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MARCO G. CORSINI

Rasenna e Ramnenses/ Beniaminiti di Romolo

Dopo i miei studi è evidente che gli Etruschi ritenevano di originare dalla Siria ed è per questo che dicevano di chiamarsi Rasenna (come si deduce dalle iscrizioni etrusche dove compare il termine rasena, rasna,  e dalla testimonianza di Dionisio di Alicarnasso circa la derivazione del nome che gli Etruschi stessi si davano, Rasenna, dal nome di uno dei  capi, 1, 30, 3), verisimilmente da Retenu o Ratenu o Rasenu, il nome (nei testi egizi) della costa siriana. Naturalmente si tratta solo della casta dominante, non della massa della popolazione etrusca indigena, che del resto ha dato la lingua agli Etruschi, una lingua che non è semitica e che non possiamo accostare a nessuna lingua antica – salvo il lemnio, scarsissimamente documentato –  e che possiamo definire solo come lingua anindeuropea in cui sono filtrati elementi indeuropei al tempo dell'indeuropeizzazione dell'Italia. Però andava, e va, così, che nelle descrizioni sbrigative e sintetiche la massa prendesse nome dai capi e se questi erano stranieri la nazione tutt’intera diventava straniera. E’ Omero che ricollega i capi fondatori di Pyrgi/Scheria (e l’archeologia conferma questa identità culturale immigrata da un capo –  Palestrina, con gli arredi delle sue tombe principesche di chiara derivazione siriana – all’altro –  Murlo, dove sul palazzo omonimo dominano figure di antenati come quella con barba curata all’assiro-babilonese    dell’Etruria) ai giganti, i capi guerrieri discendenti dagli dèi e divinizzati dopo la morte, che Baruc  ci conferma tipici della Palestina (3, 26: « i famosi giganti dei tempi antichi, alti di statura – come Achille omerico, il più gigantesco degli eroi greci a Troia –  esperti nella guerra »). Sia Odissea (7, 56ss: il « grande Eurimèdonte, che regnava sui Giganti superbi. Ma il pazzo suo popolo egli distrusse, e lui stesso perì.  » Ciò significa appunto che per la tracotanza dei giganti gli dèi distrussero Thera e mandarono il diluvio che devastò anche la Siria-Palestina) che Genesi (6, dove Dio per punire l’umanità malvagia al tempo dei giganti mandò sulla Terra il diluvio) confermano che gli antichi ritennero questi giganti cioè i figli degli dèi della cosiddetta età dell’oro (in cui rientrano quelli della guerra di Troia) di Esiodo puniti dalle divinità con l’eruzione del Thera, ciò che gli Ebrei trasformarono nel Diluvio. Esiodo dunque, pur contemporaneo di Omero, non attinge all’antichissima tradizione delle grandi civiltà del Vicino Oriente cui attinge Omero, bensì a quella della barbara Grecia degli albori della storia (che, lingua a parte, nulla ha a che vedere con la civiltà minoico-micenea), per cui  appare come un fanciullino stolto e pieno di superstizioni che ammira senza conoscerla un’età che gli è completamente estranea culturalmente e di cui viene a sapere solo grazie a personaggi come Omero.

Su internet leggo che Charles Pellegrino riporta che  nel V secolo Diodoro Siculo visitò la parte orientale dell’isola turca di Samo e riferì che gli abitanti seguivano un'antica tradizione che consisteva in sacrifici animali su altari elevati sulla spiaggia a indicare la linea della massima espansione di una terribile alluvione marina. Secondo la leggenda c’era stato un fuoco nel cielo, e tuoni e buio, e Poseidone, si raccontava, s’era rivoltato contro i suoi propri figli che abitavano un’isola molto lontana a occidente; e si diceva che su quell’isola aveva coperto una città ‘chiudendola con una montagna’ (Unearthing Atlantis, 1991, p. 89). A Samo c’erano degli omeridi e  Samo si trovava nella direzione dell’esplosione del Thera. E’ dunque possibile che Omero abbia acceduto a questa come a tradizioni analoghe dell’area anatolica e se ne sia servito per la profezia di Nausitoo padre di Alcinoo che aveva lo scopo di far identificare dall’ uditorio  Pyrgi come Monte Perge dei Tirreni cioè come città etrusca che –  ma questo dipendeva dalla divinità –  un giorno Poseidone avrebbe nascosto sotto  un monte, per punirla per il fatto che i Feaci riportavano sempre tutti i naufraghi a casa loro, compreso Odisseo che aveva accecato l’unico occhio a suo figlio Polifemo.

L’esodo da Creta e dall’Egeo riportò dunque i Pelasgi (di lingua greca e costumi semitici che scrivevano con la geroglifica del Disco di Festo) in bassa Siria dove li conosciamo come Filistei e anche a Cipro, in Cilicia e in alta Siria di cui erano originari. Come ho recentemente dimostrato sul mio Sito, la tradizione greca dei Sette contro Tebe, degli Epigoni e della guerra di Troia da una parte e quella dell’Esodo e della conquista della Palestina da parte di Giosuè dall’altra sono le due facce della stessa medaglia, cioè due tradizioni che i due  popoli hanno tratto indipendentemente della medesima esperienza di popoli del mare indeuropei (Pelasgi/Filistei, Danai, forse Achei, ecc.) convissuti con altri popoli del mare anindeuropei di cui possono avere assimilato o aver avuto in comune elementi culturali e religiosi (Shardana, Tursha, ecc.) – e con altri semitici come i Beniaminiti –  che invasero prima l’Egitto e poi il Levante. L’elemento in comune fra Pelasgi/Filistei e Danai/Daniti (e altri “Greci”) da una parte ed “Ebrei” dall’altra sta nel fatto che si ambientarono in Palestina divenendo semiti a tutti gli effetti da indeuropei che erano. Nonostante ciò ritengo sia possibile e probabile che i redattori dell’Antico Testamento abbiano potuto copiare da Omero e dalla civiltà occidentale determinate versioni della tradizione storica anche perché l’Antico Testamento è stato messo per scritto successivamente a Omero e alcune parti possibilmente anche successivamente alla Repubblica di Platone. Poiché i Pelasgi erano di lingua greca (si ricordi che anche gli Ateniesi vantavano ascendenze pelasgiche) era più realistica la pretesa greca di una affinità fra gli Etruschi e i Greci. Ma i Pelasgi erano di cultura siriana, ciò che appunto calza alla perfezione con l’orientalizzante, anche se questo venne molto tempo dopo. Il Villanoviano emerge soprattutto  dopo la chiusura dei mercati orientali dei metalli in seguito alla dominazione assira,  dal 750 a. C. a tutto il VII secolo con la civiltà dei Rasenna con cultura orientalizzante. Il Villanoviano è l’espressione dello sviluppo della regione in seguito allo sfruttamento delle miniere della costa e già si manifesta come espansione verso la Campania e la pianura padana. Gli antenati orientali degli Etruschi per Omero sono sempre siriani, i Feaci di Siria, i cui marinai servivano gli interessi del faraone Radamanto/Seqenenra Ta’o II di Creta (Odissea 7,321ss) prima dell’eruzione del Thera che avrebbe sconvolto la loro vita costringendoli ad emigrare fra l’altro in Etruria. Possiamo notare un parallelismo  nella storia etrusco-romana fra i giganti siriani, i Rasenna, da una parte, e dall’altra Romolo e i mercenari Ramnenses strettamente affini ai Beniaminiti mercenari col lupo come insegna totemica, i semiti nella cui cultura c’era il ricordo di Sargon affidato in una cesta alle acque come Romolo all’inizio della sua storia e un Elia assunto in cielo in un carro di fuoco, in una tempesta, sempre come Romolo, alla fine della sua esperienza terrena. E’ coi Rasenna e coi Beniaminiti di Romolo (mercenari che frequentavano il porto di Memfi, legato alla tradizioni dei Cabiri e dei Penati affidati alle acque in una cesta come Mosè verisimilmente nella stessa Memfi dov’era il quartiere dei Tiri ovvero dei Fenici) che già nel Villanoviano sorgono le prime aggregazioni di villaggio cinto da palizzata come la città di Scheria dei Feaci. Omero nella sua cronologia approssimativa che celebra il presente di Demarato corinzio con gli occhi del mito di Odisseo data il primo insediamento a Pyrgi una generazione prima di Alcinoo/Demarato, attribuendolo a Nausitoo padre di Alcinoo (Odissea 6, 7ss). Ma la stessa tradizione indigena attribuisce proprio a Demarato corinzio l’introduzione dell’alfabeto e l’urbanizzazione («  di mura circondò  la città, fabbricò case, e fece templi ai numi e divise le terre. » Od. 6, 9-10) dell’Etruria o più esattamente a partire da Tarquinia dove egli si stabilì. E’ coi Rasenna in cui Demarato è perfettamente integrato che l’Etruria e il Lazio passano dalla preistoria alla storia. Pertanto allo stato delle conoscenze sarà esatto parlare di  Rasenna invece che di Tirreni per la civiltà storica etrusca, mentre di Tirreni o Tursha potremo parlare per l’età precedente del movimento dei popoli del mare in cui questo popolo era emigrato dall’Italia nell’Egeo. Tutto quel che c’è prima dei Rasenna è una popolazione primitiva indigena parlante etrusco preindeuropeo. Anche prima dell’orientalizzante c’è una ininterrotta continuità di frequentazioni dall’area cretese, egea, siriana, rappresentata dai micenei e dai fenici. Basti pensare ai marinai fenici di re Salomone che intorno all’anno 1000 si recavano fino alla lontana Tarshish (che Tarshish sia l’Etruria che con le sue navigazioni fino alle colonne d’Ercole e oltre si procurava le mercanzie di cui Salomone si approvvigionava?) Salomone, se mai è esistito un re di tal nome, aveva uno stato insignificante e non certo marittimo, ma a noi interessa qui il riferimento alle navi fenicie ed eventualmente a quelle tirreniche. Se  Tirreni significa, com’è verisimile,  “ costruttori di torri ”,  si riferisce più correttamente ai Sardi nuragici e dunque così i Greci e gli Egizi chiamarono – impropriamente –  i Tirreni dell’Etruria confondendoli nell’ambito dei Tirreni delle isole e della penisola. Tirreni/Tursha, Sardi/Shardana e Siculi/Sheklesh dall’Italia e assalirono l’Egitto. Dei Tursha come degli Achei (probabilmente della Troade) abbiamo notizia solo nell’assalto dell’anno 5 di Merenptah intorno al 1200 a. C. Anche per questo motivo l’impiego del nome Tirreni/Tursha ed  Etruschi (costruito su E-Tursha > E-Turskoi) è meno affidabile di quello di Rasenna, il nome che si davano gli abitanti dell’Etruria secondo la verisimile tradizione raccolta da Dionisio d’Alicarnasso. Ma si noti che Pyrgi da pýrgos significa “ le mura, le mura fortificate con torri ” dunque anche “ le torri ”, col che potrebbe esservi un appiglio all’identificazione comunque esteriore degli antichi Etruschi col termine di Tursha/Etruschi.

 

Fine

 

Marco G. Corsini

 

 Il  Fanum Voltumnae di Volsinii/Orvieto, cuore dell’Etruria-Umbria

Volsinii (Veteres) fu la sede ultima e storica del  Fanum Voltumnae,  il Santuario  di Voltumna, federale, panetrusco, incentrato sul culto del dio  principale d’Etruria, Veltumna o Vertumno (il Mutevole). Il Fanum Voltumnae è l’ultimo e definitivamente consacrato alla storia di una serie di santuari incentrati sul culto di Vertumno, e di altre due divinità femminili (una triade), una dell’amore, l’altra del computo del tempo.  Attestati già in Omero sono i santuari federali di Pyrgi (facente capo a Tarquinia, che avrà il suo peso decisivo fino agli ultimi tempi nelle decisioni del Fanum anche quando questo sarà ubicato ad Orvieto), odierna Santa Severa, e del Vicus Tuscus a Roma,  entrambi al centro  dell’Odissea e dell’Iliade rispettivamente. Dice Alcìnoo a Odisseo:   « Dodici re gloriosissimi fra il popolo nostro governan sovrani, e io tredicesimo » (VIII, 390-391). Le serve di Alcìnoo tessono tele e le donne feacie sono le più abili tessitrici, quanto gli uomini feaci sono i più abili marinai (VII, 205ss). Ancora al tempo delle guerre puniche Tarquinia fornisce a Roma le tele per le vele delle navi (Livio XXVIII, 45). Da quanto diremo in seguito le etère (gli specchi di bronzo erano uno dei loro strumenti del mestiere) ballerine del cananeo tempio di Silo (e sottolineo cananeo, non ebraico, quando ancora Jahvè o meglio Geova, altri non era che uno dei nomi, quello ebreo, del dio Adone-Tammuz compagno di Astarte Afrodite) tessevano tele per il santuario. Nella reggia-santuario pirgense di Alcìnoo/Demarato (ricco mercante corinzio stabilitosi definitivamente a Tarquinia dopo la salita al potere di Cipselo) v’erano delle etère preposte al culto, in particolare della dea Ino Leucothea, di cui Nausicàa è la manifestazione carnale di etèra che si offre per il matrimonio sacro al primo marinaio venuto. E’ evidente qui l’identificazione omerica come del resto della tradizione greca della dea del santuario pirgense con Afrodite o Ilitia più che con Ino Leucothea, dea dell’Aurora, etrusco Thesan. Della prostituzione sacra a Pyrgi rimane il ricordo  nella Cistellaria di Plauto e nella scheda su Pyrgi del commentario di Servio all'Eneide. Tarquinia è la città madre dell’Etruria con continuità di vita dai tempi più antichi fino alla sottomissione a Roma e oltre. E’ la città che conserva le più antiche tradizioni sia sull’origine degli Etruschi che sulla loro civiltà e soprattutto sulla religione che origina sia da Tarconte, eponimo di Tarquinia, sia da Tagete, nato a Tarquinia e rivelatore dei libri dell’etrusca disciplina. Ma al tempo delle Lamine di Pyrgi il computo del tempo e il relativo culto derivano da Roma.  Nelle lamine di Pyrgi è assimilata ad Astarte la dea del santuario che i greci chiamano Ino Leucothea o più esattamente Ilitia e Afrodite, e che nelle lamine è detta in etrusco Uni, Giunone Lucina, la dea delle nascite e del computo del tempo. Le serve di Alcìnoo tessono tele per la regia ma anche per il santuario incorporato nella regia di Pyrgi, dedicata alla dea dell’Aurora, associata al dio Sole Iperione/Apollo. Poiché a Scheria è venerato Poseidone dovremo pensare alla divinità raffigurata sul segno 50 del sillabario festio, e cioè Po, Poseidone col disco solare in testa, dunque divinità onnicomprensiva dalle profondità marine alla sommità del cielo. Poseidone significa sostanzialmente Signore. Mi chiedo se non derivi da doppia denominazione (cf. il comune di Linguaglossa, provincia di Catania, dove glossa in greco significa lingua, per cui è come dire Lingualingua) greco-semitica: Potis + Adon. Entrambi significano Signore. Ma io penso che il paredro della dea delle nascite fosse più esattamente Vertumno e connesso al fiume, non al mare. Mi viene in mente, e la butto là, la possibilità della lettura Vertumnos dal celtico ver-. latino super, e thymenos greco, che può collimare coll’idea di un Proteo continuamente in movimento “agitato, smanioso”, oppure, riallacciandosi alla forma più autenticamente etrusca di Velthines (vedi oltre), dall’affine  vocabolo greco thînos,  venerabile, dunque: il “sommamente venerabile”. Del resto il nostro Poseidone deriva da Dagan, il patrono dell’Occidente e della valle del’Eufrate/Peratu, che assomiglia abbastanza a Ver(a)tu(mno), Veltu. Odisseo, sbalzato dai flutti alla foce del fiume nel cui alveo  poi gli Etruschi scaveranno l’ingresso al porto di Pyrgi, prega il fiume: « “ Ascoltami, sire, chiunque tu sia: molto invocato ti trovo, fuggendo, fuori dal mare, l’ira di Poseidone. E’ venerando anche per i  numi immortali l’uomo che arriva sperduto, come io ora al tuo fiume, alle ginocchia tue arrivo, dopo tanto soffrire. Abbi pietà, sovrano: io mi dichiaro tuo supplice. ” Disse, e quello subito fermò la corrente, trattenne l’ondata, gli fece bonaccia davanti e in salvo l’accolse dentro la foce del fiume. » (Od. V, 445-453) Non sappiamo il nome del fiume  ma questo era sicuramente sacro e si identificava con Vertumno.   A Roma il santuario di Vertumno (assimilato dai greci a Poseidone) nel Vicus Tuscus  sul Tevere/Volturno fu costruito da Romolo poco dopo la fondazione della città come sede federale dove i Romani rapirono le sabine auspice certamente Uni etrusca, Giunone latina.  Volturnum era anche il nome originario di Capua e del fiume. A Roma nel tempio sul Campidoglio era venerata la triade Giove (Tinia), Giunone (Uni/Ashtart Ashera) e Menerva (Northia), quest’ultima preposta specificamente all’affissione del chiodo annuale a Roma come  a Volsinii. Da quanto precede si ricavano due tracce da seguire per l’identificazione del Fanum Voltumnae, e cioè la presenza delle prostitute sacre legate alla dea dell’amore Astarte Ashera/Uni/Juno Coelestis, e un corso d’acqua, un fiume in movimento continuo che suggerisce il divenire incessante del mondo sensibile.    Vertumno, che a Pyrgi, la città dei Feaci, è venerato come Poseidone,  corrisponde al dio Proteo (Odissea IV) del delta egiziano, cioè del Nilo.  Il dio Proteo era mutevole, trasformandosi, usando  le parole di Omero, in  « ogni cosa che in terra si muove, e acqua e fuoco che prodigioso fiammeggia » (Od. IV, 417-418). Il Fanum Voltumnae – tramite il tempio tiberino federale di Romolo –  è parente del santuario federale di Silo dove convergono le dodici tribù d’Israele, e dove i Beniaminiti (così simili ai Romani, come i Daniti ai Danai di Omero) rapirono le danzatrici all’uscita del tempio  (Giudici, 21, 15-23). Se i Romani rapirono le sabine sotto la protezione di Afrodite/Elena/Selene come suggerisce Omero nell’Ira d’Achille (che vuol celebrare le donne latine che vantavano false origini achee) attraverso il ratto della spartana Elena da parte del troiano (cioè del romano) Paride con conseguente fusione delle due razze in un unico popolo, anche i Beniaminiti trovarono appoggio per la loro impresa nella dea del santuario federale di Silo, Astarte Ashera.  Infatti a Silo sono  attestati la prostituzione sacra e il culto di Astarte Ashera intorno a cui ruota la prostituzione sacra (cf. 1 Samuele, 2,22: i figli del giudice o sommo sacerdote di Silo, Eli, « si univano alle donne che prestavano servizio all’ingresso della tenda del convegno. »; vedi anche Esodo 38,8: Mosè «  Fece la conca di rame e il suo piedestallo di rame, impiegandovi gli specchi delle donne, che nei tempi stabiliti venivano a prestar servizio all’ingresso della tenda del convegno. » Che ci facevano con gli specchi delle tessitrici? Erano piuttosto delle etère; 2 Re 23, 7 è stato scritto forse in età ellenistica se sostituisce le prostitute sacre con dei prostituti: « Demolì le case dei prostituti sacri, che erano nel tempio, e nelle quali le donne tessevano tende per Asera. »)  fino agli ultimi giorni di Giuda: Manasse   « Collocò l’immagine di Asera, da lui fatta fare, nel tempio, riguardo al quale il Signore aveva detto a Davide e al figlio Salomone: “ In questo tempio e in Gerusalemme, che mi sono scelta fra tutte le tribù di Israele, porrò il mio nome per sempre. Non sopporterò più che il piede degli Israeliti vada errando lontano dal paese che io ho dato ai loro padri, purché procurino di eseguire quanto ho comandato loro e tutta la legge, che ha imposto loro il mio servo Mosè. ” Ma essi non ascoltarono. Manasse li spinse ad agire peggio delle popolazioni sterminate dal Signore alla venuta degli Israeliti. »  (2 Re, 21, 7-9) E il dio di Silo è affine al Vertumno dei Consualia, delle celebrazioni romulee per la fondazione di Roma, che i Greci (Dionisio d’Alicarnasso) identificarono con Poseidone, dunque il dio Cavallo, dunque il dio Asino del sancta sanctorum del tempio di Gerusalemme. Io ritengo che Proteo (il Primordiale)/Vertumno (il Mutevole) sia imparentato con Tifone/Seth, il Caos, l’Asino venerato nel tempio di Gerusalemme come ci conferma, benché contrario, Giuseppe Flavio in Contro Apione, II, 7 (1). Entrambe sono  divinità primordiali del divenire, ma mentre il dio dei rozzi nomadi pastori beniaminiti, è un dio maschile e celeste del caos malvagio, intransigentemente razzista, fomentatore di discordie politiche, religiose e civili, quello    etrusco-romano si trasforma in un dio ermafrodito, liberale, della Natura, spontanea e bella perché varia, che ha il suo santuario  sul Tevere (e allora la sede puo’ essere stata Orvieto, su un pianoro tufaceo a più di 200 metri, sulla destra del Paglia, affluente di destra del Tevere, a 315 metri s.l.m.) come conseguenza del fatto che già sotto Romolo (quando Roma era etrusca e anzi sede del Fanum Voltumnae) nell’VIII secolo, il Tevere aveva preso nome Volturno dal culto di Vertumno. Si deve presumere che  quando gli Etruschi decisero di spostare la sede del Fanum da Tarquinia ad una località più centrale che mettesse in comunicazione l’Etruria e l’Umbria, scelsero Orvieto anche perché sul Tevere, che dunque deve avere avuto un ruolo fondamentale nel culto di Vertumno. Sarà anche  importante ricercare le raffigurazioni di danzatrici prostitute sacre nell’Etruria propria al di fuori  ovviamente di Pyrgi, Tarquinia e Roma dove ebbero sede alle origini della civiltà rasenna. Laddove le rinverremo e rinverremo in maggior numero sarà un ottimo ed indubitabile indizio della sede del Fanum Voltumnae.

 

Per il momento una danzatrice con crotali, bronzetto etrusco del V secolo, è al Museo dell’Opera del Duomo di Orvieto. Per quanto riguarda i manufatti bronzei impiegati come arredo del Fanum ci si deve chiedere se era preferibile importarli da altre città o produrli in loco. E’ evidente che agli inizi del V secolo sarà stata impiantata una produzione in loco (oltre che nei centri vicini) e pertanto anche questo indizio ci aiuterà ad identificare la sede del Fanum.  Ulteriori conferme sull’identificazione Volsinii/Orvieto ci vengono dalla traduzione del volumen linteo di Zagabria, un contratto della seconda metà del I sec. a. C.  contenente disposizioni per la cura funeraria del sacerdote  flamine Solus Thun Servius (suluM thun Merphu, X, 6-7; quella che trascrivo M è un  tipo di s a quattro tratti in tutto simile, graficamente, alla M) stipulato dal medesimo con  la confraternita del Fanum Voltumnae. Sarò sintetico nell’esposizione dei dati perché mi riprometto di esporli per esteso al momento della pubblicazione per intero del volumen di Zagabria. Purtroppo tutto dipende dal fatto che possa leggere i miei dischetti scritti in WorsStar4, cosa che al momento appare poco probabile. Qui basti dire che il gentilizio Thun è attestato  nella tomba dei Leinie  a Sette Camini, presso  Orvieto: tr thun Munu, “ Trepu Thun, auleta ”, TLE 224. Testo principe della lingua e del rituale funerario etrusco, il volumen di Zagabria, l'unico scritto  su  lino pervenutoci dall'antichità classica,  fu  redatto nello scriptorium del Fanum Voltumnae (in velthineM cilthM, XI, 8-9) il santuario di Velth (Proteo greco) a  Volsinii Veteres  (Velzna), e archiviato nel tempio  di Uni Ursmnal (Giunone dei Contratti, XII, 10) perché  ne venisse data attuazione in  una vicina  area cemeteriale presso il complesso tombale gentilizio dei Thun, e cioè, verisimilmente, la necropoli di Sette Camini. La famiglia Thun da cui discendeva Servio era dunque sotto la protezione della famiglia Leinie un cui membro, il titolare della tomba dei Leinie (Golini I) Vel Lecates, il Legato, fu nel 320 a. C. ca. praetor Etruriae (mekhl... rasneas... zilakhnve), cioè rappresentante della lega che aveva sede ordinaria a Volsinii (TLE 233). Le uniche altre attestazioni dello zilath mekhl rasnal sono a Tarquinia.

Dal tenore del contratto funerario di Servio Thun è  evidente che la lega etrusca non  esiste più adesso nella sua forma originaria, politica, ma sopravvive,  nel pieno rispetto della legge di Roma, in ambito ristretto, culturale e cultuale nonché funerario. A prima vista risulterebbe  che il Fanum Voltumnae, cui con tutta  verisimiglianza fa capo il rituale del volumen di Zagabria, sia ancora in piedi con tutta la sua documentazione scritta concernente  quanto meno il diritto fondiario (compresa la procedura) e il diritto sacerdotale etrusco. La verità è che  il Fanum Voltumnae, depredato di 2000 statue bronzee nel 265 a. C. dal console M. Fulvio Flacco, fu verisimilmente parzialmente distrutto con il suo patrimonio documentale. Così se con tutta verosimiglianza  il contratto funerario a favore del nostro Servio Solo è stato redatto a Orvieto e comunque in area centrale, lo scriba  copia meccanicamente redazioni differenti, settentrionali, centrali, e perfino meridionali, del rituale funerario, indizio di un recupero antiquario di documenti ormai frammentari. Questo recupero meccanico delle fonti mantenendo la grafia volta a volta settentrionale, centrale e meridionale, senza armonizzare tutto secondo un vocabolario e una grafia centrale, prova che il redattore non aveva una conoscenza sicura dell’etrusco, bensì amatoriale, appena sufficiente a rendersi conto  del contenuto dei testi da utilizzare.  Dunque l’accenno al rituale della terra e sacerdotale etruschi potrebbe essere – e questa è probabilmente l’ipotesi più realistica –  solo nelle antiche fonti utilizzate e non nell’accenno diretto da parte del redattore del contratto funerario di Zagabria. Dunque è possibile che per allora la documentazione del diritto etrusco fosse stata seriamente compromessa dalla presa di Volsinii (ma forse più a causa del dilagare del latino come lingua impiegata dai giovani etruschi, da tutti, e dunque dell’inutilità di ricopiare testi etruschi che nessuno più avrebbe letto, né insegnava più), ma rimane il fatto che essendo redatto da uno scriba centrale è probabile che il contratto sia stato redatto nello scriptorium del Fanum Voltumnae ad Orvieto. Dunque il Fanum e l’assemblea della lega coi suoi magistrati –  restaurata  già in età augustea come attesta il volumen di Zagabria – mirava ormai a conservare e  continuare la cultura e le tradizioni locali come farebbe una confraternita professionale o un’associazione culturale antiquaria.  Da Augusto a Costantino gli imperatori restaurarono le antiche tradizioni ed è possibile che i raduni folclorici del Fanum, che erano comuni a Etruria e Umbria come dice un rescritto di Costantino siano stati restaurati proprio nell’antica sede del Fanum, Orvieto-Volsinii, al confine fra Etruria e Umbria, piuttosto che a Volsinii novi-Bolsena, che è interna all’Etruria, per cui fra l’altro l’apud Vulsinios del rescritto (su un cippo conservato nel palazzo comunale di Spello) in cui  Costantino dispensa un sacerdote di Spello dal presenziare al raduno comune a Etruria e Umbria può valere altrettanto bene per Volsinii-Orvieto che  avrebbe presto perso il suo nome per diventare Urbs vetus, la Città vecchia. Certo Orvieto appare piena di aree templari coincidenti per l’epoca coll’auge del Fanum, mentre Volsinii novi ha edifici del III-II secolo in sintonia col fatto della deportazione della popolazione di Volsinii qui nel III secolo. Se dunque Orvieto è, come già stato sostenuto dalla maggior parte degli storici e degli archeolgi a partire da K. O.  Müller, la sede del Fanum Voltumnae, allora più esattamente l’ubicazione del Fanum potrà essere ricercata in località " Campo della Fiera ", alle porte di Orvieto,  presupponendo che il nome sia conservativo della continuità delle attività medievali ed etrusche. E  proprio al " Campo della Fiera " sono in corso campagne di scavo  condotte dal Dipartimento di scienze archeologiche e storiche dell'antichità dell'Università degli studi di Macerata e dirette dalla prof.ssa Simonetta Stopponi, senza per il momento giungere a conclusioni definitive.

Nota 1.

7. However, I cannot but admire those other authors who furnished this man with such his materials; I mean Possidonius and Apollonius [the son of] Molo, who, while they accuse us for not worshipping the same gods whom others worship, they think themselves not guilty of impiety when they tell lies of us, and frame absurd and reproachful stories about our temple; whereas it is a most shameful thing for freemen to forge lies on any occasion, and much more so to forge them about our temple, which was so famous over all the world, and was preserved so sacred by us; for Apion hath the impudence to pretend that" the Jews placed an ass's head in their holy place;" and he affirms that this was discovered when Antiochus Epiphanes spoiled our temple, and found that ass's head there made of gold, and worth a great deal of money. To this my first answer shall be this, that had there been any such thing among us, an Egyptian ought by no means to have thrown it in our teeth, since an ass is not a more contemptible animal than - and goats, and other such creatures, which among them are gods. But besides this answer, I say further, how comes it about that Apion does not understand this to be no other than a palpable lie, and to be confuted by the thing itself as utterly incredible? For we Jews are always governed by the same laws, in which we constantly persevere; and although many misfortunes have befallen our city, as the like have befallen others, and although Theos [Epiphanes], and Pompey the Great, and Licinius Crassus, and last of all Titus Caesar, have conquered us in war, and gotten possession of our temple; yet have they none of them found any such thing there, nor indeed any thing but what was agreeable to the strictest piety; although what they found we are not at liberty to reveal to other nations. But for Antiochus [Epiphanes], he had no just cause for that ravage in our temple that he made; he only came to it when he wanted money, without declaring himself our enemy, and attacked us while we were his associates and his friends; nor did he find any thing there that was ridiculous. This is attested by many worthy writers; Polybius of Megalopolis, Strabo of Cappadocia, Nicolaus of Damascus, Timagenes, Castor the chronotoger, and Apollodorus; who all say that it was out of Antiochus's want of money that he broke his league with the Jews, and despoiled their temple when it was full of gold and silver. Apion ought to have had a regard to these facts, unless he had himself had either an ass's heart or a dog's impudence; of such a dog I mean as they worship; for he had no other external reason for the lies he tells of us. As for us Jews, we ascribe no honor or power to asses, as do the Egyptians to crocodiles and asps, when they esteem such as are seized upon by the former, or bitten by the latter, to be happy persons, and persons worthy of God. Asses are the same with us which they are with other wise men, viz. creatures that bear the burdens that we lay upon them; but if they come to our thrashing-floors and eat our corn, or do not perform what we impose upon them, we beat them with a great many stripes, because it is their business to minister to us in our husbandry affairs. But this Apion of ours was either perfectly unskillful in the composition of such fallacious discourses, or however, when he begun [somewhat better], he was not able to persevere in what he had undertaken, since he hath no manner of success in those reproaches he casts upon us.

Fine

 

 

Marco G. Corsini

 

La Stele di Lemno e l’origine del popolo etrusco

 

Quando Omero fa dire da Nausicàa: « Viviamo in  disparte, nel mare flutti infiniti, lontani » (Od. VI,204-205) o quando Esiodo alla fine della Teogonia accenna alle isole sacre dei Tirreni questi autori vogliono sottolineare l’isolamento dell’Etruria dal circuito delle navigazioni del Mediterraneo orientale epicentro della civiltà.  Esiodo pensa alla  talassocrazia  etrusca del Tirreno che si estende  alle isole di Sardegna,  Sicilia ecc. e la penisola italica si prestò sempre, specie se considerata insieme alle isole, ad essere trattata come un’isola essa stessa.  Nausicàa, incarnazione della dea Ino Leucothea, è rappresentazione (spostata indietro al tempo mitico della colonizzazione di Pyrgi da parte del feace Nausitoo padre di Alcinoo) della figlia di Alcìnoo/Demarato corinzio, dunque greco, di costumi orientalizzanti, ma altresì personaggio di spicco della comunità tarquiniate. L’essere l’attuale personaggio di spicco della comunità tarquiniate, Demarato (padre di Tarquinio I), un greco di costumi orientali, consente a Omero di riallacciare il presente dell’Etruria trainata dalla cultura e dall’economia corinzia al passato della colonizzazione feacia della Tirrenia, cioè di una civiltà di lingua greca sia pure di costumi orientali, alto-siriani (dunque affini ai fenici) cilici e ciprioti. E’ evidente che nei Feaci, il cui arrivo a Pyrgi è collocato una generazione prima della guerra di Troia,  Omero vede i progenitori dell’orientalizzante e cioè l’affermarsi dei mercanti e magnati siriani e ciprioti attirati dallo sfruttamento delle miniere di ferro e allume della Tolfa i quali apportano la vera e propria civiltà opulenta e sfarzosa che rimpiazza la primitiva e modesta vita che era vissuta dai nostri antenati nell’ambito dei villaggi di capanne. Tutto sommato Omero avrebbe potuto parlare anche di  Pelasgi. Anche i  Pelasgi hanno costumi orientali affini a quelli dei Feaci pur essendo come questi di lingua greca, ma i Pelasgi si identificano più propriamente con quelli che noi oggi chiamiamo Micenei (soprattutto nella fase di declino e migrazione tardo micenea), cioè popoli di lingua greca e scrittura lineare B. Si potrebbe dire che i Feaci sono una tipologia particolare,  strettamente legati all’origine siro-cipriota, della più ampia categoria dei Pelasgi. Si ricorderà che Cere (probabilmente via Pyrgi precedentemente sotto il controllo di Tarquinia) e Spina (sull’Adriatico) erano considerate colonie dei Pelasgi da parte dei Greci che preferivano attribuire ai Pelasgi, cioè agli antenati dei Greci, la colonizzazione dell’Etruria, piuttosto che ai Feaci/Fenici di lingua greca (e cioè ai Ciprioti e Greci gravitanti attorno ad Al-Mina e simili).  La frequentazione dell’Italia e non solo della Tirrenia da parte dei Pelasgi/Micenei è elevata nel tardo miceneo per poi sparire col medioevo greco riprendendo con la colonizzazione greca dell’Italia meridionale come un flusso unico che a noi appare interrotto soprattutto a causa della mancanza di documentazione scritta nella fase intermedia. La lontananza dai centri civilizzatori orientali fece si che si sviluppasse autonomamente in Etruria meridionale una civiltà dalla vaga coloritura micenea cui nel tempo si sovrapposero ulteriori apporti più orientali, ma sempre influenzati dalla civiltà micenea, dall’Alta Siria e Cipro. Quando con la colonizzazione greca dell’VIII secolo si risvegliò l’interesse per la Tirrenia i Greci rimasero stupiti dell’affinità culturale fra gli Etruschi e i loro progenitori Pelasgi/Micenei di cui gli Ateniesi si dicevano discendenti. Ed è questa rivendicazione di filiazione che Omero esalta per compiacere i Greci nell’Odissea e più esattamente nel nucleo del Viaggio d’Odisseo, attraverso anche Odisseo stesso e la sua introduzione a Roma del rito del suovetaurilia. A partire dal retrogrado e nazionalista Esiodo i Greci si sono definitivamente impadroniti della paternità della civiltà etrusco-latina attraverso la figura di Odisseo i cui figli regnano appunto in Etruria e nel Lazio. Ma Esiodo manipola il racconto omerico facendo del feace Nausitoo fondatore di Pyrgi una generazione prima di Odisseo un figlio di Odisseo avuto da Calipso e spostando Circe in occidente mentre questa viveva nella Colchide. Se Pelasgi e Feaci sono gli immigrati, i Tirreni/Tursha sono gli indigeni. Stando a ciò che si apprende da Dionisio d’Alicarnasso iTirreni emigrarono dall’Italia (e questa era la tesi di Mirsilo di Metimna combattuta a torto dai moderni, I,23,5), come pure i Siculi/Shekelesh provenienti dalla Sicilia. I Tursha praticavano la circoncisione, ma questo costume potevano averlo autonomamente in comune con alcuni popoli orientali oppure averlo appreso stando a loro contatto nell’Egeo e altrove. E’ possibile che anche i Sardi/Shardana provenissero dalla Sardegna. Il fatto che gli attacchi all’oriente da parte dei popoli del mare inizino in Anatolia o in alta Siria non vuol dire che i popoli del mare originassero dall’Anatolia. Poiché Sardi e Etruschi erano popoli minerari possono aver avuto  interesse a mercanteggiare con altri popoli sulla via dei Dardanelli e del Mar Nero e dunque a stanziarsi da quelle parti. Questi Sardi e Etruschi dell’est ad un certo momento si sarebbero trovati in difficoltà per l’inaridirsi delle fonti della propria sopravvivenza e dati alla pirateria. E’ importante sottolineare che i riferimenti toponomastici etruschi sono strettamente legati all’Etruria e all’Italia e che l’etrusco e il sardo sono certamente due lingue di fondo anindeuropeo. Che Etruschi e Lemni parlassero una lingua un tempo estesa dalla Tirrenia all’Egeo e poi evolutasi separatamente in lemnio ed etrusco è possibile e certo meno azzardato che prendere posizione sulle due ipotesi rimanenti, e cioè lemnio derivato dall’etrusco o viceversa. Io preferisco immaginare il lemnio anindeuropeo come derivazione preletteraria dall’etrusco, prima che l’etrusco si indeuropeizzasse attraverso i contatti coi Pelasgi/Greci, Umbri, Latini. I cercatori di metalli Etruschi (la celebre talassocrazia mediterranea ed egea che altrimenti sarebbe solo un’esagerazione o un’invenzione, mentre il tentativo etrusco tenace di sfondare il blocco greco sullo Stretto di Messina si spiega colla volontà di mantenere i legami con l’Egeo) sulla via del Mar Nero come gli Argonauti e Troia sono tutti Tursha/Tirreni di lingua etrusca nella fase lemnia cioè arcaica della lingua e del popolo che  portò la lingua nell’Egeo, a Lemno, Imbro, Samotracia, Troia, ecc. In Omero vi sono accenni pieni di rispetto per questa stirpe da cui vantavano (probabilmente a torto) di discendere gli stessi Albani. A parte l’accenno nell’Odissea all’impresa degli Argonauti e la derivazione dell’itinerario di Odisseo da un itinerario con epicentro il Mar Nero e l’area dei Dardanelli, e la stessa guerra di Troia, nell’Iliade sono nominate insieme Lemno e Imbro (fra le quali è situato il regno sottomarino di Teti madre del pelasgico Achille) e Samotracia, terra d’origine dei Troiani e dello pseudo Enea di Dionisio d’Alicarnasso. Ma ricordiamo che Enea virgiliano esule da Troia seguendo l’oracolo di Apollo Delio va alla ricerca della antica madre dei Troiani che prima identifica con Creta e poi con l’Italia. Virgilio sapeva bene che era dall’Italia che provenivano i Dardani fondatori di Troia a guardia dello stretto dei Dardanelli e cioè i Tursha/Tirreni, e da qui tornarono in Etruria al tempo della grande immigrazione dell’età d’oro dello sfruttamento delle miniere a partire dal protovillanoviano ed esplosa nel villanoviano, che da l’idea di un’immigrazione di massa mentre è solo il frutto della grande esplosione economica della regione a partire dal mare dove sono collocate le miniere stesse. Nonostante Erodoto abbia raccolto la storia dell’origine degli Etruschi da immigrati Lidi (gli immigrati in Etruria provengono alla fin fine da ogni dove) che hanno monopolizzato il riflusso tirreno/lemnio (spacciandolo per immigrazione originaria) incentrandolo su Smirne (e Smurinas “di Smirne” è un cognome etrusco attestato a Tarquinia) non c’è dubbio che anche la teoria erodotea rientra in quella tirreno/lemnia, proprio attraverso la Stele di Lemno, proveniente da Kaminia, dove sono attestati  due riferimenti alla città di Focea in Lidia. Che poi Etruschi Lidi e Romani di Enea (di Dionisio d’Alicarnasso) coincidessero lo dimostra sempre la Stele, che fa riferimento al cognome Holayes/Iulo/Silvio portato verisimilmente come soprannome dai dinasti da Romolo in poi come ricordo del fatto che questo era stato in clandestinità nei boschi del Palatino dove era nato. L’Holayes della stele era forse un lontano discendente di Romolo!  Concludendo, se un popolo si identifica con la sua lingua non v’è dubbio che il popolo etrusco è autoctono esattamente come lo intendeva Dionisio d’Alicarnasso. La sua formazione dovrà essere studiata a partire dagli apporti anteriori alla frequentazione micenea. Ma è indubbio che prima della frequentazione micenea e orientale, prima dell’orientalizzante soprattutto, la civiltà etrusca è primitiva, mentre grazie all’intensificato sfruttamento delle miniere e alla ricchezza determinata dall’afflusso di gruppi di individui civilizzati dall’oriente, l’Etruria balza di colpo a grande potenza e grande civiltà del Tirreno. Disgraziatamente, quando il mondo antico cominciò ad accorgersi dell’esistenza della civiltà etrusca l’Etruria non era già più. Era una civiltà morta o morente, e gli sforzi fatti per conservarcela furono magari anche scarsi e soprattutto in gran parte inutili perché insufficienti a vincere il tempo che tutto distrugge. Omero fu un privilegiato a poter vivere in quella società che celebrò quando era già al culmine del suo sviluppo e nell’incipiente declino inarrestabile, e dobbiamo soprattutto a lui se oggi possiamo ricostruire con sufficiente precisione le coordinate della nascita dell’ethnos etrusco. Ma occupiamoci ora più da vicino della Stele di Lemno.

 

Trascrizione: Lato A:  aker tavarsio / vanala3ial seronai morinail / holaies naphoth / siasi / marasm av / 3ialkhveis avis / evi3tho seronaith / sivai. Lato B: holaiesi phokiasiale seronaith evi3tho toverona[l?] / romh aralio sivai eptesio arai tis phoke[-?] / sivai avis sialkhvis marasm avis aomai.

 

 Mi si perdoni il fatto che non trascrivo i suoni ph, th, kh ecc. con le lettere greche o comunque con le trascrizioni scientifiche etrusche. Non posseggo i relativi segni o nella migliore delle ipotesi il sistema Microsoft non riconosce come proprio l’ inserisci simbolo (greco) e alla prima occasione  trasforma autonomamente le lettere greche nelle più vicine lettere latine e in punti interrogativi.  Il che è peggio della comunque esatta trascrizione che propongo.

 

Il lemnio della stele di Kaminia è assai simile all’etrusco per la scrittura, l’interpunzione sillabica tipica delle iscrizioni etrusche arcaiche  (l’arcaismo è segnalato anche dall’andamento bustrofedico), per la fonetica, in particolare l’assimilazione di o e u con scelta della trascrizione della prima in lemnio e della seconda in etrusco, per il lessico, per le flessioni. Si nota l’intercambiabilità di sigma con quattro tratti 3 con s (3ialkhveis e sialkhvis) ed appare anche tenue la differenza fra s e quella che magari si potrebbe trascrivere z ed io ho preferito trascrivere s per evidenziare l’affinità con l’etrusco. Quanto all’interpunzione sillabica, che consiste nella separazione degli elementi del testo da due o tre punti, bisogna rilevare che questa a volte separa un elemento dall’altro isolando l’ultimo segno grafico del primo che viene così attribuito al secondo. Ciò è evidente nel caso di maras : mav (la riga orizzontale – che va letta da destra a sinistra – in alto nel lato A) che per comparazione con marasm : avis della terza e ultima riga del lato B (riga da leggersi da sinistra a destra) risulta doversi separare marasm : av(is). Da ciò deriva che anche altrove si può essere verificato ciò e in particolare in   toverona[l?] / rom : haralio che potrebbe separarsi toverona[l?] / romh aralio e dove romh potrebbe essere Rome greco, con l’èta,  Roma, al caso locativo etrusco in e, soprattutto se Toverona(l) ha a che fare col Tevere (è attestato in greco e latino Thybris = Tevere) e corrisponde a qualcosa come Tiberina(le) con doppio suffisso aggettivale, comune in etrusco, magari nella forma Tiberuna(le), da Tiber e una, etrusco-latino per “insieme”, dunque praticamente con la stesa efficacia dell’aggettivo: Efesto connesso al Tevere, del Tevere.  Meno probabile mi pare la lettura magari possibile di: Efesto di Uni del Tevere, cioè: Efesto paredro di Uni del Tevere, di Uni Tiberina, dove Uni (genitivo Unial) è la dea delle Lamine di Pyrgi corrispondente ad Afrodite Urania e Ino Leucothea. Ino Leucothea e Nausicaa, personificazione della dea, soccorrono Odisseo in prossimità del santuario che era presso un fiume dove poi gli Etruschi scavarono il canale di accesso al porto.

 

Non ho trovato in giro la traduzione di questa epigrafe che così leggo:

 

A: Aker Tavarsio / donò come ufficio funebre, / (A. T. il) nipote di Holaie, / defunto, / per cinque (e) / quaranta anni / al servizio di Efesto (il dio) / vissuto. B: Ad Holaie di Focea al servizio di Efesto Tiberino / sul suolo di Roma, nel settimo anno di residenza a Focea, / ad anni di vita quarantacinque scomparso.

 

Reso più scorrevole: A: Aker Tavarsio donò (la stele) come ufficio funebre. (A. T. il) nipote di Hylaios/Silvio, defunto, vissuto per quarantacinque anni al servizio del dio Efesto. B: A Hylaios di Focea servitore di Efesto Tiberino a Roma, scomparso ad anni quarantacinque nel settimo anno che risiedeva a Focea.

 

Se leggo bene la stele, che è il documento etrusco-romano più antico che possediamo,  questa dimostra che nel VI secolo a. C., al tempo della  monarchia di origine tarquiniate, cioè di origine corinzia (da Tarquinio I a Tarquinio II), gli etrusco-romani erano una realtà unitaria e che la talassocrazia etrusca non era una favola ma una realtà concreta, marcata da avamposti commerciali che sulla scia delle esplorazioni degli etruschi Argonauti (vedi sul mio Sito) erano situati nell’Egeo come a Kaminia nell’isola di Lemno, sulla costa anatolica come Focea di Lidia, ma certo anche lungo il Mar Nero fino alla leggendaria Colchide. Il nome proprio o soprannome di Holaies corrisponde al greco Hylaios, da cui Ileo e Ilio, femminile Ilia, e al latino Silvius (da cui il femminile (Rea) Silvia; la madre di Romolo – e poi anche di Remo rappresentante della comunità inglobata dell’Aventino – divinizzata come madre dei Cabiri o Dioscuri, degli antenati divini della comunità romana),  che ritengo fosse il soprannome dei re di Roma a partire da Romolo che aveva vissuto in clandestinità nei boschi del Palatino dove era nato. Da Livio emerge che di questo soprannome si impadronì la falsa tradizione dei re di Albalonga, gli usurpatori di Lavinio poi abbattuti da Romolo (ovvero probabilmente un Ostilio della gens omonima che veniva considerato compagno di Romolo ed entrambi mariti di Ersilia) e da suo padre Faustolo/Tirreno,  e confinati in Albalonga che mai fu all’origine della fondazione di Roma. E’ dunque perfino possibile che questo sacerdote di Efesto Tiberino che poi altri non è che Vertumno alias Proteo, del santuario di Volsinii, appartenga alla famiglia che vantava più direttamente la sua discendenza dal fondatore di Roma. Addirittura la Stele di Lemno potrebbe avvalorare l’ipotesi da me avanzata che Vertumno sia stato dapprima venerato nel santuario federale di o presso Tarquinia anteriormente a Romolo e poi a partire da Romolo, e precisamente dal 749 a. C., nel santuario federale in Roma verisimilmente in quello che poi fu il Vicus Tuscus, mentre solo dopo la defezione di Roma dalla confederazione alla fine del VI secolo il Fanum Voltumnae dové essere trasferito a Volsinii/Orvieto probabilmente anche per ricercare una unione con gli Umbri in funzione antiromana nel momento in cui Chiusi sale alla ribalta come potente centro politico etrusco in seguito al tentativo, fallito, di Porsenna di riportare Roma nell’ambito della confederazione. Qualcuno si stupirà del fatto che un sacerdote sia rappresentato con lancia e scudo, ma la cosa si spiega col fatto che i sacerdoti di Efesto/Vulcano (a Lemno località di fonditori), assimilato a Zeus nell’Ida cretese (che rimanda all’Ida anatolico), battevano le lance sugli scudi per occultare i vagiti del dio in fasce affinché non li udisse Crono che divorava tutti i suoi figli. Questi sacerdoti erano i Cureti ed erano assimilati ai bronzisti Cabiri che assistevano Efesto nella sua fucina. Così Holaies di Focea sacerdote di Efesto e discendente di Romolo, come Romolo è raffigurato nell’aspetto di guerriero armato di scudo e lancia. Dionisio d’Alicarnasso afferma di aver visto così, armati di lancia, raffigurati gli dèi troiani, i Penati, certo i gemelli, seduti, opera di antica fattura, in un antico tempio della Velia non lontano dal Foro, su una viuzza che portava alle Carinae (I,68). Gli Etruschi dovettero la loro fortuna ai metalli delle loro ricche miniere e nessun dio meglio di Efesto potevano venerare nei centri di incontro con le popolazioni del Mediterraneo orientale con cui commerciavano e scambiavano esperienze metallurgiche. Il lemnio è dunque un dialetto tirreno, la lingua dei Tirreni che partiti dall’Italia un tempo popolarono Lemno (Tucidide, VI,109) e che Dionisio d’Alicarnasso distingue nettamente dai Pelasgi con cui i Greci tendevano a confonderli (I,29 e 30). Erodoto (VI,138) accenna al rapimento delle Ateniesi che celebravano a Braurone una festa in onore di Artemide da parte dei Tirreni (che lui chiama Pelasgi) di Lemno. Dunque i Tirreni volevano integrarsi con la popolazione locale attraverso il rapimento delle donne, come comandava Afrodite Urania.

Tempo dopo la morte del sacerdote Holaies, nel 509 a. C., cade la monarchia di Tarquinio II il Superbo e di ciò approfitta probabilmente Milziade per conquistare Lemno entro la fine del VI secolo. Col crollo della monarchia etrusca a Roma e dunque con l’uscita di Roma dalla confederazione l’Etruria vede ridursi i collegamenti con la  Campania e poi, dopo un iniziale successo con la sconfitta dei Liparesi, anche quelli con l’Egeo attraverso lo stretto di Messina a causa della  fortificazione dello Skyllaion (Scilla) da parte di Anaxilas di Regio e delle disfatte dei Cartaginesi ad Imera (480) e degli Etruschi nelle acque di Cuma (474). Si interrompono i legami fra Roma repubblicana, che deve ricominciare daccapo la corsa all’impero, e l’Egeo, mentre gli Etruschi del Tirreno si richiudono sempre più in se stessi fino alla conquista romana e alla loro integrazione nella nazione vincente.

  

Fine

 

  

 

 

Marco G. Corsini

 

Appunti di storia etrusco-romana

 

Dopo la mia interpretazione della Stele di Lemno, a meno che non si tratti di miraggio, sempre possibile quando si lavora su materiale così scarso, l'ethnos etrusco appare abbarbicato con le sue radici più profonde nell'Italia preistorica, così come lo vedeva il grande storico Dionisio d'Alicarnasso, con la conseguenza che si dovrà studiare l'etrusco con l'etrusco (cosa che del resto abbiamo fatto finora) senza  preoccuparci di ricercare affinità linguistiche altrove, che se ci saranno saranno dovute ad esempio all'ambientarsi dell'etrusco nell'Egeo e nel Mar Nero (etrusco orientale, lemnio) e dunque alle imitazioni e agli  imprestiti reciproci fra questa lingua e quelle della regione egeo-caucasica. L'auge della civiltà tirrenica si collocherà nel cosiddetto appenninico, quando potrà avere un senso pieno l'osservazione di Catone secondo cui un tempo « quasi tutta l'Italia era stata sotto il dominio degli Etruschi » (Servio, ad Aen., XI, 567) e quella più puntuale di Dionisio d'Alicarnasso secondo cui « il nome di Tirrenia risuonava per la Grecia e tutta l'Italia occidentale, tolte via le denominazioni delle singole popolazioni, assunse quell'appellativo » (I,25,5). Tyrsenoi, Tursha, Turskoi venivano chiamati dai paesi esterni che ne avevano evidentemente una conoscenza confusa perché "costruttori di torri" (così era spiegato il significato di Tyrsenoi) si addiceva propriamente ai Sardi costruttori di nuraghi. Ma certo a quest'epoca i Sardi saranno stati difficilmente distinguibili dagli Etruschi, con cui avevano relazioni reciproche, anche se indicati da un preciso nome distintivo noto agli Egizi. Se infatti i Tirreni che un tempo occuparono l'Attica e rapirono le donne di Braurone sono quelli con elmo cornuto raffigurati sul Cratere dei guerrieri dall'acropoli di Micene (1200 a. C.), allora si tratterà più propriamente di Shardana/Sardi.

 

 

 

Del resto guerrieri con elmo cornuto si trovano raffigurati su un secchiello dorato da Chiusi e all'interno di una tomba da Paestum. Certo gli Etruschi impararono a percorrere il mare soprattutto dopo l'incontro coi navigatori minoico-micenei e siriani che navigando a occidente si imbattevano necessariamente nell'Italia. Ma stando a Dionisio d'Alicarnasso si direbbe il contrario, perché i Pelasgi provenienti dalla Grecia « erano esperti nella navigazione per aver vissuto con i Tirreni » (I,25,1). Certo è che presto anche loro si misero ad esplorare il Mediterraneo sia verso e oltre lo stretto di Gibilterra entrando in competizione coi Punici e Cartaginesi, sia fino al Mediterraneo Orientale e  prima dello stretto dei Dardanelli si stabilirono a Samotracia, Imbro, Lemno e Antandro, e oltre i Dardanelli nel mare di Marmara a Placia e Scilace, fino certo al Mar Nero e ai fiumi che da questo si inoltravano nella sconosciuta Asia. Più che di esplorazioni, secondo gli antichi si sarebbe trattato di emigrazioni in massa a causa delle carestie e situazioni climatiche particolarmente sfavorevoli. Il bello è che da questo momento si parla di declino dei Tirreni il cui floruit era dunque visto nel bronzo medio, durante l'orizzonte della civiltà appenninica, se non anche prima. Ma tenuto presente che erano " genti bellicose ", esperte nella navigazione, è facile concludere che fossero spinte ad espandersi e cercare nuove fonti di prosperità attraverso le esplorazioni marittime e non attraverso le emigrazioni da carestia, cosa che invece le riguardò nell'Egeo. Comunque secondo Dionisio « prevalevano senza difficoltà in qualunque territorio andassero. Dal resto degli uomini essi venivano denominati Tirreni... col nome del territorio da cui erano migrati » (I,25,1-2). Non c'è dubbio che eccettuato Mirsilo di Metimna, che attribuisce la colonizzazione egea ai Tirreni d'Italia (in Dionisio d'Alicarnasso, I,23,5), i Greci ricorsero all'immigrazione pelasgica perché non gli andava giù che i Tirreni fossero così evoluti senza avergli chiesto il permesso. Comunque, per voler interpretare le cose in senso più vicino al vero, invece che di colonizzazione pelasgica dell'Italia si parlerà di frequentazione da parte dei minoico-micenei, il che è archeologicamente provato. I Pelasgi erano di lingua greca e al tempo dell'Apoteosi di Radamanto (1550 a. C.) erano già venuti dalla o erano già arrivati fino in Siria se la testina piumata del sillabario festio va letta Syrios, o anche *siranos/*sirenos (cioè divenuto satem da kentum che era: koiranos, principe, capo). Troia appartiene strettamente alla cultura etrusca perché era una rocca a guardia dello stretto dei Dardanelli e si doveva pagare il passaggio al funzionario preposto e ciò era inderogabile perché oltre all'andata v'era anche un ritorno e dunque chi faceva il furbo veniva sanzionato necessariamente. Poiché i Tirreni avevano impiantato tante basi lungo il percorso non è nemmeno da escludere che Troia sia stata per un determinato arco di tempo una loro roccaforte. Ciò chiarirebbe meglio perché i Romani (più che i Latini di Albalonga, il cui vanto era un'impostura e semmai si può spiegare come riferimento di tutte le aristocrazie d'Europa, si può dire, ai modelli della nobiltà omerica) vantavano ascendenze troiane. Dunque se i Troiani erano in realtà gli Etruschi, la colonizzazione greca che si sovrappose alle colonie etrusche fino al Mar Nero poteva far nascere la leggenda degli Achei che invadevano la Troade e colonizzavano l'Asia, tanto più che gli Akhiyawa (che davano il nome) erano stanziati dal XIV secolo nella Troade. Dunque quella dei Romani o meglio degli Etruschi/Troiani (e dunque dei Romani in quanto Etruschi) non era una fantasia ma una realtà. Lo strangolamento dell'Etruria da parte dei Greci iniziò nell'Egeo e nel Mar Nero. Dunque i Troiani (discendenti o meno di Dardano) venivano dall'Italia, che a quel tempo era una grande Etruria.  La stele di Lemno ci rafforza nella convinzione che gli Etruschi essendo metallurgi andavano alla ricerca del ferro e degli altri metalli preziosi e li scambiavano con gli altri popoli fino alla leggendaria Colchide. Erano essi gli Argonauti (significativamente menzionati da Omero nell'Odissea) di cui poi i Greci si approprieranno facendoli partire dalla Tessaglia, l'unica regione arretrata che poteva avere la lingua o i costumi abbastanza vicini a quelli dei mitici Pelasgi con cui venivano confusi dai Greci i Tirreni, salvo che da Tucidide che li distingue bene (IV,109). Quando la crisi economica devasta l'oriente mediterraneo tutti questi popoli mercantili e industri si danno necessariamente alla pirateria come nel falso eppur verisimile racconto ad Eumeo di Odisseo che dice di essere partito da Creta per andare a razziare l'Egitto. Orbene all'etrusco Omero questi racconti provenivano dai pirati tirreni (e prima ancora i testi egizi menzionano i Dardani alleati degli Hittiti a Qadesh) che almeno dall'anno 5 di Merenptah intorno al 1200 a. C. assalivano il delta egiziano, diventando poi mercenari al soldo dei faraoni fino ai tempi tardi, quando uno di loro riportò a Tarquinia e si fece seppellire (siamo a cavallo fra Romolo e Numa) con la situla riportante il nome del faraone Bocchoris ovvero Wahkare Bokenrinef (720-715 a. C.) che forse lo stesso faraone gli aveva donato come onorificenza pei servizi prestati, sempre che non sia stato il frutto di un'ennesima rapina. Ma la stele di Lemno è anche importante perché ci conferma che la storia di Roma è indivisibile, a partire dalla fondazione di Roma, da quella dell'Etruria su cui primeggia inserendosi e sovrapponendosi alle sue iniziative. Così la stele di Lemno è certamente etrusca (sia pure di un etrusco differenziatosi regionalmente) e nello stesso tempo si riferisce ad un contesto romano di Roma città etrusca fin dal tempo di Romolo. Ma qui sappiamo per altra via che i Romani di Romolo non erano etruschi e nemmeno italici, bensì provenivano dalla Siria. Avevano troppo in comune coi Beniaminiti (i "figli della riva destra") originari della valle dell'Eufrate: l'asino, animale di Seth e Geova/Tifone, che i Romani sostituirono col cavallo di Poseidone/Conso; lo sciacallo animale totemico, che i Romani sostituirono col lupo; la costumanza delle città o luoghi di asilo (che servivano a Mosè per garantire il processo giusto all'omicida evitando le faide tribali, e a Romolo come fonte primaria, insieme al ratto delle donne, del popolamento della nascente Roma); la pratica delle armi come unica o quasi attività in cui eccellevano per antonomasia; la pratica del ratto delle donne all'origine della creazione di un nuovo popolo, che deve risiedere principalmente nel fatto che questi erano dei guerrieri colonizzatori e dunque solo uomini e dunque le donne dovevano rapirle da qualche parte. Ma sono le donne ad allevare i figli degli stranieri guerrieri e così i figli delle Sabine e delle Latine parleranno sabino e latino, non la lingua dei seguaci di Romolo. Se per costumi i proto-Romani erano semiti non è detto che lo fossero anche per lingua, che può essere stata indeuropea, perché è possibile una parentela dei Romani con gli Indo-Iranici adoratori del fuoco e con gli Hurriti carristi (latino currus), guerrieri. L'Egitto era la terra d'incontro di questi mercenari e pirati sia Tirreni sia di provenienza siriana, Rasenna, e possiamo pensare all'isola di Faro dove era venerato il dio Proteo-Apollo prefigurazione dell'ebraico Geova e probabilmente del dio di Romolo Vulcano/Efesto, il dio del fuoco a lui tanto caro. Gli Shardana/Sardi della Sardegna, metallurgi come gli Etruschi poi trasformatisi per necessità in pirati e mercenari, militando nell'esercito egizio avevano appreso ad adorare un dio della guerra, della pestilenza, della morte e resurrezione di nome Reshef (composto verisimilmente su quello di Ra, il sole egizio), prefigurazione di Geova e Apollo. A Memfi, dove era il quartiere dei Tiri, dunque dei Fenici, era venerata Elena-Afrodite straniera alias Afrodite Urania di Ascalona, in Filistea, patrona dell'unione fra popoli mediante il ratto delle donne. Dunque i Rasenna della costa siriana (egizio Retenu o Ratenu, Rasennu, forse proprio Rasenna), i giganti signori della guerra, si indirizzarono dopo la crisi della metallurgia orientale verso il nuovo eldorado dell'Etruria e qui si innalzarono i grandi tumuli che riempirono di ori e argenti e avori frutto delle loro razzie ma anche delle imprese estrattive e lavorative dei loro metallurgi ciclopi. Dunque se la civiltà etrusca preistorica (fino a che non si troverà qualche testo scritto che già siamo in grado di prevedere come sillabico) è indicata indubitabilmente dalla esistenza della lingua etrusca e dal nome di Tyrsenoi o Turskoi/Tusci e poi E-trusci da cui Etruschi, a seconda del suffisso aggettivale in -no o in -ko "quelli delle torri", viceversa la civiltà etrusca storica, quella della netta identificazione del popolo con l'Etruria, dell'introduzione della civiltà di case in mattoni rispetto alla precedente capannicola, della scrittura alfabetica, eccetera, è sotto il segno della civiltà di provenienza siro-cipriota (è lo stesso Pallottino a rilevare che l'orientalizzante è primariamente siro-cipriota, Etruscologia, p. 99). Sono questi gli Etruschi che possiamo studiare più da vicino e comunque deve pur esserci la possibilità di distinguere questa civiltà i cui componenti a detta di Dionisio d'Alicarnasso si dicevano Rasenna, da quella evanescente e primitiva che pure le ha dato il nome e la lingua etruschi. Questa civiltà etrusco-romana si aggancia dunque a quella dell'Egeo continuandone la tradizione come conferma la stele di Lemno coi suoi richiami al dio Efesto/Vulcano dei metallurgi e dunque degli antenati Cureti armati di scudo e di lancia, col richiamo al nome Hylaios/Silvio, soprannome secondo Livio dei re latini di Albalonga, mentre lo era di quelli di Roma. Romolo nacque e visse in clandestinità nei boschi del Palatino da cui uscì maggiorenne col padre Faustolo/Tirreno per riprendersi il potere usurpato dai Greci di Enea impostisi su Laurento e sui Latini. Romolo è figlio dell'etrusco-rasennio che ha sposato la figlia del re locale. E' assai probabile che Faustolo/Tirreno sia sceso al di qua del Tevere inviato da una città etrusca, forse Vulci, o Tarquinia, o Veio, per creare una testa di ponte verso il Lazio e la Campania etrusca. Le popolazioni indigene evidentemente furono sempre ostili e si opposero efficacemente all'ingerenza etrusca ma gli Etruschi dovettero fare i conti anche con una contraria spinta colonizzatrice greca mirante anch'essa al controllo del Tevere attraverso l'Aventino. Anche costoro avevano le loro tradizioni radicate intorno ad uno pseudo Enea venerato presso i Latini. Per il momento il braccio di ferro fu vinto dagli Etruschi e Romolo che aveva indubbiamente costumanze etrusche  fondò la città secondo il rituale etrusco. Romolo fondò Roma nel 753 a. C. e quattro anni dopo nel 749 a. C., ci informa con la massima precisione Dionisio,  ne celebrò la fondazione coi consualia (da condere = fondare) da celebrare ogni cento anni. I consualia sono la stessa cosa dei ludi secolari etruschi. Romolo li adottò dagli Etruschi o questi li derivarono da Romolo? Sappiamo la precisione delle profezie etrusche, e quella sulla vita della nazione etrusca le attribuiva dieci secoli di vita che, considerando come punto finale la distruzione del Fanum Voltumnae nel 265 a. C. ci porterebbe al 1265 a. C. come data ipotetica di nascita della nazione medesima. Poi abbiamo già visto l'analogia fra i sacerdotes etruschi (così i Romani chiamavano, ma anche praetores Etruriae, i capi elettivi della confederazione etrusca, gli zilath mekhl rasnal) e i suffeti, impropriamente tradotto giudici, che reggono Israele a partire da circa il 1200 a. C., cioè l'età dei popoli del mare, fino all'elezione di re Saul. Furono i popoli del mare a creare (per la prima volta o a imitazione di quelle esistenti nei paesi d'origine) nella da loro invasa Palestina una confederazione con sede a Silo. In particolare gli Shardana/Sardi o popoli affini o con esperienze simili dovettero avere un certo peso sulla nascita di Israele sia perché adoravano un dio prototipo di Geova (che portavano con sé in un'arca o forse meglio in un sarcofago, dovendo trattarsi di un dio della morte e resurrezione del tipo di Osiride; che avessero ideato per primi la guerra batteriologica diffusa dai corpi dei morti in putrefazione? Solo in età tarda quando si mise per scritto l'Antico Testamento si volle far derivare la morte da contatto con l'arca da una specie di scossa elettrica causata da un dio indeuropeo intimamente connesso col dio del fulmine Zeus) sia perché almeno dal XIII secolo nel territorio di Ugarit (dove è attestato il culto di Reshef) avevano una quercia oracolare o di manifestazione divina (PRU III, pp. 109 e 131) prototipo di quella dello Zeus di Dodona pelasgica, venerata tanto da Achille quanto da Odisseo. Se i Sardi (o meglio uno o più popoli a prevalenza indeuropea con cultura affine a quella dei Sardi) furono tramite primario dell'istituzione politico-religiosa israelitica possiamo pensare che analoga fosse la situazione presso gli Etruschi. Comunque io non mi spingerei fino a ipotizzare una confederazione etrusca fin dal XIII secolo a. C., mentre sottolineerei che la distruzione del Fanum Voltumnae nel III secolo a. C. chiude la vita politica della nazione etrusca come una lastra tombale. Per Omero  Tarquinia fu a capo della lega dei dodici popoli d'Etruria al tempo di Odisseo e della guerra di Troia (Od. VIII,390-391) ma certo si tratta di licenza poetica, tanto più che Alcinoo (che poi incarna il corinzio Demarato proiettato indietro nel tempo) rappresenta piuttosto l'orientalizzante siro-cipriota di provenienza feacia ovvero rasenna. E allora semmai possiamo discutere se questa istituzione del Fanum Voltumne possa essere nata all'inizio del villanoviano (IX secolo) nella città-madre dell'Etruria oppure a Roma con Romolo. E' questo l'orizzonte dei giganti esperti nella guerra (Baruc) che emergono a capo delle città etrusche come Romolo a Roma. Questo dei ludi secolari con l'affissione del chiodo è un indizio di nascita di una nazione e dunque sarebbe un motivo in più per distinguere i Rasenna dai Tirreni, anche se per il nostro modo di vedere le cose dall'esterno è difficile concepire due popoli distinti che si succedono sullo stesso territorio parlando la medesima lingua. Sarei portato a scommettere su Roma, mentre Tarquinia  ereditò certo la tradizione da subito, dal momento in cui Roma mostrò di agire da sola e per i suoi interessi imperialistici anche contro l'Etruria tutto sommato pacifista ma soprattutto incapace di difendere con la forza la pacifica convivenza delle sue città-stato. Ciò fu rafforzato dal fatto che Tarquinia fu la più importante città etrusca e promotrice delle attività al Fanum in età tarda quando la lega cominciò a funzionare. Qui i sacerdoti etruschi elaborarono a posteriori la teoria decennale della vita della nazione etrusca, portandola e portando i ludi secolari etruschi anche più indietro del 749 a. C. all'inizio nel villanoviano tarquiniate, variando la durata dei saecula per farli coincidere con la propria storia  e spingendosi ben oltre il 265 a. C. che è la vera fine della nazione etrusca nel tentativo di allontanare la fine. Del resto dalla mia interpretazione delle Lamine di Pyrgi (vedi sito principale) risulta che Tiberio della Velia (regione etrusca di Roma) nominato re di Cere dopo la caduta di Tarquinio il Superbo (509) istituì nel santuario di Pyrgi l'affissione del chiodo annuale già praticamente istituita a Roma nel tempio di Giove Capitolino  costruito da Tarquinio il Superbo e inaugurato all'inizio dell'età repubblicana ma sempre nel 509 a. C. E questo istituto appare legato da tanti indizi anche archeologici (primo fra tutti le venti cellette affiancate al tempio B di Pyrgi e costituenti il tesoro) alla legge serviana sul censimento della popolazione  (operante anteriormente al tempio capitolino di Roma) attraverso l'imposta sulle nascite da versare al tesoro di Ilithia ovvero Hera Phosphoros ovvero Juno Lucina come ci informa Dionisio (IV,15,5). Se l'istituto fosse stato di Tarquinia, Cere e soprattutto Pyrgi lo avrebbero già conosciuto. E' così confermata l'ipotesi dell'istituzione dell'affissione del chiodo a Volsinii solo dalla fine del VI secolo (come giustamente sostiene Pallottino), dopo l'uscita di Roma dalla confederazione etrusca. Dunque ancora una volta la storia di Roma a partire da Romolo sarebbe strettamente legata alle sorti della storia etrusca della fase rasenna. Ma ipotizzare che i ludi secolari etruschi siano nati a Roma porta a sospettare seriamente che i Consualia fondati da Romolo non fossero i festeggiamenti della fondazione di Roma in quanto città autonoma, bensì in quanto centro della confederazione etrusca. In sostanza Roma sarebbe nata come città ospite del Fanum ma con amministrazione autonoma, ciò che poi sarà Volsinii. I Sabini e i Latini che avevano rifiutato il connubio su livello di parità coi Romani e li avevano offesi proponendogli di ricorrere anche per le donne ai luoghi d'asilo che avevano aperti (e poi cosa significa aprire dei luoghi d'asilo? I luoghi d'asilo sorgono sempre presso dei santuari e dunque Romolo avrebbe dovuto costruire dei santuari coi rispettivi luoghi d'asilo, e la storia monarchica di Roma è ricca di tali riferimenti a santuari coi rispettivi luoghi d'asilo) mai e poi mai avrebbero accettato di convenire alle celebrazioni della fondazione di Roma, sia per disprezzo, sia per sospetto di tranelli. Viceversa ciò è logico se il centro cui si accorre è stato fondato in comune da tutti i popoli dei dintorni, ciò che si ricava dal fatto che nel mundus al centro di Roma, in una trentina di fosse (che all'inizio saranno state assai meno e aumentarono via via che nuovi popoli si associavano) furono sepolti gli oggetti sacri di altrettante curie fondatrici, che portavano guarda caso i gentilizi delle donne sabine rapite, il che vuol dire, leggendo fra le righe, dei popoli e delle genti che avevano concorso alla confederazione. Il nome di Quiriti degli stessi Romani deriva dunque dalla Curia Hostilia (così si chiamava ancora ai tempi di Livio; secondo me curia ha la stessa radice del greco kyrios e koFiranos, signore, capo, è la sede del potere, del governo, dei capi tribali che nominano il re) dove avveniva l'assemblea dei rappresentanti dei populi e poi dei senatori romani. Dunque o Romolo istituì i Consualia solo per celebrare Roma, e le donne furono rapite altrove e con altra connessione, oppure li istituì nell'ambito di un centro politico-religioso di tutta l'Etruria fino al Lazio e alla Campania etrusca (che ovviamente era interesse etrusco tenere saldamente collegata via terra all'Etruria propria), dei Sabini, dei Latini, di tutti i popoli dell'area, e allora il ratto delle donne può aver interessato primariamente delle etrusche e secondariamente delle latine e sabine straniere ma solo consenzienti, perché questa era una cerimonia fatta sotto la forma di un ratto ma del tutto pacifica. Del resto, come ho già scritto, il Fanum Voltumnae doveva essere connesso al Tevere, anticamente detto Volturnum da Vortumno, la divinità che non a caso fu venerata nel Vicus Tuscus e cioè il luogo santo sul Tevere, diciamo la Città del Vaticano, la città santa nella città politica di quel tempo. Del resto non si riesce a capire come mai gli Etruschi avrebbero consentito ad un Romolo qualsiasi di venire a fondare la sua città proprio sul confine meridionale e su un fiume navigabile che delimitava un lato del Triangolo se non ci fosse stato un vantaggio per l'Etruria. Io credo che il Tevere fu la prima mira di tutti i popoli che si affacciarono sul Tirreno. Evidentemente la città santa, in una terra di tutti e di nessuno, che si proponeva come centro politico-religioso di risoluzione pacifica delle controversie economiche fra Etruschi anche campani e Greci ben radicati nel Lazio con la loro tradizione di Enea e di Albalonga (dunque ora si spiega perfettamente l'idea propagandata dai poemi omerici in greco lingua internazionale, di un diritto internazionale, una legalità dei commerci da rispettare da parte di tutti, specie dai Greci) funzionò poco a causa dell'ambiente ostile latino-sabino pompato da dietro le quinte dai Greci, ma sempre Roma si propose come centro di tutte le leghe per regolare il diritto fra le genti. Solo con la caduta della monarchia Roma prende definitivamente la via di città autonoma e distinta, dividendo i suoi destini da quella religiosa che a distanza di tempo e di civiltà successive rispunterà come Città del Vaticano. 

Ho seri motivi per sospettare che colui che la tradizione chiamò Romolo dalla fondazione della città sul colle Palatino (Roma o Rama semitico significa "colle" e Rama si chiamava la città da cui proveniva il profeta Samuele, colui che unse re Saul) era in realtà il nonno di Tullo Ostilio (terzo re di Roma), della gens Ostilia, forse proveniente da Vulci se è significativa l’attestazione epigrafica di una Hustileia degli inizi del VII secolo. La nonna di Tullo Ostilio  era invece Ersilia, dalla gens ononima, sabina, che la tradizione dice sposa di Romolo ma anche di Ostilio. Ho già scoperto che la seconda parte dell'Odissea cela la ripresa del potere su Lavinio da parte di Romolo contro gli usurpatori greci. Ora finalmente ho il suggello della prova schiacciante nel nome dato dal nonno Autolico a Odisseo:  « Figlia e genero mio, mettetegli il nome che dico: io venni qui, odio covando contro di molti, uomini e donne, sulla terra nutrice; dunque Odisseo sia il nome... » (Od. XIX,406ss.), confrontato con Hostilius e l'aggettivo latino hostilis, ostile, nemico, e addirittura ostile a morte, accanito (odium). La provenienza vulcente di Romolo o meglio di suo padre potrebbe spiegare la successiva marcia su Roma dei vulcenti  Celio e Aulo Vibenna per rimettere o mettere sul trono Mastarna che sarebbe passato, nella tradizione italica del potere, accomodante, col nome di Servio Tullio, penultimo re di Roma. Osto Ostilio noto come Romolo pare sia sparito, forse fatto a pezzi, letteralmente, dai senatori, per cui è probabile che di lui non esista un vero sepolcro. Viceversa suo padre, noto come Faustolo/Tirreno, fu sepolto in una tomba monumentale, forse poi sovrastata dal tempietto di Vulcano (Volcanal), di cui rimangono i resti dei rifacimenti di III-IV secolo a sud del Comizio. Il reperto più antico è un cippo di pietra del VII secolo in latino arcaico bustrofedico, praticamente integro (contrariamente a quanto asseriscono acriticamente gli accademici), di cui che io sappia non si hanno buone foto e men che meno un apografo, e che così restituisco dopo un riesame più critico che fotografico fatto apposta per questo lavoro:

  

 

QUOI HORTUS SAKROS ESED. SORTES VIDIASIAS REGEI HAPIOD LAEVAM QUOS REX KUM KALATOREM HAPIOD IOUXMENTA KAPT ADOTARI AM ITERINEM. QUOI HAVELOD NEQUIOD IOVESTOD QUOI LIQUIOD

 

 

" Questo recinto sia inviolabile. Infatti mentre gli auspici erano interpretati dal re, (a partire) dalla (HAPIOD > da ab-eo) sinistra, cioè (a partire) dal  re e dal banditore, la coppia di buoi ha cominciato (KAPT > cepit) a spingere fuori (ADOTARI > adhortari) intorno al percorso  (AM > am, amb, ambi, ITERINEM > itinerem). Chi lo violi non è giusto che muoia (LIQUIOD > linquo nel senso di abbandonare, venir meno, ecc., oppure liquefacio nel senso moderno di liquidare, ammazzare). "

Tracciando il percorso del mundus Romolo prende gli auspici e cioè invita gli dèi a manifestare il loro consenso alla fondazione in quel luogo attraverso segni prestabiliti che si manifesteranno da parte loro entro un certo tempo e in uno spazio celeste (templum) delimitato da Romolo con il lituo.  La formula di queste condizioni predefinite viene recitata in questo caso dal banditore, il kalator. Ma gli auguri, come scrive Raymond Bloch, « tenevano conto anche dei segni accidentali che potessero presentarsi spontaneamente nel corso della cerimonia » e a me pare più probabilmente questo il caso dei buoi maschio e femmina che rifiutano di procedere e fanno cenno di no col capo che va a destra e a sinistra. « Sul Palatino, nella Curia dei Salii, si conservava religiosamente il lituus del quale si era servito Romolo al momento della fondazione di Roma » (La religione romana, p.181, Le religioni del mondo classico, a cura di Puech, BUL). Questa iscrizione dovrebbe e potrebbe risalire a Tullo Ostilio che come discendente di Romolo e di Faustolo doveva certo preoccuparsi più della tutela del  cenotafio del nonno e del sepolcro del bisnonno che non di celebrarne, come fece, le imprese attraverso Odisseo e il porcaro Eumeo. Dunque, al momento di ubicare la Curia Hostilia nei pressi della tomba del bisnonno e del luogo dove era stato ucciso il nonno, Tullo risistemò il complesso tomba-cenotafio-tempio di Vulcano (i due leoni un tempo sul podio a ferro di cavallo che circondava la tomba di Tirreno/Faustolo erano simbolo dei fondatori regali della città) cui era interdetto da sempre l’ingresso pena la morte, in modo che i senatori potessero costantemente ispirarsi alla vita e alle imprese eroiche dei padri della nazione. Tullo sul cippo volle mettere bene in evidenza che non era più lecito ammazzare, come evidentemente si faceva prima, chi violasse il luogo (violazione che certo non consisteva nei furti di tesori all’interno del sepolcro o del tempio, bensì nei pellegrinaggi del popolo che veniva qui a chiedere conforto, grazie, realizzazioni di progetti e desideri, consumando ovviamente le strutture di pietra, come i leoni che non furono ritrovati). Bastava a tenere a distanza la gente la rievocazione di ciò che era accaduto allo stesso Romolo al momento della fondazione della città e del tracciato del mundus (più che del pomerio, che ovviamente non passava da qui), con la conseguenza che il luogo era stato dichiarato infausto, maledetto. Del tempio sovrastante di Vulcano (Volcanal) non rimane traccia se non in un'iscrizione. Quando ormai tutta l'area era ridotta ad un rudere, in età sillana fu finita di abbattere e ricoperta piamente con una pavimentazione di pietra nera che sola ricordava l'interdizione, la sacralità del luogo (vedi anche sul mio Sito principale).

Numa Pompilio, secondo re di Roma, fu re religiosissimo e interessato alla formulazione del rituale. Dalla storia monarchica di Roma emerge l'interesse dei primi re nel creare formulari di diritto internazionale la cui elaborazione era affidata a vari sacerdozi, ciò che collima con la mia ipotesi di Roma città federale e ciò che fa di Roma fin dall'inizio la madre del diritto. Il cerimoniale di ratifica (così ce lo fa apparire la storiografia antica) della reggenza di Numa nominato dal senato mi conforta nel ritenere che l'augure fosse in realtà espressione di un potente sacerdozio preesistente a Romolo da cui dipendeva o meno la ratifica della nomina, il che voleva dire la possibilità di un veto contro cui non ci sarebbe stato nulla da fare. Possiamo comprendere meglio le cose se ci appoggiamo alla storia di Israele e ai suoi suffeti di Silo prima e ai re di Gerusalemme poi, in entrambi i casi unti dai sommi sacerdoti. La casta sacerdotale stava sopra i re perché da lei in ultima istanza ne dipendeva la nomina. Di Tullo Ostilio, succeduto a Numa, nipote via padre dell'etrusco Ostilio e della sabina Ersilia, abbiamo detto. Lo scontro fra i tre gemelli Orazi e i tre Curiazi ha l'aspetto di un regolamento di conti all'interno di un patto federale, un modo accettato da tutti per regolare la questione senza spargimento di sangue. La storia dell'Orazio superstite che uccide la sorella perché lo rimprovera di averle ucciso il fidanzato Curiazio è evidentemente falsa e deriva dal nome del sororium tigillum, il giogo sotto cui passò l'Orazio superstite come purificazione per aver ucciso i Curiazi latini (non tanto per il fatto che la base della popolazione romana era latina perché villaggi latini erano stati soggiogati da Romolo e molti latini erano entrati a Roma attraverso i luoghi d'asilo; infatti nessuna delle tre tribù di Roma è riferibile ai latini; quanto per il fatto di essere popoli federati; sororium si riferisce ai federati, all'espiazione per aver ucciso uomini di popoli federati e dunque divenuti consanguinei, fratelli). Ma la violazione del patto federale e la guerra o meglio il colpo di mano di Romolo rese evidente che la federazione non poteva funzionare e allora se mai Roma fu il primo Fanum Voltumnae, ed è possibile che lo sia stato, da questo momento in poi divenne una città autonoma e basta. Tullo incaricò Omero di celebrare con l'Ira d'Achille i consualia del 649 a. C. Sembrerebbe che la riforma attribuita a Servio Tullio sia già nell'aria al tempo di Tullo Ostilio. Ed infatti la formazione oplitica che tanto spazio ha nell'Iliade è di Tullo Ostilio perché viene datata dagli archeologi al 650 a. C. (l'Ira d'Achille è cantata a Roma nel 649 a. C.) quando compare raffigurata sui vasi etruschi. Inserire nell'esercito dei componenti non nobili significa estendere i diritti politici a masse sempre più ampie e dunque democratizzare la società inizialmente solo aristocratica. Come la riforma dell'esercito attribuita a Servio Tullio deve iniziare con Tullo Ostilio così anche il tempio tiberino di Mater Matuta attribuito a Servio Tullio deve essere stato iniziato da Tullo Ostilio. Se il Viaggio d'Odisseo è stato ideato per celebrare quanto meno il passaggio agli etrusco-corinzi del tempio-banca di Ino Leucothea prima in mano agli euboico-calcidesi, non è pensabile che Tullo Ostilio non abbia voluto imitare la cosa pur nell'ambito della celebrazione del secolo dalla fondazione di Roma, inaugurando un tempio-banca sul Tevere. Del resto Anco Marcio fonda il porto di Ostia prima di Servio Tullio. Con Tullo Ostilio i Latini entrano in gran numero a Roma dopo la distruzione di Albalonga eppure non diedero a Roma neppure il nome di una tribù. Le tre tribù romane con cento senatori rispettivamente furono infatti dei Ramnenses (cioè rasenna-etruschi) di Romolo, dei Titienses (sabini) di Tito Tazio e dei Luceres (gli illustri provenienti dagli strati popolari) nominati da Tarquinio I. Anco Marcio fu sospettato dell'assassinio di Tullo Ostilio ed era nipote via figlia di Numa Pompilio. Finora abbiamo avuto l'alternanza di re romano e sabino. Gli si attribuisce la fondazione del porto di Ostia e dunque un'apertura mercantile in sintonia con la mercantile Etruria. Forse i primi re furono più etruschi di quanto la tradizione non abbia voluto far apparire, ma ad Anco succedono tre re etruschi che alla fin fine fanno capo al mercante corinzio Demarato già potente a Tarquinia ma stabilitovisi dopo la salita al potere di Cipselo a Corinto nel 657 a. C. Quindi seppur nato in Etruria da madre etrusca, Tarquinio I rimane d'origine greca corinzia. Salito al potere nel 614 a. C., Tarquinio è etrusco e la moglie Tanaquilla gli ha predetto l'ascesa al trono entrando a Roma, dunque dovrebbe essere il più ossequiente agli auguri di tutti i re che lo hanno preceduto. Invece di lui è noto proprio lo scontro con l'augure Atto Navio. Tarquinio intendeva portare a sei le centurie dei cavalieri, dunque allargare l'istituzione a nuovi strati della popolazione, ciò che fece comunque raddoppiando gli effettivi nelle tre centurie, ma ebbe appunto l'opposizione dell'augure patrizio e conservatore col pretesto dell'esito negativo degli auspici (di cui ad esempio il democratico Ettore nell'Ira d'Achille si beffava altamente, anche se poi deve constatare che dicevano il vero) e da quel punto di vista non ci fu niente da fare. Ciò significa solo una cosa, che il potere dell'augure era antichissimo, istituito assai prima di quello del re,  e che se il re comandava  l'augure stava un gradino al di sopra. La situazione è affine in tutto il mondo antico, anche e soprattutto celtico. Tenendo conto di questo dato essenziale è evidente che come avveniva in Israele erano buoni i re che mantenevano un buon rapporto col clero e cattivi quelli che facevano di testa propria. L'umanità si porta dietro il fardello della religione fin da quando apparteneva alla specie delle scimmie, e la scimmia che è in noi è dura a morire, come la ruota di pietra che si porta dietro Fantozzi senza sapere più cosa sia e quale ne sia il motivo. Nonostante Roma abbia cominciato, diciamo a partire da Tullo Ostilio, a marciare per conto proprio (anticipando indietro nel tempo e parafrasando Torelli si dirà che la riforma Ostiliana, di cui non abbiamo notizia dalla tradizione bensì indizi vari, prima di tutto dai poemi omerici, anticipa « la nuova realtà di classe organica alla forma urbana sul piano politico-militare, superando - ma non distruggendo - l'impostazione "federativa" delle antiche unità pagano-vicaniche presupposta dal precedente ordinamento curiato », Storia degli Etruschi, p. 160, e portata alle sue ulteriori conseguenze da Tarquinio I e Servio Tullio) direi che i monarchi successivi, specie gli etruschi, tacitamente continuarono ad operare al fine di realizzare ugualmente l'unificazione della regione, compreso, dal punto di vista propagandistico, lo stesso Tullo Ostilio. Tarquinio I fu ucciso nel 576 a. C., dai discendenti di Anco Marzio si disse. In realtà da Mastarna un capopopolo alla Masaniello, da cui l'istituzione del magister populi, un difensore e sostenitore degli interessi dei plebei verso i nobili e il re, quello che poi sarà il tribuno. Come nel caso della vera storia di Romolo anche nella  vera storia di Servio Tullio/Mastarna la storiografia romana è l'esempio che la storia non è scritta dai seri studiosi come il sottoscritto ma il più delle volte dai mercenari al servizio del potere come ce ne sono tanti anche oggi sotto gli occhi di tutti. Dunque la storia non è cosa da sciocchi, bensì da scaltri e raffinati indagatori senza peli sulla lingua.  La versione autentica dei fatti è data dal discorso in senato dell'imperatore etruscologo Claudio conservato nelle "Tavole di Lione", dai dipinti inscritti della tomba François di Vulci e da altri documenti. Ma come al solito chi mette lo storico sulla strada giusta è il meticoloso Dionisio d'Alicarnasso. Nel fregio della tomba François, Caile Vipinas viene liberato da Macstrna e Marce Camitlnas uccide Cneve Tarkhunies Rumakh il re o membro di casa reale. Se Camitlnas indicasse la professione o l'appartenenza al relativo ceto (specie per il suffisso aggettivale -na) del sacrilego omicida potremmo pensare alla complicità del basso clero (quello salito al potere, compreso il demagogo Mastarna, proprio grazie al raddoppio dovuto a Tarquinio I degli effettivi nelle varie istituzioni, dunque dopo l'ascesa al potere di una larga fetta di nuovi ricchi anche plebei purché illustri per le loro opere: i Luceres che danno nome alla terza tribù) perché secondo Dionisio  venivano chiamati kadmiloi quelli che celebravano i misteri presso i Tirreni (Kadmilos era uno dei Cabiri venerato a Samotracia che talora i Greci assimilarono ad Hermes) in onore dei Cureti e dei Grandi Dèi, mentre a Roma erano chiamati camilli « quelli che aiutano in questi riti i sacerdoti » (II,22,2). Dunque le cose potrebbero essere andate così. Prima, dopo aver ucciso Tarquinio I, la salita al potere del capopopolo o magister populi Mastarna (da noi si potrebbe perfino pensare ad un Masaniello), cosa che la storiografia romana non avrebbe potuto mai e poi mai ammettere: la dittatura per un certo tempo del proletariato o comunque dei plebei (che potevano anche essere ricchi o straricchi ma privi della nobiltà delle origini, ciò che era un requisito che i patrizi si tenevano ben stretto per mantenere alta la propria posizione nel sistema). Poi la reazione del figlio di Tarquinio Cneo Tarquinio II che mette in pericolo la posizione raggiunta da Mastarna. Dunque la marcia su Roma di Celio e Aulo Vibenna che in qualche modo si trovano in difficoltà ma vengono soccorsi da Mastarna che col loro aiuto viene poi rimesso o messo per la prima volta sul trono con la complicità del basso clero un cui membro avrebbe ucciso Gneo Tarquinio II padre di Tarquinio III il Superbo. Non è nemmeno escluso che per un certo periodo i plebei abbiano esercitato una dittatura popolare che poi la storiografia si sarebbe preoccupata di legittimare sotto la forma di una adozione con tutti i crismi del Servus. Dunque mentre la tradizione romana aveva già trattato a fini pacificatori come fratelli i nemici senza parentela Romolo etrusco e Remo greco e trattato da nonnino buono Numitore greco, che avrebbe cacciato Romolo insieme alla feccia di Laurento mandandolo a fondare una città abbastanza lontano dai piedi, e mettendogli alle costole il bounty killer Remo, adesso presenta come adottato dalla famiglia di Tarquinio I il buon Servio Tullio che si fa tutore dei piccoli  cui lui stesso ha ammazzato il padre. Servio Tullio salirà al potere e diverrà tutore non dei figli bensì dei nipoti di Tarquinio I come ripetono acriticamente (o piuttosto per coprire la magagna) gli storici romani, ma dei suoi nipoti, come suggerisce dopo un facile calcolo Dionisio d'Alicarnasso, mentre Livio fa il finto tonto. Quel che precede è tanto più verisimile se si considera  che al momento dell'auge di Demarato/Alcinoo a Tarquinia, prima del 649 a. C., fino al 675 a. C., il futuro re Tarquinio/Laodamante è già più o meno diciottenne. Che Servio Tullio abbia incarnato una specie di dittatura della plebe non è inverosimile, visto quel che si ripeterà a Roma più volte e poi con la secessione dell'Aventino, di cui tutti ricorderanno l'apologo di Menenio Agrippa, che si concluderà con la nascita dell'istituzione dei tribuni della plebe. E' con la rilettura di Dionisio che a proposito dei patti stretti dal patriziato con la plebe secessionista  ho ritrovato almeno parte dei paralleli fra i patti romani e quelli fra Achei e Troiani nell'Iliade. In entrambi i casi si parla di patti stretti con le destre e giuramenti che chiamano a garanti gli dèi celesti e quelli inferi (Dion. Hal. VI,84 e 89; Il. II,339: « Ma come andranno per noi alleanze e promesse? Andranno al fuoco, dunque, piani e consigli degli uomini, e libagioni schiette, e destre in cui fidammo? »; III,103ss: « Recate (i Troiani) due agnelli, uno bianco e una nera, per la Terra e pel Sole: e noi (gli Achei) un altro per Zeus. Recate la forza di Priamo, perché consacri i patti in persona... nessuno per arroganza offenda mai i patti di Zeus! »; III,275: « in mezzo a loro a gran voce l'Atride alzando le braccia pregò: " Zeus padre, signore dell'Ida, gloriosissimo, massimo, Sole, che tutto vedi e tutto ascolti, e Fiumi, e Terra, e voi due che sotterra i morti uomini punite, chi trasgredì i giuramenti, siate voi testimoni, serbate il patto leale! " »). La plebe è filoetrusca e mercantile (e lo sarà sempre anche nell'impero dei Severi contro, anche in questo caso, il patriziato stupidamente cristiano, latifondista e perciò anche schiavista), contro un patriziato miope che per continuare a far valere i propri diritti di primogenitura difende ad oltranza la terra e condanna se stesso e soprattutto l'Etruria e Roma che ne fa parte di diritto all'asfissia e alla morte assecondando lo strangolamento che già per conto suo avviene sul mare ad opera di Cartaginesi e soprattutto Greci. La plebe infatti si pentirà poi di aver aiutato i patrizi a ribellarsi. Roma è diventata settaria e intollerante solo dopo la caduta della monarchia etrusca proprio mentre la lega etrusca al contrario appare intollerante nei confronti dei regimi totalitari (e quello di Roma è totalitario nelle vesti democratiche della repubblica). Le ribellioni servili denunciate da città etrusche servono ai Romani solo come pretesto per intervenire e distruggere e sottomettere definitivamente, per cui possono essere anche false (o tali che avrebbero potuto valere anche per Roma schiavista) come tutti i pretesti. La spedizione dei Vibenna (Vipinas e Vipiennas, da Bipenne? La Bipenne è segno del comando da cui il fascio littorio, entrambi attestati a Vetulonia più a nord di Vulci, distrutta in questo periodo da Vulci che sta estendendosi), si spiega innanzitutto come un dovere sentito dai Vulcenti fondatori di Roma di tornare a metterci le mani dopo che il potere vi è stato esercitato da sabini e da greci sia pure di Tarquinia e poi soprattutto per spingere di più la politica di Roma sul mare più che sulla terra, intensificando la guerra contro i Latini e i Greci che li sostenevano, piuttosto che rivoltarsi addirittura contro l'Etruria come fu tipico di Tarquinio I. Comunque le resistenze latino-sabine erano troppo forti per non determinare il conflitto fatale conclusosi con la caduta della monarchia e il crollo della potenza marittima (thalassocrazia) etrusco-romana che all'inizio si estendeva non solo a tutto il Tirreno ma all'Egeo e a tutto il Mediterraneo. Nella tomba François di Vulci l'impresa dei fratelli Vibenna che uccidono i Romani e i loro alleati è ormai vista con ottica tarda, di IV secolo, messa in parallelo al sacrificio dei giovani Troiani compiuto da Achille per onorare Patroclo ucciso. Evidentemente c'è qui un richiamo erudito ai Romani/Troiani cui si aggiunge una debole identificazione dei Vulcenti etruschi con gli Achei/Greci che si spiega però con la forte influenza greca sulla città di Vulci e in questo momento sulla Tirrenia in generale. Altrimenti dietro l'episodio mitico si potrebbe nascondere l'uccisione di 307 prigionieri romani nel foro di Tarquinia nel 357. E' evidente l'incupirsi della civiltà e religione etrusca in concomitanza con il declino politico. Alla fine uno dei nipoti di Tarquinio I, suo omonimo,  che aveva sposato la figlia di Servio Tullio uccide d'accordo con questa l'usurpatore Mastarna e regna col nome di Tarquinio (II o III) il Superbo. Se è vero che il regno non passava in eredità da un re ad un altro è pur vero che Servio Tullio era stato il primo a violare l'elezione del re imponendosi col dolo e la forza. Dunque seppure ricorrendo all'illegalità  Tarquinio il Superbo riteneva giustamente che a suo padre era stato tolto questo diritto (regale o all'eleggibilità è lo stesso) con la violenza e dunque egli si riteneva in diritto di restaurare con l'assassinio dell'usurpatore e coll'imporsi al trono quel diritto violato. Poiché preso di mira dalla tradizione repubblicana antietrusca questo fu certo uno dei più grandi re di Roma e lo dimostrano non solo le grandi opere pubbliche come la costruzione del tempio di Giove Capitolino, della Cloaca Massima, del Circo Massimo, ma il fatto che iniziò seriamente a conquistare con ogni mezzo, i legami matrimoniali, la forza, l'inganno, tutto il Lazio (e col bottino ricavato dalla conquista delle città finanziava le sue grandi costruzioni a Roma), la spina nel fianco dell'espansione etrusca, alla fin fine la causa del suo declino e della sua sparizione e della sparizione di Roma dalla scena internazionale per un bel pezzo di tempo. L'ultima speranza per gli etrusco-romani di spezzare l'accerchiameto cartaginese e soprattutto greco dal mare era il trionfo della politica di Tarquinio il Superbo che sarà poi proseguita dall'isolata iniziativa di Porsenna di Chiusi. La colpa di ciò non è tanto dell'ostinata resistenza dei Latini, abbastanza stupidi da essere raggirati più volte, né di un senato che seppure era in parte composto da latini lo era in senso limitato, sia numerico che qualitativo, dato che i latini non davano il loro nome ad una delle tre tribù. In poche parole Roma monarchica i Latini non li vedeva nemmeno e probabilmente perché costituivano il nemico da abbattere. La causa della caduta della monarchia è altrove. Con Servio Tullio e Tarquinio il Superbo, saliti al potere per iniziativa propria, tirannica, il senato patrizio ha perso il potere di nomina regia. Quella del rex romano non era una carica ereditaria e dunque dal punto di vista strettamente legale Tarquinio il Superbo nessun diritto aveva alla successione nei confronti dell'usurpatore Servio Tullio nonostante che questo appartenesse agli squadristi che gli avevano ammazzato il padre, fosse questo re o figlio di re. L'illegittimità di Servio Tullio non legittimava alla nomina Tarquinio il Superbo. Servio Tullio e Tarquinio il Superbo furono due re illegittimi cioè nominati al di fuori della sola legittima nomina da parte del senato. E' evidente che il senato patrizio difendeva i suoi interessi e i suoi privilegi e dunque voleva eleggere il re che uscisse dal suo stesso consesso come primus inter pares che facesse gli interessi di chi lo aveva eletto e non certo dei plebei e dei morti di fame come invece fanno i demagoghi tiranni. Con gli ultimi due re, in un modo o nell'altro, s'erano fatti gli interessi della massa e dunque i due ultimi re erano cattivi perché chi scrive la storia sono i letterati patrizi di classe senatoria, mentre se a scrivere fossero stati i morti di fame gli ultimi due re sarebbero stati definiti ottimi. Infine è sotto gli occhi di tutti che la congiura contro Tarquinio il Superbo è un fatto di famiglia perché nasce da Giunio Bruto figlio di una figlia di Tarquinio Prisco e comandante niente di meno che dei celeri, cioè della polizia privata del re (e sappiamo quanto i pretoriani abbiano fatto il cattivo tempo durante l'impero), e da Tarquinio Collatino governatore di Collazia figlio di Arunte, l'altro figlio di Demarato. Sesto figlio di Tarquinio il Superbo, erede al trono ormai avviato all'ereditarietà, il genio della presa della latina Gabi, si sarebbe fregato  (rischiando la pena di morte facendo ciò che gli si attribuisce, trovandosi militare in zona e in tempo di guerra)  e avrebbe fregato la dinastia dei Tarquinii  andando a stuprare  una donna molto più anziana di lui, per giunta sua parente acquisita, Lucrezia moglie di Collatino che si sarebbe data la morte, e così i parenti offesi avrebbero organizzato il colpo di mano con Lucrezio padre della vittima presentatosi come interré e Bruto e Collatino come magistratura regale collegiale tutta da definire nel tempo a venire. Tarquinio che assediava Ardea tornò precipitosamente a Roma dove trovò le porte sbarrate. Il colpo di stato era perfettamente riuscito. Chi beneficiò di ciò furono i Latini che con la caduta della monarchia videro cadere per il momento la minaccia di un'annessione totale e i Greci, prima i Cumani di Aristodemo che nel 504  battono Porsenna sotto le mura di Aricia, infine i Siracusani di Hierone che nel 474 sconfiggono la flotta etrusca partendo da Cuma. Se v'è un legame fra la caduta della monarchia e il prevalere dei Greci, dunque se adesso dopo tanto tempo il braccio di ferro è vinto dai Greci, allora è lecito pensare non solo alla stupidità dei parenti dei re Tarquini, patrizi fino all'esasperazione, ma perfino alla loro collusione coi Latini, di cui governavano le città (Collatino) con una certa autonomia tanto probabilmente da sentirsi re autonomi dall'Etruria e da Roma, e  coi Greci di cui amavano troppo la civiltà recandosi anche a Delphi (Bruto).  A causa della caduta della monarchia Roma dovette iniziare tutto daccapo e ripartire come società agricola e latifondista da mercantile che era. Ma questa sensazione di una Roma che inizia tutto daccapo deve derivare soprattutto dalle sue due vite, la prima di centro internazionale politico-religioso e solo da un certo momento in poi (soprattutto dopo la caduta dei Tarquinii) di esclusivo centro politico autonomo e indipendente. Poiché negli ultimi secoli l'invadenza greca e cartaginese s'era accanita a ridurre lo spazio d'azione tirrenico degli Etruschi, in cui includiamo Roma, con le imprese dei Focesi, dei Siracusani e con l'ingerenza di Atene che aveva assunto la supremazia della Grecia mentre dall'altro lato  era Cartagine ad aver assunto la supremazia  del mondo fenicio-punico, probabilmente il patriziato di Roma scommette in modo criminale sull'impossibilità di conquistare il Lazio a breve termine e  sull'impossibilità di competere sul mare con Cartaginesi e Greci e rinuncia alla sua posizione di primo piano sul palcoscenico internazionale per crearsi la sua piccola nicchia latifondista dove regnerà da piccolo signorotto decaduto, ma regnerà, sopravviverà senza dare fastidio ai vicini. Dunque la scelta antimonarchica (seppure non possiamo paragonarla con ciò che sarebbe avvenuto se invece si fosse data fiducia a Tarquinio il Superbo) si rivelò a posteriori comunque lungimirante, sempre in ogni caso gretta e calcolatrice come in genere furono le decisioni del senato romano in tutta la sua vita. Le tradizioni di Roma, specie dopo l'incendio gallico, verranno scritte in una falsa ma oggettivamente utile allo scopo ottica latina terriera e pastorale. Perso il controllo dell'Egeo perché subito dopo la caduta di Tarquinio Milziade ne approfitta per conquistare l'isola di Lemno, e ridotta al solo Tirreno dopo che Anaxilas di Regio rafforza lo Skyllaion,  interrotti i rapporti con la Campania etrusca, l'Etruria storica comincia la parabola del declino e intanto Roma che ha ripreso ad espandersi conquista Veio nel 396 (abbandonata dalla lega etrusca ufficialmente perché s'è data una forma di governo monarchica) e l'annette, e dopo l'invasione gallica e l'incendio di Roma,  conquisterà tutta l'Etruria. L'operazione di polizia e la distruzione del Fanum Voltumnae nel 264 a. C. con trasferimento della popolazione a Bolsena segna veramente l'ultimo limite della vita politica etrusca. L'Etruria muore politicamente, si chiude in se stessa, sopraffatta dagli eventi, ossessionata dal rituale e dalle paure da fine del mondo che accompagnano l'etrusco fino alla tomba piena di mostri inferi, fino ad essere assorbita nella storia e nella civiltà di Roma.

  

 

 

Fine

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