L’Ira
d’Achille, il poema umano della democratica Roma ‘Signora del Mondo’
L’Iliade
porta evidentemente un nome che non corrisponde al suo contenuto. Infatti non
narra nella sua interezza la guerra di Ilio o Troia [14], ma
una serie di avvenimenti l’uno
conseguenza dell’altro avvenuti in pochi giorni nell’ultimo anno della ‘guerra
di Troia’. Il poema si apre sul decimo e ultimo anno della guerra
colla peste [15] che da nove giorni infierisce nel campo acheo,
inviata da Apollo Sminteo, dei
‘topi’ (« Disse così pregando: e Febo Apollo l’udì, e scese giù
dalle cime d’Olimpo, irato in cuore, l’arco avendo a spalla, e la faretra
chiusa sopra e sotto: le frecce sonavano sulle spalle dell’irato al suo
muoversi; egli scendeva come la notte. Si postò dunque lontano dalle navi,
lanciò una freccia, e fu pauroso il ronzìo dell’arco d’argento. I muli
colpiva in principio e i cani veloci, ma poi mirando sugli uomini la freccia
acuta lanciava; e di continuo le pire dei morti ardevano, fitte » Il. I,
43ss), perché Agamennone, capo della coalizione achea, s’è rifiutato,
e per giunta irato, di restituire al padre, Crise sacerdote del dio, la figlia
Criseide, fatta schiava dagli Achei dopo la presa di Crisa, una città della
Troade. Le pire degli Achei colpiti dal morbo ardono da nove giorni, Achille
al decimo giorno convoca l’assemblea e interroga l’indovino Calcante sulle
cause del morbo e Calcante le manifesta solo dopo essersi assicurata la
protezione di Achille quando Agamennone certamente si adirerà.
Solo con la restituzione di Criseide, e con un congruo risarcimento, il
sacerdote Crise, e di conseguenza il dio da questo invocato, Apollo, si placano e il morbo svanisce. E qui c’è tutta l’ira
[16] d’Achille,
perché avendo ecceduto con ira
nell’esposizione delle sue ragioni e avendo offeso il più potente
Agamennone, Achille deve
ricompensare Agamennone con la sua Briseide (che proviene, secondo Omero, da
Lirnesso, in Cilicia, dove, a Tebe Ipoplacia, Achille ha ucciso il re Eezione,
padre di Andromaca moglie di Ettore: Il. I, 366ss, VI, 395ss, 414ss). Da qui l’ira
d’Achille e il suo ritiro dalla
guerra. Teti, la madre d’Achille, chiede a Zeus soddisfazione per suo figlio
umiliato e questo, con promessa immutabile, un tuono tremendo che fa tremare l’Olimpo,
gliela assicura (« “ …Ecco: farò col capo il cenno perché tu creda:
questo da parte mia fra gli immortali è il massimo segno; non torna più
indietro, non può ingannare, non resta incompiuto, quanto io abbia promesso
accennando. ” Disse e con le nere sopracciglia il Cronide accennò; le
chiome ambrosie del sire si scompigliarono sul capo immortale: scosse tutto l’Olimpo
» Il. I, 524ss). Ma Era ha assistito al colloquio e, immaginando che Zeus
darà la vittoria ai Troiani, idea l’inganno a Zeus, ora nel libro XIV. V’era
poi inserito da queste parti il colloquio fra Ettore e Andromaca in cui si
presagiva la fine imminente di Ettore. Ma
Zeus si risvegliava in tempo per ordinare ad Apollo di guidare l’assalto
troiano al vallo e alle navi. Nel frattempo i greci, venuti a sapere che colui
che faceva pendere la bilancia dalla loro parte (Achille) s’era ritirato
dalla guerra, si davano a fuga
precipitosa alle navi, e allora per
la prima volta i Troiani, guidati da Ettore e da Apollo, osavano uscire fuori
dalle mura protettive di Troia, caricando contro il vallo, e incendiando le
prime navi achee (libro XV, 220
circa fino all’inizio di XVI).
In questa battaglia tutti i
capi achei venivano conciati male, ciò che aveva un sapore comico.
Il programma è chiaramente espresso in XV, 59ss (e
592ss): « Ettore alla battaglia Febo
Apollo …desti, gli infonda… vigore… e invece gli Achei respinga…
susciti fuga codarda; e fuggendo si gettino sopra le navi multiremi d’Achille
Pelide; egli allora manderà il suo compagno Patroclo; ed Ettore luminoso l’ucciderà
davanti a Ilio… e furibondo per lui, Achille glorioso ucciderà Ettore ».
Dall’inizio
della guerra Ettore s’era scontrato col parere degli anziani:
«
Zeus ci dà ora un giorno che tutti gli altri compensa: prender le navi, che
contro il volere dei numi venute, molti mali ci fecero, per la viltà degli
Anziani, i quali me [Ettore],
che volevo combattere presso le poppe, impedivano sempre, tenevano indietro l’esercito;
ma se allora Zeus vasta voce accecava le menti nostre, ora egli stesso ci
spinge e ci desta » (Il XV, 719ss).
Poi
già al tempo dell’assalto alle navi e soprattutto dopo il rientro in guerra
di Achille Ettore si scontra col parere contrario
di Polidamante, altro capo dei Troiani, e lo mette in minoranza:
«
E prese a parlare fra loro il savio Polidàmante, figlio di Pàntoo; egli solo
guardava al prima e al dopo: era compagno d’Ettore, nati nella medesima
notte, ma uno con le parole, l’altro con l’asta eccelleva. Egli saggio
pensando parlò fra loro e disse: “ Amici, guardate le cose da tutte le
parti; io vi consiglio di andare adesso in città, di non attender l’aurora
luminosa qui nella piana presso le navi… del Pelide rapido piede, ora, ho
terribilmente paura… Andiamo alla rocca… se qui ci trova accampati domani,
quando moverà armato, troppo qualcuno dovrà capirlo: raggiungerà con gioia
Ilio sacra chi avrà potuto fuggire, ma molti i cani e gli avvoltoi
divoreranno fra i Troi… ” Ma guardandolo bieco parlò Ettore elmo lucente:
“ Polidàmante, tu certo non dici cose a me care, tu che consigli di andare
di nuovo a chiuderci nella rocca: non siete sazi, dunque, di star chiusi
dentro i bastioni? Prima i mortali la città del re Priamo chiamavan tutti
ricca d’oro, ricca di bronzo, ma i ricchi tesori dei nostri palazzi ora sono
periti, e molte nella Frigia e nella Peonia amabile vanno vendute ricchezze,
dacché è irato il gran Zeus. Ora, mentre a me diede il figlio di Crono
pensiero complesso d’acquistar gloria presso le navi, respingere al mare gli
Achei, stolto, tali consigli non devi aprire fra il popolo, nessuno t’obbedirà
dei Troiani, io non vorrò… ” Ettore parlò così, i Troiani acclamarono: stolti! Il
senno tolse loro Pallade Atena: tutti approvarono Ettore che mal consigliava,
nessuno Polidàmante che aveva esposto un buon piano. » (Il. XVIII, 249ss).
I
Troiani sfondano il muro e danno fuoco alle prime navi. Achille, che vede
minacciate le sue navi, invia Patroclo e i Mirmidoni contro i Troiani, che
ripiegano fin sotto le mura dove Ettore uccide Patroclo e si impossessa dell’armatura
di Achille (libro XVI), che allora scende in battaglia (la battaglia cosmica
del libro XX e XXI) per vendicare l’amico e i Troiani si rifugiano entro le
mura della città. Ettore rimane fuori perché si sente responsabile della
disfatta per non aver seguito il consiglio di Polidamante di cui ora teme i
rimproveri. Preferisce dunque morire da eroe ucciso da Achille:
«
Ohimè, se mi ritiro dentro la porta e il muro, Polidàmante per primo mi
coprirà d’infamia, lui che mi consigliava di ricondurre i Troiani in città
quella notte funesta, quando si levò Achille glorioso; e io non volli
ascoltare; pure era molto meglio. Ora che ho rovinato l’esercito col mio
folle errore, ho vergogna dei Troiani e delle Troiane lunghi pepli, non abbia
a dire qualcuno più vile di me: “
Ettore ha rovinato l’esercito fidando nelle sue forze. ” Ah sì, così
diranno. E allora per me è molto meglio o non tornare prima d’aver ucciso
Achille, o perire davanti alla rocca, di sua mano, con gloria » (Il. XXII,
99ss).
Achille
uccide Ettore con l’inutile
inganno di Atena (divinità dunque fondamentalmente assente o malvagia in
Omero), celebra i funerali di Patroclo (probabilmente con la sola corsa dei
carri, con riferimento alla corsa dei carri nelle Consualia, in onore di Vertumno/Poseidone, libro XXIII). Il poema si
concludeva con la riconsegna del cadavere di Ettore al re Priamo da parte di
Achille nella sua tenda e i funerali solenni
celebrati dai Troiani e degli alleati intorno al rogo di Ettore «
domatore di cavalli » (libro
XXIV).
Omero
scrisse solo l’Ira d’Achille (in circa 6000 versi) e infatti l’introduzione
dell’Iliade è rimasta la stessa dell’Ira d’Achille: « Canta, o dea,
l’ira d’Achille Pelide, rovinosa, che infiniti dolori inflisse agli Achei…
da quando prima si divisero contendendo l’Atride signore d’eroi e Achille
glorioso ». Tullo Ostilio, terzo re di Roma commissionò il poema ad
Omero per celebrare nel 649 a. C. il centenario
dalla fondazione di Roma (753 a. C.) e soprattutto le festività
dei giochi secolari (i Consualia,
da condere = fondare, del
settembre; più precisamente tre giorni di festa, verisimilmente a partire dal
13, giorno in cui veniva conficcato il chiodo annuale) del santuario
panetrusco di Poseidone/Vertumno al Foro Romano istituiti (nel 749 a. C.)
dallo stesso Romolo (Dionisio d’Alicarnasso, II, 31,1). Durante i Consualia
del 749 a. C. i Ramnenses, la tribù romulea, avevano rapito le latine! (e
sabine) proprio durante i giochi federali etruschi cui erano stati invitati i
popoli vicini. Tullo Ostilio chiese ad Omero di ricordare l’avvenimento nel
poema celebrativo perché attraverso il rapimento s’era creato un legame di
sangue fra romani e latini e adesso Tullo Ostilio voleva che questo legame
fosse rinnovato fra romani e latini (che si ritenevano greci) per raggiungere
la pacificazione fra i due popoli dopo che lui, Tullio, di origini latine,
aveva raso al suolo la capitale Alba Longa deportando a Roma la popolazione
(egli aveva anche raso al suolo la sua città natale di Medullia), e fra
romani e greci, in particolare i mercanti, invitati a depositare nel santuario
di Mater Matuta-Ino Leucothea (vedi Prisciano: GLK II, 76, 18ss ‘matutinus’
a Matuta, quae significat Auroram vel, ut quidam,
Λευκοθέαν; cf. Cicerone, Tusc. I,
18) valori a garanzia degli scambi commerciali con la città tiberina.
Omero
inventò il mito della guerra di Troia trasferendovi tradizioni d’origine
siro-cilicio-cipriote e anche avvalendosi di tradizioni dell’Etruria
relative alla frequentazione metallurgica
dell’Egeo e del Mar Nero da parte dei Tirreni, ma celando il tutto
dietro alla mitizzazione della colonizzazione greca dell’Eolide, della Ionia
e della Doride in seguito all’invasone dorica. Che Omero e la sua poesia non
abbia alcun rapporto sottostante (oltre quello di destinatarie della poesia
stessa) con la Grecia e la Ionia d’Asia lo dimostrano a sufficienza l’inutile
affaticarsi degli studiosi e il silenzio dell’archeologia, cioè l’assenza
di prove di una colonizzazione dell’Anatolia e in particolare della Troade
in età micenea e ancora il fatto che la cultura di fondo dei poemi omerici
non è greca terriera come dicono gli studiosi, bensì fenicia marinara, anche
se nella loro apertura verso i greci gli etrusco-romani (e così Omero nell’Odissea)
sono disposti a parlare un po’ male dei loro cugini fenici. Per approfondire
gli antefatti della creazione mitopoietica dell’Ira d’Achille si veda la
parte introduttiva.
Omero
e il suo committente Tullo Ostilio sono di fervida immaginazione e pronti a
stupirci con possibili molteplici letture dell’Ira d’Achille dove
altri episodi sono parimenti o addirittura ancora più centrali di
quelli appena rilevati. L’eroe
nelle cui mani è la difesa di Troia, Ettore, è il vero protagonista dell’Ira
d’Achille, ma dalla morte di Ettore e dalle ceneri di Troia sorgerà grazie
ad Enea e ai suoi profughi il popolo latino e romano, ed è dunque l’episodio
di Enea che si fronteggia con Achille il vero punto focale dell’Ira d’Achille.
Enea morirebbe certamente se si scontrasse con Achille, tornato a combattere
(e lo vediamo in campo per la prima volta dall’inizio del poema) dopo la sua
riappacificazione coi capi achei, e infatti
Poseidone, come un Genio della lampada scende a prenderlo e lo porta in volo
fuori dalla mischia, lontano dalle mani omicide di Achille (libro XX; la scena
è troppo plasticamente descritta per non essersi ispirata ad un bassorilievo
su ara sacrificale realizzata proprio per la circostanza delle cerimonie dei
ludi saeculares) perché destinato a dar vita al popolo romano (come già
interpretava Dionisio d’Alicarnasso, I, 53,4 e 5). Enea viene onorato
dal fatto che Achille, l’eroe più forte a Troia gli si fa contro,
mentre sullo sfondo Europa e Asia, Cielo
e Terra gli combattono intorno rendendogli omaggio. Se si vuole cercare un
nocciolo dell’Ira d’Achille (come dell’Odissea è la dichiarazione di
xenìa fatta da Odisseo alla coppia regale di Scheria), allora questo è
costituito proprio dalla fine imminente di Troia e del popolo troiano, di cui
è consapevole Ettore, sua unica difesa: giorno verrà che Ilio sacra
perisca, e Priamo, e la gente di Priamo buona lancia (Il. VI, 448ss); ma
al tempo stesso dalla consapevolezza che sui lidi tirreni questo stesso popolo
risorgerà come la Fenice dalle sue ceneri per assurgere a maggiore grandezza,
a dominatrice del Mondo, come emerge dalle parole di Poseidone, dio del mare: Già
il Cronide ha preso a odiare la stirpe di Priamo, ora la forza d’Enea
regnerà sui Troiani e i figli dei figli e quelli che dopo verranno (Il. XX,
306ss). In realtà quando Omero scrive alla metà del VII secolo
la forza d’Enea o meglio quella dei suoi successori regna da
un pezzo sui lidi italici sui Troiani e i figli dei figli immigrati in Italia. Omero mette in forma di profezia la
realtà di cui è testimone oculare privilegiato.
Al
motivo centrale del legame di sangue tramite il matrimonio fra Paride e Elena si può affiancare il rapporto
di ospitalità (xenìa) e riappacificazione creatosi fra Romani e Greci nel
momento in cui Priamo troiano è ospite nella tenda di Achille e ne riceve il
corpo del figlio e una dilazione della guerra per consentirne i funerali.
L’Ira
d’Achille ha anche e soprattutto intenti pedagogici e celebra il codice
morale militare romano attraverso Ettore il valoroso e umano cittadino in armi
che alla testa della falange oplitica combatte per la salvezza della sua
patria che si identifica colla città-stato contro il feroce, ferino,
guerriero vecchio stampo Achille che combatte per un falso senso dell’onore
(per una semplice schiava, cioè un oggetto, che egli non ama, Briseide,
toltagli da Agamennone) seguito dai suoi Mirmidoni che combattono solo per
lui. La ferocia del guerriero vecchio stampo
è ancor più esemplificata dall’amico Patroclo: « Aiaci, adesso
caro vi sia vendicarvi… Giace l’uomo che traversò per primo il muro dei
Danai, Sarpedone: prendiamolo e malmeniamolo, spogliamo l’armi dalle sue
spalle, e qualche compagno, che lo venga a difendere, col bronzo spietato
ammazziamo » Il. XVI, 556ss; « colpì l’auriga d’Ettore, Cebrione,
figlio bastardo di Priamo glorioso che dei cavalli reggeva le redini, in
fronte col sasso puntuto. Sfondò i due sopraccigli la pietra, non resistette
l’osso, gli occhi per terra caddero nella polvere davanti ai suoi piedi;
simile a un tuffatore piombò giù dal carro, lasciò l’ossa la vita. E tu,
deridendolo, questo dicesti, Patroclo cavaliere: “ Oh l’agile uomo, come
facilmente volteggia! Ma se venisse anche sul mare pescoso, questi cercando
ostriche, sazierebbe parecchi, gettandosi dalla nave, pur col mare cattivo,
come ora nel piano volteggia facilmente dal cocchio: anche fra i Teucri,
dunque, ci son tuffatori! ” » Il. XVI, 737ss. Ettore bene ha fatto a
togliere di mezzo simile mostro umano. « E tu, deridendolo, questo
dicesti, Patroclo cavaliere » (nell’Ira d’Achille) suona abbastanza
male (un tono confidenziale usato con un assassino) e corrisponde esattamente (nel testo greco) a « e
tu gli dicevi insultandolo, Eumeo porcaio: “ Adesso davvero, Melanzio,
veglierai tutta notte, in un morbido letto, come ben ti conviene, e, nata di
luce, sorgendo dalle correnti d’Oceano, la dea trono d’oro, non ti
sfuggirà, quando devi portare le capre ai pretendenti, che in sala il
banchetto preparino. ” Così Melanzio restò là, stretto nel laccio mortale
» (Od. XXII, 194ss; Melanzio il traditore è stato
legato ad una trave del palazzo d’Odisseo). Grazie a questo
riscontro è possibile sostenere che l’Ira d’Achille
è stata scritta prima e l’Odissea completata poi dallo stesso autore
sempre più maestro della sua tecnica.
La
stessa umanità che nell’Ira d’Achille nasce come reazione al
comportamento bestiale di Patroclo (e in misura minore di Achille, barbari
guerrieri villanoviani e celto-germanici, cioè protoetruschi o preetruschi
come si preferisce) è espressa
da Odisseo che rimprovera Euriclea dopo la strage dei pretendenti: « In
cuore, balia, godi, ma frènati, non esultare: non è pietà su uomini uccisi
far festa. Costoro la Moira dei numi travolse, e le azioni malvage; perché
nessuno onoravano degli uomini in terra, né il tristo, né il buono, chi
arrivasse tra loro: così, pel loro folle orgoglio, turpe fine trovarono »
(Od. XXII, 411ss).
L’Ira
d’Achille ma anche l’Iliade che è costruita nella cornice dell’Ira d’Achille
e ha dunque lo stesso finale, è una favola triste, un poema drammatico, anzi tragico della fine del buon cittadino
in armi, Ettore, sostegno di una famiglia, di una città, Troia, di una
coalizione di popoli dell’Asia anteriore, il cui destino di distruzione,
dopo la morte di questo, è segnato. Notevoli le caratterizzazioni di Priamo: «
“ Ah, fra le mura rientra, figlio mio, per proteggere Teucri e Troiane: non
dar gloria immensa al Pelide, non perder la cara vita tu stesso. Abbi pietà
di me misero. Ancora ho cervello, infelice, e il padre Cronide all’orlo
della vecchiaia di mala morte m’ammazzerà, visti mali infiniti, uccisi i
figli, condotte schiave le figlie, i talami saccheggiati, i teneri bimbi
sbattuti per terra nell’orrendo massacro, trascinate le nuore dalle mani
funeste dei Danai. Me per ultimo, allora, sopra le porte i cani carnivori
sbraneranno, quando qualcuno col bronzo acuto m’avrà colto o ferito,
strappando la vita alle membra… I cani, sì, quelli che in casa, alla mia
tavola crebbi, a far guardia, questi bevuto il mio sangue, la rabbia nel
cuore, si sdraieran nell’entrata. A un giovane sta sempre bene morto in
battaglia, straziato dal bronzo acuto, giacere; tutto quel che si vede, anche
se è morto, è bello. Ma quando il capo bianco e la barba canuta e le
vergogne sconciano i cani d’un vecchio ammazzato, questa è la cosa più
triste fra i mortali infelici… ” Diceva il vecchio, e con le mani tirava i
capelli strappandoli dalla testa: ma non persuase l’animo d’Ettore » Il.
XXII, 56ss; e Ecuba: «
Dall’altra parte gemeva la madre, versando lacrime, e aperta la veste con
una mano sollevava la poppa e gli parlava piangendo parole fugaci: “ Ettore,
creatura mia, rispetta queste, abbi pietà di me, se la mammella t’ho dato,
che fa scordare le pene: ricorda, creatura cara, e l’uomo nemico allontana
stando qui fra le mura, non affrontarlo in duello, crudele! Se mai t’uccidesse, ah ch’io non potrò piangerti sul
cataletto, figlio, io che t’ho partorito, e neppure la sposa ricchi doni:
lontano da noi ti strazieranno i rapidi cani ” » Il. XXII, 79ss; e
ancora Ecuba e Priamo: «
Disse così, ma la donna gemette e ricambiò parola: “ Ahimè! Dove è
andato il tuo senno, per cui prima avevi gloria fra gli stranieri e fra le
genti che reggi? Come vuoi alle navi dei Danai andare solo, sotto gli occhi d’un
uomo, che tanti e gagliardi figli t’ha ucciso? Tu hai cuore di ferro. Se ti
sorprenderà, ti vedrà coi suoi occhi, è un uomo crudele, infido, e non
avrà compassione, non rispetto per te: ah! Piangiamo lontano, seduti nella
sala… Così la Moira crudele per Ettore filò lo stame quando nasceva, quand’io
l’ho partorito, che saziasse le rapide cagne, lontano dai suoi genitori
presso un uomo feroce: ma potessi il suo fegato
mordere e divorarlo: sarebbe vendetta pel figlio che non m’ha ucciso mentre
voltava le spalle, ma mentre a difesa dei Troiani, delle Troiane alto cinte
lottava con lui, immemore di paura e di fuga! ”
E
il vecchio Priamo pari ai numi le disse: “ No, non mi trattenere, io voglio
andarci! Non farmi proprio tu in casa l’uccello funesto, non potrai
persuadermi… ho udito io stesso la dea, me la son vista davanti. Andrò, e
non sarà vana parola. Che se mi fosse destino morire presso le navi dei Danai
chitoni di bronzo, io son pronto. Sì, davvero m’uccidesse là Achille,
mentre il figlio mio stringo, sfogata la brama di pianto! ” Diceva, e delle
casse aprì i bei coperchi, e prese da esse dodici pepli bellissimi, dodici
mantelli… troppo voleva in cuore ricomprare il figliuolo. Poi tutti i
Troiani cacciò dal portico, trattandoli con male parole: “ Andate in
malora, svergognati, vigliacchi! Ma dunque non avete dolori in casa, che
venite ad affliggere me? O non vi basta lo strazio che Zeus Cronide m’ha
dato, perdere il figlio migliore? Lo sentirete anche voi: più facile, e
molto, sarà per gli Achei lui morto, distruggervi. Prima, però, prima che la
città saccheggiata e distrutta veda con gli occhi, ch’io scenda alle case
dell’Ade! ” Disse e scacciava col suo bastone la gente: uscirono quelli
sotto la furia del vecchio. Ma anche i figliuoli sgridava, ingiuriando Èleno
e Paride… “ Presto, mali figli, poltroni! Oh se tutti mi foste morti
invece d’Ettore, fra le navi veloci! Ah, maledetto destino, che generai
tanti figli gagliardi in Troia spaziosa, e non me ne resta nessuno… Questi
Ares m’ha spenti, mi restano solo i vigliacchi, i ballerini, i bugiardi, che
eccellono nei passi di danza, buoni solo a rubare in patria agnelli e
capretti. E non mi preparate al più presto il carro, tutto questo ponendovi
sopra, ch’io mi metta in cammino? » Il.
XXIV, 200ss;
e Andromaca: « “ Ora te fra le concave navi, lontano dai
genitori, saltanti vermi roderanno, quando saran sazi i cani, nudo: e nella
casa ci son le tue vesti sottili e belle, fatte da mani di donne… Ma tutte
le voglio bruciare nel fuoco avvampante, e a te non gioverà, ché non
giacerai fra esse, solo per farti onore davanti a Teucri e Troiane! ” Diceva
così singhiozzando, piangevano intorno le donne » Il. XXII, 508ss; « tu non
m’hai tesa la mano dal letto, morendo, non m’hai detto saggia parola, che
sempre potessi avere presente, notte e giorno, tra il pianto! » Il. XXIV,
743ss.
Ma
poiché il vero protagonista dell’Ira d’Achille
è Ettore, questa si conclude con la riappacificazione fra Achille (i
Greci) e Priamo (i Troiani/Romani) e la restituzione
del corpo di Ettore e i suoi
funerali. Dunque il finale drammatico della morte di Ettore, dello scempio
fatto da Achille sul suo cadavere e dell’umiliazione cui si sottopone Priamo
pur di riavere il corpo del figlio e seppellirlo umanamente (« strinse fra
le sue mani i ginocchi d’Achille, baciò quella mano tremenda, omicida, che
molti figliuoli gli uccise », Il. XXIV, 478-479) viene attenuato dal
fatto che grazie all’opera civilizzatrice dell’Ira d’Achille anche
quella belva umana di Achille diventa un essere umano, urbano, un guerriero
capace di provare pietà per il cadavere di Ettore e per il vecchio padre di
questo, e soprattutto dalla certezza che dalle ceneri
di un grande e sfortunato popolo (quello troiano, ma in realtà quello
siro-cilicio salvatosi dalle devastazioni dei Popoli del mare) rinascerà su
lidi lontani, quelli italici, un
popolo ancora più grande, quello romano, destinato a dominare il
mondo, dall’Asia all’estremo occidente. E colpisce questa preveggenza
attribuibile solo agli auguri e aruspici etrusco-romani (e prima ancora
caldei).
Dopo
la morte di Patroclo Achille
scopre che la sua lite con
Agamennone non valeva la morte del suo unico amico Patroclo (« Atride, ah,
che bene fu mai per entrambi, per te e per me, che noi due, morsi in petto
dalla lite che il cuore divora, ci adirassimo per una fanciulla? Ah sulle navi
l’avesse uccisa Artemide di freccia, il giorno ch’io la presi, abbattuta
Lirnesso!… » Il. XIX, 56ss; Achille sta qui parlando di Briseide, una
donna oggetto, e schiava per giunta, semplice ‘riposo del guerriero’)
perciò ora vuole solo vendetta su Ettore. Ma anche dopo la morte di
Ettore Achille sperimenterà che con la vendetta non è riuscito a riavere
indietro l’amico e in più scopre il suo lato umano attraverso l’incontro
con Priamo e la riconsegna del corpo di Ettore per le ultime esequie.
Concederà perfino a Priamo i giorni da questo richiesto per i funerali e in
quei giorni Achille assicura che le armi taceranno. Achille da uomo brutale
che ha a cuore solo « strage e sangue e orrendo gemere d’uomini » (Il.
XIX, 214) è finalmente diventato un uomo civile.
Anche
l’Ira d’Achille come l’Odissea lancia un messaggio su come non ci si
deve comportare, e in tal caso si tratta di rifuggire dall’ira. Il messaggio
è implicito nell’intervento pacificatore di Nestore ma lo troviamo espresso
nell’Iliade ad opera di Odisseo (che l’omerida argolico
ha sostituito a Nestore che egli ha svalutato come personaggio comico;
anche se poi il suo Odisseo, con la sua pignoleria da Azzeccagarbugli è anche
più non volutamente ridicolo) rivolto ad Agamennone « e tu nel futuro anche
con gli altri più giusto sarai » (Il. XIX,
181-182) e ad Achille « certo non merita biasimo che un re plachi un
guerriero, se per primo ha infuriato. » (Il. XIX, 182-183) Cioè entrambi
hanno sbagliato, Achille perché ha fatto una sfuriata eccedendo nelle sue
ragioni (e Agamennone, che ha
più potere e dunque conta di più, ha
fatto bene a rimetterlo in riga), ma Agamennone ha pure sbagliato
umiliando la colonna dell’esercito greco Achille portandogli via Briseide.
Si doveva rifare sui beni comuni, e poiché questi non c’erano attualmente
avrebbe dovuto attendere un altro saccheggio a un’altra città. Il messaggio
sostanzialmente ammonisce a rifuggire dalla prepotenza, dalla superbia e dall’ira,
peccati gravi di Ebrei ed Etruschi, più che dei Greci.
L’inganno
di Era a Zeus.
« Allora Era divina grandi occhi esitò, cercando come potesse
ingannare la mente di Zeus egioco: questo infine le parve nell’animo il
piano migliore andare sull’Ida, dopo aver bene ornato se stessa, se mai Zeus
bramasse d’abbandonarsi in amore contro il suo corpo, e un sonno caldo e
tranquillo potesse versargli sopra le palpebre e nei pensieri prudenti. E
mosse per andare nel talamo… Ella, giuntavi, chiuse le porte splendenti. E
con ambrosia prima dal corpo desiderabile tolse ogni sozzura, si unse poi d’olio
grasso, ambrosio, soave, che profumò lei stessa… Unto con quello il bel
corpo e pettinate le chiome, intrecciò di sua mano le trecce lucenti, belle,
ambrosie, che pendono giù dal corpo immortale. E indosso vestì veste
ambrosia, che Atena le lavorò e ripulì, vi mise molti ornamenti; con fibbie
d’oro se l’affibbiò sopra il petto. Cinse poi la cintura, bella di cento
frange, nei lobi ben bucati infilò gli orecchini a tre perle, grossi come una
mora; molta grazia ne splende. D’un velo coperse il capo la dea luminosa,
nuovo e bello; ed era candido come un sole. Sotto i morbidi piedi legò i
sandali belli. Poi, dopo che tutti mise gli ornamenti sul corpo, uscì dal
talamo e chiamando Afrodite in disparte dagli altri dèi, le disse parola: “
Ora m’ascolterai, figlia cara, in quello ch’io dico… ” E le rispose la
figlia di Zeus Afrodite: “ Era, dea veneranda, figlia del grande Crono, di’
pure quello che pensi, a farlo il cuore mi spinge, se posso farlo o se, forse,
è cosa già fatta. ” E meditando inganni le disse Era divina: “ Dammi
dunque l’amore, l’incanto, con cui tutti vinci gli eterni e gli uomini
mortali. Vado a vedere i confini della terra feconda, l’Oceano, principio
dei numi, e la madre Teti, che nelle case loro mi nutrirono e crebbero,
affidata da Rea, quando Zeus vasta voce Crono cacciò sotto la terra e il mare
inseminato. Questi vado a vedere, scioglierò loro litigio infinito; perché
da molto tempo stanno lontani dall’amore e dal letto… ” Le disse di
nuovo Afrodite che ama il sorriso: “ Non si può, non è degno opporre un
rifiuto al tuo verbo, ché tra le braccia tu giaci dell’altissimo Zeus. ”
Disse, e sciolse dal petto la fascia ricamata, a vivi colori, dove stan tutti
gli incanti: lì v’è l’amore e il desiderio e l’incontro, la seduzione,
che ruba il senno anche ai saggi. Questa le pose in mano e disse parola,
parlò così: “ Ecco! Mettiti in seno questa mia fascia a vivi colori, in
mezzo c’è tutto: e ti dico non lascerai a mezzo ciò che brami nel cuore.
” Disse: Era divina grandi occhi sorrise, e sorridendo se la pose in seno.
Ed ella entrò in casa, la figlia di Zeus Afrodite, ma Era d’un balzo
lasciò la vetta d’Olimpo, venne giù nella Pieria, nell’amabile Ematia,
si slanciò verso le cime nevose dei Traci che allevan cavalli, vette
altissime: coi piedi non toccava la terra. Dall’Atos si buttò verso l’ondoso
mare, e giunse a Lemno, città del divino Tante. Qui al Sonno si fece
incontro, fratello della Morte, e lo prese per mano e disse parola, parlò
così: “ Sonno, signore degli dèi tutti, degli uomini tutti, sempre la mia
parola ascoltasti: ora di nuovo obbediscimi, te ne avrò grazia per sempre.
Sotto le ciglia addormentami gli occhi lucenti di Zeus, di colpo, appena con
lui mi sarò stesa in amore: ti darò in dono… ” Ma rispondendole disse il
Sonno soave: “ Era, dea veneranda, figlia del grande Crono, un altro dei
numi che vivono eterni io di certo l’addormenterei senza pena, sia pur le
correnti del fiume Oceano, che a tutti i numi fu origine. Ma non voglio
appressarmi a Zeus figlio di Crono, né addormentarlo, quando lui non me l’ordini…
” Riprese dunque a dirgli Era divina grandi occhi… “ …Ma via, una
delle giovani Grazie io ti darò in matrimonio, ché sia detta tua sposa,
Pasìtea; sempre tu ne sei innamorato. ” Parlò così: gioì il Sonno e
rispondendo le disse: “ Giura dunque per l’inviolabile acqua di Stige…
che tu mi darai una delle giovani Grazie, Pasìtea; io sempre ne sono
innamorato. ” Disse così, non rifiutò la dea Era braccio bianco, giurò
come volle… Ma quando ebbe giurato, perfetto il giuramento, mossero,
lasciando la città d’Imbro e di Lemno, vestiti d’aria, compiendo in
fretta il cammino. Raggiunsero l’Ida ricca di vene, madre di fiere, e il
Lecto: qui lasciarono il mare e sopra la terra andavano, si piegavano sotto i
piedi le cime dei boschi. Ma qui s’arrestò il Sonno, prima che gli occhi di
Zeus lo vedessero, montando sul pino più alto che mai sopra l’Ida,
cresciuto gigante, per l’aria salisse nell’etere:qui s’appollaiò,
nascosto dai rami del pino, sembrando l’uccello canoro che nelle selve
càlcide chiaman gli dèi, e gli uomini ciminde.
Era
velocemente raggiunse la cima del Gàrgaro nell’Ida eccelsa; e Zeus la vide,
che le nubi raccoglie. Come la vide, così la brama avvolse il suo cuore
prudente, come allora che d’amore la prima volta s’unirono entrando nel
letto, dei cari parenti all’oscuro. E le fu accanto, le disse parola, parlò
così: “ Era, che cosa vieni a cercare quaggiù dall’Olimpo?… ” E
meditando inganni Era augusta rispose: “
Vado a vedere i confini della terra feconda… ” Ma le rispose Zeus che le
nubi raccoglie: “ Era, laggiù puoi ben andare più tardi: vieni ora,
stendiamoci e diamoci all’amore. Mai così desiderio di dea o di donna
mortale mi vinse, spandendomi dappertutto nel petto…
tanto ti bramo ora, il desiderio mi vince! ” E meditando inganni gli
rispose Era augusta: “ Terribile Cronide, che parola hai detto? Se tu ora
brami abbandonarti all’amore sulle cime dell’Ida, e tutto è in piena
luce, che sarà se qualcuno dei numi che vivono eterni ci veda a dormire e
andando in mezzo agli dèi lo dica a tutti?… Ma se tu vuoi, e questo è caro
al cuore, hai il talamo… Andiamo a stenderci là, poi che il letto ti piace.
” … afferrò tra le braccia la sposa: e sotto di loro la terra divina
produsse erba tenera, e loto rugiadoso e croco e giacinto morbido e folto, che
della terra di sotto era schermo: su questa si stesero, si coprirono di una
nuvola bella, d’oro: gocciava rugiada lucente. Così tranquillo il padre
dormì, sulla cima del Gàrgaro, vinto dall’amore e dal sonno, e stringeva
la sposa. Ma il Sonno balzò correndo
verso le navi degli Achei… » (Il. XIV, 159ss).
Il risveglio di Zeus e la scoperta dell’inganno.
« Ed ecco Zeus si destò sulle cime dell’Ida, accanto a Era bel
trono, e balzò in piedi, e vide i Troi e gli Achei, gli uni sconvolti, gli
altri che li incalzavano dietro, gli Argivi, e in mezzo a questi il sire
Poseidone. E vide Ettore steso nella pianura: intorno i compagni stavano; egli
era in preda a terribile affanno, fuori dai sensi, sputando sangue, ché non
il più fiacco degli Achei lo colpì. N’ebbe pietà, vedendolo, il padre dei
numi e degli uomini, e terribile, guardando bieco Era, parlò: “ Ah! L’inganno
tuo tristo, Era ostinata, Ettore glorioso fermò nella lotta, sconvolse l’esercito.
Eppure non so se dell’insopportabile frode tu per prima non colga il frutto,
io non ti frusti. Ricordi quando t’appesi in alto… Io ti ricordo questo,
perché tu smetta le frodi, e veda bene se può salvarti il letto e l’amore
con cui mi t’unisti lontano dai numi, e fu inganno. ” Parlò così: Era
augusta grandi occhi ebbe un brivido, e rispondendo disse parole fuggenti: “
Sappia dunque la Terra e il Cielo vasto di sopra, e l’onda scorrente di
Stige – questo è giuramento grande e tremendo fra i numi beati – e il tuo
sacro capo e il nostro letto legittimo, pel quale non vorrò mai spergiurare,
non per mio incitamento Poseidone enosictono malmena Ettore e i Troi, e
soccorre gli Achei… ” Parlò così: sorrise il padre dei numi e degli
uomini, e rispondendole disse parole fuggenti: “ Ah! Se tu, Era augusta
grandi occhi, concordemente pensando con me sedessi fra gli immortali, allora
sì Poseidone – abbia pure altra brama – subito cambierebbe pensiero,
secondo il tuo e il mio volere! Ma se davvero tu parli schietto e leale, va’
tra le stirpi dei numi e comanda che qui vengano Iri e Apollo arco glorioso…
” Disse così; non fu sorda la dea Era braccio bianco, e mosse dalle cime
dell’Ida… e giunse all’Olimpo
rupestre e si portò fra gli dèi immortali, raccolti nella casa di Zeus; essi
vedendola balzarono tutti in piedi, le offersero le coppe. Ma ella lasciò gli
altri, da Temi guancia bella prese la coppa, che prima le venne incontro
correndo e la voce le volse e disse parole fugaci: “ Era, perché sei qui?
Tu sembri sconvolta. Certo t’ha molto impaurita il figlio di Crono, il tuo
sposo ”. E la dea Era braccio bianco rispose: “ Non chiedere questo, dea
Temi, tu sai bene quanto il suo cuore è superbo e implacabile. Comincia il
banchetto dei numi, uguale per tutti, dentro la sala e insieme con gli altri
immortali udirai quanti malanni Zeus ci promette: io son certa che a tutti
ugualmente il cuore dorrà: ai mortali e ai numi, se ancora qualcuno lieto
banchetta ”. Dicendo così, la dea Era braccio bianco sedette. I numi eran
sdegnati nella casa di Zeus; ella rise con le labbra, ma sopra dei sopraccigli
neri la fronte non s’allietò; parlò in mezzo a tutti con ira: “ Poveri
pazzi, che contro Zeus congiuriamo e forse speriamo ancora d’affrontarlo e
fermarlo o con parole o per forza! Ma lui sedendo in disparte non se ne cura…
Perciò tenetevi il male che manda a ciascuno: per Ares – credo – è già
pronto lo strazio, è morto in battaglia il suo figlio, l’uomo più caro per
lui, Ascàlafo, che suo il forte Ares proclama ”. Disse così: Ares si
batté le due cosce col palmo della mano e gridò con un gemito: “ Non v’adirate
con me… se corro alle navi achee a vendicare la morte del figlio, fosse pur
mio destino, colpito dal fuoco di Zeus, giacere in mezzo ai cadaveri tra la
polvere e il sangue ”. Disse così e comandò a Terrore e Disfatta che gli
aggiogassero i cavalli e prese a vestire l’armi raggianti. Allora anche
maggiore, ancor più terribile e nuova ira e corruccio di Zeus contro i numi
nasceva, ma Atena, temendo per tutti gli dèi, balzò verso il vestibolo,
lasciando il trono in cui stava, e dalla testa gli strappò l’elmo e dalle
spalle lo scudo… e con parole investì Ares ardente: “ Pazzo imbecille!
Hai perso la testa. Davvero gli orecchi ce l’hai per udire, ma morto è il
giudizio e il rispetto. Non senti che cosa dice la dea Era braccio bianco, che
or ora dal fianco di Zeus Olimpio ritorna? Oppure vuoi, tutti i mali colmando,
tu stesso tornartene per forza
con dolore all’Olimpo, e seminare per tutti gli altri gran danno? Perché
subito i Teucri superbi e gli Achei lascerà
Zeus e verrà sull’olimpo a scacciarci, tutti ci afferrerà, chi ne
ha colpa e chi no. Perciò ti consiglio di tralasciare l’ira del figlio:
già guerriero migliore di lui per forza e per braccio venne ucciso e sarà
ancora ucciso: è difficile di tutti gli uomini salvare il sangue e la stirpe
”. Dicendo così, fece sedere sul trono Ares ardente; ma Era chiamò fuori
della sala Apollo ed Iri, che è nunzia dei numi immortali… » (Il. XV,
4ss).
L’Iliade, ovvero la trasformazione dell’Ira d’Achille in poema tragicomico di gusto popolaresco da parte dell’omerida al servizio di Fidone d’Argo (VII sec. a. C.)
5
– Guerrieri dipinti su lastra fittile da Pazarli, presso Bogăzköy,
Museo di Ankara.
L’Ira
d’Achille celebrava Roma e le sue origini troiane attraverso Ettore, il
leale combattente dell’esercito cittadino e dunque democratico, organizzato
nella falange politica, che
diceva “ è bello combattere per la patria, è bello morire difendendo la
patria. ” Ettore, la
colonna dei Troiani moriva e subito dopo Troia sarebbe caduta ma dalle sue
ceneri sarebbe risorto sui lidi italici un popolo ancora più forte, destinato
a dominare il Mondo. L’Ira d’Achille era un poema che aveva qualche
sfumatura comica ma era fondamentalmente
serio e tragico. In mano all’omerida argolico al servizio di Fidone d’Argo
il poema complessivamente si trasforma nella celebrazione del popolo greco
tanto da diventare il poema nazionale greco, ma al contempo accentua la sua
vena comica e diventa poema
tragicomico. Non è possibile ritenere non voluta la comicità perché in tal
modo si fa torto all’autore. Egli avrebbe voluto esprimere qualcosa
seriamente e avrebbe invece avuto
dei risultati comici. Se poi questo giudizio potrebbe anche
adattarsi all’arte etrusca come la conosciamo e dunque ad un autore
etrusco (nel caso Omero; ma Omero è autore troppo raffinato per attribuirgli
effetti non voluti) non si capisce come mai invece questa comicità non voluta
sarebbe accentuata proprio nella parte attribuibile ad un omerida argolico,
cioè greco (nonostante il fatto che questo sia un eccezionale imitatore d’Omero).
La comicità è voluta e passa inosservata ad una lettura superficiale e
tradizionalmente classicista dell’Iliade,
dove l’attenzione è tutta concentrata sui fatti bellici e dunque serissimi.
La comicità è voluta e poiché prende di mira solo gli eroi e gli dèi greci
occorre concludere che immediatamente i poemi omerici ebbero grandissima
fortuna nel mondo greco e i protagonisti divennero così famosi coi loro
tratti già comici in Omero che un autore greco poteva tranquillamente
accentuarne la comicità senza urtare la suscettibilità greca e anzi
rispondendo ad un’esigenza evidentemente sentita. Si andava ad ascoltare il
cantore per divertirsi dopo una giornata di duro lavoro nei campi e
dappertutto il contadino ride allo stesso modo, tanto più se si pensa che noi
abbiamo la Grecia in casa (la Magna Grecia).
Ho
fatto una sintesi dell’Ira d’Achille in cui ho volutamente accentuato una
versione seria e drammatica del poema (che, sia ben chiaro, è quella
prevalente), ma è inequivocabile che
già l’Ira d’Achille fosse venata quanto meno da una sottile ironia che
colpiva gli Achei e gli dèi che combattevano dalla parte di questi. Abbiamo
così già nel libro I degli episodi comici. Prima di tutto Agamennone e
Achille se ne dicono di tutti i colori arrivando quasi alle mani e sembrano
due pupi siciliani. Ad Achille che piange sul suo destino così poco glorioso
si avvicina la madre Teti (pensate
alla Marchesini), dea e pertanto onnisciente, che domanda al figlio: « Creatura mia, perché piangi? Che pena ha
colpito il tuo cuore? Parla, non la nascondere, perché tutti e due la
sappiamo! » e Achille (pensate a un Solenghi) le risponde sconsolato: «
Lo sai! Perché devo dirlo a te, che sai già tutto quanto? ». La madre
promette al figlio giustizia da
parte di Zeus che infatti assicura che da questo momento per onorare Achille
darà la vittoria ai Troiani. E qui inizia una nuova serie di scene comiche,
con Zeus signore dell’Olimpo che teme che Era possa venire a conoscenza dell’incontro
con Teti, e poi ancora (ma da qui in poi abbiamo
l’interpolazione dell’omerida argolico) un alterco
da pupi siciliani fra Era
(che ha scorto Teti presso Zeus) irata con
Zeus perché adesso gli Achei perderanno, e questo che le risponde
alterato intrecciando frasi sconnesse: « “ Oh sciagurata, sempre
sospetti, in nulla ti sfuggo; eppure nulla potrai: anzi, lontano dal cuore mi
sarai sempre più: e ti sarà più amaro. Se la cosa è così, vuol dire che
questo mi piace. Ma siedi senza parlare e obbedisci al mio ordine: non ti
saranno d’aiuto quanti son numi in Olimpo, quando ti venga vicino, t’avventi
le mani invincibili ”. Disse così, tremò Era augusta grandi occhi, e
sedette in silenzio, facendo forza al suo cuore ». E
scoppierebbe una innocua (perché gli dèi sono immortali e dunque possono
anche venire alle mani e darsele di santa ragione, perfino ferirsi ma nulla di
più, ciò che alla fine li trasforma in tromboni impotenti e ridicoli o, com’è
stato scritto, in borghesi stressati) baruffa generale fra gli dèi quando
entra in scena Efesto lo zoppo che prima con una battuta calma la madre e poi
mescendo il nettare camminando sciancato intorno alla tavola riesce a far ridere il divino consesso facendo sbollire
la tensione precedente. Comunque non convince la conclusione (dell’omerida
argolide) della lite fra Zeus ed Era coi due che come niente fosse se ne vanno
a dormire uno accanto all’altra.
L’Ira d’Achille può essere comica perché è
una creazione di fantasia (seppure da frammenti di verità), una bella favola.
Il suo protagonista apparente Achille è
già comico in se stesso, trattandosi di un gigante, cui non vanno bene le
armi dei Greci, tranne lo scudo di Aiace Telamonio e la lancia che s’è
portata da casa. Probabilmente l’episodio più importante di tutta l’Ira d’Achille
è il duello mancato fra Achille, che vediamo per la prima volta in assoluto
scendere in campo dopo la riappacificazione coi capi achei, e il pio Enea
amato dagli dèi e destinato a perpetuare la nazione troiana-romana sul lido
laziale: « Già il Cronide ha preso a odiare la stirpe di Priamo, ora la
forza d’Enea regnerà sui Troiani e i figli dei figli e quelli che dopo
verranno » (Il. XX, 306ss). E
infatti Poseidone interviene scampandolo
da sicura morte. Poseidone/Dagan, dio dell’occidente e del corso
superore dell’Eufrate, cioè dell’alta Siria, doveva essere nei poemi
omerici originari, come abbiamo già rilevato più volte, la divinità più
tipicamente etrusco-romana. Dunque Poseidone solleva Enea volando in aria come
fosse un Genio della lampada e lo deposita a terra lontano dalla battaglia. Si
tenga bene a mente che nella stesura originaria dell’Ira d’Achille gli
dèi intervenivano in battaglia solo nei libri XX e XXI, la battaglia degli
dèi e fluviale, non prima. Gli dèi omerici, soprattutto quelli dalla parte
degli Achei, sono la caricatura degli esseri umani. Abbiamo così
il pauroso Ade: « tremò sotto la terra sire degli Inferi, l’Ade,
e tremando balzò dal trono, gridava per la paura che gli facesse saltare la
terra Poseidone Enosìctono, a tutti apparissero, mortali e immortali, le case
mucide, spaventose, che i numi hanno in odio; tanto rimbombo sorse allo
scontrarsi dei numi » (Il. XX, 61ss), e ancora
Efesto che zoppica: «
s’affatcavano sotto le gambe sottili » o Ares che sbraita esagitato e
colpisce Atena con la lancia e questa per tutta risposta gli tira contro un
gran cippo confinario stendendolo lungo per terra « l’armi gli
rimbombarono intorno… e via lo condusse la figlia di Zeus Afrodite: fitto
gemeva, a fatica riprendeva gli spiriti », o delicati come Artemide
“ fanciulletta ” percossa ripetutamente con l’arco da
Era “ corpulenta comare ” (Il. XXI, 489ss:
« Bella è la flagellazione di Artemide, che cerca di sottrarsi ai colpi
piegando la testa da una parte e dall’altra e fugge come una colomba;
intanto le sue frecce si spargono a terra e poco dopo Latona le raccoglie
dalla polvere insieme con l’arco » F. Codino, op. cit., p. 182), o ancora
piccini nella loro tifoseria da campanile come la coppia Era e Atena,
divinità davvero spregevoli (soprattutto la seconda, dea della menzogna e
dell’inganno, che nel libro I scende inviata da Era per aizzare Achille
contro Agamennone: « ingiuria con parole, dicendo come sarà: così ti
dico infatti, e questo avrà compimento: tre volte tanto splendidi doni a te s’offriranno
un giorno per questa violenza », sotto le sembianze di Laodoco figlio di
Antenore istiga Pandoro a ferire Menelao (Il. IV, 86ss) e sotto le sembianze
del fratello Deifobo tende un ultimo, inutile, tranello a Ettore, Il. XXII,
226ss – ma l’autore del libro V se non ha rielaborato materia omerica ha
fatto della dea un vero personaggio cattivo da cartone animato alla Crudelia
Demon: « “ Diomede Tidide… non temere più Ares… Anzi su Ares per
primo spingi i cavalli solidi zoccoli e colpiscilo da vicino, non rispettare
Ares furioso; quello è un pazzo, una vera sciagura, una banderuola, che prima
promise e proclamò a me e ad Era di pugnar contro i Teucri e d’aiutare gli
Argivi, e ora è là fra i Troiani, s’è scordato degli altri ”. E
parlando così, gettò Stènelo a
terra dal carro, spingendolo con la mano; e quello balzò fuori in fretta.
Montò essa sul cocchio, presso Diomede glorioso, la dea impaziente » (V,
826ss); e che si complimenta con Odisseo perché lui è il più
ingannevole fra gli umani, lei fra gli dèi, Od. XIII, 291ss;
con buona pace di W. Gladstone l’unica, e autentica, « notevole somiglianza
» di Atena « con la tradizione ebraica
» è con la furbizia dei patriarchi
e dei personaggi veterotestamentari i quali tanto più sono
sostenuti e aiutati da Jahvè quanto più ladri e disonesti, come
Giacobbe, che servì come pastore presso Labano l’Arameo per
ottenerne la figlia Rachele, rubandogli poi con l’astuzia parte del
gregge (Genesi, 29-31: da questa vicenda trae spunto la storia dell’indovino
Melampo, Od. XV, 225ss, che per ottenere per suo fratello Biante la figlia,
Pero, di Neleo re di Pilo, gli
porta il bestiame di Ificlo di
Filace dopo essere stato in prigione per un anno, vedi anche Apollodoro,
Biblioteca, I, 9); o veramente dèi come Apollo troiano (« Ennosìgeo, tu
sano di cervello non mi diresti se combattessi con te per dei mortali
meschini, simili a foglie, che adesso crescono in pieno splendore, mangiando
il frutto del campo, e fra poco imputridiscono esanimi. Presto, lasciamo la
lotta: combattano soli! » Il. XXVI, 462ss; « fra gli immortali parlò Febo Apollo: “ Crudeli
voi siete, o numi, distruttori! A voi forse non bruciava mai Ettore cosce di
bovi e di capre perfette? E ora non volete salvarlo, nemmeno cadavere, per la
sua sposa… No. Achille funesto volete aiutare, voi numi, Achille che sana
ragione non ha, non ha animo trattabile in petto, sa solo cose selvagge, come
leone quando alla sua gran forza, al cuore superbo obbedendo, va tra le greggi
degli uomini a procacciarsi il cibo. Così Achille ha distrutto ogni pietà,
né rispetto c’è in lui… Chiunque può perdere una persona carissima…
Costui Ettore glorioso, da che gli ha tolto la vita, attacca ai cavalli e dell’amico
intorno alla tomba lo trascina: e questo non è bello, né giusto. Badi, per
quanto bravo, che non prendiamo a odiarlo, lui che nell’ira infierisce
contro terra insensibile! » Il. XXIV, 32ss); o cinici come Zeus («
ormai son periti. Ma io me ne resto in una valle d’Olimpo, seduto, e
guardando di là divertirò la mia mente: voi altri andate e raggiungete i
Troiani e gli Achei, gli uni e gli altri aiutate secondo il cuore d’ognuno
» (il. XX, 22ss). Questo Zeus è certamente ispirato al prototipo hurrita
(se prototipo v’è; perché al contrario è possibile che il libro di Giobbe
si sia ispirato alla più antica Odissea) del libro di Giobbe, che nella sua
versione attuale è dei primi del V sec. a. C.: « Egli con una tempesta mi
schiaccia, moltiplica le mie piaghe senza ragione, non mi lascia riprendere il
fiato, anzi mi sazia di amarezze… Se avessi ragione, il mio parlare mi
condannerebbe; se fossi innocente, egli proverebbe che sono reo. Sono
innocente? Non lo so neppure io, detesto la mia vita! Per questo io dico: “
E’ la stessa cosa ”: egli fa perire l’innocente e il reo! Se un flagello
uccide all’improvviso, della sciagura degli innocenti egli ride. La terra è
lasciata in balìa del malfattore: egli vela il volto dei suoi giudici; se non
lui chi dunque sarà? » (Giobbe,
9, 17ss); il mandriano di Odisseo Filezio afferma: « Padre Zeus, nessuno
fra i numi è più funesto di te: non t’importa che gli uomini, a cui tu
stesso dai vita, sian sempre in mezzo a sciagure e mali crudeli » (Od. XX,
201ss).
Questa
era la comicità nell’Ira d’Achille, messa in ombra dalla tragedia di
Ettore, della sua famiglia, dei Troiani. Veniamo ora alle trasformazioni
operate da un omerida su commissione di
Fidone d’Argo (VII sec. a. C.)
che intendeva celebrare se stesso e la sua politica, e ad esempio l’Iliade
poté celebrare non solo la sua potenza che si estendeva sul Peloponneso come
quella di Agamennone, ma anche la sua soprintendenza alle Olimpiadi,
attraverso i giochi aggiunti alla corsa delle bighe in occasione dei funerali
di Patroclo, oltre che la Grecia complessivamente. Questo autore deve
risolvere un grosso problema, e cioè raccordare i suoi XII libri celebrativi
dell’eroismo greco rappresentato dall’eroe argolico Diomede (Diomede, che
l’omerida argolide sostituisce all’omerico Aiace Telaminio, domina,
nonostante l’opinione contraria di F. Codino,
la scena dai libri V a XIV; con l’omerida argolico i greci sono
chiamati anche Argivi, oltre che Achei e Danai) con l’Ira d’Achille che
invece celebra la carica troiana che ricaccia i Greci alle navi. Non solo,
deve anche conciliare i due assalti vincenti
che attribuisce ai Greci contro l’esercito troiano con la promessa di
Zeus a Teti che darà, ovviamente subito, la vittoria ai Troiani per punire
Agamennone che ha offeso Achille. La soluzione del problema è ovviamente poco
consistente perché estremamente difficile. Egli immagina che Zeus invii ad
Agamennone il Sogno cattivo che gli promette l’imminente caduta di Troia.
Pertanto Agamennone raduna l’esercito per informarlo. Ma deve fare i conti
con la fuga omerica e allora immagina una messa alla prova dell’esercito che
ha come risultato quello di presentarci Agamennone come un arrogante despota
orientale che fa dell’esercito, stremato da nove anni di guerra, ciò che
vuole, assomigliando allo Jahvè
che invita Satana a tentare il suo fedele servitore Giobbe, gettandolo nella
più nera miseria e disperazione, con l’unica motivazione che Dio è
onnipotente e con l’uomo fa ciò che vuole (Giobbe, 1,8ss e 2,3ss). Non c’è
bisogno di dire che questa immagine del capo e dei soldati greci strideva
fortemente con l’universale idea dei Greci come uomini liberi occidentali.
Dunque l’espediente dell’omerida argolico consiste semplicemente nel
ritardare la promessa di Zeus con la giustificazione che Zeus non ha promesso
di dare subito la vittoria ai Troiani.
Il
Sogno cattivo e il ricordo nostalgico di Agamennone (« Ormai nove anni del
grande Zeus sono andati, e delle navi il legno è muffito, son lente le funi;
le nostre spose coi figli balbettanti siedono nelle case, bramose; e a noi l’opera
è ancora incompiuta per cui venimmo qua… » 134ss; si noti la comicità
di questi figli balbettanti che evidentemente le madri hanno avuto dai
loro amanti nell’assenza ormai novennale dei loro mariti; assai prima di
nove anni i bambini di tutto il mondo parlano e non più balbettano) serve ad
introdurre un primo ampliamento consistente in un una specie di flash back
compreso fra il libro II e il VII
contenente per sommi capi e non esattamente in ordine cronologico,
gli antefatti del primo anno della guerra di Troia, e più in generale
dei primi nove anni di guerra: il primo incontro di Paride e Elena a Sparta; il
prodigio – alla partenza della flotta achea da Aulide –
che secondo Calcante il profeta prometteva la presa di Troia al decimo
anno d’assedio; il Catalogo delle Navi, una panoramica della costa dell’Ellesponto
al momento dello sbarco della flotta panellenica;
la descrizione da parte di Elena a
Priamo sulla torre delle porte
scee dei capi achei appena sbarcati; le proposte di transazione –
restituzione del maltolto più un risarcimento ulteriore,
ma non di Elena – da
parte dei Troiani; il duello fra Paride e Menelao, che doveva essere celebrato
da subito come sostitutivo della guerra; la costruzione del vallo a difesa
delle navi achee che logicamente dové avvenire nel primo anno di guerra.
Per dire meglio, le scene che si susseguono sono per lo più del tempo
presente – e infatti si ricorda spesso che Achille, irato, è assente dalla
battaglia – ma sono simili e dunque riflettono
quelle antiche che sintetizzano i primi nove anni di guerra. Alla fine
del libro VII invece della vittoria dei Troiani come promesso da Zeus a Teti
abbiamo al contrario l’esito del massimo avanzamento degli Achei (guidato
dalla performance di Diomede) che si conclude con la proposta troiana di
restituire il tesoro sottratto a Menelao e la costruzione del muro a difesa
delle navi. Se vogliamo è
proprio questa allusione ai primi anni di guerra (nei quali il sopravvento era
dei Greci, che assediavano Troia) che in parte giustifica e rende meno
stridente la palese vittoria dei Greci contro il giuramento di Zeus a Teti di
dar la vittoria ai Troiani. Rimane il fatto che il lettore è annoiato dalle
continue scene di guerra e alla fine la carica dei Troiani al vallo e alle
navi (quella omerica) passa inosservata; è inoltre
irritato dal fatto che Achille rimanga ozioso alle tende mentre avrebbe
tutto il tempo di andarsene a Ftia come ha promesso, mentre proprio a causa
della sua inerzia muore l’amico Patroclo. Diomede, che combatte perfino
contro gli dèi e li vince, è l’indiscusso protagonista di questa parte. Si
può parlare di una Diomedea nei libri V-VI-VIII, dove infine Diomede, sul
cocchio di Nestore, affronta
Ettore ma deve desistere perché questo è
perentoriamente favorito dal tuonare di Zeus.
Dal libro VIII (che fa da cerniera fra i libri che precedeno e quelli
che seguono) al libro XIV è un secondo ampliamento, ampliamento della carica
travolgente dei Troiani al vallo e alle navi del libro XV.
Dunque
Agamennone dichiara, contro le vere intenzioni, che si torna a casa, e
gli Achei se la danno a gambe. La fuga precipitosa degli Achei alle navi viene
fermata dall’intervento di Atena su quello che ora è diventato un
Azzeccagarbugli, Odisseo, dalla
cui bocca, secondo Elena, escono « parole simili ai fiocchi di neve d’inverno
», ma che nel libro II fa le sue arringhe a suon di randellate (con «
lo scettro avito, indistruttibile sempre » di Agamennone) a destra e a
manca fino a che gli Achei sono di nuovo schierati e pronti al combattimento.
Sempre Odisseo nel libro XIX si mette in mezzo con una pedanteria da far
invidia all’Azzeccagarbugli manzoniano, per garantire che sia rispettata per
filo e per segno la procedura della riconciliazione fra Achille ed Agamennone,
« perché niente della giustizia si lasci », ma quando si tratta di
combattere ecco che se la dà a gambe « “ Laerziade divino, ingegnoso
Odisseo, dove fuggi, voltando il dorso nella calca da vile? Bada che tra le
spalle non t’aggiusti l’asta qualcuno! Ma vieni, allontaniamo il selvaggio
guerriero dal vecchio “. Disse così, ma non udì Odisseo glorioso,
paziente, passò di corsa, verso le navi curve degli Achei » (Il. VIII,
93ss). E c’è chi discute se
l’Odisseo dell’Iliade e quello dell’Odissea possano essere lo stesso
personaggio!
Il
re-giudice Nestore del libro I: « dalla sua lingua anche più dolce
del miele la parola scorreva » (v. 249; cf. anche Teogonia
81ss; la regina etrusca
Arete, Od. VII, 68ss; il
re-giudice Giobbe, 29,21ss),
già dal libro XXIII dell’Ira d’Achille si trasforma in
generale-consigliere da pensionamento che non perde occasione per scocciare
coi ricordi dei suoi tempi
(« Magari fossi ancor giovane, avessi intatta la forza come quando… »).
I due Aiaci (Telamonio e d’Oileo) combattono
in coppia, prototipo delle coppie tutte
muscoli e poco cervello. O ancora la coppia Aiace Telamonio e Teucro: « Ed
ecco Aiace scostare lo scudo e l’eroe far capolino; ma quando uno tra la
folla di freccia aveva colpito, e quello cadendo, aveva perduto la vita,
spariva, come bambino dietro la madre, tornando presso Aiace; questi lo
nascondeva dietro lo scudo splendente » (Il. VIII, 268ss). Ma
soprattutto Achille nell’Iliade, se non già nell’Ira d’Achille, si
configura come prototipo del gigante
fifone ammazzasette, figlio di dea, che dice armiamoci e partite, e chi
deve partire è l’amico Protesilao, figlio di comune mortale (« Così il
fuoco invase la poppa. E Achille gridò a Patroclo, battendosi le cosce: “
Presto, divino Patroclo, guidatore di cavalli, vedo presso le navi ardere il
fuoco spietato: ah che non le distruggano e noi non abbiamo più scampo! Vesti
l’armi in fretta, io ti raccolgo l’esercito “ ». Achille ha giurato
sul suo scettro di re che non interverrà mai più in guerra, anzi
vuole far vela al più presto per la sua Ftia, e nel frattempo
interverrà in guerra solo se i Troiani attaccheranno le sue tende e le sue
navi. Ora, delle due l’una, o i Troiani stanno attaccando le sue navi, e
allora Achille deve tornare in campo perché è sciolto dal giuramento e non
inviare vigliaccamente l’amico Patroclo che non è invincibile come lui,
oppure le navi non sono le sue e allora come non deve scendere in campo lui
non deve nemmeno l’amico, che se poi Achille ha cambiato idea e s’accora
per le sorti degli Achei allora sempre lui deve per primo scendere in campo e
non delegare l’amico cui dice di tenere tanto a parole. E non finiscono qui
le scenette comiche con protagonista il guascone
Achille. Come ho detto, egli nella prima versione omerica si getterebbe
(è ciò che presumo, perché di prove non ce ne sono) nella mischia anche da
solo, vestito com’è, armato della sua sola infinita rabbia, ma cosa ti
combina l’omerida dell’Iliade? Ti ci ficca la storia che è rimasto senza
le sue armi, indossate da Patroclo e ormai nelle mani di Ettore. Ci si chiede
come mai avesse un solo set di armi. Quanto alla seconda domanda, perché non
chieda le armi ad altri guerrieri, l’omerida ci previene dicendo che solo lo
scudo di Aiace Telamonio sarebbe stato della sua taglia, ma egli ha anche a
disposizione la sua lancia, che
Patroclo non aveva presa: « ma non prese l’asta dell’Eacide perfetto,
grande, pesante, solida: nessuno dei Danai poteva brandirla, solo Achille a
brandirla valeva, faggio del Pelio, che Chirone aveva donato al suo padre,
dalla cima del Pelio, per dare morte ai guerrieri » (XVI, 140ss). Ci
chiediamo che misura cranica avesse per non poter chiedere un elmo ai suoi
compagni, ma Achille è un gigante di statura. Dunque, gigante,
furioso com’è e
superiore a tutti i guerrieri a Troia, scudo
e lancia basterebbero, ma in attesa che la madre Teti gli porti una
nuova armatura fatta da Efesto, con Iri,
che per conto di Era lo sollecita ad entrare in battaglia,
Achille così si giustifica: «
E come andrò nella mischia? Han le mie armi coloro e prima la madre non vuole
che marmi, prima che coi miei occhi io la veda tornare; disse che mi porterà
belle armi d’Efesto. D’altri non so di chi mai posso vestire le nobili
armi, tranne lo scudo d’Aiace Telamonio; ma anch’egli, penso, si trova fra
i primi, infuriando con l’asta intorno a Patroclo morto » (XVIII, 188ss).
E quando ha le armi forse
Achille va finalmente a
combattere? Niente affatto. Convoca l’assemblea, a modo suo, naturalmente,
andando « lungo la riva del mare… gridando paurosamente ».
Intervengono tutti gli eroi, resi malconci dagli ultimi scontri, « vennero
zoppicando, il Tidide furia di guerra e Odisseo luminoso, appoggiandosi all’aste…
Per ultimo venne il sire di genti Agamennone, ch’era ferito » (Il. XIX,
47ss). Achille dice di voler smettere l’ira e chiede che Agamennone
ordini l’attacco. Quello fa un lungo discorso dando la colpa del suo
comportamento, scorretto nei confronti d’Achille, agli dèi e in particolare
Ate, il destino, e tira in ballo l’iganno di Era a favore di Euristeo e
dichiara di voler fare ammenda e di dare i doni promessi il giorno prima (!
versi 140-141) con l’ambasceria (libro IX). Achille insiste che bisogna
combattere. Allora interviene Odisseo sostenendo che prima la truppa deve
mangiare: « Ma su, sciogli l’esercito, ordina che preparino il pasto; e
i doni il sire d’eroi Agamennone li porti in mezzo alla piazza, perché
tutti gli Achei li vedan con gli occhi e tu ti rallegri nel cuore. E giuri
giuramento, in piedi in mezzo agli Achei, che mai è salito nel letto, né si
è unito a Briseide… e così nel petto si plachi l’aimo tuo. Non solo,
nella sua tenda ti inviti a cena abbondante perché niente della giustizia si
lasci » (Il. XIX, 171ss). Agamennone si dichiara soddisfatto. Achille
insiste che bisogna combattere. Odisseo lo richiama mettendo avanti la sua
maggiore età e sapienza, per cui la truppa deve prima mangiare e poi si reca
alla tenda di Agamennone e porta via i doni promessi ad Achille, Agamennone
celebra il sacrificio di un verro giurando che Briseide è illibata, e
scioglie l’assemblea. Infine si decide a combattere con Ettore con l’aiuto
della dea Atena che inganna
costui nel modo peggiore, fingendosi il suo fratello Deifobo. Anche la dea
Atena dell’Iliade non è la stessa dell’Odissea:
quella è ladra, questa è assassina. La comicità dell’omerida
argolico è in sintonia con la comicità tutta italica dell’Efesto del libro
VIII dell’Odissea, tradito da Afrodite nel letto matrimoniale con Ares (il
tema del cornuto è fra i più cari alla comicità
italica; anche Menelao è
un cornuto (contento, pare, perché nei poemi non mostra alcuna gelosia nei
confronti della moglie) ma non viene ridicolizzato nell’Iliade
perché questa, come l’Odissea, ha anche dei messaggi morali da
lanciare, come la punizione di coloro che approfittano dell’ospitalità
altrui per compiere male azioni: « Zeus signore, fa’ che mi vendichi di
chi per primo m’ha fatto del male, d’Alessandro glorioso, uccidilo per mia
mano, perché ciascuno tremi, anche degli uomini che saranno, di far del male
a un ospite ch’abbia mostrato amicizia » (Il. III, 351ss) ma per la
verità lo sciancato Efesto, che altrove fa ridere, qui non fa ridere affatto
di sé ma scatena il riso degli dèi da lui chiamati ad assistere al
tradimento di sua moglie con Ares, presi
nella rete, capolavoro della sua arte di metallurgo, predisposta come trappola
dopo una soffiata del Sole che
dall’alto tutto vede: « Diceva così, e i numi s’adunarono sulla
soglia di bronzo; venne Poseidone che cinge la terra; venne il benefico
Ermete; venne il sovrano presenvatore Apollo; le dee, per pudore, rimasero
nella sua casa ciascuna. Stavano ritti nel portico i numi beati a vedere la
trappola dell’abilissimo Efesto. Così qualcuno guardando diceva a un altro
vicino: “ Non fruttan bene le male azioni; il lento acchiappa il veloce.
Come appunto ora Efesto, che è lento, acchiappò Ares, il più veloce fra i
numi che hanno l’Olimpo, lui, lo zoppo, con l’arte sua; e pagherà l’adulterio!
” Così dicevano queste cose fra loro. E il sire Apollo figlio di Zeus
diceva a Ermete: “ Ermete figlio di Zeus, messaggero, datore di beni,
vorresti, premuto così sotto gagliarde catene, dormire in letto con l’aurea
Afrodite? ” E gli rispose il messaggero Argheifonte: “ Potesse questo
avvenire, sovrano lungisaettante Apollo, catene tre volte più grosse,
infinite, mi tenessero avvinto, e tutti veniste a vedermi, voi dèi, e poi
anche le dee: io dormirei volentieri con la dorata Afrodite! ” Così diceva,
e una risata scoppiò fra i numi immortali » (Od. VIII, 321ss).
Analogamente, riflettendoci sopra, non
fa poi tanto ridere l’altro brutto, dell’Iliade, Tersite, che pur essendo
un povero soldato semplice, oltretutto deforme (dunque da riformare, altro che
combattere a Troia!), ha il coraggio di dire quel che pensa ad alta voce, e di
dirlo bene (« Solo Tersite vociava ancora smodato, che molte parole sapeva
in cuore… per sparlare dei re: quello che a lui sembrava che per gli Argivi
sarebbe buffo » Il. II, 213ss; « Tersite, lingua confusa, per quanto arguto
oratore, smetti e non osare, tu, di offendere i re » gli dice Odisseo,
Il. II, 246-247), tanto che paga
prendendosi le randellate di Odisseo e suscitando il riso fra la soldataglia.
Se Tersite è tutta farina del sacco dell’omerida argolico sono portato a
complimentarmi con lui per essere uscito dalla banalità della civiltà greca
che apprezzava i belli che erano anche intelligenti e disprezzava i brutti che
dovevano anche essere stupidi. L’omerida argolico ci ha fatto capire che
anche fra gli strati bassi della popolazione c’era chi sapeva ragionare con
la propria testa. Anche Achille ha fatto le stesse accuse ad Agamennone, ma
gigantesco, forzuto, e con ampio seguito com’è s’è guardato bene
dal trarne le conseguenze eliminandolo fisicamente, preferendo vigliaccamente
ritirarsi dall’impresa. Insomma, i brutti e deformi d’Omero o dei suoi
validi imitatori non sono per questo anche degli idioti, anche se devono
soccombere spesso in una società di
vecchio stampo villanoviano cioè di tipo
celto-germanico, dove
prevalgono i violenti guerrieri.
Nel
libro VIII Zeus con l’episodio della bilancia che prende in mano e che pende
a favore dei Troiani comincia a soddisfare la richiesta di Teti:
«
… [Zeus] aggiogò al carro i
cavalli piedi di bronzo, rapido
volo, ch’hanno criniere d’oro; oro vestì lui stesso sul corpo, e prese la
frusta d’oro, ben fatta, e salì sul suo carro e frustò per andare; quelli
volarono ardenti a mezzo fra la terra e il cielo stellato. E venne all’Ida,
ricca di fonti, mafre di fiere, alla cima del Gàrgaro, dov’è il suo sacro
recinto, l’altare odoroso. Qui fermò i cavalli il padre dei numi e degli
uomini, e li sciolse dal carro, versò molta nebbia intorno. Egli sopra le
vette si assise, splendente di gloria, guardando alla città dei Troiani, alle
navi achee.
Intanto
prendevano il pasto gli Achei lunghi capelli, in fretta, fra le tende; e dopo
s’armarono. S’armarono anche i Troiani, dall’altra parte, nella città,
pur meno numerosi; ma ardevano di lottar nella mischia, spinti dal bisogno,
per i figli e le donne. E tutte le porte furono aperte, l’esercito balzò
fuori, cavalieri e fanti; immenso frastuono saliva…
Finché
fu mattino e il giorno divino saliva, sempre i dardi dalle due parti
colpivano, cadeva la gente; ma quando il sole raggiunse il mezzo del cielo.
Allora il padre agganciò la bilancia d’oro: e due Chere vi pose di morte
lungo strazio, dei Troi domatori di cavalli e degli Achei chitoni di bronzo;
la tenne sospesa nel mezzo; precipitò il giorno fatale degli Achei. Le Chere
degli Achei verso la terra nutrice di molti piombarono, quelle dei Troi
salirono al cielo vasto. Dall’Ida forte allora tuonò, e fiammeggiante lampo
scagliò fra l’esercito acheo; essi a vederlo restarono allibiti, li prese
tutti verde terrore » (Il. VIII, 41ss).
Ma
le cose procederanno assai lentamente, e prima ci sarà il tentativo di
Agamennone di rabbonire Achille offrendo il risarcimento del danno oltre alla
restituzione di Briseide, ma la risposta di Achille alla delegazione non
potrebbe essere più decisa:
«
a lui riferite tutto come comando, chiaramente, perché tutti gli Achei
lo disprezzino, se spera di giocare qualcun altro dei Danai, ché sempre di
spudoratezza è vestito. Quanto a me, certo, non avrà più l’ardire, per
cane che sia, di guardarmi nel viso. Aiuto non gli darò, non di consiglio e
non d’opera, no. M’ha giocato, è colpevole, non potrà più illudermi con
le parole: basta con lui. Se ne vada in pace alla malora, ché il saggio Zeus
gli ha portato via il senno. Mi sono odiosi i suoi doni, lo stimo quanto un
capello. Anche se dieci, venti volte di più mi donasse di quanto ora
possiede, e se altro guadagni, quanto affluisce ad Orcòmeno, o quanto a Tebe
egizia… nemmeno se tanto mi desse quant’è la sabbia o la polvere, nemmeno
così potrà più persuadere il mio cuore Agamennone, prima che tutta m’abbia
pagato l’offesa strazio del cuore. Non sposerò la figlia dell’Atride
Agamennone, neppure se l’aurea Afrodite vincesse in bellezza, e nell’opere
Atena occhio azzurro uguagliasse; neanche così la vorrò… » (Il. IX,
369ss).
Poi
l’impresa notturna di Diomede e Odisseo
contro la spia troiana Dolone, la controffensiva greca in cui si
distinguono di seguito Agamennone, l’onnipresente Diomede, poi le sorti
della battaglia si pareggiano e infine i Greci hanno la peggio e nella
ritirata si distinguono Odisseo e Aiace Telamonio; Paride ferisce Macaone e
Achille invia Patroclo ad informarsi su chi sia l’eroe
che vede portar via ferito alla tenda di Nestore:
«
Nestore intanto fuor dalla mischia traevano le cavalle di Neleo, sudando, e
Macaone portavano, il pastore di popoli. Lo scorse e lo riconobbe Achille
glorioso, piede veloce, ché stava ritto sopra la poppa della sua nave fianchi
profondi, l’aspra fatica osservando, la rotta lacrimevole; e si rivolse
subito all’amico suo Patroclo, chiamandolo dalla nave; quello sentì dalla
tenda e corse, simile ad Ares; e fu principio di male per lui » (Il. XI,
597ss).
Mentre
Patroclo va ad informarsi la battaglia arriva al muro col libro XII, ma la
carica troiana (dell’Ira d’Achille) ci sarà solo nel libro XV. All’inizio
del libro VIII i Troiani sono nella pianura davanti alle navi e fuori delle
mura di Troia esattamente come all’inizio dell’Iliade e da nove anni,
perché il muro fu costruito all’inizio della guerra per proteggere le navi,
evidentemente, dall’assalto dei troiani. Nel libro IX Agamennone ripete,
questa volta credendoci, l’invito fatto nel libro II, dopo il sogno, ad
abbandonare l’impresa e a tornare in Grecia: «
Ah! Così come io dico facciamo tutti concordi, fuggiamo sulle navi
verso la terra patria. Mai più prenderemo Troia spaziosa » (Il. IX,26ss),
ma soprattutto Diomede (l’eroe argivo protagonista dell’Iliade voluta
verisimilmente da Fidone d’Argo) si
oppone all’idea e la guerra continua. Fra il primo e il secondo inserimento
di libri il libro VIII fa da cerniera. Vera e propria interpolazione dell’omerida
argolide è certamente quella di Sarpedone, d’origine greca, corinzia, che
defrauderà Ettore del primato dell’assalto al vallo greco, fin dal libro
VI, dove Diomede, e tramite suo Fidone e Argo, rifulgono
come la luna di luce
riflessa attraverso l’incontro con il corinzio Glauco
di illustre casato che indirettamente rinvia allo splendido mecenate
del Viaggio d’Odisseo, Demarato, il più potente cittadino di Tarquinia. Lo
stesso omerida è autore inoltre di
molto ampi brani dei canti XII e
XIII (si avverte palesemente, anche nella traduzione di Rosa Calzecchi Onesti,
la mano diversa di un autore che scrive in una
prosa che ha perso il tipico ritmo
omerico), duplicazione del XV omerico e che servono a far sì che prima Asio e
poi Sarpedone, di origine greca in quanto discendente da Bellerofonte corinzio
(secondo altra tradizione era comunque greco, per l’esattezza cretese, in
quanto fratello di Minosse e Radamanto), tolga a Ettore il primato del varco nel vallo acheo: « Nemmeno
allora però i Teucri ed Ettore illustre avrebbero rotto le porte del muro, la
grossa sbarra, se il saggio Zeus non suscitava il figlio suo Sarpedone, come
leone contro buoi corna lunate… Così allora il divino Sarpedone fu spinto
dal cuore a balzar contro il muro, a fracassare i ripari…
E Sarpedone, afferrando con le mani pesanti il riparo, lo tirò, e
venne via tutto intero, di sopra rimase nudo il muro e dava a molti passaggio
» (Il. XII, 290ss). In questo episodio si inserisce
Glauco (l’“etrusco”) che viene spronato da Sarpedone alla
battaglia. Sarpedone gli ricorda, come se Glauco fosse un pusillanime,
che essi sono i primi nei privilegi dei capi proprio perché ci si
aspetta da loro che siano i primi in battaglia (307ss); e
Glauco, subito ferito da una freccia di Teucro (fratello di Aiace
Telamonio), esce di scena prima dell’impresa del muro: « Venne pena a
Sarpedone al partire di Glauco, subito che lo vide; ma non si scordò della
lotta » (387ss). Il nostro omerida argolide ha dovuto moltiplicare le scene
di battaglia da un capo all’altro della palizzata (che lui, ovviamente, ha
trasformato in un muro) per togliere gloria agli etrusco-romani rappresentati
da Ettore. Ma il diavolo, come si dice, fa le pentole ma non i coperchi. E
così il nostro apprendista stregone si trova in un bell’imbarazzo a gestire
le sue creazioni e ad armonizzarle col
poema omerico, e a un certo punto sbotta in un’espressione di sconforto
perché avverte che la sua pozione gli va esplodendo fra le mani: « E
combattevano tutti, ciascuno per la sua porta: ma raccontare ogni cosa, come
un dio, m’è difficile » (Il. XII, 175-176). Per Omero tutto è sovranamente
facile, mai si sarebbe lasciato andare a simile espressione di pessimismo. L’impresa
è davvero più grande dell’omerida argolide perché mentre lo scopo di
ritardare e rendere più difficile e dunque meno gloriosa
l’avanzata troiana avrebbe dovuto prendere in considerazione assalti
da punti differenti delle mura, questo incapace epigone ha duplicato l’assalto
di Ettore che assalta le mura e le navi inserendolo appunto nel libro XIII,
quando Omero lo “ ricolloca ” nel libro XV. Sarpedone è stato dunque
inserito dal nostro omerida anche nel suo libro V delle gesta di
Diomede altrimenti questo sarebbe spuntato fuori dal nulla. L’autore di
questo libro, peraltro completamente digiuno di fatti bellici, perfino quelli
del suo tempo, non sa più che uso fare del carro se non come di un
mezzo per spostarsi nel campo e da cui scendere per combattere a piedi « la
frusta e le briglie lucenti afferra, e io dal carro scenderò per combattere,
oppure affrontalo tu, io penserò ai cavalli » (V, 226ss). A causa delle sue
interpolazioni che ritardano in modo grossolano l’impianto iniziale dell’Ira
d’Achille l’omerida argolide è costretto ad avvertire più volte che
presto darà la vittoria ai Troiani facendoli arrivare fino alle navi. Lo dice
alla fine del libro VIII (470ss), all’inizio del XII (3ss), ora nel muro è
stato aperto un varco e addirittura il muro è caduto (XIV, 15), ma ecco che
Omero in persona ‘ripete’ l’avviso come se niente
fosse all’inizio del XV (59ss).
Dunque
nell’attesa che Zeus si decida a dare la vittoria ai Troiani e ciò inizia,
ma ancora con alterne vicende, nel libro VIII e si conclude nel libro XV,
nella prima parte dell’Iliade (prima dell’avanzata troiana omerica del
libro XV) abbiamo complessivamente un’avanzata troiana, una controffensiva
greca, una nuova avanzata troiana con Ettore che sfonda una delle
porte del muro, una nuova
controffensiva greca che respinge i Troiani dalle mura e dal fossato, mentre
addirittura Aiace Telamonio mette fuori combattimento Ettore tirandogli contro
un pesante macigno. Pur rimanendo inalterata la cornice dell’Ira d’Achille
con la travolgente carica troiana contro le mura e l’incendio della nave di
Protesilao al libro XV, con l’Iliade omerica i Greci si prendono una
rivincita costituita da due controffensive riuscite nonostante il padre degli
dèi sia loro contrario. Il risultato è
di appesantire la narrazione e renderla noiosa cosicché quando finalmente la carica originaria dei Troiani avviene,
nel libro XV, passa quasi
inosservata. Mentre l’Odissea, tutta omerica salvo verisimilmente la parte
finale, è un insieme di libri legati fra loro, i libri da I-fine a XIV-inizio
dell’Iliade sono palesemente giustapposti ma non legati fra loro e lo stesso
dicasi per i libri postomerici inseriti nella parte seconda, omerica, dell’Iliade.
Nonostante
tutte le critiche possibili sento di dover dare un giudizio positivo
particolarmente sui primi libri (I-fine, II e III) dell’omerida argolide.
Ci sono degli episodi riusciti come
la sfuriata di Zeus con Era, Efesto lo zoppo, Odisseo e Tersite, lo
stesso Catalogo delle navi, che ho sempre trovato poetico, nonostante la
difficoltà di rendere poetica una lista di navi e di armati, ma qui il genio
dell’omerida omerico (sempre che non rielabori materiale omerico) si ferma.
Ma è dai primi libri dell’Iliade che ci formiamo il giudizio che questa
assomiglia a degli altorilievi in cui potenti le figure dei protagonisti si
stagliano come Laocoonte e il Drago marino sul mare indistinto della terra
tinta di sangue. Ciò anche perché l’Iliade è fatta fin dall’inizio di
dialoghi, mentre l’Odissea assomiglia più ad una pittura murale proprio
perché inizia soprattutto con un racconto in terza persona. Se l’omerida
argolico avesse fatto un’opera rigorosamente tragica l’Iliade varrebbe
senz’altro almeno come l’Odissea. Che del materiale omerico sia stato
asportato e spostato dal suo contesto fa prova l’incontro fra Ettore e
Andromaca (ora nel libro VI, originariamente fra gli attuali libri XIV e XV)
che certo doveva essere avvenuto poco prima della morte,
presagita appunto come imminente, di Ettore per mano di Achille (libro
XXII). L’incontro fra Ettore e Andromaca serviva all’omerida argolide per
dare corpo al suo libro VI dove introduceva la figura dell’eroe argolico
Diomede (l’eroe che doveva celebrare il re Fidone d’Argo, che reputo
committente dell’Iliade, cioè delle aggiunte all’Ira d’Achille), che
come luna riceveva lustro di nobiltà dall’eroe (con cui si incontrava) di
parte troiana Glauco, di origine corinzia come il committente dell’Odissea
(per la precisione, del Viaggio d’Odisseo) Demarato dei Bacchiadi.
Il
giudizio completo sull’Iliade dell’omerida al servizio di Fidone d’Argo
deve tenere presente che fino al libro VIII è una continua attesa di una
carica troiana che non viene e dopo il libro VIII e fino al XV e un continuo
annunciare questa carica che poi avviene ma si moltiplica con nessuna
efficacia fino addirittura ad essere respinta con Ettore atterrato da una
sassata. La celebrazione del valore greco poi ricorda
la stucchevole ampollosità dei nostri poemi della serie Orlando
Furioso e Gerusalemme Liberata. Perciò il giudizio definitivo è che qualche
episodio si stacca dal monotono e stucchevole fondo che per giunta è
ampiamente comico e non tragico come dovrebbe. Non riesce ad essere comico
fino in fondo e non riesce ad essere tragico fino in fondo. E’ tragicomico.
Nell’Odissea,
composta senza condizionamenti da Omero dopo il Viaggio d’Odisseo
scritto per i banchieri di Cere, Omero si
ispira alla vera storia di Romolo nella
Vendetta sui Proci. Dal mio studio sulla vera storia di Romolo (vedi
sul mio sito) emerge che lo pseudo Enea era in realtà, secondo i dati forniti
dallo stesso Dionisio d’Alicarnasso, un avventuriero Turša/Tirreno dell’Egeo,
cioè della stessa stirpe che aveva appunto contribuito a formare l’ethnos
etrusco. Pertanto la sua rivalità con Romolo, posto che ci sia davvero stata,
era comunque fra etruschi di più o meno lunga data. Ora nell’Iliade l’omerida
argolico (o lo stesso Omero) accenna ad una tradizione, quella dei
Gemelli/Dioscuri in collegamento con Elena/Afrodite (libro III, 236ss) che
presuppone l’esigenza di pacificazione fra le comunità predinastiche dell’Aventino
e del Palatino. I Dioscuri o Castori, protettori della navigazione e dei
commerci, erano molto venerati a Ostia, il porto di Roma sul Tirreno fondato
da Tullo Ostilio, nel Foro Romano in connessione con lo scalo tiberino,
nel santuario delle tredici are di Lavinio. Sono attestati anche a
Tarquinia in una dedica su kylix attica (500 a. C. ca.) ai Tinascliniiaras, ai
figli di Tina, lo Zeus etrusco. A Gravisca, porto di Tarquinia è attestato
inizialmente il culto di Afrodite/Turan con iscrizione del 560 a. C. ca. su
cratere laconico; associata ad Adone/Atunis, dio della fertilità. Anche Enea,
figlio di Afrodite e che scende agli Inferi può essere considerato una
personificazione di Adone e infatti a Laurento è identificato con Giove
Indigete, una divinità catatonia, ciò che rinvia alla sua identificazione
con Poseidone/Conso. L’itinerario che Dionisio d’Alicarnasso fa percorrere
allo pseudo-Enea da Troia a Lavinio è costellato di centri fenici dedicati al
culto di una Afrodite Aineias (da cui Enea) spesso associata ad una divinità
maschile identificata con Enea ma che è
detta Aineias dai ‘luoghi alti’ su
cui si trovano i suoi santuari.
L’Iliade
omerica doveva essere lunga più o meno quanto l’Odissea (fino a XXIII,
246), cioè circa 11.000 versi, mentre l’Iliade attuale comprende
più o meno 15.692 versi.
Le
similitudini più belle.
« …come vanno gli sciami dell’api
innumerevoli ch’escono senza posa da un foro di roccia, e volano a grappolo
sui fiori di primavera, queste in folla volteggiano qua, quelle là; così
fitte le schiere dalle navi e dalle tende lungo la riva bassa si disponevano
in file, affollandosi all’assemblea
» (Od. II, 87ss).
«
Così disse, e gli Argivi gridarono come onda contro ardua roccia, se l’alza
il Noto, venendo contro scoglio sporgente: mai questo lasciano l’onde di
tutti i venti, se qua e là se ne formano » (Od. II, 394ss).
«
come innumerevoli schiere d’uccelli alati, d’oche o di gru o di
cigni lungo collo, nei prati d’Asia, sulle correnti del Caístro, qua e là
volteggiano, sbattendo l’ali con gioia, e mentre con gridi si posano la
prateria risuona – così innumerevoli schiere di questi dalle navi e dalle
tende si riversavano nella pianura Scamandria » (Il. II, 459ss).
«
i Teucri andavano con grida e richiami, come uccelli, come sotto il cielo s’aggira
il grido delle gru, che quando fuggon l’inverno, la pioggia infinita, volano
con gridi sulle correnti d’Oceano, strage e morte portando ai Pigmei: all’alba
dànno esse la mala battaglia » (Il. III, 2ss).
«
li seguiva nube di fanti: Così vede nube talvolta dalla vedetta un capraio,
venir per il mare, sotto l’urlo di Zefiro; a lui, lontano, nerissima come la
pece appare, venendo pel mare, porta grande tempesta; rabbrividisce a vederla,
sotto la grotta conduce la greggia » (Il. IV, 274ss).
«
Come contro la riva echeggiante il flutto del mare si scaglia senza sosta
sotto l’impulso di Zefiro; prima si gonfia nel mare, ma ecco infrangendosi
contro la terra urla roco, e intorno alle punte s’alza in volute, sputa la
schiuma del mare; così allora senza sosta movevano le file dei Danai » (Il.
IV, 422ss).
«
andava impetuoso per la pianura, simile a un fiume in piena, ingrossato da
piogge, il quale correndo in furia travolge le dighe; non lo trattengono le
dighe alzate a far argine, non lo trattengon le siepi intorno agli orti
fioriti, se dilaga improvviso, quando scroscia la pioggia di Zeus; molte belle
opere di giovani cadono sotto di esso. Così dal Tidide eran travolte le dense
falangi dei Troiani » (Il. V, 87ss).
«
Così uno stallone, ben nutrito alla greppia, strappa la corda e corre per la
pianura al galoppo, uso a lavarsi nel fiume bella corrente, superbo; alta
tiene la testa, la criniera s’agita sopra le spalle, gode del fior delle
forze; e i garretti lo portano agili al luogo noto, pascolo delle cavalle;
così Paride, figlio di Priamo, giù per la rocca di Pergamo, correva… »
(Il. VI, 506ss).
«
Come nell’orto un papavero piega da un lato la testa, grave del frutto, o
dalle piogge primaverili, così da un lato s’abbandonò la testa, grave dell’elmo
» (Il. VIII, 306ss).
«
Come le stelle in cielo, intorno alla luna lucente brillano ardendo, se l’aria
è priva di venti; si scoprono tutte le cime e gli alti promontori e le valli;
nel cielo s’è rotto l’etere immenso, si vedono tutte le stelle; gioisce
il cuore il pastore; tanti così, fra le navi e lo Xanto scorrente lucevano i
fuochi accesi dai Troi davanti a Ilio; mille fuochi ardevano nella pianura, e
intorno a ciascuno cinquanta eran seduti, alla vampa del fuoco fiammante; i
cavalli, mangiando l’orzo bianco e la spelta, ritti accanto ai carri, l’Aurora
bel trono aspettavano » (Il. VIII, 555ss).
«
le Preghiere son figlie del gran Zeus; zoppe, rugose, losche d’entrambi gli
occhi, esse s’affannano a correre dietro alla Colpa. E la Colpa è gagliarda
e lesta di piedi; tutte le lascia indietro, di molto; e avanti per tutta la
terra va, danneggiando gli umani; quelle, dietro, riparano. Chi le figlie di
Zeus rispetta, che vengon vicino, dànno a costui molto bene, l’ascoltano se
prega; chi nega invece e duramente rifiuta, vanno esse, allora, e pregano Zeus
Cronide che la Colpa l’insegua, paghi il fio con suo danno » (Il. IX,
502ss).
«
Come quando scende alla piana un fiume gonfio, un torrente dai monti, le
piogge di Zeus lo accompagnano, e molte aride querce e molti pini trascina, e
getta molto fango nel mare, così travolgendo incalzava il nobile Aiace per la
pianura » (Il. XI, 492ss).
«
trassero rapidi il carro veloce tra i Teucri e gli Achei, montando sui corpi e
gli scudi; e l’asse di sangue è tutto insozzato di sotto, e la ringhiera
del carro, che colpiscono schizzi dagli zoccoli equini e dai cerchioni » (Il.
XI, 533ss).
«
Come fulvo leone da un chiuso di bovi scacciano i cani e gli uomini dei campi,
non gli lascian rapire il grasso pingue dei bovi, tutta notte vegliando;
quello bramoso di carne, assalta, ma non può far nulla: dardi folti gli
cadono addosso, lanciati da intrepide mani, e fiaccole ardenti, che teme, per
quanto furioso; e all’alba s’allontana col cuore avvilito » (Il. XI,
548ss).
«
come un asino, quando allorlo del campo resiste ai fanciulli, testardo, e
molti bastoni sopra di lui son spezzati, ma esso entra a mietere il grano
folto; i fanciulli lo battono coi bastoni, ma la forza è bambina, e a stento
lo spingono fuori, quando è sazio di grano; così il grande Aiace di Telamone
allora insieme Troiano superbi e alleati famosi continuamente inseguivano »
(Il. XI, 558ss).
«
come le falde di neve cadono fitte in un giorno d’inverno, che il saggio
Zeus si leva a nevicare, e agli uomini mostra quali son le sue armi; i venti
addormenta, e versa e versa, fino che copre le cime dei monti alti e i picchi
elevati e le pianure erbose e i grassi arati degli uomini; perfino in riva del
mare canuto cadon le falde, sui golfi e le punte, e l’onda dove lambisce le
ferma; ma tutto il resto è coperto e nascosto, quando s’abbatte la tormenta
di Zeus – fitte così volavano
di qua e di là le pietre » (Il. XII, 278ss).
«
se adesso presso le navi fossimo scelti, tutti i migliori, per un agguato, in
cui davvero si vede il valore degli uomini,
– qui è manifesto l’uomo
vile e il gagliardo, perché il colore del vile si cambia in cento maniere, il
cuore non sa tenerlo a sedere senza tremito, ma si rannicchia e siede or su un
piede or sull’altro, e il cuore, dentro, fortissimo palpita pensando alla
morte, gli battono i denti: ma il colore del bravo non cambia, né troppo si
turba al momento che si accovaccia in agguato, brama gettarsi al più presto
nella strage sinistra » (Il. XIII, 276ss).
«
Come quando si slancia la mente d’un uomo, che molta terra percorse, e pensa
nei suoi pensieri sottili “ qui sono stato e qui! ” e molte cose ricorda,
così velocemente volò bramosa Era augusta » (Il. XV, 80ss).
«
come quando l’onda su rapida nave s’abbatte violenta, nutrita di vento
sotto le nuvole: tutta la nave scompare sotto la schiuma; il soffio tremendo
del vento mugola nella vela, tremano in cuore atterriti i marinai, ché per
poco non sono travolti da morte. Così si spezzava il cuore agli Achei » (Il.
XV, 624ss).
«
Apollo davanti con l’egida venerata abbatté il muro degli Achei senza
fatica, come un bimbo la sabbia sulla riva del mare, che dopo aver costruito i
suoi giochi infantili, di nuovo coi piedi e le mani rovescia tutto giocando »
(Il. XV, 360ss).
«
come una bimba piccina, che dietro la madre correndo, la forza a prenderla in
braccio, le afferra la veste, la tira mentre cammina, la guarda piangendo per
essere presa in braccio? Simile a questa, Patroclo, spandi tenere lacrime »
(Il. XVI, 7ss).
«
come le vespe dei sentieri, che i fanciulli abitualmente tormentano
stuzzicandole, esse lungo il sentiero hanno il nido. Sciocchi! Preparano un
male a tutti comune, perché se dopo, passando vicino, un viandante senza
volere le scuote, quelle con animo forte gli volano tutte addosso, per
difendere i figli. Simile cuore ed animo avendo, i Mirmidoni si riversarono
dalle navi » (Il. XVI, 259ss).
«
Come quando dall’alta vetta d’una grande montagna Zeus adunatore di
folgori scosta una nuvola spessa, e appaiono tutte le cime, i picchi alti, e
le valli, ché s’è squarciato l’etere immenso in cielo; così i Danai,
allontanato il fuoco divoratore delle navi respiravano un poco » (Il. XVI,
297ss).
«
E come dalla tempesta tutta la terra nera è gravata in un giorno d’autunno,
in cui pioggia violenta rovescia Zeus, se adirato con gli umani imperversa
perché con prepotenza contorte sentenze sentenziano, e scacciano la
giustizia, non curano l’occhio dei numi; ed ecco i loro fiumi si riempiono
tutti, scorrendo, e molte pendici i torrenti dilavano, gemono forte, correndo
verso il livido mare a capofitto dai monti; devastano le fatiche degli uomini;
così le cavalle troiane gemevano forte correndo » (Il. XVI, 384ss).
«
Come Euro e Noto gareggiano fra loro tra le gole del monte a squassare una
selva profonda, quercia e faggio e corniolo larga corteccia, ed essi fra loro
scagliano i lunghi rami con stormire infinito, schioccano i rami infranti,
così correndosi addosso Achei e Troiani si uccidevano » (Il. XVI, 765ss).
Un
tentativo di valutazione della poesia omerica.
Nell’VIII secolo il
villanoviano egualitario entra
in contatto con le stimolazioni che provengono dai principi Rasenna della
costa siriana. Nasce allora la fase eroica del popolo etrusco che elaborò le
saghe eroiche o frammenti di queste saghe (Argonauti, guerra di Troia) poi
organizzate e messe in poesia da Omero. Si può dire con M. Pallottino che
alla sfera intellettuale etrusca era « estranea ogni speculazione concettuale
del tipo che si era andato affermando in Grecia, come pure ogni sensibilità
etica ed ogni disposizione del gusto se non in funzione di una costante
praticità legata ai perentori dettami di una legge superiore tramandata e
scritta, la cosiddetta Etrusca disciplina, nonché alle esigenze
concrete della vita. Per ciò noi vediamo apparire gli Etruschi, soprattutto
agli inizi della loro storia, come un popolo attivo e industrioso che sfrutta
al massimo i suoi beni naturali… crea città popolosissime… opera
esuberantemente sui mari » (Gli Etruschi, CDE spa, Milano, 1998, p. 21), e
con F. Codino « che tutta l’esistenza
di questi uomini coincide esattamente con la loro attività sociale o “
professionale ” (cioè con l’attività economica – sia la guerra o l’agricoltura
– che prima che si affermi la divisione sociale del lavoro è un compito
uguale per tutti). Gli eroi dei poemi formano ancora una società di liberi e
di uguali: siamo già al punto della rottura, esistono forti differenze di
ricchezze e di prestigio, ma ciascuno può superare queste differenze a
proprio vantaggio senza osservare convenzioni giuridiche o principi morali
superiori. Achille è umiliato da Agamennone, ma può resistere senza dover
temere o invocare un’autorità superiore o esterna. Odisseo ha conti da
regolare con i pretendenti, ma, purchè gli bastino l’intelligenza e la
forza, potrà ancora sconfiggerli senza l’aiuto d’intermediari (leggi e
poteri pubblici). L’unica legge è quella della timè: possesso
materiale ottenuto col merito personale, col successo pratico, e accompagnato
dal prestigio sociale. Tutte le definizioni di caratteri… si riferiscono
alla forza coraggiosa e intelligente, che è l’unica virtù umana
riconosciuta, e dunque sono tutte qualifiche “ professionali ”. Di quest’unica
virtù, definita in tutta la sua estensione dal termine aretè (che
indica il successo, il buon esito, in qualsiasi campo di attività pratica),
posseduta in misura maggiore o minore, è fatta la personalità degli eroi.
Inutilmente si cercherebbero in queste figure le manifestazioni di una
patologia etico-psicologica derivante dalla contrapposizione dell’individuo
a quadri sociali fissi e differenziati » (Introduzione a Omero, pp. 140-141).
Nella poesia di questo periodo di transizione
gli uomini vivono in un limbo in cui la società primitiva non è più
e quella più civile che la sostituisce non è ancora strutturata rigidamente,
« ogni loro azione si giustifica da sola, trae il suo valore unicamente dall’esito
immediato, non viene rapportata ad alcuna norma superiore, ma è semplicemente
descritta in assoluta presenza locale e temporale, senza sottintesi
significati etici » (Codino, p. 191). Come dice Goethe « I personaggi più
adatti », per l’epica e la tragedia, « sono quelli che non hanno superato
quel certo grado di cultura in cui la spontaneità dell’agire si affida
unicamente a se stessa, ed in cui l’uomo non agisce ancora in senso morale,
politico e meccanico, ma in senso individuale. Le tradizioni greche [o
piuttosto etrusche e veterotestamentarie, il corsivo è mio] dell’età
eroica furono, in questo senso, particolarmente favorevoli ai poeti ». Dunque
le favole (che sono anche favole siro-cipriote, orientali in genere) sono già
bell’e pronte nel villanoviano e Omero, cui la madre le ha raccontate mille
volte da bambino, le mette in poesia nell’orientalizzante. Non può
cambiarle, se non limitatamente, e dunque mantengono il loro sapore primitivo
pur essendo calate nell’orizzonte straordinariamente
raffinato di Tarquinia e Roma di VII secolo.
Omero
l’etrusco è il primo scrittore occidentale, cioè con lui per la prima
volta la scrittura, d’origine fenicia, viene impiegata per scrivere e per
scrivere poemi immortali che bene
o male hanno costituito e costituiscono le fondamenta
della cultura e della civiltà dell’occidente, e sappiamo bene quanto
la civiltà occidentale sia debitrice degli Etruschi, che mangiavano tre volte
al giorno, seduti a tavola, introdussero
l’uso del cognome, si lavavano e cambiavano spesso di vesti, amavano
i divertimenti e l’arte (la produzione vascolare greca, quella migliore, si
trova in Etruria e nei musei etruschi di tutto il mondo), trattavano con le donne da pari a pari, viaggiavano per i
mari lontani e per le terre oltre lo Stretto di Gibilterra in concorrenza coi
loro cugini Fenici.
Dopo
Omero Roma si dedicò esclusivamente alle guerre e ebbe poco tempo da dedicare
allo svago (comunque « si legge nelle « Origini » di Catone che i convitati
solevano nei banchetti cantare accompagnati dal flauto le virtù degli uomini
illustri » Cicerone, Tusc. I, 2), ma il gusto popolare rimase legato al
genere introdotto dall’Iliade, e cioè alla commedia e alla tragicommedia.
Roma, diventata agricola in reazione ai re etruschi amanti del mare, fu anche
di gusti assai semplici, com’è tipico delle genti contadine. Quando Roma,
venuta a contatto, attraverso la guerra, con la Magna Grecia, riscoprì la
letteratura greca, e Livio
Andronico (III sec. a. C.) tradusse in verso saturnio l’Odissea, il genere
che ebbe fortuna fu ancora la commedia. Ancor più è significativa la prosa
– in greco! – degli annalisti anteriori a Catone: « L’uso della lingua
greca, che veniva ritenuta la lingua della cultura diffusa nel bacino del
Mediterraneo (il latino rimaneva circoscritto – dice Cicerone – suis
finibus, exiguis sane), ci mostra uno dei fini dell’annalistica: quello
di diffondere le idee di Roma, e, soprattutto, di giustificare la sua politica
espansionistica dopo la seconda guerra punica. In ciò l’annalistica
replicava alle tendenze di una storiografia filocartaginese, in cui si
distinse Filino di Agrigento (III sec. a. C.). A quest’opera, ispirata
soprattutto a criteri di pubblica utilità, si accinsero personaggi per lo
più assai in vista della vita
politica romana, senatori e magistrati, in gran parte personaggi di rilievo
anche nelle vicende che andavano narrando. Tipico dell’annalistica doveva
essere il tono (quasi epico) di esaltazione, il gusto del meraviglioso e del
favoloso… » (Armando Salvatore e Antonio Salvatore, Storia della
letteratura latina, Loffredo Ed. Napoli, 1973, p. 66). Abbiamo visto e vedremo
nel corso della storia etrusco-romana dall’VIII al III sec. a. C. un
orientarsi della politica in senso filogreco con deviazioni in senso
filopunico a seconda delle convenienze commerciali dell’Etruria e di Roma,
cui non importava tanto farsi grandi con una storiografia o un’epica
celebrative, quanto sfruttare queste a fini puramente politici ed economici…
il senso pratico dei Romani, ma anche degli Etruschi. E l’iconografia del
povero Omero cieco che gira per le corti greche in cerca di un frusto di pane
come il suo conterraneo, l’esule Dante di due millenni posteriore (e
altrettanto più antico di idee), non potrebbe essere più lontana dalla
realtà.
Appendice
1
– Quando gli dèi erano amici degli uomini.
Nei poemi omerici è presente sia il tremendum
(« Febo Apollo… aveva l’egida
ardente, tremenda, sfrangiata, radiosa, che il fabbro Efesto diede
da portare a terrore degli uomini » Il. XV, 307ss), cioè il
terrore dei fenomeni attribuiti alla divinità, sia
il fascinosum (« davanti Pallade Atena, una lucerna d’oro
tenendo, bellissimo lume faceva. E stupito Telemaco parlò… “ O padre,
prodigio grande vedo cogli occhi! Davvero i muri e i begli architravi di casa,
e le traverse d’abete e le colonne eccelse splendono agli occhi come se
ardesse il fuoco: qui certo c’è un dio, di quelli che il vasto cielo
possiedono ” » Od. XIX, 33ss), la meraviglia dei fenomeni attribuiti
alla divinità, che insieme compongono il numinoso, la manifestazione
del dominio della divinità. Perché sorga una religione dovrebbe essere
necessaria anche la ribellione al concetto di morte, destino di tutti i
mortali, e dunque la teorizzazione della resurrezione o, formulato in termini
più corretti, dell’immortalità dell’anima (risorge ciò che non era,
mentre sparendo il corpo l’anima continua a vivere, nella sua dimensione di
anima libera dai condizionamenti corporali; sia ben chiaro che non esprimo il
mio parere ma delucido il pensiero di chi ci crede); e ancora magari l’idea
della punizione dei malvagi e del premio per i buoni, dalla qual cosa si
arguirebbe che la condizione corporale è di passaggio verso quella eterna
spirituale e fatta apposta per valutare e premiare o punire gli uomini; e
ancora la sessualità e la prolificità come benedizione divina (“ crescete
e moltiplicatevi ”). La religione ebraica veterotestamentaria e quella (non
in cui crede, perché Omero è ateo) messa in poesia proprio perché poetica
di Omero fanno eccezione a ciò che ci attenderemmo. Giobbe (e tanti altri con
lui) è succube della divinità ma non crede nell’immortalità dell’anima,
crede invece nella prolificità perché dopo che Dio ha permesso a Satana che
perdesse tutto, beni e figli, gli ridona altrettanti beni (rimpiazzabili) e
figli (non rimpiazzabili). Omero è rappresentato bene da
Odisseo, che non è succube della divinità, diffida di tutti, anche
della sua dea personale Atena, ed è pronto ad ingannare tutti, perfino sua
moglie Penelope, se necessario. Confida solo in se stesso, nella sua ragione e
nella sua astuzia. Non crede nell’immortalità dell’anima e nemmeno gli
interessa. Non si può certo definire anima l’ombra di Anticlea che appare
ad Odisseo sollecitata da una nekyia o
quella di Patroclo che appare ad Achille in sogno. Lo stesso Achille
preferirebbe essere l’ultimo dei mortali piuttosto che il primo nell’Ade.
Rifiuta il dono dell’immortalità offertogli da Calipso, per cui i semiti
darebbero un occhio e pure tutti e due dal tempo di Gilgameš. Chi non cerca l’immortalità
non può credere in Dio né ha bisogno di credere in Dio. Possiede tutto in se
stesso. Prolificità? Odisseo non vi aspira più di quanto non aspiri all’immortalità.
Da sempre in famiglia sono figli unici. Premio e punizione? Questo concetto lo
esprime magnificamente Penelope:
« Gli umani han vita breve. Ora chi è senza cuore e senza cuore si
mostra, tutti gli auguran dietro del male i mortali da vivo, e morto lo
disprezzano tutti; chi, invece, ha cuore nobile e cuore nobile mostra, di lui
larga fama gli ospiti portano intorno fra tutti gli uomini, e molti lo
dichiarano buono. » (Od. XIX, 328ss) Si tratta di un uomo buono laico che viene
premiato non in una vita di là dove nessuno può controllare, ma in questa
vita dove una cattiva fama da morto potrà anche non costare nulla al defunto
ma certo ai suoi figli, alla sua famiglia, alla sua città, e dunque
attraverso questo giudizio laico si viene ad influire sulle persone
indirizzandole al bene e distogliendole dal male, molto più sicuramente ed
efficacemente di un giudizio ipotetico demandato ad un al di là dove nessuno
ha mai avuto la fortuna di andare e tornare a riferircene. L’etrusco Omero,
non c’è dubbio alcuno, è il primo uomo occidentale e, purtroppo, per lungo
tempo anche l’unico.
L’unica
realtà che Omero concede agli
dèi è quella della favola. Essi sono estremamente poetici (sia nella
tradizione ebraica dell’unico dio, sia in quella semitica, politeistica, in
generale, confluite nella cultura etrusca). Sono i
protagonisti ideali delle favole. Tutto nasce dal fatto che il re
feacio (di Tarquinia o prima ancora di Hypereia, ‘regione alta’, alta
Siria) o, che è lo stesso, della casta dei giganti guerrieri, è figlio degli
dèi (cf. Genesi 6, 1-7; Baruc 3, 26-28; Od. VI, 3-10, VII,56-60, 201-206),
che vivono costantemente accanto a lui, un poco dietro, un poco al di sopra,
proteggendolo. Esemplare di questa concezione della regalità d’origine
divina e benedetta dagli dèi e perciò abbracciante (nella stessa
disposizione del fabbricato intorno ad una grande corte quadrata centrale)
ogni aspetto della vita e della morte della collettività è il palazzo di
Murlo (Siena), di ascendenze siriane, risalente alla metà del VII secolo,
dalla cui sommità le statue acroteriali degli antenati sorvegliano benevole l’operato
dei re loro discendenti. Come emerge dalle decorazioni fittili a rilievo dei
lati dei portici, un posto centrale nella vita di corte occupano il banchetto
pubblico (che serve a suggellare alleanze, trattati, matrimoni, a consolidare
l’immagine del re di fronte al suo popolo), e il matrimonio, altro simbolo,
ancora più forte del banchetto pubblico, di tali rapporti. Odisseo non
sposerà Nausicaa perché a Itaca lo aspetta la fedele Penelope che deve
liberare dai Proci ma, come si dice, quel che conta è il pensiero e Alcinoo
mostra di voler stringere con Odisseo un legame strettissimo com’è quello
matrimoniale, un legame di sangue, il che, esteso alle nazioni etrusca e greca
da essi rappresentate, esprime l’opinione che Etruschi e Greci possono
considerarsi la stessa nazione: « Oh se –
Zeus padre e Atena e Apollo! – bello come tu sei, unanime con me nei
pensieri, la figlia mia avessi e ti chiamassi mio genero, restando qui! Io ti
darei casa e beni, se ti piacesse restare » (Od. VII, 311ss).
Ritorniamo
adesso al banchetto, che è anche epifania del re defunto divinizzato e dunque
diventato vero e proprio dio. I Feaci vivono in mezzo e fra gli dèi: «
sempre, infatti, gli dèi ci si mostran visibili, quando per loro facciamo
elette ecatombi, banchettano in mezzo a noi, sedendo dove noi siamo; e se un
viandante, anche solo, li incontra, non si nascondono, perché siamo prossimi
a loro, come i Ciclopi e le selvagge tribù dei Giganti » (Od. VII, 201ss), e
sono essi stessi divini: « Ma appena t’avranno accolto casa e cortile,
traversa subito la grande sala e avvicinati alla madre: al focolare lei siede,
nella luce del fuoco, girando il fuso purpureo, meraviglia a vederla, a una
colonna appoggiata: dietro le ancelle siedono. Qui, accanto a lei, s’appoggia
il trono del padre, che beve il vino, seduto, e pare un nume immortale » (Od.
VI, 303ss). Nel più antico fra i bacini lustrali rituali scoperti a
Mardikh-Ebla (alta Siria), nell’area
del Tempio BI (dedicato a Reshef, il dio della morte, della pestilenza e della
guerra) della necropoli reale della città paleosiriana: « Il banchetto è
rappresentato già in questo esemplare arcaico di bacino secondo uno schema
classico nel quale il sovrano, che cinge una tipica tiara a calotta con una
prominenza frontale in cui si devono riconoscere forse le terminazioni delle
corna della corona divina, siede levando una coppa davanti ad una
caratteristica tavola offertoria a supporto centrale ed estremità arcuate a
zampe taurine colma di pani azimi » (P. Mattiae, Ebla, un impero ritrovato,
Einaudi, 1977 e 1989, p. 190). Cerimonie comunitarie incentrate sul banchetto
sacro « sono note per il culto… dei rapi’uma, gli antenati regali
divinizzati della città, che nella più tarda tradizione dei libri biblici
divengono i rephaim, mitici giganti abitatori della Palestina
antichissima e ombre dei defunti vaganti nell’aldilà, secondo una tipica
alterazione semantica dello stesso termine provocata dalla nuova situazione
sociale, religiosa e ideologica della Palestina israelitica…
i rapi’uma… avevano
la funzione di assicurare la protezione degli antenati regali ed eroici alla
comunità cittadina e al sovrano legittimamente regnante. Era, infatti, solo
in questa stretta relazione cultuale tra la società dei vivi e la comunità
dei morti che, nell’ideologia della regalità urbana paleosiriana, era
garantita, attraverso la memoria e il recupero della tradizione nel culto
funerario dei gloriosi antenati regali, la prosperità e la sicurezza della
città… e, più in generale, per gli eroi divinizzati accolti nelle liste
dinastiche dei re defunti da alcuni testi rituali ugaritici del Periodo
Mediosiriano, secondo una tradizione religiosa che, pur se pienamente
documentata in Siria solo nel XIII secolo a. C., risale certamente al Periodo
Paleosiriano ed era seguita anche in tutta la Mesopotamia nell’ambiente
amorreo paleobabilonese da Mari a Babilonia ad Assur » (P. Mattiae, op. cit.
pp. 185-186). Non è chi non veda
in tutto ciò l’anticipazione di millenni dell’Ultima Cena e dell’Eucarestia,
che è l’epifania di Cristo nel banchetto sacro col pane e col vino. E
poiché le tradizioni alto-siriane sono state portate fin nella lontana
Irlanda dal movimento degli Hyksos, Pelasgi (nel senso di Palestinesi) e
Celti (cioè indeuropei; vedi su questo sito: La vera storia di
Romolo), appare oggi difficile se non impossibile stabilire quanto della
leggenda del celta Artù e del Graal appartenga ad era precristiana o
cristiana, ma ad esempio la spada
nella roccia dello stesso mito ha lontane origini hurrite
ed ittite (e una eco nella legittimazione alla regalità dello stesso
Teseo d’Atene, vedi Apollodoro).
Poiché gli eroi sono figli degli dèi e dèi essi stessi, trattano con
gli dèi da pari a pari, li sposano, ne vengono sposati, nei casi estremi li
vincono a duello (ferendoli al massimo) o da questi vengono uccisi quando
suona l’ora decretata dal destino, destino che è per lo più nelle mani
degli uomini che spesso per i loro errori muoiono prima del tempo che sarebbe
stabilito dalla natura stessa dell’uomo, che è mortale. Si ha la netta
impressione che gli dèi in Omero si prendano tutte le colpe degli errori degli uomini, che al
contrario si prendono tutto il merito delle cose giuste che fanno. Si può
affermare che gli dèi rappresentino realtà e fenomeni naturali (dai monti ai
mari, dagli astri all’arcobaleno) e
fisiologici dell’uomo, compresa l’ira incontrollabile da cui dipendono
tanti errori. Gli eroi sono quasi sempre seri, gli dèi quasi sempre comici.
Scherza coi santi e lascia stare i fanti, sembra dire Omero, al contrario dei
moderni. Ma se non si temono gli dèi e ci si può ridere sopra, ecco che essi
finiscono col diventare simpatici. Uno non ci crede lo stesso, ma almeno può
vivere in pace con essi senza dissidi. Certo Omero si distacca dall’interpretazione
ebraica dove Dio scruta l’uomo che si sente spiato e controllato dall’’occhio
di Dio’ che guarda perfino nelle profondità sua anima e dei suoi pensieri.
A quale scopo, dato che l’uomo è mortale e peccatore per definizione e
dunque imperfetto, imperfettissimo di fronte alla perfezione di Dio. Quando l’uomo
sarà morto, più presto che non si dica, Dio rimarrà di nuovo solo con la
sua perfezione, e a cosa gli sarà valso aver perseguitato la sua creatura?
Questa è la domanda irrisolta cui il libro di Giobbe non da alcuna risposta.
Omero, pur di origini orientali, è egli stesso
un occidentale cui
dobbiamo la nostra identità. Gli orientali agognano l’immortalità ma non
godono neppure quei pochi anni di vita mortale, schiacciati dall’unico
essere immortale, Dio, che ne violenta – senza alcuno scopo apparente (detto
meglio: il semita si tormenta da se stesso senza scopo) – l’anima come il
turbine i granelli di sabbia del deserto, come i despoti orientali
i loro sudditi; l’occidentale accetta il suo stato mortale, e dalla
sua rassegnazione deriva la sua forza per agire, lui, da solo, con o senza l’aiuto
di un santo protettore. L’aver preso la civiltà occidentale fin dagli inizi
un indirizzo ebraico della concezione della vita (con Esiodo, con gli omeridi
argolico e pisistratide, che hanno rivalutato la divinità nei poemi:
« Zeus padre, sì, che esistono gli dèi sull’eccelso Olimpo, se veramente
i principi la folle violenza pagarono! » Od. XXIV, 351-352) ignorando quello
omerico è costato parecchio all’umanità:
tutto il Medioevo, il sonno della ragione che genera mostri.
L’uomo
omerico, anzi il re (anche Giobbe era un re-giudice) vive in simbiosi, in
pace, col dio padre e protettore. L’Odissea più dell’Ira d’Achille è
il poema della regalità, che ha la sua apoteosi nell’elogio fatto alla
regina Arete e nelle parole con cui Odisseo elogia la regina Penelope «
fama di te sale al vasto cielo come d’un re perfetto, che, pio verso i numi,
su numeroso popolo e fiero tenendo lo scettro, alla giustizia è fedele: porta
la terra nera grano e orzo, piegano gli alberi al peso dei frutti, figliano
senza sosta le greggi, il mare offre pesci, per il suo buon governo: prospera
il popolo sotto di lui » (Od. XIX, 108ss).
Gli
dèi omerici, dal più grande Zeus al più piccolo spiritello, secondo una
concezione animistica che vede un principio apposito dietro ad ogni
manifestazione del reale, vivono in un mondo parallelo strettamente vicino a
quello umano e ne possono uscire allo scoperto con gli
eroi che lo meritano per il loro valore o perché sono di ascendenza
celtica come Achille (che vede
Atena: « gli stette dietro, per la chioma bionda prese il Pelide, a lui
solo visibile… » Il. I, 197ss) e Odisseo, che per di più è un
reincarnato (« Telemaco non la vide [Atena],
« non poté scorgerla, perché non a tutti si mostrano chiaramente gli dèi.
Odisseo, sì, la vide, e i cani, e non abbaiavano, ma uggiolando fuggirono
dall’altra parte del chiuso » (Od. XVI, 160ss), o con la casta
dominante dei Feaci, che sono
imparentati coi Giganti siriani e con gli dèi.
Gli dèi hanno il dono dell’invisibilità e possono nascondere dentro
la nebbia druidica le loro navi (le navi dei Feaci, che « l’abisso del
mare velocissime passano, di nebbia e nube fasciate » Od. VIII, 561-562)
o gli eroi da essi protetti, come fa Atena con Odisseo: « Attraversò la
sala il costante Odisseo luminoso, con tutta la nebbia che gli versò intorno
Atena, finché giunse ad Arète e ad Alcìnoo sovrano; alle ginocchia d’Arète
gettò le braccia Odisseo, e solo allora la prodigiosa nebbia si sciolse »
(Od. VII, 139ss). Poseidone versa nebbia sugli occhi ad Achille affinché
non veda e non uccida Enea, poi « sciolse dagli occhi d’Achille la
nebbia, prodigiosa; e quello tornò a vederci bene con gli occhi » Il. XX,
341-342), e così via. O fanno
scendere su di loro il buio: « già c’era luce sulla terra, ma Atena di
notte coprendoli, rapidamente fuori città li guidava » Od. XXIII, 372).
I signori del buio sono anche i signori della luce. Gli dèi si manifestano
ancora attraverso prodigi, tuoni, fulmini, stelle cadenti, una luce
soprannaturale, il melammu o xvarena o aura orientali, il terribile fulgore
soprannaturale che emana dalla divinità e dal re. Così in Od. XIX, 33ss già
esaminato a proposito del fascinosum. Quando gli dèi si rendono
invisibili si possono ancora riconoscere da uno spiffero d’aria perché essi
volano veloci e provocano un “ soffio di vento ” (Atena « mosse verso
la stanza ornata, in cui una fanciulla dormiva, alle immortali simile per
aspetto e bellezza, Nausicàa, la figlia del magnanimo Alcìnoo; e vicino due
ancelle, che delle Càriti avevan bellezza, di qua e di là dagli stipiti; le
porte splendenti eran chiuse. Come un soffio di vento balzò al letto della
fanciulla, le stette sopra la testa e le disse parola, sembrando la figlia di
Dìmante, nocchiero famoso, che le era coetanea e molto cara al cuore » Od.
VI, 15ss) o volano “ insieme col soffio del vento ” (« non fu
sordo il messaggero Argheifonte. Subito sotto i piedi legò i sandali belli,
ambrosii, d’oro, che lo portavan sul mare e sulla terra infinita, insieme
col soffio del vento » Od. V, 43ss). Iri
poi è detta “ piede di vento ” (e quando si tuffa nel mare per portare
messaggi agli dèi marini, questo geme, a causa della velocità, Il. XXIV,
79), “ piede di turbine ”, “ ala d’oro ”. Se gli dèi omerici si
potessero vedere tutti insieme, il mondo che ci circonda apparirebbe come un
palpitare di presenze, come un sottobosco formicolante di esseri tutti pronti
a venire in aiuto dei mortali. Odisseo
nel ritorno da Troia ed esattamente nel primo anno (il secondo è stato da
Circe ed, eccetto pochi altri episodi circoscrivibili a pochi giorni, è stato
ben otto anni presso Calipso) ha accecato l’unico occhio di Polifemo,
ragione per cui suo padre Poseidone lo perseguita;
in realtà Odisseo è stato punito perché è stato un cinico pirata,
distruggendo città e depredandole di tesori e donne da rendere schiave, ma
poco alla volta passando attraverso l’inferno di Circe, il purgatorio di
Calipso (qui meditando a lungo sulle sue malefatte comincia a lavorare
onestamente per la prima volta in vita sua costruendo la zattera con cui parte
da Ogigia) il paradiso di Arete, dove come Giobbe viene premiato ottenendo il
doppio delle ricchezze che aveva perduto (e conquistato disonestamente) e dove
si purifica fino a potersi reincarnare a Itaca dopve potrà salvare
moglie e figlio dalle mani dei malvagi Proci. Come nelle favole
troviamo ì Orchi (Polifemo) e Mostri marini (Scilla e Cariddi, Sirene), Fate
buone (Ino Leucotea, ma anche Calipso, la signora del purgatorio luogo di
purificazione), Maghi buoni (Ermete) e Maghe cattive (Circe, che però è
affine a Calipso nella sua
funzione di signora di un luogo di purificazione a regime più duro del
purgatorio, una specie di inferno), Folletti buoni dell’aria (Iri ‘ala d’oro’)
e Arpie dei venti cattivi. I Maghi e le Maghe hanno le loro inseparabili
bacchette magiche e le pozioni con cui compiono i loro sortilegi (rendono ad
esempio vecchi o giovani, ricchi o mendichi gli uomini, come fa Atena con
Odisseo) o li rendono inefficaci (con l’erba moly di Ermete). Gli dèi sono
capaci, come Circe, di ammansire come cagnolini lupi montani e orsi (Od. X,
210ss), oltre che trasformare gli uomini in porci. Soprattutto incantano gli
esseri umani (Atena e Zeus i Proci, non appena Telemaco e Odisseo prenderanno
le uniche armi lasciate nel salone, Od. XVI, 295ss, Apollo, agitando l’egida,
gli Achei, mentre i Troiani attaccano le navi, Il. XV, 320ss, 592ss, e per
conseguenza gli occhi degli Achei sono appannati da una « nuvola oscura
prodigiosa » Il. XV, 668-669). L’esempio migliore di incantamento è
dato in Il. XIII, 434ss: « questo [Alcàtoo] allora domò Poseidone per
mano d’Idomeneo, gli incantò gli occhi lucenti, le belle membra inceppò.
Non poté più fuggire, non poté più scansarsi, ma come pilastro o albero
alta fronda, immoto, lo colse nel petto con l’asta l’intrepido eroe
Idomeneo ». L’arte di incantare o affascinare o ipnotizzare è tipica
dei druidi e in particolare dei vati o eubagi, che compongono e recitano o
cantano satire (maledizioni), ed è stata impiegata anche dagli
Etruschi, che in parte derivano la civiltà dall’ambito
celto-germanico. Svetonio Paolino, che guidò l’assalto all’isola di Mona
(Anglesey), riporta che « Stava sulla spiaggia la schiera dei nemici, densa
di uomini e di armi, percorsa da donne, coperte di nere vesti al modo delle
Furie e che, sparse le chiome, agitavano delle fiaccole; intorno stavano i
Druidi, che, levate al cielo le mani, lanciavano preghiere e maledizioni
contro di noi e con lo strano loro aspetto colpirono i soldati al punto che
questi, in un primo tempo, col corpo paralizzato
si esponevano alle ferite, come avessero tutte le membra legate. Poi,
scossi dagli incitamenti dei capi e facendo stimolo a se stessi, per non dare
spettacolo di paura dinanzi a una massa di donne e d’invasati, si lanciarono
contro di loro, li abbatterono e li travolsero nelle loro stesse fiamme »
(Tacito, Annali XIV, 29). Molto tempo prima l’esercito guidato da
Marco Fabio Ambusto fu sbaragliato da Falisci e Tarquinesi: « Ne
nacque un immenso terrore, perché i sacerdoti di quei popoli portando innanzi
fiaccole accese e serpenti, e correndo a guisa di furie, scompigliarono con
quell’insolito spettacolo i soldati romani. E allora questi, come invasati e
sgomenti, si precipitarono in gran disordine nelle loro trincee; quindi,
poiché il console, i luogotenenti e i tribuni li deridevano e li
rimproveravano per quel puerile terrore ch’essi provavano davanti a vani
spauracchi, la vergogna mutò di botto il loro stato d’animo, ed essi si
gettarono come ciechi contro quegli stessi spauracchi davanti ai quali erano
fuggiti. Sgombrata così quella vana messa in scena dei nemici, piombarono in
mezzo agli armati, travolgendo l’intero esercito » (Livio, VII, 17). Gli
dèi amano assumere anche l’aspetto di uccelli, specie il cigno che è l’animale
divino dell’Altro Mondo e dunque l’animale di Elena e di sua cugina
Penelope. Ino Leucotea è
materializzata in una folaga, Atena nella
rondine o nell’aquila marina o nel falco, Apollo nel gabbiano o nel
nibbio, mentre gli uomini da morti si trasformano in squallidi pipistrelli che
volando attraverso le caverne giungono nella « dimora ampie porte dell’Ade
» dove vengono giudicati da Minosse. Come uccello è raffigurata in
Etruria l’anima del defunto che si può evocare (quelle nell’Ade da
Odisseo o quella del giudice Samuele dal re Saul), e dunque gli uccelli sono i
messaggeri degli dèi e i loro messaggi sono interpretati dagli auguri come
Calcante (oionopòlos, Il. I, 69). L’Ade omerico ha l’aspetto dello Sceol
ebraico, « la terra delle tenebre e dell’ombra, terra di caligine e di
disordine, dove la luce è come le tenebre » (Giobbe, 10, 21-22). « Tese
le braccia, parlando così, ma non l’afferrò: l’anima come fumo sotto la
terra sparì stridendo; saltò su Achille, stupito, batté le mani insieme e
disse mesta parola: “ Ah! C’è dunque, anche nella dimora dell’Ade, un’ombra,
un fantasma, ma dentro non c’è più la mente… ” » (Il. XXIII, 99ss). Merita
d’essere citato l’inizio del XXIV libro dell’Odissea anche se in
contesto non omerico, perché se non è tratto da Omero certo ne ha appreso
perfettamente la lezione: « Ma Ermete Cillenio chiamava le ombre dei
pretendenti; aveva in mano la verga bella d’oro, con cui gli occhi degli
uomini affascina, di quelli vuole e può svegliare chi dorme; le guidava
movendola, e quelle gli andavano dietro squittendo. Come le nottole nel cupo d’un
antro divino squittendo svolazzano, quando una cade dal grappolo appeso alla
roccia; poi si riattaccano una all’altra; così squittendo l’ombre
andavano insieme; le conduceva l’astuto Ermete per putridi sentieri.
Giunsero alle correnti d’Oceano e alla Rupe Bianca; e alle Porte del Sole e
tra il popolo dei Sogni arrivarono; e presto furono nel prato asfodelo, dove
abitan l’ombre, parvenze di morti ». Un altro aspetto del mondo
fiabesco omerico è quello della robotica, che dà vita alle cose, con quell’inventore
straordinario, una specie di Mago Merlino o di Leonardo da Vinci, che è il
fabbro siriano Efesto, cui si devono tutte le creazioni fantastiche nei poemi
omerici, dai cani immortali a guardia del palazzo, ai tedofori che illuminano
i banchetti di Alcinoo, alle sue navi
che « sanno da sole il pensiero e l’intendimento degli uomini », ai
tripodi per gli dèi e alle sue (di Efesto) ancelle semoventi e soprattutto
alla sua officina, dove comunque la sua manodopera di artista rimane
insostituibile: « e tornò verso i mantici: al
fuoco li rivoltò, li invitò a lavorare: e i mantici, tutti e venti,
soffiarono sulle fornaci, mandando fuori soffi gagliardi e variati a volte
buoni a servirlo con fretta, a volte il contrario, come Efesto voleva e
procedeva il lavoro; e poi pose sul piedistallo la grande incudine, afferrò
in mano un forte maglio, con l’altra afferrò le tanaglie » (il. XVIII,
468ss).
2
- Il galateo e lo spirito di carità e fratellanza propugnati dalla ricca
borghesia mercantile cerite.
I
poemi omerici evocano il medioevo cristiano dell’Europa nord-occidentale coi
suoi castelli e cavalieri (soprattutto l’Iliade), o dell’Europa centrale,
coi suoi liberi comuni e la ricca
borghesia mercantile (soprattutto l’Odissea). Ma l’orizzonte culturale in
cui si muovono i personaggi omerici è quello borghese anche nell’Iliade. E’
nel villanoviano ugualitario, l’età eroica della nazione etrusca, che sono
nate queste favole, che Omero ha fissato alla metà del VII sec. a. C. e che dunque hanno per sfondo un mondo assai simile a quello
feudale medioevale che del resto è documentato a Murlo alla metà del VII
sec. a. C. La borghesia mercantile vincente sia a Roma che a Tarquinia si
ispira ancora all’etichetta e ai costumi dell’età precedente dell’aristocrazia
terriera, per cui il paesaggio feudale che fa da sfondo ai poemi è puramente
decorativo, mentre la realtà in cui vivono i personaggi dei due poemi è
quella mercantile che avvicina Tarquinia e Roma alle città fenicie piuttosto
che a quelle della colonizzazione greca. Lo spirito che anima i due poemi,
anche l’Ira d’Achille, intesa primariamente a intensificare e promuovere
gli scambi mercantili col mondo ellenofono incentrati sul santuario-banca
tiberino, è quello della borghesia che, se nella
Roma guerriera mantiene un atteggiamento più austero
per tenere sotto controllo la plebe, a Tarquinia si mostra
orgogliosamente ricca e
godereccia attraverso le parole di Alcinoo (« sempre il festino c’è
caro, la cetra, la danza, vesti mutate, e bagni caldi, e l’amore » Od.
VIII, 248-249). Le buone relazioni mercantili e dunque l’elaborazione di
un codice di comportamento del buon mercante è essenziale. L’ospitalità è
alla base di qualsiasi proficua relazione mercantile (« alle tue ginocchia
veniamo supplici, se un dono ospitale ci dessi, o anche altrimenti ci
regalassi qualcosa; questo è norma per gli ospiti. Rispetta, ottimo, i numi;
siamo tuoi supplici. E Zeus è il vendicatore degli stranieri e dei supplici.
Zeus ospitale, che gli ospiti venerandi accompagna » (Od. IX, 266ss) « L’ospite,
infatti, ricorda per sempre l’ospitatore, che gli ha offerto buona amicizia
» (Od. XV, 54-55) « Io questo calice mio, bellissimo, ancora gli dono, d’oro,
perché ogni giorno di me ricordandosi, libi dentro la sala a Zeus e agli
altri dèi » (Od. VIII, 430ss; la
buona accoglienza che Odisseo ha ricevuto alla corte di Alcinoo è una buona
ragione per i ceriti di
attendersi un’affluenza notevole di scambi commerciali coi Greci intorno all’attuale
santuario pirgense di Ino Leucotea). Fra ospiti ci si scambiano i doni come
fra Mente re dei Tafi e Telemaco, anche se questo scambio cela un pagamento
dei diritti di passaggio attraverso le isole di Telemaco, all’andata e al
ritorno, da parte di Mente. Dunque lo scambio di doni viene rimandato a quando
Mente farà ritorno da Cipro avendovi venduto il ferro etrusco in cambio di
bronzo (Od. I, 316ss). Per inciso va detto che le isole Ionie fra cui Itaca
erano poste davanti al golfo di Corinto e abitate da pirati affini ai vicini
Tafi e Tesproti dell’Epiro e che taglieggiavano le navi corinzie all’andata
e al ritorno dall’occidente e dall’Etruria. Da qui l’idea, sorta a Omero
dalla celebrazione della classe dominante corinzia di Tarquinia, di collocare
Odisseo il pirata, figlio di Sisifo corinzio, a Itaca e nel suo regno delle
isole Ionie. Comunque va evitato
anche l’eccessivo attaccamento all’ospite (« Telemaco, certo non ti
terrò qui a lungo a sospirare il ritorno; biasimerei anzi un altro, il quale,
ospitando, esagerasse in calore o esagerasse in freddezza: l’equilibrio val
meglio. Pecca ugualmente chi all’ospite, che non vuole partire, fa fretta, e
chi, mentre già parte, lo ferma. Ma aspetta, che i doni belli portando, li
metta sul carro, e tu con gli occhi li veda; e dica alle donne di preparare il
pranzo in sala, con l’abbondanza che c’è » (Od. XV, 68ss).
Ma dalla necessità delle buone maniere nei rapporti fra mercanti (che
poi sono marinai e dunque qui si parla soprattutto della solidarietà della
gente di mare) e fra mercanti e popolazioni indigene si
sviluppa anche un sentimento diffuso di fratellanza (più di una
semplice carità, dunque) nei confronti dello straniero e del prossimo in
generale che si trovi in difficoltà, anche temporanea,
senza alcuna discriminazione di razza, di cultura, di credo, di ceto
sociale. Il soccorso, a seconda delle possibilità immediate, e
successivamente man mano sia possibile estenderlo, consiste nel lavare e
ungere d’olio profumanto il
bisognoso, nel vestirlo, nel
dargli da mangiare e da bere, nell’accompagnarlo dove è diretto: « “
…Ma questi è un misero
naufrago, che c’è capitato, e dobbiamo curarcene: vengon tutti da Zeus gli
ospiti e i poveri; e un dono, anche piccolo, è caro. Via, date all’ospite,
ancelle, da mangiare e da bere, e nel fiume lavatelo… ” …Come fu tutto
lavato, unto d’olio abbondante, vestì le vesti che gli donò la giovane
vergine… “ …Su, date all’ospite, ancelle, da mangiare e da bere ” »
(Od. VI, 206ss); successivamente Nausicaa indica a Odisseo
la via per il palazzo
reale affinché, meglio rifocillato e pieno di doni, sia riaccompagnato alla
sua Itaca da una nave feacia. Per rafforzare il comando morale si afferma che
spesso gli dèi si travestono da bisognosi per verificare il comportamento
degli umani e premiarli o punirli di conseguenza: « Antinoo, male colpisti
un ramingo infelice, pazzo; e se fosse per caso un nume del cielo? Spesso gli
dèi, simili a ospiti d’altre contrade, sotto tutte le forme girano per le
città, per vedere i soprusi e i retti costumi degli uomini » (Od. XVII,
483ss); « vengon tutti da Zeus gli ospiti e i poveri; e un dono, anche
piccolo, è caro », dice Nausicaa (Od. VI,
207-208); e al contrario gli dèi condannano tanto gli indigeni che si
comportano coi mercanti come l’antropofago Polifemo (« tu fai crudeltà
intollerabili, pazzo! Come in futuro potrà venir qualche altro a trovarti
degli uomini? Tu non agisci secondo giustizia » (Od. IX, 350ss) e non
può non esporsi alla giustizia divina (« Ciclope… su di te doveva
tornare il delitto, pazzo, ché gli ospiti osasti mangiare nella tua casa;
così t’ha punito Zeus e gli altri dèi » (Od. IX, 477ss), sia i
mercanti che si comportano da predoni con gli indigeni: « …non amano le
male azioni gli dèi beati, solo giustizia onorano, le azioni oneste degli
uomini. Anche quei tristi e ribaldi che sulle terre altrui sbarcano, e Zeus
concede loro la preda, e riempite le navi tornano indietro in patria; anche
nel loro cuore cade forte paura dell’occhio divino » Od. XIV, 83ss; cf.
Giobbe 24, 23: « Anche Dio gli
concede sicurezza ed egli sta saldo, ma i suoi occhi sono sopra la sua
condotta »). Da tutto ciò si sviluppa una
moralità sorprendente, anche per i nostri
tempi (e che salvo il libro di Giobbe, che però è dell’inizio del V
secolo, e potrebbe derivare lui dall’Odissea, non si riscontra, formulato in
modo così organico, in tutto il
mondo orientale), che non propugna il bene solo per raggiungere uno scopo,
nemmeno quello di un premio da parte degli dèi in questa o in un’altra vita
(abbiamo già considerato l’accusa rivolta da qualcuno dei Proci ad
Antinoo, Od. XVII, 483ss o
il pensiero di Nausicaa, Od. VI,
207-208), in cui ben pochi credono
ma propugna il bene in se stesso («
L’ospite, il supplice, è come un fratello per l’uomo che abbia anche solo
un poco di senno », dice
Alcinoo (Od. VIII, 546-547; siamo
al messaggio di Cristo « ama il prossimo tuo come te stesso » che però nell’interpretazione
cristiana è diventato, a far tanto, « ama il prossimo tuo – se è
cristiano come te – come te stesso »), « Gli umani han vita breve. Ora
chi è senza cuore e senza cuore si mostra, tutti gli auguran dietro del male
i mortali da vivo, e morto lo disprezzano tutti; chi, invece, ha cuore nobile
e cuore nobile mostra, di lui larga fama gli ospiti portano intorno fra tutti
gli uomini, e molti lo dichiarano buono », dice Penelope, Od. XIX, 328ss.
Si tratta di un uomo buono laico che viene premiato non in una vita di là
dove nessuno può controllare, ma in questa vita dove una cattiva fama da
morto potrà anche non costare nulla al defunto ma certo ai suoi figli, alla
sua famiglia, alla sua città, e dunque attraverso questo giudizio laico si
viene ad influire sulle persone indirizzandole al bene e distogliendole dal
male. Il messaggio morale dell’Odissea
nel suo complesso è così riassunto da Odisseo: « tu comprenda in cuore e
lo dica anche agli altri, quanto val meglio l’onesto del malo operare »
(Od. XXII, 373-374). Come corollario v’è: « Ah no! Mai uomo dovrebb’essere
ingiusto, ma in silenzio tenersi il dono dei numi, quello che dànno » (Od.
XVIII, 141-142). Se Odisseo non fosse stato avido di ricchezze non avrebbe
patito venti anni di sofferenze incentrate sulla guerra di Troia e sarebbe
altrettanto ricco e felice con la moglie, il figlio, gli amici, il suo popolo,
nella sua terra. Anche l’Iliade ha un messaggio ugualmente educativo perché
Achille ha esagerato nella sua ribellione all’autorità di Agamennone («
E tu non volere, Pelide, contendere col re faccia a faccia, perché non ebbe
in sorte onore comune un re scettrato, a cui Zeus diede la gloria… questi è
ben più potente, ché su molti comanda » Il. I, 277ss, come insegna
Nestore ad Achille). Non è detto che questo avrebbe deciso di togliere
Briseide ad Achille per risarcirsi della perdita di Criseide (« Ma via,
queste cose potremo trattare anche dopo… » Il. I, 140), mentre ciò
avviene perché Achille assale Agamennone con insulti e questo, ferito nel suo
amor proprio reagisce (Il. I, 148ss: « Ma guardandolo bieco Achille piede
rapido disse: “ Ah vestito di spudoratezza, avido di guadagno… ”),
mentre la lezione espressa ad
Agamennone da Odisseo (che nel frattempo s’è sostituito a Nestore
come fonte di saggezza) è: « e tu nel futuro anche con gli altri
più giusto sarai » (Il. XIX, 181-182), perché tutto è nato dall’arroganza
con cui Agamennone ha rifiutato il riscatto di Criseide. Insomma, i difetti
principali degli antichi che la classe dirigente
etrusco-romana voleva eliminare erano la rapacità, la prevaricazione,
l’irascibilità. Ma al di là del tema specifico dell’Ira d’Achille
Achille stesso lancia un messaggio in sintonia con quello dell’Odissea: «
Odioso m’è colui, come le porte dell’Ade, ch’altro nasconde nel cuore
ed altro parla » Il. IX, 312-313).
Il
messaggio, soprattutto quello di deontologia professionale del buon mercante,
che dunque non è un pirata, è rivolto proprio al mondo greco (anche se
praticamente tutti sono pirati tranne gli Etruschi/Feaci). Dopo un passato di
pirati (i pirati Tirreni/Turša dell’Egeo e magari anche i Feaci siriani
parenti stretti dei Fenici) gli Etruschi sono diventati una potenza sfruttando
le miniere dell’Etruria e adesso hanno interesse a liberare il Mediterraneo
dalla pirateria greca come
più anticamente aveva fatto Minosse con la pirateria dell’Egeo. I
Greci praticavano al tempo di Odisseo e praticano ancora al tempo di Omero la
pirateria. Nelle isole Ionie regno di Odisseo vivono popoli dediti alla pirateria, come i
Tesproti e i Tafi del continente che prelevavano diritti di passaggio
dalle navi che da Corinto andavano verso occidente e l’Etruria come fece lo
stesso Demarato assai prima di stabilirvisi definitivamente. Ma al tempo di
Omero, dopo che la costruzione del santuario di Pyrgi dedicato a Ino Leucotea
voluto dai corinzi gli ha tolto
il monopolio dei traffici etruschi con Cipro e l’oriente i pirati più
temibili sono diventati gli Eubei di Ischia e Cuma, che assaltano con attacchi
pirateschi i convogli etruschi diretti in oriente. Così Poseidone dà
fastidio a Odisseo proprio davanti a Pyrgi e poi se ne ritorna nel suo
santuario di Ege in Eubea (V, 282ss) e Alcinoo ricorda l’impresa dei Feaci
orientali che trasportarono Radamanto (nome teoforico del dio Ra, il Sole,
dunque un faraone) in Eubea dove verisimilmente fece prigioniero il gigante
Tizio che aveva offeso sua madre Latona che andava a Pito/Delfi (VII, 321ss;
XI, 576ss). Il santuario di Delfi poi ricorda ai Greci la necessità di
ricambiare il favore, perché Cere ha già un suo thesauros nel santuario
panellenico.
3
- La vita beata dei ricchi borghesi.
Il lussuoso tenore di vita delle corti
etrusche richiede presto l’elaborazione di un cerimoniale (che appunto
deriva il suo nome da Cere, Cerveteri) di buone maniere e di galateo. La vita
scorre tranquilla dentro le solide mura della corte, dove un maestro di
palazzo – a Tarquinia-Pyrgi è
il molto sapiente (dunque potremmo dire il druida, druis, druides del
De Bello Gallico da un archetipo *dru-wid-es,
onniscienti, sapientissimi) Echeneo
– è incaricato di far
rispettare l’etichetta: « “ Alcìnoo, ecco una cosa non bella, non ti
s’addice che l’ospite in terra sieda, sul focolare, in mezzo alla cenere;
e gli altri stanno immobili la tua parola aspettando. Su, l’ospite su un
trono a borchie d’argento fa sedere, rialzandolo, e comanda agli araldi di
mescolare il vino, che a Zeus folgoratore libiamo ancora, il quale accompagna
i supplici venerandi: e cena la dispensiera dia all’ospite, quello che c’è
”. Appena udì questo la sacra potenza d’Alcìnoo, per mano prendendo il
saggio Odisseo, ricco d’astuzie, dal focolare lo sollevò, lo fece sedere su
un trono splendente, comandando d’alzarsi al figlio, il prediletto
Laodàmante [“ signore del
popolo ”, che è un probabile riferimento
a Lucumone/re Tarquinio Prisco], che gli sedeva accanto: lo amava
moltissimo. Venne un’ancella a versare lavacro da brocca bella, d’oro, su
un bacile d’argento, ché si lavasse… » (Od.
VII, 159ss).
Nel palazzo di Odisseo si vive nella
più completa anarchia, ma anche Telemaco sa cosa voglia dire l’etichetta di
corte: « e vide Atena [nelle vesti di Mente re dei Tafi]. Le mosse
incontro pel portico, e provò ira in cuore che l’ospite avesse atteso alla
porta: davanti a lei stette, le prese la destra, ne ricevette l’asta di
bronzo, e a lei rivolto, parole fugaci parlava: “ Salute, ospite! Sarai bene
accolto fra noi. Poi tu, quando il cibo t’avrà ristorato, dirai che cosa t’occorre
”. Dicendo così precedeva, Pallade Atena seguiva. E quando furono dentro l’alto
salone, andò a posar l’asta contro una lunga colonna; nella lucida astiera…
» (Od. I, 118ss). Qui, nell’alto salone, « sale a spire profumo d’arrosto
e la cetra risuona » (Od. XVII, 270-271). I nobili siedono (com’è in
uso presso gli Etruschi) in fila attorno a lunghe tavolate serviti da ancelle
ed efebi « sempre stillanti d’unguento la testa e il bel viso »
che versano acqua alle mani, mischiano l’acqua al vino nel cratere,
portano il pane, mentre lo scalco taglia una scelta varietà di carni. Si
mangia rigorosamente con le mani. Durante il pranzo i nobili giocano con le
pedine « avanti al portico, sulla soglia dell’atrio » (Od. I, 103-104) o
ascoltano il cantore o la « concava cetra » o assistono a spettacoli
di danza o d’acrobati: « Ma quando la voglia di vino e di cibo
cacciarono i pretendenti, altro piacque loro nel cuore, musica e danza: essi
sono ornamento al banchetto. Pose l’araldo la cetra bellissima in mano a
Femio » (Od. I, 150ss), « cantava tra loro il divino cantore sonando la
cetra, due acrobati intanto,
dando inizio alla festa, roteavano in mezzo » (Od. IV, 17-18), « di musica
dolce e di danza armoniosa. Del rumore dei piedi la gran volta echeggiava,
mentre uomini e donne bella cintura danzavano » (Od. XXIII, 145ss). I
cantori etruschi assomigliano da vicino ai bardi celtici (una specializzazione
dei druidi), poeti lirici che
accompagnano, con l’arpa i loro canti, costituiti da inni dedicati agli dèi
e versi dedicati ai prodi. Odisseo alla corte di Alcinoo recita le sue
disavventure ininterrottamente per poco
più di 1400 versi e gli altri
poco più di 700
dopo una breve sosta. Alcinoo si complimenta con lui dicendogli: «
tu hai bellezza nelle parole e, dentro, saggi pensieri, e il tuo racconto,
come un aedo, con arte l’hai fatto, gli affanni di tutti gli Argivi, e i
tuoi propri » (Od. XI, 367ss). Cesare ci dice che i discepoli dei druidi
« debbono imparare a memoria un gran numero di versi… Non ritengono lecito
scrivere i loro sacri precetti; invece per gli altri affari, sia pubblici che
privati, usano l’alfabeto greco » (De Bello Gallico, VI, 14). Alio e
Laodamante « una bella palla si presero in mano, purpurea, che il saggio
Pòlibo aveva fatto per loro, e uno l’andava lanciando fino alle nuvole
ombrose, piegato all’indietro; l’altro balzando alto da terra, agilmente
la riprendeva, prima di ritoccare il suolo coi piedi » (Od. VIII, 372ss).
Poco fuori dal palazzo (ad es. di Romolo) ci sono aree destinate ai giochi (ad
es. i ludi saeculares, in particolare il circo per la corsa delle bighe e
quadrighe). Assistendo ai duelli fra i principi dell’Iliade vengono alla
mente anche i tornei (i duelli cavallereschi fra Glauco e Diomede, fra Ettore
e Aiace Telamonio, con scambio di doni), dove, come in tempo di guerra
assistiamo a sfilate di fanti e cavalieri nelle loro fulgide armature
sormontate da pennacchi colorati, e scudieri e cavalli coperti da gualdrappe
variopinte e araldi e alfieri e
squillar di trombe e sventolare di bandiere. Vi sono anche
aree teatrali destinate alla danza, al canto, agli spettacoli vari di
buffoni e acrobati. Più in là ci sono le case coloniche dei pastori, dei
mandriani, dei porcari, e più in
là ancora i boschi dove i nobili vanno a caccia di cervi o cinghiali con
arco, lancia,
coi cani, come Argo, cui
non « sfuggiva, anche nel cupo di folta boscaglia, qualunque animale
vedesse, era bravissimo all’usta [cioè a fiutare le tracce di
animali] » (Od. XVII, 316-317) e più in là ancora s’apre il mondo
incognito dell’avventura, dove vanno solo i più audaci, perché nel mondo
antico è più facile che uno muoia là dov’è nato senza aver mai varcato
la soglia del suo piccolo universo costituito dalla città-stato. E i più
audaci sono per vocazione i cavalieri, cioè i figli cadetti che non hanno
diritto alla spartizione del feudo e perciò devono andarselo a conquistare,
anche al di là del mare, in origine dandosi ad attività di pirateria e poi
al commercio da una parte verso Cipro e il Levante (e il confronto con le
crociate si fa più interessante se si pensi al fatto che la più parte delle
tradizioni confluite nei poemi omerici, come la dea dell’amore
Elena/Afrodite Urania di Ascalona – intorno alla quale è costruita la
favola della guerra di Troia – e
il calice dell’Ultima Cena e della Resurrezione, epifania del dio,
Alcinoo, che « beve il vino, seduto, e pare un nume immortale »,
traggono origine dalla Palestina o, più esattamente, dall’Hypereia o
probabilmente anche Hyperesia da
cui provengono i Feaci di Tarquinia-Pyrgi), dall’altra verso la Francia, la
Spagna, oltre le colonne d’Ercole (Apeira?) dove però si scontrano con i
Fenici. Anche la ricca borghesia mercantile ha combattuto e combatte,
affinché « nobile gloria la coroni fra gli uomini », contro draghi
marini e orchi montani antropofagi, contro
giganti e pigmei, diversi ma sempre rigorosamente pericolosi ed ostili.
Se
pensiamo al fatto che le storie medievaleggianti dell’Iliade e dell’Odissea
applicano all’ambiente occidentale greco-etrusco-romano
storie d’origine siro-cilicia (gli Achei/Aqawaša circoncisi che impersonano
i Greci e i Tirreni/Turša
circoncisi anch’essi, che impersonano i Troiani omerici, che hanno
una civiltà parimenti se non più occidentale di quella dei Greci)
dove troviamo la tradizione millenaria e precristiana del Calice della Cena e
della Resurrezione, di Alcinoo, pensando al ritorno in patria degli eroi achei
e in particolare a quello di Agamennone sarà facile riandare col pensiero al
tempo delle crociate in Terra Santa, fatte per conquistare il predominio sulle
vie carovaniere e sui porti che conducevano alla Cina, altro che difesa del
Santo Sepolcro o reazione all’espansione islamica. (Anche oggi
l’Iraq è la chiave di volta del controllo del petrolio su cui l’America
e il suo satellite inglese vogliono
mettere le mani ad ogni costo; c’è un filo rosso che trascende ogni cosa e
lega la storia dell’umanità dalle origini ai nostri tempi e passa sempre
per il Medio Oriente, anche quella della Troia omerica – che in realtà è
la Siria-palestina, non dimentichiamolo mai –
e vede sempre lo scontro fra Occidente e Oriente, fra Occidentali e
Asiatici, e sono questi ultimi che ci fanno più bella figura!)
Quando ritornano a casa dopo almeno dieci anni di guerra i cavalieri
trovano l’usurpatore che gli ha sedotto la moglie, come Egisto, che
tolse di mezzo l’aedo cui Agamennone aveva affidato il palazzo e la
moglie (« condusse il cantore sopra uno scoglio deserto e l’abbandonò,
che fosse preda e cibo d’uccelli » Od. III, 270-271) intrigò con
Clitemnestra e quando il re legittimo
tornò dopo dieci anni con il suo seguito « l’uccise a banchetto,
come s’uccide un toro alla greppia. Nessuno restò dei compagni d’Atride
che lo seguivano, nessuno quelli d’Egisto, ma nel palazzo s’uccisero »
(Od. IV, 534ss). E Oreste si copre di gloria vendicando il padre (Od. I, 298ss).
In Palestina, nelle guerre contro i Filistei (intorno al 1200 a. C. e cioè al
tempo della mai avvenuta guerra di Troia, e oltre) gli Israeliti mettevano in
campo migliaia di carri e altrettanti fanti. Immaginiamo poi, anche sulla
scorta dei poemi omerici, le torri merlate,
i padiglioni del campo acheo, lo sventolio dei vessilli e degli
stendardi, gli squilli di tromba, lo sfolgorio delle armature. L’iconografia
di Ettore che frusta i cavalli del suo carro guidato dal Sole (possiamo
immaginare anche che « sotto
le ruote dei carri cadevano uomini » Il. XVI, 378-379) alla testa dell’esercito
troiano che si abbatte come una gigantesca onda
contro il fosso e il muro merlato che protegge le navi achee potrebbe
benissimo essere tratto dall’iconografia egizia o ittita
delle guerre in Siria di Thutmosis III e Ramesses II e dei
corrispondenti re ittiti. Dall’Iliade e dall’Odissea trapela un ambiente
palestinese tribale e pastorale che s’accorda bene con quello irlandese e
scozzese medievale, cioè celto-germanico e druidico, fatto di continui
scontri fra clan a causa del furto di bestiame, come il gregge
rapito, pastori compresi, dai messeni a Itaca, per il quale andò a
trattare il giovane Odisseo o le cavalle smarrite
e finite nelle stalle di
Eracle che, benché ospite,
uccise Ifito che era andato a reclamarle (Od. XXI, 16ss) o ancora il progetto
di Odisseo di rifarsi del bestiame divoratogli dai Proci andando in parte a
razziarlo a sua volta (Od. XXIII, 356ss). Paride (e i figli di Priamo) è
re-pastore come re Davide. Lo sfondo della mondiale e cosmica ‘guerra di
Troia’ è costituito da più banali zuffe per il furto di bestiame, cf. i
ricordi di Priamo (Il. XXIV, 260ss) e Nestore (Il. XI, 670ss), oltre Odisseo
di cui ho detto. Ma pur vivendo
sotto le tende questi re-pastori (etimologia popolare ed errata di Hyksos)
sono raffinati come gli imbelli figli dei re di città, come Priamo «
ballerini… che eccellono nei passi di danza» (Il. XXIV, 261): Davide (1
Samuele, 16, 14ss) e Achille suonano la cetra: «
con la cetra sonora si dilettava, bella, ornata; e sopra v’era un ponte d’argento.
Questa, distrutta la città di Eezìone, tra il bottino si scelse; si
dilettava con essa, cantava glorie d’eroi » (Il. IX, 186ss).
La
storia di Odisseo omerico è una variante a lieto fine di quella di
Agamennone, ma tanto vaga quanto
può essere solo una favola. A Itaca non comanda nessuno e per di più
108 Proci dilapidano nella casa
privata di Odisseo le sue sostanze (perché nessuno più s’è incaricato di
riscuotere le tasse per i banchetti pubblici), si ubriacano e vengono anche
alle mani, violentano le ancelle
(non vale addurre il consenso di
queste perché nel diritto antico gli schiavi non hanno personalità ma sono
equiparati agli animali da lavoro, come il mulo che fa girare la macina,
e dunque possiamo qui parlare di danneggiamento), sfruttano il lavoro
della servitù facendola lavorare a cottimo, attentano alla vita di Telemaco,
sequestrano in casa Penelope imponendole di scegliere un marito fra loro,
eppure tutto sembra procedere come se Odisseo, il re, non fosse assente
da Itaca da venti anni. I Proci, lo dice anche Penelope, non intendono affatto
sposarla (e chi la sposasse sarebbe il re di Itaca) ma prendono questa scusa
per continuare a far baldoria con la roba altrui: « pretendenti alteri,
che su questa casa d’un uomo da tanto tempo lontano piombate a mangiare e
bere continuamente, e non poteste trovare nessun pretesto di finte parole, ma
solo perché mi fate la corte e mi volete sposare » (Od. XXI, 68ss). Non
rappresentano dunque un rovesciamento del potere interno alle isole del regno
di Odisseo come si vuol far credere, perché sarebbe interesse primario di
tutti i principi di non dilapidare il capitale ma semmai i frutti, che vengono
solo dalla corretta gestione di quello. I Proci possono solo rappresentare uno
di quei popoli del mare razziatori tipici del XIII-XII secolo, magari gli
stessi Dori.
Note
[1]
Omero ed Esiodo furono contemporanei e rivali, come attesta la
tradizione di una Gara fra Omero
ed Esiodo, suffragata dai botta e risposta a distanza fra i due. Al libro
primo dell’Ira d’Achille « è molto più facile nel largo campo degli
Achei strappare i doni a chi a faccia a faccia ti parla, re mangiatore del
popolo » (229ss) fanno eco i « re mangiatori di doni » delle Opere (39,
164); i « Stupidi campagnoli, che avete corti pensieri » (Od. XXI, 85)
e a « Diceva parlando molte
menzogne simili al vero » (Od. XIX, 203) fanno eco i « pastori, cui la
campagna è casa, mala genìa, solo ventre; noi sappiamo dire molte menzogne
simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare » della
Teogonia (26ss). Vissero entrambi nell’età del ferro, corrotta (« dalla
tempesta tutta la terra nera è gravata in un giorno d’autunno, in cui
pioggia violenta rovescia Zeus, se adirato con gli uomini imperversa perché
con prepotenza contorte sentenze sentenziano, e scacciano la giustizia, non
curano l’occhio dei numi » Il. XVI, 384ss) ma le corti etrusco-romane,
che hanno davanti a sé un futuro ricco di espansione politica ed economica,
vogliono solo sentir cantare di cose positive e felici, gli accenni a fatti
negativi sono ignorati (e l’invasione dorica è ignorata davvero perché non
toccò le regioni levantine da cui Omero proviene): « nemmeno il banchetto
splendido darà più gioia, quando la peggio la vinca » (Il. I, 575-576), ed
è per questo che Omero guarda alla tradizione israelitica di Abramo, Mosè, e
soprattutto Davide e Salomone, l’età d’oro, quando tutta la Siria era
sotto il dominio diretto o indiretto dell’Israele dei re. Attraverso gli
splendori della corte di Davide e
Salomone Omero celebra l’ambiente
ricco e raffinato di Tarquinia o potente di Roma che superava perfino quello
splendore e quella potenza (e lo splendore dei regni micenei). Esiodo guarda
all’età degli eroi di Troia narrata da Omero con sola nostalgia (anche se
è conscio che si tratta di invenzione) se confrontata all’ambiente greco in
cui viveva, in declino e comunque
non propriamente florido.
[2]
Della famiglia dei Bacchiadi, stabilitosi a
Tarquinia dopo il
colpo di stato di Cipselo del 657 a. C. (cf. Dionisio d’Alicarnasso III,
46). E’ logico che Pyrgi, città con una forte presenza greca, membro della
anfizionia di Delphi (la tradizione dice che Cere aveva un deposito di valori
a Delphi – ma
evidentemente si tratta di Pyrgi, sul Tirreno, fin da quando dipendeva da
Tarquinia – come anche Spina, sull’Adriatico), abbia preceduto
Roma con l’idea di un poema in greco rivolto ai Greci per festeggiare
un santuario-banca che era la
risposta in termini di reciprocità a quello di Delphi, menzionata nei poemi
col vecchio nome di Pito. Come i Pirgensi avevano un thesauròs nel santuario
delfico così si richiedeva ai Greci di costituire un thesauròs nel santuario
pirgense a garanzia dei traffici commerciali con l’Etruria.
[3]
Il suo successore Neco II intorno
al 600 incarica marinai fenici della circumnavigazione dell’Africa –
riuscita – dallo stretto di
Gibilterra da cui ritornano dopo tre anni; fonda la potenza navale egizia e si
fa arrivare le triremi da
guerra dai cantieri navali di Corinto; assai prima di Necho II gli etruschi,
in competizione con i fenici miravano allo sfruttamento di terre al di là
dello stretto di Gibilterra, forse l’Apeira da cui proviene la schiava
donata a Nausicaa dai sudditi di Alcinoo. Gli Etruschi predecessori dei
Vichinghi nella scoperta dell’America?
[4]
Omero è un classico
internazionale da quasi tre millenni perché è riuscito a trascendere
il suo particolarismo nazionale impiegando
un linguaggio e un vocabolario universali per far comprendere a tutti le
proprie esperienze, esperienze anch’esse universali. Ciò nonostante
leggendolo con attenzione e con la cultura adeguata
se ne possono rintracciare le radici culturali e dunque nazionali. Gli
eroi omerici usano armi di bronzo nonostante operino nell’età del ferro,
non muovono un dito se non col responso favorevole d’un dio tramite un
sacerdote interprete (tutti avranno sentito parlare di Calcante, l’indovino
accreditato al seguito dell’esercito acheo a Troia),
praticano l’aruspicina (c’è un aruspice a capotavola de i Proci),
l’incinerazione, seppelliscono le urne cinerarie sotto alti tumuli, dedicano la testa (troncata dal resto del corpo) e le
armi dei nemici uccisi agli dèi, lapidano
chi viola la legge. I Troiani sono ‘domatori di cavalli’ « che
in un momento decidono la gran contesa della guerra crudele » (Od. XVIII,
263-264). I Feaci sono i migliori marinai, sono maestri nelle
canalizzazioni (vedi la reggia di Alcinoo), le loro donne sono le migliori
tessitrici (ma tutte le donne di rango Achee e Troiane, come anche le loro
dèe, tessono e filano la lana, mentre i loro uomini si occupano della guerra)
ma, soprattutto, godono di grande indipendenza e autorità (il padre e la
signora – pòtnia – madre,
scrive Omero), come Nausicaa che non ha vergogna a trattare a tu per tu col
nudo Odisseo, come la regina Arete, ospite di Odisseo e che
alla stregua dei re-giudici Nestore e Giobbe veterotestamentario dirime
le contese fra i potenti che a lei si rivolgono per la sua saggezza e
autorevolezza. Tutto ciò rinvia al villanoviano quando, per dirne una, le
deposizioni femminili sono accompagnate da
fuseruole, fusi o rocchetti, quelle maschili da rasoi o spade; e alle
costumanze etrusco-romane che vogliono le donne di rango occupate nella nobile
attività di filare la lana e di dirigere nella stessa attività le loro serve
(« Su, torna a casa, e pensa all’opere tue, telaio, e fuso; e alle ancelle
comanda di badare al lavoro; alla guerra penseran gli uomini tutti e io sopra
tutti, quanti nacquero ad Ilio » Il. VI, 490ss),
come la tradizione ci informa riguardo a Tanaquilla, moglie di
Tarquinio Prisco (Plinio il Vecchio), e
Lucrezia, moglie di Tarquinio Collatino (Livio). Omero attribuisce ad
Akkhijawa/Achei e Turša/Troiani (che però a ben vedere praticano la
circoncisione e probabilmente hanno origini semitiche come i Rasenna etruschi)
gli stessi usi e costumi del suo popolo etrusco. Ma in un solo caso ha ben
netta la differenza che passa fra il suo e gli altri popoli, quando si parla
della donna, che presso gli altri popoli è sottomessa (Penelope, Andromaca) o
malvagia (Clitemnestra), comunque malvista (Esiodo; Antico Testamento), mentre
la donna etrusca è saggia, operosa, capace di trattare da pari a pari con gli
uomini e spesso superiore a questi (il cosiddetto matriarcato etrusco).
Ovviamente Omero scrive per i Greci, e dunque per rispetto alle loro
costumanze non raffigura le donne etrusche a tavola con gli uomini, ovviamente
seduti, alla maniera etrusca, com’è riscontrabile nei reperti etruschi di
VII secolo (ma fa eccezione per la
regina Arete, che ha una posizione di parità e a volte superiorità rispetto
al marito Alcinoo, che è seduta a banchetto
quando Odisseo fa la sua apparizione a corte, e anche successivamente). Di
origine rasennia (oltre che eventualmente indigena), cioè etrusca siriana,
oltre alla dedica agli dèi della testa e delle armi del nemico ucciso, alla
divinazione, all’incinerazione, alla lapidazione, è l’ololyghè, cioè il
tipico grido acuto rituale delle donne berbere cioè puniche (Erodoto le
chiama libiche, IV, 189) cioè siriane dunque etrusco-romane e che infatti
Omero attribuisce alle troiane antenate delle romane: « Esse [Ecuba e
le anziane] tesero tutte, col grido sacro, le mani ad Atena… la bella
guancia Teano… supplice invocava la figlia del gran Zeus… » (Il. VI,
301ss; vedi anche Od. XXII, 408). Per Erodoto Atena è una dea
libica (IV, 180 e 189).
Principi
e re sono rappresentati come
Davide a pascolare le pecore – comune
è il titolo omerico di poimēn laõn (pastore di popoli) –
e dietro ciò si intravede la falsa etimologia di ‘re pastori’
attribuita agli Hyksos, i ‘capi dei paesi stranieri’ che, invadendo i
paesi civilizzati dell’Oriente, diedero avvio (con direzione da sud a nord,
da oriente a occidente) alla
civiltà micenea e ad altre consimili. Paride, che ha giudicato Afrodite la
più bella fra le dèe ha in Omero il titolo di ànax andrõn, signore degli
uomini, portato anche da Agamennone, che è il capo indiscusso della lega
panellenica a Troia. La moda poetica vuole rendere omaggio al passato nomade
di questi popoli sedentarizzatisi, come qualche capo di stato arabo dei nostri
tempi ama continuare a vivere sotto la sua tenda
beduina pur avendo a portata di mano tutti i mezzi della confortevole
vita occidentale moderna. Così le guerre di cui si ama favoleggiare, compresa
la guerra tebana (Esiodo), ha come causa l’appropriazione delle greggi (in
Omero vedi Odisseo e i figli ballerini e imbelli di Priamo), ma questi re,
come Davide, hanno una cultura superiore e sanno
danzare (come Paride) e suonare la cetra (come Achille). Fuori dalle
tende o dai palazzi, avvoltoi,
sciacalli e leoni (quei leoni che gli studiosi hanno creduto si
aggirassero nella Grecia antica, mentre si aggiravano in Siria) scarnificano
carcasse di bufali e antilopi, ma
una volta ambientata sui lidi tirrenici, nella poesia omerica fanno la loro
apparizione anche falchi, lupi e orsi nostrani. Lo sfondo culturale dei poemi
è quello del tempo in cui i giudici di Silo combattevano contro i Filistei e
in cui Davide e Salomone
dominavano sull’intera Palestina.
Omero,
un Emilio Salgari ante litteram, viaggiò
soprattutto con la sua fantasia, applicando a luoghi e popoli lontani i
costumi (lo abbiamo visto) e il paesaggio tirreni (il paesaggio
siro-palestinese e orientale in genere solo attraverso i racconti e i canti
tradizionali e le letture del patrimonio
rasennio della casta dominante a Tarquinia di cui egli era membro
probabilmente più per parte di
madre che di padre). Dunque
leggiamo Omero avendo davanti agli occhi la Maremma tosco-laziale, soprattutto
costiera, ad esempio i tomboli di Feniglia, e Giannella da una parte e dall’altra
di Orbetello, potremo immaginare le «
innumerevoli schiere d’uccelli alati, d’oche o di gru o di cigni
lungo collo, nei prati d’Asia, sulle correnti del Càistro, qua e là
volteggiano, sbattendo l’ali con gioia, e mentre con gridi si posano la
prateria risuona – così innumerevoli schiere di questi [gli Achei] dalle
navi e dalle tende si riversavano nella pianura Scamandria » (Il. II, 459ss;
versi probabilmente omerici
in un contesto di dubbia
autenticità omerica), gli
antenati dei butteri (che vestono
gambiere di pelle di capra e, come dice Lawrence, hanno la faccia e l’indole
di fauni), i Troiani
‘domatori di cavalli’, i prati di asfodelo (l’asfodelo
rosa-pallido che a dire di Lawrence è « una caratteristica che spicca in tutto il
paesaggio costiero » di Cerveteri), il « prato asfodelo » attraverso
cui se ne va contenta l’anima d’Achille
nell’Ade, il caprifico (« gli assetati caprifichi che ondeggiano su i
gran massi quadrati verdi tra il cielo e il mar, su i gran massi cui il vigile
mercator tirreno saliva, le fenicie rosse vele nel seno azzurro ad aspettar »
del Carducci) là dove la cinta di Troia era più sguarnita e
oltre il quale Ettore non osava andare prima dell’ira d’Achille;
le « piante grossolane di
brughiera, spinose e appiccicose… fitte
e rigogliose, con le cime sempre piegate, frustate dai venti incessanti del
mare » (D. H. Lawrence, Paesi etruschi, Nuova immagine editrice, Siena, II
edizione 1989, p. 124) che rammentano
Odisseo sulla sua zattera: « Lo portavano
sulla corrente l’onde enormi qua e là, come quando Borea autunnale
porta i fiori del cardo per la pianura, e stanno stretti, attaccati uno all’altro
» Od. V, 327ss. Su questo paesaggio spuntano le capanna dei contadini
maremmani produttori di formaggio, simili alla tenda, che poi è una capanna,
di Achille (la « tenda del Pelide Achille… alta, che al sire avevano
fatto i Mirmìdoni, tagliando travi d’abete, e sopra avevano messo un tetto
di frasche, dai prati ammassandole, e intorno avevano fatto una gran corte al
signore, con pali fitti e chiudeva la porta un’unica sbarra d’abete, ma
tre achei la mettevano e tre la toglievano, la gran sbarra della sua porta,
tre degli altri, Achille la metteva anche da solo » Il. XXIII, 448ss). Su
questa tipologia di capanna Omero
ha creato la caverna di Polifemo produttore di formaggio, ma si tenga presente
che Lawrence a Cerveteri sosta presso un ‘Vini e cucina’ situato in un «
antro », come anche lo chiama, frequentato da butteri, fra cui uno
somigliante ad un fauno. L’Odissea è il poema degli affetti familiari e la
chiusa del libro primo è significativa con la schiava Euriclea che mette a
letto Telemaco (il letto, alto e duro, oserei dire è tuttora il mobile più
importante in una casa etrusca) adattando ad un piolo la tunica di questo e
poi uscendo e tirando il paletto. L’Odissea rievoca la campagna
etrusco-laziale coi suoi casolari, la campagna ben lavorata e ordinata, i fattori come Eumeo, il servo etrusco che poteva permettersi
di avere una sua proprietà di che viverci sopra e un suo proprio schiavo
acquistato coi propri risparmi. Non ho mai mangiato il sanguinaccio ma ne ho
spesso sentito parlare dai miei, e Omero ne accenna in due casi (Od. XVIII,
44ss; XX, 25ss). Purtroppo
anche i discendenti degli Etruschi amano la caccia e in particolare ora come
allora quella al cinghiale (Omero ci narra della storia del cinghiale
Calidonio e del cinghiale che ferì il giovane Odisseo quando andò a trovare
il nonno Autolico). Lawrence (in età fascista) afferma: « La caccia al
cinghiale è ancora tra gli sport preferiti degli italiani, il più
spettacolare sport che ci sia in Italia. Anche gli etruschi devono averlo
amato, perché nelle tombe lo hanno rappresentato in continuazione ». Come
anche il loro fido Argo, aggiungo io. Si potrebbe continuare, ma avvicinandoci
dal paesaggio odierno a quello Omerico sentiamo di entrare meglio in contatto
col personaggio per comprenderlo meglio. Omero viaggiò sicuramente,
soprattutto per mare perché sono innumerevoli e vari e frutto di
ricordi dei suoi conterranei le
similitudini e gli accenni alla pirateria dei
tirreni (quando assalivano l’Egitto e i centri costieri dello stretto
dei Dardanelli fino al Mar Nero: saga degli Argonauti), e probabilmente di
esperienza sua propria quelli alla guerra navale coi greci euboici, alla
struttura e all’equipaggiamento delle navi, alle navi e ai marinai in balia
del mare agitato, alla nave che affonda, alla pesca, al mare, ecc., ma
certamente ebbe una conoscenza superficiale della Troade,
figuriamoci dell’Anatolia
occidentale in generale e dunque del Caistro, fiume della Lidia; e anche della
Grecia ha una conoscenza superficiale, soprattutto costiera (Omero non ha una
seria conoscenza della Grecia interna, delle
distanze ed ubicazioni delle aree interne intorno a Pilo e Micene
visitate da Telemaco e Pisistrato), frutto delle informazioni ricevute dai
marinai etruschi che nel secondo quarto del VII secolo erano i signori del
Mediterraneo.
Omero
indubbiamente esalta i Feaci (sia quelli siriani sia quelli
etrusco-tarquiniati) come popolo di navigatori superiore a tutti gli altri
(perfino ai Greci), imparentato con gli dèi e divino esso stesso (cf. Genesi
6, 1-7; Baruc 3, 26-28; Od. VI, 3-10, VII,56-60, 201-206). Ciò determina un
aspetto essenziale della poesia omerica e cioè lo stretto contatto fra dèi
ed eroi loro figli. I primi seguono passo passo i secondi come se fossero le
loro ombre, ombre vere e proprie, poiché sono impotenti a determinarne il
destino in bene o in male. Solo l’uomo è padrone del proprio destino e
altrimenti lo è il destino, superiore a tutti gli dèi (vedi Appendice, 1).
I Feaci, cioè i potenti signori della casta dei giganti guerrieri (e
sovrani) – provenienti dalla
Siria (Hypèreia, Alta Siria), ed infatti hanno come dio capostipite
Poseidone/Dagan – nel corso
dell’VIII sec. sono ascesi ai vertici di Tarquinia e Roma e da qui di tutta
l’Etruria. Non c’è bisogno di essere laureati per capire che la Scheria
dei Feaci (che non è un’isola, bensì è una terra isolata dal mondo
civile, ovviamente quello caratterizzato dalla civiltà greca, ad oriente) non
corrisponde a Corfù (Corfù è Grecia, a un tiro di schioppo da Itaca – e
dunque Alcinoo non potrebbe affermare che suo padre guidò l’immigrazione a
Scheria/Corfù « lontano dagli uomini industri » cioè « lontano
dagli uomini civili » senza contemporaneamente offendere i Greci cui è
rivolta l’Odissea, eppure
Odisseo non conosce Arete e Alcinoo e viceversa, e si presenta: « Ma
prima il nome dirò, ché anche voi lo sappiate, e, finalmente sfuggito al
giorno fatale, io sia ospite – xeînos
– vostro, pur abitando casa lontano » Od. IX, 16ss).
E’ anche evidente che Pyrgi, di
cui Omero permette l’identificazione attraverso una profezia di Nausitoo,
padre di Alcinoo, è la città capitale della Scheria. Poseidone, irato coi
Feaci perché hanno ricondotto a Itaca sano e salvo Odisseo, trasforma in
scoglio la nave dei Feaci che ritorna ed è già in vista
di Pyrgi « e poi coprirà la nostra città d’un gran monte. Così
parlava il vecchio; e questo il dio compirà o lascerà incompiuto, come piace
al suo cuore » Od. VIII, 569ss: tutto ciò per rivelare il nome della
città dei Feaci, « il monte Perge dei Tirreni » dove sarebbe sepolto
Odisseo (cf. Licofrone, Alexandra, 805). Lo splendido re Alcinoo può
giustamente vantare le qualità del popolo etrusco di fronte al greco Odisseo:
« siamo a navigare eccellenti. E sempre il festino c’è caro, la cetra,
la danza, vesti mutate, e bagni caldi, e l’amore » (Od. VIII, 247ss).
Leggendo questi versi la mente corre ai dipinti tombali di Tarquinia e gli
uomini abbronzati e le donne emancipate ivi danzanti al suono della
cetra e del doppio flauto par vengano avanti dalle pareti ammuffite e
riprendere corpo e vita come per magia. Altrove, quando Omero descrive l’interno
della reggia di Alcinoo, VII, 81ss – possiamo
immaginarci la Tomba delle Sedie e degli Scudi cerite, che rappresenta appunto
una casa aristocratica di metà VII secolo – ricorda senz’altro i giovani efebi dipinti in diverse tombe e li immagina
immobili come statue a sorreggere
torce accese (nella posa riscontrabile in innumerevoli candelieri di
bronzo etruschi) ad illuminare i
banchetti del re e della sua corte, pallida immagine di quelli celebrati sull’Olimpo
(ma Omero il suo vero Olimpo lo
collocava certo sugli Appennini). Omero
è probabilmente nato a Pyrgi o
comunque nella città-stato di Tarquinia. Egli col primo nucleo dell’Odissea
(il Viaggio d’Odisseo) volle
verisimilmente celebrare il viaggio esplorativo di un ammiraglio etrusco alla
scoperta di paesi e popoli lontani del Mediterraneo seguito, dopo
il ritorno in patria, dalla relazione sul viaggio alla coppia reale.
[5]
Gli ‘Etruschi’ dell’Egeo,
che provenienti dall’Etruria (teoria di Mirsilo di Metimna, snobbata dagli
etruscologi ma più convincente dell’inversa)
a Lemno e Imbro parlavano una lingua simile all’etrusco (ma vivendo
da tempo lontano dall’Etruria avevano assunto, già al tempo di Ramesses II,
costumanze diverse come la pratica orientale della circoncisione) e
cercavano metalli attraverso i Dardanelli fino al Mar Nero, scontrandosi con
le popolazioni delle città costiere come Troia a guardia dei Dardanelli
(saghe degli Argonauti e della guerra di Troia). Tramite l’Enea di
Samotracia (citata insieme a Lemno e Imbro in Il. XXIV, 753; si noti che
nei fondali fra Imbro
e Samotracia vive Teti, madre d’Achille, con le sue ondine,
Il. XXIV, 78) i Turša sono antenati anche dei Romani, cf. Dionisio
d’Alicarnasso, I, 68. Insomma, attraverso Lemno e Imbro gli
Etruschi erano identificati con gli Ioni e soprattutto i Lidi, nome col
quale sono anche noti presso i Romani. Questa non è l’origine degli
Etruschi, semmai l’esito delle
migrazioni etrusche, ma serve alla classe dirigente di Roma per avere un
appiglio per trattare delle
origini etrusco-romane da un punto di vista greco per sottolineare le comuni
origini anatoliche.
Omero
nel Viaggio d’Odisseo, attraverso la
profezia di Tiresia del libro XI, 121ss, accennerà alla pretesa
greca di attribuirsi, tramite il greco Odisseo (vedi anche Dionisio d’Alicarnasso),
niente di meno che la fondazione di Roma attraverso il suo rituale tipico del
suovetaurilia, che Odisseo avrebbe dovuto celebrare laddove in occidente
avesse trovato un popolo, ovviamente quello romano, da civilizzare
perché ignaro della navigazione e del sale.
Tutte queste tradizioni Omero mette in risalto, lo sottolineo ancora,
per rendere più interessanti ai Greci, così resi orgogliosi dal loro
protagonismo, i suoi poemi.
[6]
Si confronti l’omerico « calò nell’abisso, come fa il piombo che,
versato nel corno di bove selvaggio, scende a portar morte tra i pesci voraci
» (Il. XXIV, 80ss) con «
sprofondarono come piombo in acque profonde » dal cantico di Mosè in Esodo,
15,10; « i fratelli, nei quali di solito uno confida come alleati, per
grave lotta che nasca » (Od. XVI, 97ss e 115ss) con « I fratelli e un
aiuto servono nell’afflizione » Siracide, 40,24; « L’ospite, il
supplice, è come un fratello per l’uomo che abbia anche solo un poco di
senno » (Od. VIII, 546-547)
con « Chi disprezza il suo prossimo è privo di senno » Proverbi
11,12; « dei Troiani sazierai cani e uccelli col corpo e le carni, caduto
davanti alle navi » (Il. XIII, 831-832; Ettore
ad Aiace Telamonio) con « Fatti avanti e darò le tue carni agli
uccelli del cielo e alle bestie selvatiche » 1 Samuele, 17,44 (Golia a
Davide); « io l’ho allevato come pianta in conca di vigna » (Il. XVIII,
57; dice Teti di Achille) con « Io ti piantai vitigno scelto, tutto con
ottime barbatelle. Come mai tu hai mutato i tralci in quelli di una vigna
bastarda? » (Geremia 2,21; dice Dio a Israele; e altre analoghe similitudini
nell’A. Testamento sulla vigna); « Come quando si slancia la mente d’un
uomo, che molta terra percorse, e pensa nei suoi pensieri sottili “ qui sono
stato e qui! ” » (Il. XV, 80ss) con « Chi ha viaggiato sa molte cose…
Molte cose ho veduto nei miei viaggi, ed ho compreso più di quanto possa
ridire » (Siracide, 34,9ss); « Come stirpi di foglie, così le stirpi
degli uomini; le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva
fiorente le nutre al tempo di primavera; così le stirpi degli uomini: nasce
una, l’altra dilegua » (Il. VI, 146ss) con « Come le foglie spuntate
su albero verdeggiante, ora cadono e ora sbocciano, così son le generazioni
della carne e del sangue, una muore e l’altra nasce » (Siracide, 14,18). E
molte di più sono le affinità anche solo concettuali che si possono
riscontrare fra prosa e poesia dell’A. T. e poesia omerica, anche se gli
stessi concetti sono espressi più anticamente (come redazione) e
infinitamente meglio in Omero. Un esempio fra quelli che non ricorrono in
altri luoghi di questo lavoro è il parallelo fra « Ah! C’è dunque,
anche nella dimora dell’Ade, un’ombra, un fantasma, ma dentro non c’è
più la mente » (Il. XXIII, 103-104; Achille a proposito dell’anima di
Patroclo apparsagli in sogno) e « Tutto quello che ti occorre di fare,
fallo mentre sei in vita, perché non ci sarà più né attività, né
pensiero, né conoscenza, né sapienza giù nel soggiorno dei morti, dove stai
per andare » (Qohelet, 9,10). L’occhio di Dio scruta continuamente il comportamento di
Giobbe e tale è presentato anche nel Siracide. Non v’è idea di
retribuzione in vita delle opere buone o cattive, ma certo « non amano le
male azioni gli dèi beati, solo giustizia onorano, le azioni oneste degli
uomini. Anche quei tristi e ribaldi che sulle terre altrui sbarcano, e Zeus
concede loro la preda, e riempite le navi tornano indietro in patria; anche
nel loro cuore cade forte paura dell’occhio divino » (Od. XIV, 83ss).
Conforme a questa linea è anche: « Ahi troppo Zeus t’ha odiato fra gli
uomini, benché pio di cuore » (Od. XIX, 363-364), che si potrebbe
mettere pari pari in bocca a Giobbe quale suo giudizio del comportamento
persecutorio di Dio nei suoi confronti. Nell’Antico Testamento prevale
comunque l’idea che l’uomo buono è premiato da Dio direttamente nel corso
della sua vita con la salute, la prosperità, la discendenza, così in Omero
abbiamo anche « Ma li punisca Zeus supplice, che tutti vede i mortali dall’alto,
e castiga chi pecca » (Od. XIII, 213-214). I contatti col superstizioso
mondo ebraico e semitico da cui Omero comunque si differenzia sono ancora
visibili nella sollecitazione da parte degli dèi di segni, come quando
Odisseo chiede un segno a Zeus e questo mandò un tuono, cui fece seguito l’imprecazione
contro i proci della serva addetta alla macina (libro XX) e come nel caso dell’ordalìa
suggerita a Odisseo da Telemaco: « Le donne ti consiglio, sì, di provarle…
ma gli uomini non vorrei stalla per stalla provarli, vorrei lasciar questa
cura per dopo, se un segno sicuro di Zeus egioco tu sai » (Od. XVI, 316ss).
A Xanto, cavallo parlante di Achille (Il. XIX) va confrontata l’asina
parlante del profeta Balaam (Numeri 22).
[7]
Il tempio di Mater Matuta era in relazione con lo scalo sul Tevere come
dimostrano i frammenti di
ceramica della prima età del
ferro e greca euboica della prima
metà dell’VIII secolo ritrovati negli strati inferiori, oltre due a due brevi iscrizioni etrusche della fine del VII
e della prima metà del VI secolo. Nel vicino Vicus Tuscus era un santuario di
Vertumno (da *Vertomenos, colui che si trasforma, dunque il Proteo del IV
libro dell’Odissea) e in età più tarda un tempio dei Dioscuri (cioè un
riferimento a Romolo e Remo) e non lontano era l’area del
Circo Massimo o dovunque si siano svolte le corse di bighe o quadrighe
legate ai Consualia.
[8]
Ideato originariamente come ritorno a Tarquinia-Pyrgi di un ammiraglio etrusco
da un viaggio esplorativo nel Mediterraneo orientale, poi trasformato in un
viaggio nell’al di là – attraverso un inferno, un purgatorio, un
paradiso, viaggio dantesco ante
litteram – di un defunto reincarnatosi,
per volontà degli dèi, per liberare la moglie e il figlio oppressi da
occupanti stranieri durante la sua assenza.
[9]
A riprova del fatto che i Romani (Roma/Ruma – vedi
anche Rama, la città del giudice Samuele –
in ebraico significa Colle/i) non erano Latini o Sabini c’è l’episodio
ricordato da Livio: « Romolo inviò ambasciatori alle genti limitrofe per
stipulare un trattato di alleanza col nuovo popolo e per favorire la
celebrazione di matrimoni… non
dovevano disdegnare di mescolare il sangue e la stirpe. All’ambasceria non
dette ascolto nessuno; tanto da una parte provavano un aperto disprezzo,
quanto dall’altra temevano per sé e per i propri successori la crescita in
mezzo a loro di una simile potenza. Nell’atto di congedarli, la maggior
parte dei popoli consultati chiedeva se non avessero aperto anche per le donne
un qualche luogo di rifugio (quella infatti sarebbe stata una forma di
matrimonio alla pari). La gioventù romana non la prese di buon grado… »
(I, 9). I luoghi di rifugio romulei ricordano da vicino le città di rifugio
mosaiche, concepite per evitare la sommaria giustizia privata dei parenti dell’ucciso.
Romolo li aveva usati per aumentare la popolazione dando ricetto a chiunque
fuggisse dalle altre comunità senza andare troppo per il sottile. Gli
studiosi scrivono che i personaggi di Omero non distinguono fra commercio e
pirateria (domanda di Nestore a Telemaco, Odissea III, 71ss). Tutto falso,
tanto più che i poemi omerici vogliono insegnare la moralità in guerra (Ira
d’Achille) e la moralità nei commerci (Odissea). L’indifferenza dei
personaggi omerici nei confronti di omicidi (Telemaco con Teoclimeno, Od. XV,
260ss) e pirati di professione dichiarati
(Eumeo con Odisseo sotto mentite spoglie, Od. XIV, 199ss) nasce dall’esperienza
dei luoghi di rifugio romulei.
[10]
Fra Ramnenses ed Israeliti v’erano strettissime similitudini culturali, e
anche i dodici popoli della federazione etrusca avevano fra loro legami di
sangue come le dodici tribù di Israele (cf. Livio, V, 17, dove si parla
esplicitamente di parentela e
consanguineità fra Etruschi riuniti al Fanum Voltumnae e Veienti,
Capenati e Falisci, anch’essi rappresentati al santuario federale). La
tradizione romana faceva risalire i Consualia al dio Conso identificato con
Poseidone e proprio per questo motivo gli erano dedicate le corse dei cavalli
e delle bighe (le stesse dei funerali di Patroclo nel libro XXIII) del vicino
Circo Massimo perché il cavallo era simbolo di Poseidone/Dagan del Paese
Superiore, l’Hypereia omerica (Od. IV, 4). Apione per primo accusò gli
Ebrei di adorare nel tempio di Gerusalemme una testa d’asino d’oro (Gius. Flav.
Contr. Apion. II,
7). Che gli Ebrei spesso e volentieri abbiano deviato dalla religione che li
contraddistingue è ad abundantiam testimoniato dall’Antico Testamento.
Dunque non è inverosimile che in certi momenti di devianza adorassero una
divinità simile a Poseidone, o meglio al
Vertumno/Conso etrusco-romano, cui era sacro il cavallo che, per spregio
contro gli Ebrei e i Cristiani, diventò… un asino, manifestazione del
cattivo Seth, dio degli Hyksos, uccisore del buon Osiride.
[11]
Erodoto, che intervistò i sacerdoti egizi, dice che Elena
a Troia non arrivò mai perché fu intercettata (probabilmente si
trattava della statuetta della divinità Atargatis) dal visir Toni o Toone
insieme a Paride ed entrambi affidati al faraone. Menelao dopo l’inconcludente
guerra di Troia, perché Elena a Troia non c’era, dové lui stesso rapire
Elena dall’Egitto per ricondurla a Sparta, come apprendiamo dalla tragedia
omonima di Euripide. Il santuario del Foro Romano o del Vicus Tuscus
poteva aver avuto origine diretta da quello del quartiere fenicio di Memfi visitato da Erodoto (II, 112) e probabilmente non
ignoto al piccolo Mosè, salvato
dalle acque come Romolo e Remo. Dunque la ‘guerra di Troia’ fu un’invenzione
omerica. Prima di Omero nessuno aveva mai raccontato una leggenda simile.
Naturalmente gli etruschi narravano spezzoni di storie legate alla loro antica
pirateria nel Mediterraneo (dunque anche dalle parti di Troia) e del Mar Nero
(saga degli Argonauti). Elena era
una personificazione di Afrodite Urania/Atargatis/Derketo di Ascalona, in
Siria (Erodoto, I, 105). E’ evidente dalla lettura dei poemi omerici che
Menelao e Paride, alla ricerca di Elena e con Elena si spostano nel
Mediterraneo orientale, fra Siria ed Egitto (su tutta la questione vedi
Erodoto II, 112-120).
[12]
« Da tempo si è osservato che le gesta di Agamennone nel libro XI s’interrompono
a metà (vv. 597 sgg.) per lasciar posto alla missione di Patroclo… Ci
aspetteremmo un rapido ritorno di Patroclo, tanto più che egli rifiuta di
sedersi dicendo che deve tornare subito dal terribile Achille (vv. 649, 654).
Invece – altra interruzione – Nestore lo intrattiene con un lungo racconto
delle sue gesta giovanili. Infine Patroclo riparte correndo, ma a metà strada
si ferma presso Euripilo ferito, parla con lui e lo cura. E qui viene lasciato
mentre la narrazione prende un indirizzo diverso: si torna alla battaglia, che
continua nell’intricata serie dei libri CII-XV, con i suoi mutamenti di
fronte, con quel muro di cinta attorno alle navi che a volte… appare come
una fortificazione in piena regola, con ben cinque porte… Al libro XV (v.
390) finalmente rivediamo Patroclo, che assiste ancora Euripilo e si decide di
correre da Achille. Riprende quindi quel combattimento presso le navi che
avrebbe dovuto concludersi molto prima. Ai primi versi del libro XVI Patroclo
arriva da Achille e ha inizio la « Patroclia ». In questa lunga serie di
canti sono concentrati episodi disparati, che il debole motivo della missione
di Patroclo ha la funzione di tenere insieme alla meglio collegandoli alla
Patroclia che deve seguire. E non saremo troppo severi vol poeta che al
momento del ritorno di Patroclo (XVI 2 sgg.) si è completamente dimenticato
lo scopo originario della sua missione: informarsi sull’identità del ferito
portato in salvo da Nestore. » (F. Codino, Introduzione a Omero, p. 201, 202)
[13]
L’episodio in cui Nestore di Pilo uccide il gigante Ereutalione ricorda
quello di Davide che uccide il gigante Golia: « fossi giovane come quando
sul Celàdonte rapido combattevano insieme Pilî ed Arcadi… sulle correnti
del Giàrdano! [il Giordano!] Sorse un eroe fra essi, Ereutalìone
simile a un nume… Egli…
sfidava tutti i più forti; ed essi tremavano, avevan terrore, nessuno osava.
Solo me spinse a combattere il mio cuore, costante nella sua forza; ed ero fra
tutti il più giovane. Io mi battei con quello, e Atena mi diede l’onore;
sì, l’uccisi, quell’uomo così grande e gagliardo, e giacque immenso [*],
fuor della strada di qua e di là » (Il. VII, 133ss). Nestore di Pilo
sarà piuttosto Nestore di… Silo. L’episodio di Preto corinzio che su
istigazione della moglie Antea che l’accusa d’averla insidiata (e qui c’è
al contempo la storia di Giuseppe, Putifarre e la moglie di questo,
Genesi, 39) invia Bellerofonte da suo suocero Iobate di Licia con una
messaggio scritto su tavolette in cui l’invita
a mettere a morte il latore della missiva
(Il, VI, 152ss). Non è chi non veda l’analogia con la lettera con
cui re Davide ordina al generale Ioab (non è curiosa l’assonanza del nome
dell’esecutore delle volontà reali Ioab/Iobate?) di far morire Uria l’ittita
per prenderne la moglie Betsabea (2 Samuele, 11). Gli episodi suddetti
intervengono in un contesto che attribuisco più volentieri ad un omerida
argolico che in quanto capace imitatore d’Omero potrebbe essersi documentato
sulle stesse fonti o aver rielaborato materiale omerico. L’amicizia un poco
ambigua fra Achille e Patroclo che ad Omero servono fondamentalmente per
rappresentare il guerriero barbaro che la civiltà urbana di Roma vuole
sostituire con l’umano Ettore, è palesemente ricalcata su quella di Davide
e Gionata. Fra le altre similitudini che non ho già trattato al luogo
opportuno c’è quella del pomo offerto
da Eva ad Adamo, motivo per cui,
come dice il Siracide « Dalla donna ha avuto inizio il peccato, e per colpa
sua tutti moriamo » (25,24), e del pomo della discordia assegnato da Paride
alla più bella fra le dee, Afrodite, causa e origine di tutti i mali dei
Greci: « per Elena quanti perimmo! », dice Odisseo ad Agamennone (che
a sua volta riassume il giudizio dell’Antico Testamento: « è un essere
infido la donna ») nel mondo dei morti (libro XI).
[*] Si ritiene che questo
passo sia stato interpolato da un autore posteriore a Omero per il fatto che
qui il vocabolo parēoros significherebbe
‘lungo disteso’, ‘disteso a terra’ (L. Rocci), ‘fuor della
strada’ (R. Calzecchi Onesti) mentre in Il. XVI, 152, 471, 474, che è
sicuramente omerico, il termine
significa ‘cavallo di rinforzo’, bilancino (cf. F. Codino, Introduzione a
Omero, pp. 57-58). Ciò collima
con la mia attribuzione del libro VII all’omerida argolico, che non afferra
l’orientale linguaggio omerico, ma rielabora anche lui materiale ispirato
all’Antico Testamento, cioè le stesse fonti omeriche. Questo passo
prova anche, senza dubbio, che il saggio re giudice Nestore nella
stesura finale dell’Iliade è diventato una figura comica, cominciando a
presentarsi come senex « querulus, laudator temporis acti se puero,
castigator censorque minorum » (e che Orazio in questi versi 173ss dell’Ars
poetica si sia ispirato a Nestore lo suggerisce il fatto che qualche verso
prima ha finito di parlare di Omero e dei suoi poemi).
[14]
Omero nella sua mente abbraccia a grandi linee tutto il mito della guerra di
Troia ma poi nella realizzazione fa solo dei cenni ad antefatti ed episodi che
stanno fuori, il che non significa che rimandi a fatti noti. Egli tramite
questi cenni consente di farsi facilmente un’idea generale del suo progetto.
Saranno i poeti successivi a
completare il mito, con la loro fantasia,
partendo dai punti di riferimento omerici.
[15]
Nel 1076 a. C., il rapimento in battaglia
dell’arca santa da parte dei Filistei scatenò su di loro la peste di
Jahvè fino a quando su suggerimento degli indovini
non fu riconsegnata agli
Israeliti insieme a cinque topi e cinque bubboni d’oro, uno per ciascuna
città filistea (1 Samuele, 5-6). In questa circostanza alle suggestioni
bibliche potrebbero accavallarsi quelle storiche ed eventualmente di canti
eroici della Siria-Cilicia risalenti alla campagna militare del re ittito
Suppiluliuma (XIV sec. a. C.) in questa regione, morto nella
peste portata dal suo esercito di ritorno in patria.
[16]
Quanto all’ira degli dèi ed eroi omerici se n’è scritto tanto ma essa è
prima di tutto figlia dell’ira di
Jahvè, riscontrabile qua e là nell’Antico Testamento, ad esempio del
Cantico di Mosè: « Lo hanno fatto ingelosire con dèi stranieri e provocato
con abomini all’ira » (Deuteronomio, 32, 16), o ancora « l’ira del
Signore divampò contro Israele » (2 Re, 13,3), oppure, classico, « Ma
quando Gog arriverà sul suolo d’Israele, assicura il Signore Dio, l’ira
salirà alle mie nari » (Ezechiele, 38, 18).
Fine