi anche campani e Greci ben radicati nel Lazio con la loro
tradizione di Enea e di Albalonga (dunque ora si spiega perfettamente l'idea
propagandata dai poemi omerici in greco lingua internazionale, di un diritto
internazionale, una legalità dei commerci da rispettare da parte di tutti,
specie dai Greci) funzionò poco a causa dell'ambiente ostile latino-sabino
pompato da dietro le quinte dai Greci, ma sempre Roma si propose come centro di
tutte le leghe per regolare il diritto fra le genti. Solo con la caduta della
monarchia Roma prende definitivamente la via di città autonoma e distinta,
dividendo i suoi destini da quella religiosa che a distanza di tempo e di
civiltà successive rispunterà come Città del Vaticano.
Ho
seri motivi per sospettare che colui che la tradizione chiamò Romolo dalla
fondazione della città sul colle Palatino (Roma o Rama semitico significa
"colle" e Rama si chiamava la città da cui proveniva il profeta
Samuele, colui che unse re Saul) era in realtà il nonno di Tullo Ostilio (terzo
re di Roma), della gens Ostilia, forse proveniente da Vulci se è significativa
l’attestazione epigrafica di una Hustileia degli inizi del VII secolo. La nonna
di Tullo Ostilio era invece Ersilia,
dalla gens ononima, sabina, che la tradizione dice sposa di Romolo ma anche di
Ostilio. Ho già scoperto che la seconda parte dell'Odissea cela la ripresa del
potere su Lavinio da parte di Romolo contro gli usurpatori greci. Ora
finalmente ho il suggello della prova schiacciante nel nome dato dal nonno
Autolico a Odisseo: « Figlia e genero
mio, mettetegli il nome che dico: io venni qui, odio covando contro di molti,
uomini e donne, sulla terra nutrice; dunque Odisseo sia il nome... » (Od.
XIX,406ss.), confrontato con Hostilius e l'aggettivo latino hostilis, ostile,
nemico, e addirittura ostile a morte, accanito (odium). La provenienza vulcente
di Romolo o meglio di suo padre potrebbe spiegare la successiva marcia su Roma
dei vulcenti Celio e Aulo Vibenna per
rimettere o mettere sul trono Mastarna che sarebbe passato, nella tradizione
italica del potere, accomodante, col nome di Servio Tullio, penultimo re di
Roma. Osto Ostilio noto come Romolo pare sia sparito, forse fatto a pezzi,
letteralmente, dai senatori, per cui è probabile che di lui non esista un vero
sepolcro. Viceversa suo padre, noto come Faustolo/Tirreno, fu sepolto in una
tomba monumentale, forse poi sovrastata dal tempietto di Vulcano (Volcanal), di
cui rimangono i resti dei rifacimenti di III-IV secolo a sud del Comizio. Il
reperto più antico è un cippo di pietra del VII secolo in latino arcaico
bustrofedico, praticamente integro (contrariamente a quanto asseriscono
acriticamente gli accademici), di cui che io sappia non si hanno buone foto e
men che meno un apografo, e che così restituisco dopo un riesame più critico
che fotografico fatto apposta per questo lavoro:
QUOI HORTUS SAKROS ESED. SORTES
VIDIASIAS REGEI HAPIOD LAEVAM QUOS REX KUM KALATOREM HAPIOD IOUXMENTA KAPT
ADOTARI AM ITERINEM. QUOI
HAVELOD NEQUIOD IOVESTOD QUOI LIQUIOD
" Questo recinto sia inviolabile. Infatti mentre gli auspici erano interpretati dal re, (a partire) dalla (HAPIOD > da ab-eo) sinistra, cioè (a partire) dal re e dal banditore, la coppia di buoi ha cominciato (KAPT > cepit) a spingere fuori (ADOTARI > adhortari) intorno al percorso (AM > am, amb, ambi, ITERINEM > itinerem). Chi lo violi non è giusto che muoia (LIQUIOD > linquo nel senso di abbandonare, venir meno, ecc., oppure liquefacio nel senso moderno di liquidare, ammazzare). "
Tracciando il
percorso del mundus Romolo prende gli auspici e cioè invita gli dèi a
manifestare il loro consenso alla fondazione in quel luogo attraverso segni
prestabiliti che si manifesteranno da parte loro entro un certo tempo e in uno
spazio celeste (templum) delimitato da Romolo con il lituo. La formula di queste condizioni predefinite
viene recitata in questo caso dal banditore, il kalator. Ma gli auguri, come
scrive Raymond Bloch, « tenevano conto anche dei segni accidentali che
potessero presentarsi spontaneamente nel corso della cerimonia » e a me pare
più probabilmente questo il caso dei buoi maschio e femmina che rifiutano di
procedere e fanno cenno di no col capo che va a destra e a sinistra. « Sul
Palatino, nella Curia dei Salii, si conservava religiosamente il lituus del
quale si era servito Romolo al momento della fondazione di Roma » (La religione
romana, p.181, Le religioni del mondo classico, a cura di Puech, BUL). Questa
iscrizione dovrebbe e potrebbe risalire a Tullo Ostilio che come discendente di
Romolo e di Faustolo doveva certo preoccuparsi più della tutela del cenotafio del nonno e del sepolcro del
bisnonno che non di celebrarne, come fece, le imprese attraverso Odisseo e il
porcaro Eumeo. Dunque, al momento di ubicare la Curia Hostilia nei pressi della
tomba del bisnonno e del luogo dove era stato ucciso il nonno, Tullo risistemò
il complesso tomba-cenotafio-tempio di Vulcano (i due leoni un tempo sul podio
a ferro di cavallo che circondava la tomba di Tirreno/Faustolo erano simbolo
dei fondatori regali della città) cui era interdetto da sempre l’ingresso pena
la morte, in modo che i senatori potessero costantemente ispirarsi alla vita e
alle imprese eroiche dei padri della nazione. Tullo sul cippo volle mettere
bene in evidenza che non era più lecito ammazzare, come evidentemente si faceva
prima, chi violasse il luogo (violazione che certo non consisteva nei furti di
tesori all’interno del sepolcro o del tempio, bensì nei pellegrinaggi del
popolo che veniva qui a chiedere conforto, grazie, realizzazioni di progetti e
desideri, consumando ovviamente le strutture di pietra, come i leoni che non furono
ritrovati). Bastava a tenere a distanza la gente la rievocazione di ciò che era
accaduto allo stesso Romolo al momento della fondazione della città e del
tracciato del mundus (più che del pomerio, che ovviamente non passava da qui),
con la conseguenza che il luogo era stato dichiarato infausto, maledetto. Del
tempio sovrastante di Vulcano (Volcanal) non rimane traccia se non in
un'iscrizione. Quando ormai tutta l'area era ridotta ad un rudere, in età
sillana fu finita di abbattere e ricoperta piamente con una pavimentazione di
pietra nera che sola ricordava l'interdizione, la sacralità del luogo (vedi
anche sul mio Sito principale).
Numa
Pompilio, secondo re di Roma, fu re religiosissimo e interessato alla
formulazione del rituale. Dalla storia monarchica di Roma emerge l'interesse
dei primi re nel creare formulari di diritto internazionale la cui elaborazione
era affidata a vari sacerdozi, ciò che collima con la mia ipotesi di Roma città
federale e ciò che fa di Roma fin dall'inizio la madre del diritto. Il
cerimoniale di ratifica (così ce lo fa apparire la storiografia antica) della
reggenza di Numa nominato dal senato mi conforta nel ritenere che l'augure
fosse in realtà espressione di un potente sacerdozio preesistente a Romolo da
cui dipendeva o meno la ratifica della nomina, il che voleva dire la
possibilità di un veto contro cui non ci sarebbe stato nulla da fare. Possiamo
comprendere meglio le cose se ci appoggiamo alla storia di Israele e ai suoi
suffeti di Silo prima e ai re di Gerusalemme poi, in entrambi i casi unti dai
sommi sacerdoti. La casta sacerdotale stava sopra i re perché da lei in ultima
istanza ne dipendeva la nomina. Di Tullo Ostilio, succeduto a Numa, nipote via
padre dell'etrusco Ostilio e della sabina Ersilia, abbiamo detto. Lo scontro
fra i tre gemelli Orazi e i tre Curiazi ha l'aspetto di un regolamento di conti
all'interno di un patto federale, un modo accettato da tutti per regolare la
questione senza spargimento di sangue. La storia dell'Orazio superstite che
uccide la sorella perché lo rimprovera di averle ucciso il fidanzato Curiazio è
evidentemente falsa e deriva dal nome del sororium tigillum, il giogo sotto cui
passò l'Orazio superstite come purificazione per aver ucciso i Curiazi latini
(non tanto per il fatto che la base della popolazione romana era latina perché
villaggi latini erano stati soggiogati da Romolo e molti latini erano entrati a
Roma attraverso i luoghi d'asilo; infatti nessuna delle tre tribù di Roma è
riferibile ai latini; quanto per il fatto di essere popoli federati; sororium
si riferisce ai federati, all'espiazione per aver ucciso uomini di popoli
federati e dunque divenuti consanguinei, fratelli). Ma la violazione del patto
federale e la guerra o meglio il colpo di mano di Romolo rese evidente che la
federazione non poteva funzionare e allora se mai Roma fu il primo Fanum
Voltumnae, ed è possibile che lo sia stato, da questo momento in poi divenne
una città autonoma e basta. Tullo incaricò Omero di celebrare con l'Ira
d'Achille i consualia del 649 a. C. Sembrerebbe che la riforma attribuita a
Servio Tullio sia già nell'aria al tempo di Tullo Ostilio. Ed infatti la
formazione oplitica che tanto spazio ha nell'Iliade è di Tullo Ostilio perché
viene datata dagli archeologi al 650 a. C. (l'Ira d'Achille è cantata a Roma
nel 649 a. C.) quando compare raffigurata sui vasi etruschi. Inserire
nell'esercito dei componenti non nobili significa estendere i diritti politici
a masse sempre più ampie e dunque democratizzare la società inizialmente solo
aristocratica. Come la riforma dell'esercito attribuita a Servio Tullio deve
iniziare con Tullo Ostilio così anche il tempio tiberino di Mater Matuta
attribuito a Servio Tullio deve essere stato iniziato da Tullo Ostilio. Se il
Viaggio d'Odisseo è stato ideato per celebrare quanto meno il passaggio agli
etrusco-corinzi del tempio-banca di Ino Leucothea prima in mano agli
euboico-calcidesi, non è pensabile che Tullo Ostilio non abbia voluto imitare
la cosa pur nell'ambito della celebrazione del secolo dalla fondazione di Roma,
inaugurando un tempio-banca sul Tevere. Del resto Anco Marcio fonda il porto di
Ostia prima di Servio Tullio. Con Tullo Ostilio i Latini entrano in gran numero
a Roma dopo la distruzione di Albalonga eppure non diedero a Roma neppure il
nome di una tribù. Le tre tribù romane con cento senatori rispettivamente
furono infatti dei Ramnenses (cioè rasenna-etruschi) di Romolo, dei Titienses
(sabini) di Tito Tazio e dei Luceres (gli illustri provenienti dagli strati
popolari) nominati da Tarquinio I. Anco Marcio fu sospettato dell'assassinio di
Tullo Ostilio ed era nipote via figlia di Numa Pompilio. Finora abbiamo avuto
l'alternanza di re romano e sabino. Gli si attribuisce la fondazione del porto
di Ostia e dunque un'apertura mercantile in sintonia con la mercantile Etruria.
Forse i primi re furono più etruschi di quanto la tradizione non abbia voluto
far apparire, ma ad Anco succedono tre re etruschi che alla fin fine fanno capo
al mercante corinzio Demarato già potente a Tarquinia ma stabilitovisi dopo la
salita al potere di Cipselo a Corinto nel 657 a. C. Quindi seppur nato in
Etruria da madre etrusca, Tarquinio I rimane d'origine greca corinzia. Salito
al potere nel 614 a. C., Tarquinio è etrusco e la moglie Tanaquilla gli ha
predetto l'ascesa al trono entrando a Roma, dunque dovrebbe essere il più
ossequiente agli auguri di tutti i re che lo hanno preceduto. Invece di lui è
noto proprio lo scontro con l'augure Atto Navio. Tarquinio intendeva portare a
sei le centurie dei cavalieri, dunque allargare l'istituzione a nuovi strati
della popolazione, ciò che fece comunque raddoppiando gli effettivi nelle tre
centurie, ma ebbe appunto l'opposizione dell'augure patrizio e conservatore col
pretesto dell'esito negativo degli auspici (di cui ad esempio il democratico Ettore
nell'Ira d'Achille si beffava altamente, anche se poi deve constatare che
dicevano il vero) e da quel punto di vista non ci fu niente da fare. Ciò
significa solo una cosa, che il potere dell'augure era antichissimo, istituito
assai prima di quello del re, e che se
il re comandava l'augure stava un
gradino al di sopra. La situazione è affine in tutto il mondo antico, anche e
soprattutto celtico. Tenendo conto di questo dato essenziale è evidente che
come avveniva in Israele erano buoni i re che mantenevano un buon rapporto col
clero e cattivi quelli che facevano di testa propria. L'umanità si porta dietro
il fardello della religione fin da quando apparteneva alla specie delle
scimmie, e la scimmia che è in noi è dura a morire, come la ruota di pietra che
si porta dietro Fantozzi senza sapere più cosa sia e quale ne sia il motivo.
Nonostante Roma abbia cominciato, diciamo a partire da Tullo Ostilio, a
marciare per conto proprio (anticipando indietro nel tempo e parafrasando
Torelli si dirà che la riforma Ostiliana, di cui non abbiamo notizia dalla
tradizione bensì indizi vari, prima di tutto dai poemi omerici, anticipa « la
nuova realtà di classe organica alla forma urbana sul piano politico-militare,
superando - ma non distruggendo - l'impostazione "federativa" delle
antiche unità pagano-vicaniche presupposta dal precedente ordinamento curiato
», Storia degli Etruschi, p. 160, e portata alle sue ulteriori conseguenze da
Tarquinio I e Servio Tullio) direi che i monarchi successivi, specie gli etruschi,
tacitamente continuarono ad operare al fine di realizzare ugualmente
l'unificazione della regione, compreso, dal punto di vista propagandistico, lo
stesso Tullo Ostilio. Tarquinio I fu ucciso nel 576 a. C., dai discendenti di
Anco Marzio si disse. In realtà da Mastarna un capopopolo alla Masaniello, da
cui l'istituzione del magister populi, un difensore e sostenitore degli
interessi dei plebei verso i nobili e il re, quello che poi sarà il tribuno.
Come nel caso della vera storia di Romolo anche nella vera storia di Servio Tullio/Mastarna la storiografia romana è
l'esempio che la storia non è scritta dai seri studiosi come il sottoscritto ma
il più delle volte dai mercenari al servizio del potere come ce ne sono tanti
anche oggi sotto gli occhi di tutti. Dunque la storia non è cosa da sciocchi,
bensì da scaltri e raffinati indagatori senza peli sulla lingua. La versione autentica dei fatti è data dal
discorso in senato dell'imperatore etruscologo Claudio conservato nelle
"Tavole di Lione", dai dipinti inscritti della tomba François di
Vulci e da altri documenti. Ma come al solito chi mette lo storico sulla strada
giusta è il meticoloso Dionisio d'Alicarnasso. Nel
fregio della tomba François, Caile Vipinas viene liberato da Macstrna e Marce
Camitlnas uccide Cneve Tarkhunies Rumakh il re o membro di casa reale. Se
Camitlnas indicasse la professione o l'appartenenza al relativo ceto (specie
per il suffisso aggettivale -na) del sacrilego omicida potremmo pensare alla
complicità del basso clero (quello salito al potere, compreso il demagogo
Mastarna, proprio grazie al raddoppio dovuto a Tarquinio I degli effettivi
nelle varie istituzioni, dunque dopo l'ascesa al potere di una larga fetta di
nuovi ricchi anche plebei purché illustri per le loro opere: i Luceres che danno
nome alla terza tribù) perché secondo Dionisio
venivano chiamati kadmiloi quelli che celebravano i misteri presso i
Tirreni (Kadmilos era uno dei Cabiri venerato a Samotracia che talora i Greci
assimilarono ad Hermes) in onore dei Cureti e dei Grandi Dèi, mentre a Roma
erano chiamati camilli « quelli che aiutano in questi riti i sacerdoti »
(II,22,2). Dunque le cose potrebbero essere andate così. Prima, dopo aver
ucciso Tarquinio I, la salita al potere del capopopolo o magister populi
Mastarna (da noi si potrebbe perfino pensare ad un Masaniello), cosa che la
storiografia romana non avrebbe potuto mai e poi mai ammettere: la dittatura
per un certo tempo del proletariato o comunque dei plebei (che potevano anche
essere ricchi o straricchi ma privi della nobiltà delle origini, ciò che era un
requisito che i patrizi si tenevano ben stretto per mantenere alta la propria
posizione nel sistema). Poi la reazione del figlio di Tarquinio Cneo Tarquinio
II che mette in pericolo la posizione raggiunta da Mastarna. Dunque la marcia
su Roma di Celio e Aulo Vibenna che in qualche modo si trovano in difficoltà ma
vengono soccorsi da Mastarna che col loro aiuto viene poi rimesso o messo per
la prima volta sul trono con la complicità del basso clero un cui membro
avrebbe ucciso Gneo Tarquinio II padre di Tarquinio III il Superbo. Non è
nemmeno escluso che per un certo periodo i plebei abbiano esercitato una
dittatura popolare che poi la storiografia si sarebbe preoccupata di
legittimare sotto la forma di una adozione con tutti i crismi del Servus. Dunque
mentre la tradizione romana aveva già trattato a fini pacificatori come
fratelli i nemici senza parentela Romolo etrusco e Remo greco e trattato da
nonnino buono Numitore greco, che avrebbe cacciato Romolo insieme alla feccia
di Laurento mandandolo a fondare una città abbastanza lontano dai piedi, e
mettendogli alle costole il bounty killer Remo, adesso presenta come adottato
dalla famiglia di Tarquinio I il buon Servio Tullio che si fa tutore dei
piccoli cui lui stesso ha ammazzato il
padre. Servio Tullio salirà al potere e diverrà tutore non dei figli bensì dei
nipoti di Tarquinio I come ripetono acriticamente (o piuttosto per coprire la
magagna) gli storici romani, ma dei suoi nipoti, come suggerisce dopo un facile
calcolo Dionisio d'Alicarnasso, mentre Livio fa il finto tonto. Quel che
precede è tanto più verisimile se si considera
che al momento dell'auge di Demarato/Alcinoo a Tarquinia, prima del 649
a. C., fino al 675 a. C., il futuro re Tarquinio/Laodamante è già più o meno
diciottenne. Che Servio Tullio abbia incarnato una specie di dittatura della
plebe non è inverosimile, visto quel che si ripeterà a Roma più volte e poi con
la secessione dell'Aventino, di cui tutti ricorderanno l'apologo di Menenio
Agrippa, che si concluderà con la nascita dell'istituzione dei tribuni della
plebe. E' con la rilettura di Dionisio che a proposito dei patti stretti dal
patriziato con la plebe secessionista
ho ritrovato almeno parte dei paralleli fra i patti romani e quelli fra
Achei e Troiani nell'Iliade. In entrambi i casi si parla di patti stretti con
le destre e giuramenti che chiamano a garanti gli dèi celesti e quelli inferi
(Dion. Hal. VI,84 e 89; Il. II,339: « Ma come andranno per noi alleanze e
promesse? Andranno al fuoco, dunque, piani e consigli degli uomini, e libagioni
schiette, e destre in cui fidammo? »; III,103ss: « Recate (i Troiani) due
agnelli, uno bianco e una nera, per la Terra e pel Sole: e noi (gli Achei) un
altro per Zeus. Recate la forza di Priamo, perché consacri i patti in
persona... nessuno per arroganza offenda mai i patti di Zeus! »; III,275: « in
mezzo a loro a gran voce l'Atride alzando le braccia pregò: " Zeus padre,
signore dell'Ida, gloriosissimo, massimo, Sole, che tutto vedi e tutto ascolti,
e Fiumi, e Terra, e voi due che sotterra i morti uomini punite, chi trasgredì i
giuramenti, siate voi testimoni, serbate il patto leale! " »). La plebe è
filoetrusca e mercantile (e lo sarà sempre anche nell'impero dei Severi contro,
anche in questo caso, il patriziato stupidamente cristiano, latifondista e
perciò anche schiavista), contro un patriziato miope che per continuare a far
valere i propri diritti di primogenitura difende ad oltranza la terra e
condanna se stesso e soprattutto l'Etruria e Roma che ne fa parte di diritto
all'asfissia e alla morte assecondando lo strangolamento che già per conto suo
avviene sul mare ad opera di Cartaginesi e soprattutto Greci. La plebe infatti
si pentirà poi di aver aiutato i patrizi a ribellarsi. Roma è diventata
settaria e intollerante solo dopo la caduta della monarchia etrusca proprio
mentre la lega etrusca al contrario appare intollerante nei confronti dei
regimi totalitari (e quello di Roma è totalitario nelle vesti democratiche
della repubblica). Le ribellioni servili denunciate da città etrusche servono
ai Romani solo come pretesto per intervenire e distruggere e sottomettere
definitivamente, per cui possono essere anche false (o tali che avrebbero
potuto valere anche per Roma schiavista) come tutti i pretesti. La spedizione
dei Vibenna (Vipinas e Vipiennas, da Bipenne? La Bipenne è segno del comando da
cui il fascio littorio, entrambi attestati a Vetulonia più a nord di Vulci,
distrutta in questo periodo da Vulci che sta estendendosi), si spiega
innanzitutto come un dovere sentito dai Vulcenti fondatori di Roma di tornare a
metterci le mani dopo che il potere vi è stato esercitato da sabini e da greci
sia pure di Tarquinia e poi soprattutto per spingere di più la politica di Roma
sul mare più che sulla terra, intensificando la guerra contro i Latini e i
Greci che li sostenevano, piuttosto che rivoltarsi addirittura contro l'Etruria
come fu tipico di Tarquinio I. Comunque le resistenze latino-sabine erano
troppo forti per non determinare il conflitto fatale conclusosi con la caduta
della monarchia e il crollo della potenza marittima (thalassocrazia)
etrusco-romana che all'inizio si estendeva non solo a tutto il Tirreno ma
all'Egeo e a tutto il Mediterraneo. Nella tomba François di Vulci l'impresa dei
fratelli Vibenna che uccidono i Romani e i loro alleati è ormai vista con
ottica tarda, di IV secolo, messa in parallelo al sacrificio dei giovani
Troiani compiuto da Achille per onorare Patroclo ucciso. Evidentemente c'è qui
un richiamo erudito ai Romani/Troiani cui si aggiunge una debole
identificazione dei Vulcenti etruschi con gli Achei/Greci che si spiega però
con la forte influenza greca sulla città di Vulci e in questo momento sulla
Tirrenia in generale. Altrimenti dietro l'episodio mitico si potrebbe
nascondere l'uccisione di 307 prigionieri romani nel foro di Tarquinia nel 357. E' evidente l'incupirsi della civiltà e
religione etrusca in concomitanza con il declino politico. Alla fine uno dei
nipoti di Tarquinio I, suo omonimo, che
aveva sposato la figlia di Servio Tullio uccide d'accordo con questa
l'usurpatore Mastarna e regna col nome di Tarquinio (II o III) il Superbo. Se è
vero che il regno non passava in eredità da un re ad un altro è pur vero che
Servio Tullio era stato il primo a violare l'elezione del re imponendosi col
dolo e la forza. Dunque seppure ricorrendo all'illegalità Tarquinio il Superbo riteneva giustamente
che a suo padre era stato tolto questo diritto (regale o all'eleggibilità è lo
stesso) con la violenza e dunque egli si riteneva in diritto di restaurare con
l'assassinio dell'usurpatore e coll'imporsi al trono quel diritto violato.
Poiché preso di mira dalla tradizione repubblicana antietrusca questo fu certo
uno dei più grandi re di Roma e lo dimostrano non solo le grandi opere
pubbliche come la costruzione del tempio di Giove Capitolino, della Cloaca
Massima, del Circo Massimo, ma il fatto che iniziò seriamente a conquistare con
ogni mezzo, i legami matrimoniali, la forza, l'inganno, tutto il Lazio (e col
bottino ricavato dalla conquista delle città finanziava le sue grandi
costruzioni a Roma), la spina nel fianco dell'espansione etrusca, alla fin fine
la causa del suo declino e della sua sparizione e della sparizione di Roma
dalla scena internazionale per un bel pezzo di tempo. L'ultima speranza per gli
etrusco-romani di spezzare l'accerchiameto cartaginese e soprattutto greco dal
mare era il trionfo della politica di Tarquinio il Superbo che sarà poi
proseguita dall'isolata iniziativa di Porsenna di Chiusi. La colpa di ciò non è
tanto dell'ostinata resistenza dei Latini, abbastanza stupidi da essere
raggirati più volte, né di un senato che seppure era in parte composto da
latini lo era in senso limitato, sia numerico che qualitativo, dato che i
latini non davano il loro nome ad una delle tre tribù. In poche parole Roma
monarchica i Latini non li vedeva nemmeno e probabilmente perché costituivano
il nemico da abbattere. La causa della caduta della monarchia è altrove. Con
Servio Tullio e Tarquinio il Superbo, saliti al potere per iniziativa propria, tirannica,
il senato patrizio ha perso il potere di nomina regia. Quella del rex romano
non era una carica ereditaria e dunque dal punto di vista strettamente legale
Tarquinio il Superbo nessun diritto aveva alla successione nei confronti
dell'usurpatore Servio Tullio nonostante che questo appartenesse agli
squadristi che gli avevano ammazzato il padre, fosse questo re o figlio di re.
L'illegittimità di Servio Tullio non legittimava alla nomina Tarquinio il
Superbo. Servio Tullio e Tarquinio il Superbo furono due re illegittimi cioè
nominati al di fuori della sola legittima nomina da parte del senato. E'
evidente che il senato patrizio difendeva i suoi interessi e i suoi privilegi e
dunque voleva eleggere il re che uscisse dal suo stesso consesso come primus inter
pares che facesse gli interessi di chi lo aveva eletto e non certo dei plebei e
dei morti di fame come invece fanno i demagoghi tiranni. Con gli ultimi due re,
in un modo o nell'altro, s'erano fatti gli interessi della massa e dunque i due
ultimi re erano cattivi perché chi scrive la storia sono i letterati patrizi di
classe senatoria, mentre se a scrivere fossero stati i morti di fame gli ultimi
due re sarebbero stati definiti ottimi. Infine è sotto gli occhi di tutti che
la congiura contro Tarquinio il Superbo è un fatto di famiglia perché nasce da
Giunio Bruto figlio di una figlia di Tarquinio Prisco e comandante niente di
meno che dei celeri, cioè della polizia privata del re (e sappiamo quanto i
pretoriani abbiano fatto il cattivo tempo durante l'impero), e da Tarquinio
Collatino governatore di Collazia figlio di Arunte, l'altro figlio di Demarato.
Sesto figlio di Tarquinio il Superbo, erede al trono ormai avviato
all'ereditarietà, il genio della presa della latina Gabi, si sarebbe fregato (rischiando la pena di morte facendo ciò che
gli si attribuisce, trovandosi militare in zona e in tempo di guerra) e avrebbe fregato la dinastia dei
Tarquinii andando a stuprare una donna molto più anziana di lui, per
giunta sua parente acquisita, Lucrezia moglie di Collatino che si sarebbe data
la morte, e così i parenti offesi avrebbero organizzato il colpo di mano con
Lucrezio padre della vittima presentatosi come interré e Bruto e Collatino come
magistratura regale collegiale tutta da definire nel tempo a venire. Tarquinio
che assediava Ardea tornò precipitosamente a Roma dove trovò le porte sbarrate.
Il colpo di stato era perfettamente riuscito. Chi beneficiò di ciò furono i
Latini che con la caduta della monarchia videro cadere per il momento la
minaccia di un'annessione totale e i Greci, prima i Cumani di Aristodemo che
nel 504 battono Porsenna sotto le mura
di Aricia, infine i Siracusani di Hierone che nel 474 sconfiggono la flotta
etrusca partendo da Cuma. Se v'è un legame fra la caduta della monarchia e il
prevalere dei Greci, dunque se adesso dopo tanto tempo il braccio di ferro è
vinto dai Greci, allora è lecito pensare non solo alla stupidità dei parenti
dei re Tarquini, patrizi fino all'esasperazione, ma perfino alla loro
collusione coi Latini, di cui governavano le città (Collatino) con una certa
autonomia tanto probabilmente da sentirsi re autonomi dall'Etruria e da Roma,
e coi Greci di cui amavano troppo la
civiltà recandosi anche a Delphi (Bruto).
A causa della caduta della monarchia Roma dovette iniziare tutto daccapo
e ripartire come società agricola e latifondista da mercantile che era. Ma
questa sensazione di una Roma che inizia tutto daccapo deve derivare
soprattutto dalle sue due vite, la prima di centro internazionale
politico-religioso e solo da un certo momento in poi (soprattutto dopo la
caduta dei Tarquinii) di esclusivo centro politico autonomo e indipendente.
Poiché negli ultimi secoli l'invadenza greca e cartaginese s'era accanita a
ridurre lo spazio d'azione tirrenico degli Etruschi, in cui includiamo Roma,
con le imprese dei Focesi, dei Siracusani e con l'ingerenza di Atene che aveva
assunto la supremazia della Grecia mentre dall'altro lato era Cartagine ad aver assunto la supremazia del mondo fenicio-punico, probabilmente il
patriziato di Roma scommette in modo criminale sull'impossibilità di
conquistare il Lazio a breve termine e
sull'impossibilità di competere sul mare con Cartaginesi e Greci e
rinuncia alla sua posizione di primo piano sul palcoscenico internazionale per
crearsi la sua piccola nicchia latifondista dove regnerà da piccolo signorotto
decaduto, ma regnerà, sopravviverà senza dare fastidio ai vicini. Dunque la
scelta antimonarchica (seppure non possiamo paragonarla con ciò che sarebbe
avvenuto se invece si fosse data fiducia a Tarquinio il Superbo) si rivelò a
posteriori comunque lungimirante, sempre in ogni caso gretta e calcolatrice
come in genere furono le decisioni del senato romano in tutta la sua vita. Le
tradizioni di Roma, specie dopo l'incendio gallico, verranno scritte in una
falsa ma oggettivamente utile allo scopo ottica latina terriera e pastorale.
Perso il controllo dell'Egeo perché subito dopo la caduta di Tarquinio Milziade
ne approfitta per conquistare l'isola di Lemno, e ridotta al solo Tirreno dopo
che Anaxilas di Regio rafforza lo Skyllaion,
interrotti i rapporti con la Campania etrusca, l'Etruria storica
comincia la parabola del declino e intanto Roma che ha ripreso ad espandersi
conquista Veio nel 396 (abbandonata dalla lega etrusca ufficialmente perché s'è
data una forma di governo monarchica) e l'annette, e dopo l'invasione gallica e
l'incendio di Roma, conquisterà tutta
l'Etruria. L'operazione di polizia e la distruzione del Fanum Voltumnae nel 264
a. C. con trasferimento della popolazione a Bolsena segna veramente l'ultimo
limite della vita politica etrusca. L'Etruria muore politicamente, si chiude in
se stessa, sopraffatta dagli eventi, ossessionata dal rituale e dalle paure da
fine del mondo che accompagnano l'etrusco fino alla tomba piena di mostri
inferi, fino ad essere assorbita nella storia e nella civiltà di Roma.