GILGAMEŠ,
il
prototipo dell’eroe occidentale
Gilgameš, altorilievo assiro da Khorsabad, VIII sec. a. C., Parigi, Louvre
L’epopea di Gilgameš, quinto re mitico di Uruk, giudice dei morti come Minosse, è il frutto della ricomposizione di frammenti di testi di differente provenienza geografica, temporale e culturale, da Sumer nel III millennio alla biblioteca del palazzo di Assurbanipal a Ninive nel VII secolo. Sicuramente Omero conobbe l’epopea di Gilgameš da cui trasse innumerevoli spunti per l’Odissea e viceversa possiamo immaginare che l’eco del successo dei poemi di Omero raggiunse le orecchie di Assurbanipal.
Il Ciclo di Gilgameš si divideva in undici canti di circa trecento righe ciascuno incisi su tavolette separate. (In una dodicesima tavoletta c'è la descrizione degli inferi dove Gilgameš è giudice dei morti) Si può dividere in due parti logiche: la prima (tavolette I-VIII) è costituita da Gilgameš in viaggio avventuroso insieme al suo compagno inseparabile Enkidu rincorrendo imprese che ne rendano immortale il nome (Enkidu, un uomo selvatico, viene suscitato dagli dèi per contrastare Gilgameš che opprime il suo popolo della città di Uruk, ma i due diventano amici inseparabili come Davide e Gionata) si conclude con la morte di Enkidu (decretata dai massimi dèi perché i due hanno ucciso Humbaba e poi il Toro Celeste in spregio a una Ištar/Circe respinta da Gilgameš perché troppo leggera coi suoi troppi amanti oltretutto trasformati in animali). Il rapporto fra Enkidu e Gilgameš è anche quello fra l'area extraurbana e la città civilizzatrice. La morale è che con tutti i suoi pregi e difetti la civiltà, che è urbana, è sempre preferibile. Gli Ebrei, che vivevano nelle loro tende insieme alle pecore come e peggio di Enkidu ebbero la meglio sulla città in Palestina, con gli esiti che conosciamo. La seconda parte (tavolette IX-XI) è costituita dalla ricerca dell’immortalità da parte di Gilgameš come conseguenza della paura della morte causatagli dalla morte di Enkidu. Si puo’ anticipare che data l’impossibilità di ottenere l’immortalità vera e propria, all’uomo saggio non resta che cercare l’immortalità per le sue imprese, che però non sono quelle dell’ammazzasette che perseguiva Gilgameš all’inizio bensì quelle della saggezza. Ma c’è un’altra lettura possibile che non smentisce ma precisa la prima in relazione a Gilgameš che è un re. Gilgameš riteneva che l’essere re lo ponesse su un piano superiore ai suoi sudditi, tanto più che era per discendenza due terzi dio e un terzo uomo. Gilgameš scopre di essere uguale ai suoi sudditi e dunque il poema appartiene ad una fase in cui era stata messa in discussione e negata la divinità dei re, che facevano il re come un altro uomo poteva fare il pastore o il battelliere, per destino. Infine, era consolante per il comune mortale mesopotamico il fatto che se era morto perfino Gilgameš, che era un semidio, a maggior ragione anche lui doveva accettare la morte.
Della prima parte non c’è molto da dire se non che Gilgameš è stato il prototipo di molti eroi della civiltà occidentale, come Eracle, cui l’avvicina la statura gigantesca accompagnata da poco cervello e le imprese da guascone, Odisseo, cui l’avvicina non solo il viaggio ma alla fine il ripensamento sul viaggio stesso e un miglioramento sul piano morale, ma soprattutto Giasone. Gilgameš ed Enkidu vanno alla Foresta dei Cedri sui monti dell’Amano (Siria settentrionale e Turchia meridionale) e la regina madre di Gilgameš invoca su di loro la protezione del Sole e di sua moglie Aia, l’Aurora (op. cit. p. 104). Aia nella leggenda di Giasone era la Terra Madre, a oriente, dalle parti della Foresta dei Cedri, dove si trovava Medea, sorella di Circe. Gilgameš e Enkidu uccidono il mostro pastore Humbaba, prototipo di Polifemo. Nell’epopea con riferimento a Humbaba vi sono molti spunti per la futura figura di Polifemo, come il sonno, il fuoco, il taglio del cedro, l’occhio di Humbaba. Omero riprende la leggenda rasenna e dunque ultimamente mesopotamica di Giasone/Gilgameš riutilizzandola per il viaggio di Odisseo.
Più importante è la seconda parte, in cui Gilgameš lotta con tutte le sue forze per raggiungere l’immortalità. Egli sapeva che Utnapištim, suo antenato, era l’unico essere umano assunto fra gli dèi e volle andarlo a trovare per sapere come divenire immortale.
Il suo viaggio è questa volta diretto all’estremo oriente, come dirà Omero nell’ultimo canto dell’Odissea:
« Giunsero alle correnti d’Oceano e alla Rupe Bianca;
e alle Porte del Sole e tra il popolo dei Sogni
arrivarono… » (Od. XXIV, 11ss)
Infatti « Così, col tempo, Gilgameš giunse a Māšu, ai grandi monti… posti a guardia del sole che sorge e che cala » (op. cit. p. 150) presso Dilmun e dunque il Golfo Persico e l’Oceano Indiano.
La Sanders spiega nelle sue note introduttive che « Nei sigilli, la montagna è rappresentata con il sole che vi sparisce dentro... E' insieme muro di cinta del paradiso e porta dell'inferno. I sumeri pensavano che il sole dormisse di notte nel seno della terra sua madre; i semiti invece ritenevano che egli continuasse il percorso a bordo di un naviglio, passando sotto la terra e sopra le acque degli Inferi, finché non fosse giunto alla montagna orientale per risorgere al mattino assieme all'aurora sua sposa. Nel suo viaggio attraverso il monte di nome Māšu, Gilgameš ripercorre a piedi il cammino del sole; i picchi gemelli sono sia l'alba sia il tramonto, e la meta finale è il giardino del sole sulle sponde d'Oceano. » (op. cit. p. 54)
Il racconto del Diluvio è nella tavoletta XI. Almeno stando al testo pervenutoci, Utnapištim era divenuto immortale grazie ad un sogno premonitore che l’aveva prevenuto riguardo al prossimo diluvio universale. Perciò s’era fatta un’arca in cui aveva imbarcato famiglia e animali. Poiché il dio supremo non ne sapeva nulla della salvezza di Utnapištim all’iniziò si adirò molto ma poi fece buon viso al fatto compiuto e assunse Utnapištim e i suoi fra gli dèi.
Proprio per questo motivo non è possibile assimilare Utnapištim – che vive nel paradiso terrestre di Dilmun, nel Golfo Persico o nell’Oceano Indiano poco importa – a Noè. Il primo, insieme alla sua famiglia salvata dal diluvio, è un dio, mentre il secondo è il capostipite (per gli Ebrei) umanissimo della moderna razza umana.
Quando Gilgameš gli chiede la formula dell’immortalità Utnapištim gli racconta la sua storia che non ha nulla di ripercorribile perché il suo è stato un caso unico e irripetibile. Noi diremo che poiché Utnapištim era ormai entrato nella leggenda non era possibile estrarlo a forza da questa affermando che anche lui era mortale come gli altri. In ogni caso ci pensa Gilgameš a far tornare Utnapištim fra i comuni mortali: « Ora io ti guardo, o Utnapištim, e il tuo aspetto non è diverso dal mio; nulla di strano c’è nelle tue fattezze. » (A cura di N. K. Sandars, L’Epopea di Gilgameš, Piccola Biblioteca Adelphi, n° 194, p. 140)
Poiché Gilgameš insiste a voler raggiungere l’immortalità Utnapištim lo manda a pescare in fondo al mare una pianta del ringiovanimento che Gilgameš, benefattore dell’umanità come Prometeo, vorrebbe portare in patria per ridonare la giovinezza a tutti i vecchi. Questa pianta gli viene rubata da un serpente che subito dopo averla mangiata rinnova la sua pelle. Dunque la pianta era davvero come l’ebraico l’albero della vita, quello dal cui frutto Adamo ed Eva erano stati allontanati per sempre per non diventare oltre che intelligenti come Jahvè anche immortali. Gilgameš ha perso l’occasione e l’avrebbe persa comunque perché destino comune degli uomini è morire. Ma il serpente è fin d’ora dipinto come astuto e immortale (o almeno così piace credere agli antichi mesopotamici). Inoltre il fatto che striscia per terra e morde il calcagno lo rende capro espiatorio ideale della metafisica giudeo-cristiana.
Vaso di Gudea (arte sumera) in steatite con figure di draghi e serpenti, III millennio, Parigi, Louvre
In questa ricostruzione di un affresco delle catacombe di s. Callisto nella Regione Liberiana, e precisamente nel 'Cimitero delle bocche', presumibilmente della seconda metà del IV secolo, l'apogeo di queste catacombe, l'artista ha rappresentato Eva mentre sembra accarezzare con estrema dolcezza il serpente, cioè l'originaria divinità palestinese della vita eterna.
Nella visione dell’epopea di Gilgameš il serpente era però chiaramente un
essere naturale normalissimo che
per le sue doti naturali poteva rinnovarsi e ringiovanirsi e dunque dotato di
poteri assimilabili a quelli divini. L’episodio nell’epopea di
Gilgameš serviva
– come è tipico anche della mitologia greca – a spiegare perché il
serpente mutava la sua pelle, perché una volta aveva rubato a Gilgameš la
sua pianta miracolosa. E’ questo il serpente che gli Ebrei, affacciatisi per
ultimi sulla scena della civiltà millenaria mesopotamica, videro e
reinterpretarono a modo loro facendone il Nemico di Jahvè e dell’uomo. A
questo proposito si puo’ leggere su intenet Dio e il Sacro, Il serpente in
Eden, una lettura storico-critica, Fabio
Brotto www.bibliosophia.homestead.com/Copertina.html
Anche gli Egizi conoscevano il mitico serpente Sata, che vuol dire ‘figlio della terra’, in cui si trasforma il defunto: « Io sono il serpente Sata dagli infiniti anni. Io muoio e rinasco ogni giorno. Io sono il serpente Sata che dimora nei più profondi recessi della terra. Io muoio e rinasco e rinnovo me stesso ringiovanendo quotidianamente. » (cap. 87 del Libro dei Morti: vedi B. De Rachewiltz, I miti egizi, TEA, Milano, p. 169) Quanto ai Greci ricordiamo i serpenti sacri di Esculapio e il pitone di Delfi. Il Serpente custode dell’Albero della Vita era dunque in origine la rappresentazione stessa dell’Eterna Giovinezza, di dio. I nomadi Ebrei, col loro dio nomade del Tornado o Tifone che sconvolge il deserto, così come loro sconvolsero le popolazioni pacifiche in mezzo a cui si stabilirono creando anche il deserto intellettuale, lo sovrapposero all’originario serpente naturistico (di cui oltretutto non si potrà non sottolineare la forma fallica) sostituendo un dio disumano che viveva nell’alto dei cieli ma violento devastava periodicamente la terra e gli esseri animati senza guardare in faccia nessuno ad uno che gli uomini civili s’erano creati a misura umana semplicemente osservando il funzionamento della natura in cui erano compenetrati. Un dio del caos contro uno ecologico. Ma non è su ciò che mi voglio soffermare, anche perché non esiste Jahvè e non esiste il Serpente. Non esiste alcun dio. Che la tradizione ebraica non sia indipendente ma derivi da quella mesopotamica lo dimostra anche l’episodio in cui il Sole scorge Gilgameš nel paradiso terrestre: « Mentre Gilgameš camminava nel giardino sulla riva del mare, lo vide Šamaš, e vide che era vestito di pelli animali e che mangiava la loro carne. Ne fu turbato, parlò e disse: " Nessun uomo mortale è mai passato di qui, né mai passerà… " » (op. cit. p. 132) Gli ebrei hanno messo insieme il turbamento di dio, Adamo/Gilgameš coperto per nascondere le sue vergogne da nudo che era, la cacciata dal paradiso e hanno creato il loro paradiso terrestre. In realtà il paradiso terrestre era solo degli dèi e solo Utnapištim vi era stato ammesso coi suoi discendenti in via eccezionale. Solo per questo il Sole fu turbato, perché vide un uomo dove non erano ammessi gli uomini. Gilgameš vestiva di pelli e mangiava carne di selvaggina in quanto viveva come cacciatore nomade alla ricerca della vita eterna. Se avesse avuto la possibilità di vestirsi più decentemente l’avrebbe fatto ma in ogni caso si vestiva perché tutti gli esseri civili della nostra civiltà occidentale da che mondo e mondo si vestono e non vanno in giro nudi. Un’età di paradisiaca innocente nudità alle nostre temperature non c’è mai stata. Mangiava carne, cioè era un mortale che aveva bisogno di mangiare, mentre gli dèi non mangiano e se lo fanno hanno altri alimenti divini. Gilgameš non aveva paura del Sole che, a sua volta, non voleva fargli del male, e continuò a fare ciò che voleva e ad andare per la sua strada, ma gli ebrei non l’hanno capito e se l’hanno capito hanno fatto finta di nulla, perché in ogni caso avevano bisogno di creare la loro religione per distinguersi dagli altri vicini e sopraffarli militarmente, sterminandoli con una pianificazione tale da rendere ridicola quella nazista.
E coloro che scrissero la saga di Gilgameš, concessioni alla fantasia e alla poesia a parte, lo sapevano benissimo che dio non esiste. Anche nell’epopea di Gilgameš come nell’Odissea e nell’Iliade gli dèi hanno gli stessi pregi e difetti degli uomini e anzi sono più pasticcioni degli eroi di cui si preoccupano tanto o che cercano di distruggere. Dopo il Diluvio (per inciso Omero s’è ispirato alla costruzione dell’arca di Utnapištim e alla tempesta del Diluvio per la zattera di Odisseo e la tempesta che lo portò sulla spiaggia di Pyrgi) Ištar afferma: « Che tutti gli dèi si riuniscano intorno al sacrificio, fuorché Enlil. Lui non si accosterà a questa offerta, poiché senza riflettere ha portato il Diluvio, ha consegnato il mio popolo alla distruzione. » (op. cit. p. 145) Enlil è ora il massimo dio del pantheon mesopotamico. Ma Ea rincara la dose: « Saggissimo fra gli dèi, Enlil eroe, come hai potuto così stoltamente far scendere il Diluvio?
Imponi sul peccatore il suo peccato,
imponi sul trasgressore la sua trasgressione,
puniscilo un poco quando evade,
non incalzarlo troppo, altrimenti perisce… » (op. cit. p. 146)
Ma gli ebrei non hanno capito e hanno preso tutto terribilmente sul serio. Si puo’ dire che l’epicureismo che ha già un suo anticipatore in Omero, ha un antichissimo predecessore, fin dal III millennio a. C. nell’autore della saga di Gilgameš. Il legame fra l’epopea di Gilgameš e l’Odissea di Omero è strettissimo fin dall’incipit:
« Proclamerò al mondo le imprese di Gilgameš, l’uomo a cui erano note
tutte le cose, il re che conobbe i paesi del mondo. Era saggio; vide misteri
e conobbe cose segrete; un racconto egli ci recò dei giorni prima del
Diluvio. Fece un lungo viaggio, fu esausto, consunto dalla fatica; quando
ritornò si riposò, su una pietra l’intera storia incise. »
(op. cit. p. 89)
Platone, speriamo vivamente che tu sia stato un grande filosofo, anzi, il più grande. Se così non mancherà mai un lume sempre acceso davanti alla tua statua!
Approfondimenti:
Per il testo dell'epopea
di Gilgameš tradotto,
in inglese, con maggiore aderenza all'originale delle tavolette, mantenendo
l'aspetto originale di poema in versi, con tutte le lacune, che col tempo si
riducono man mano che si trova altro materiale, e i punti interrogativi
del traduttore, vedi sulla rete la traduzione di Maureen Gallery Kovacs:
In questo sito ci sono anche altri lavori della letteratura mesopotamica
http://www.ancienttexts.org/library/mesopotamian/index.html
Tutto in un solo file, senza dover scaricare tavoletta per tavoletta:
http://www.unf.edu/classes/freshmancore/halsall/gilgamesh-kovacs.htm#Tablet I
Se poi preferisci una versione sempre in versi ma totalmente normalizzata allora c'è un lavoro (ne ignoro l'autore) in inglese al seguente sito:
http://www.greatdreams.com/gil1.htm
Un riassunto tavoletta per tavoletta, sempre in inglese, con messa in risalto dei passi più poetici è di Richard Hooker in:
http://www.wsu.edu/~dee/MESO/index.html