Esci

 

 

 Introduzione, 2a Parte

 

L’Ira d’Achille, il poema umano della democratica Roma ‘Signora del Mondo’

 

 

L’Iliade porta evidentemente un nome che non corrisponde al suo contenuto. Infatti non narra nella sua interezza la guerra di Ilio o Troia [14], ma  una  serie di avvenimenti l’uno conseguenza dell’altro avvenuti in pochi giorni nell’ultimo anno della ‘guerra di Troia’. Il poema si apre sul decimo e ultimo anno della guerra  colla peste [15] che da nove giorni infierisce nel campo acheo, inviata da Apollo Sminteo,  dei ‘topi’ (« Disse così pregando: e Febo Apollo l’udì, e scese giù dalle cime d’Olimpo, irato in cuore, l’arco avendo a spalla, e la faretra chiusa sopra e sotto: le frecce sonavano sulle spalle dell’irato al suo muoversi; egli scendeva come la notte. Si postò dunque lontano dalle navi, lanciò una freccia, e fu pauroso il ronzìo dell’arco d’argento. I muli colpiva in principio e i cani veloci, ma poi mirando sugli uomini la freccia acuta lanciava; e di continuo le pire dei morti ardevano, fitte » Il. I, 43ss), perché Agamennone, capo della coalizione achea, s’è rifiutato, e per giunta irato, di restituire al padre, Crise sacerdote del dio, la figlia Criseide, fatta schiava dagli Achei dopo la presa di Crisa, una città della Troade. Le pire degli Achei colpiti dal morbo ardono da nove giorni, Achille al decimo giorno convoca l’assemblea e interroga l’indovino Calcante sulle cause del morbo e Calcante le manifesta solo dopo essersi assicurata la protezione di Achille quando Agamennone certamente si adirerà.  Solo con la restituzione di Criseide, e con un congruo risarcimento, il sacerdote Crise, e di conseguenza il dio da questo invocato,  Apollo, si placano e il morbo svanisce. E qui c’è tutta l’ira [16] d’Achille, perché avendo ecceduto con  ira nell’esposizione delle sue ragioni e avendo offeso il più potente Agamennone,  Achille deve ricompensare Agamennone con la sua Briseide (che proviene, secondo Omero, da Lirnesso, in Cilicia, dove, a Tebe Ipoplacia, Achille ha ucciso il re Eezione, padre di Andromaca moglie di Ettore: Il. I, 366ss, VI, 395ss, 414ss). Da qui l’ira d’Achille e il suo  ritiro dalla guerra. Teti, la madre d’Achille, chiede a Zeus soddisfazione per suo figlio umiliato e questo, con promessa immutabile, un tuono tremendo che fa tremare l’Olimpo, gliela assicura (« “ …Ecco: farò col capo il cenno perché tu creda: questo da parte mia fra gli immortali è il massimo segno; non torna più indietro, non può ingannare, non resta incompiuto, quanto io abbia promesso accennando. ” Disse e con le nere sopracciglia il Cronide accennò; le chiome ambrosie del sire si scompigliarono sul capo immortale: scosse tutto l’Olimpo » Il. I, 524ss). Ma Era ha assistito al colloquio e, immaginando che Zeus darà la vittoria ai Troiani, idea l’inganno a Zeus, ora nel libro XIV. V’era poi inserito da queste parti il colloquio fra Ettore e Andromaca in cui si presagiva la fine imminente di Ettore.  Ma Zeus si risvegliava in tempo per ordinare ad Apollo di guidare l’assalto troiano al vallo e alle navi. Nel frattempo i greci, venuti a sapere che colui che faceva pendere la bilancia dalla loro parte (Achille) s’era ritirato dalla guerra,  si davano a fuga precipitosa alle navi, e allora  per la prima volta i Troiani, guidati da Ettore e da Apollo, osavano uscire fuori dalle mura protettive di Troia, caricando contro il vallo, e incendiando le prime navi achee (libro XV,  220 circa fino all’inizio di  XVI). In questa battaglia  tutti i  capi achei venivano conciati male, ciò che aveva un sapore comico.   Il programma è chiaramente espresso in XV, 59ss (e  592ss): « Ettore alla battaglia Febo Apollo …desti, gli infonda… vigore… e invece gli Achei respinga…  susciti fuga codarda; e fuggendo si gettino sopra le navi multiremi d’Achille Pelide; egli allora manderà il suo compagno Patroclo; ed Ettore luminoso l’ucciderà davanti a Ilio… e furibondo per lui, Achille glorioso ucciderà Ettore ». 

 

Dall’inizio della guerra Ettore s’era scontrato col parere degli anziani:

 

« Zeus ci dà ora un giorno che tutti gli altri compensa: prender le navi, che contro il volere dei numi venute, molti mali ci fecero, per la viltà degli Anziani, i quali me [Ettore], che volevo combattere presso le poppe, impedivano sempre, tenevano indietro l’esercito; ma se allora Zeus vasta voce accecava le menti nostre, ora egli stesso ci spinge e ci desta » (Il XV, 719ss).

 

Poi già al tempo dell’assalto alle navi e soprattutto dopo il rientro in guerra di Achille Ettore si scontra col parere contrario  di Polidamante, altro capo dei Troiani, e lo mette in minoranza:

 

« E prese a parlare fra loro il savio Polidàmante, figlio di Pàntoo; egli solo guardava al prima e al dopo: era compagno d’Ettore, nati nella medesima notte, ma uno con le parole, l’altro con l’asta eccelleva. Egli saggio pensando parlò fra loro e disse: “ Amici, guardate le cose da tutte le parti; io vi consiglio di andare adesso in città, di non attender l’aurora luminosa qui nella piana presso le navi… del Pelide rapido piede, ora, ho terribilmente paura… Andiamo alla rocca… se qui ci trova accampati domani, quando moverà armato, troppo qualcuno dovrà capirlo: raggiungerà con gioia Ilio sacra chi avrà potuto fuggire, ma molti i cani e gli avvoltoi divoreranno fra i Troi… ” Ma guardandolo bieco parlò Ettore elmo lucente: “ Polidàmante, tu certo non dici cose a me care, tu che consigli di andare di nuovo a chiuderci nella rocca: non siete sazi, dunque, di star chiusi dentro i bastioni? Prima i mortali la città del re Priamo chiamavan tutti ricca d’oro, ricca di bronzo, ma i ricchi tesori dei nostri palazzi ora sono periti, e molte nella Frigia e nella Peonia amabile vanno vendute ricchezze, dacché è irato il gran Zeus. Ora, mentre a me diede il figlio di Crono pensiero complesso d’acquistar gloria presso le navi, respingere al mare gli Achei, stolto, tali consigli non devi aprire fra il popolo, nessuno t’obbedirà dei Troiani, io non vorrò…  ” Ettore parlò così, i Troiani acclamarono: stolti! Il senno tolse loro Pallade Atena: tutti approvarono Ettore che mal consigliava, nessuno Polidàmante che aveva esposto un buon piano. » (Il. XVIII, 249ss).

 

I Troiani sfondano il muro e danno fuoco alle prime navi. Achille, che vede minacciate le sue navi, invia Patroclo e i Mirmidoni contro i Troiani, che ripiegano fin sotto le mura dove Ettore uccide Patroclo e si impossessa dell’armatura di Achille (libro XVI), che allora scende in battaglia (la battaglia cosmica del libro XX e XXI) per vendicare l’amico e i Troiani si rifugiano entro le mura della città. Ettore rimane fuori perché si sente responsabile della disfatta per non aver seguito il consiglio di Polidamante di cui ora teme i rimproveri. Preferisce dunque morire da eroe ucciso da Achille:

 

« Ohimè, se mi ritiro dentro la porta e il muro, Polidàmante per primo mi coprirà d’infamia, lui che mi consigliava di ricondurre i Troiani in città quella notte funesta, quando si levò Achille glorioso; e io non volli ascoltare; pure era molto meglio. Ora che ho rovinato l’esercito col mio folle errore, ho vergogna dei Troiani e delle Troiane lunghi pepli, non abbia a dire qualcuno più vile di me:  “ Ettore ha rovinato l’esercito fidando nelle sue forze. ” Ah sì, così diranno. E allora per me è molto meglio o non tornare prima d’aver ucciso Achille, o perire davanti alla rocca, di sua mano, con gloria » (Il. XXII, 99ss).

 

Achille uccide Ettore con  l’inutile inganno di Atena (divinità dunque fondamentalmente assente o malvagia in Omero), celebra i funerali di Patroclo (probabilmente con la sola corsa dei carri, con riferimento alla corsa dei carri nelle Consualia,  in onore di Vertumno/Poseidone, libro XXIII). Il poema si concludeva con la riconsegna del cadavere di Ettore al re Priamo da parte di Achille nella sua tenda e i funerali solenni  celebrati dai Troiani e degli alleati intorno al rogo di Ettore « domatore di cavalli »  (libro XXIV).

 

Omero scrisse solo l’Ira d’Achille (in circa 6000 versi) e infatti l’introduzione dell’Iliade è rimasta la stessa dell’Ira d’Achille: « Canta, o dea, l’ira d’Achille Pelide, rovinosa, che infiniti dolori inflisse agli Achei… da quando prima si divisero contendendo l’Atride signore d’eroi e Achille glorioso ». Tullo Ostilio, terzo re di Roma commissionò il poema ad Omero per celebrare nel 649 a. C. il centenario  dalla fondazione di Roma (753 a. C.) e soprattutto le festività  dei giochi secolari (i Consualia,  da condere = fondare,  del settembre; più precisamente tre giorni di festa, verisimilmente a partire dal  13, giorno in cui veniva conficcato il chiodo annuale) del santuario panetrusco di Poseidone/Vertumno al Foro Romano istituiti (nel 749 a. C.) dallo stesso Romolo (Dionisio d’Alicarnasso, II, 31,1). Durante i Consualia del 749 a. C. i Ramnenses, la tribù romulea, avevano rapito le latine! (e sabine) proprio durante i giochi federali etruschi cui erano stati invitati i popoli vicini. Tullo Ostilio chiese ad Omero di ricordare l’avvenimento nel poema celebrativo perché attraverso il rapimento s’era creato un legame di sangue fra romani e latini e adesso Tullo Ostilio voleva che questo legame fosse rinnovato fra romani e latini (che si ritenevano greci) per raggiungere la pacificazione fra i due popoli dopo che lui, Tullio, di origini latine, aveva raso al suolo la capitale Alba Longa deportando a Roma la popolazione (egli aveva anche raso al suolo la sua città natale di Medullia), e fra romani e greci, in particolare i mercanti, invitati a depositare nel santuario di Mater Matuta-Ino Leucothea (vedi Prisciano: GLK II, 76, 18ss ‘matutinus’ a Matuta, quae significat Auroram vel, ut quidam, Λευκοθέαν; cf. Cicerone, Tusc. I, 18) valori a garanzia degli scambi commerciali con la città tiberina.

Omero inventò il mito della guerra di Troia trasferendovi tradizioni d’origine siro-cilicio-cipriote e anche avvalendosi di tradizioni dell’Etruria  relative alla frequentazione metallurgica  dell’Egeo e del Mar Nero da parte dei Tirreni, ma celando il tutto dietro alla mitizzazione della colonizzazione greca dell’Eolide, della Ionia e della Doride in seguito all’invasone dorica. Che Omero e la sua poesia non abbia alcun rapporto sottostante (oltre quello di destinatarie della poesia stessa) con la Grecia e la Ionia d’Asia lo dimostrano a sufficienza l’inutile affaticarsi degli studiosi e il silenzio dell’archeologia, cioè l’assenza di prove di una colonizzazione dell’Anatolia e in particolare della Troade in età micenea e ancora il fatto che la cultura di fondo dei poemi omerici non è greca terriera come dicono gli studiosi, bensì fenicia marinara, anche se nella loro apertura verso i greci gli etrusco-romani (e così Omero nell’Odissea) sono disposti a parlare un po’ male dei loro cugini fenici. Per approfondire gli antefatti della creazione mitopoietica dell’Ira d’Achille si veda la parte introduttiva.

Omero e il suo committente Tullo Ostilio sono di fervida immaginazione e pronti a stupirci con possibili molteplici letture dell’Ira d’Achille dove  altri episodi sono parimenti o addirittura ancora più centrali di quelli appena rilevati.  L’eroe nelle cui mani è la difesa di Troia, Ettore, è il vero protagonista dell’Ira d’Achille, ma dalla morte di Ettore e dalle ceneri di Troia sorgerà grazie ad Enea e ai suoi profughi il popolo latino e romano, ed è dunque l’episodio di Enea che si fronteggia con Achille il vero punto focale dell’Ira d’Achille. Enea morirebbe certamente se si scontrasse con Achille, tornato a combattere (e lo vediamo in campo per la prima volta dall’inizio del poema) dopo la sua riappacificazione coi capi achei, e infatti  Poseidone, come un  Genio della lampada scende a prenderlo e lo porta in volo fuori dalla mischia, lontano dalle mani omicide di Achille (libro XX; la scena è troppo plasticamente descritta per non essersi ispirata ad un bassorilievo su ara sacrificale realizzata proprio per la circostanza delle cerimonie dei ludi saeculares) perché destinato a dar vita al popolo romano (come già interpretava Dionisio d’Alicarnasso, I, 53,4 e 5). Enea viene onorato  dal fatto che Achille, l’eroe più forte a Troia gli si fa contro, mentre sullo sfondo Europa e Asia,  Cielo e Terra gli combattono intorno rendendogli omaggio. Se si vuole cercare un nocciolo dell’Ira d’Achille (come dell’Odissea è la dichiarazione di xenìa fatta da Odisseo alla coppia regale di Scheria), allora questo è costituito proprio dalla fine imminente di Troia e del popolo troiano, di cui è consapevole Ettore, sua unica difesa: giorno verrà che Ilio sacra perisca, e Priamo, e la gente di Priamo buona lancia (Il. VI, 448ss); ma al tempo stesso dalla consapevolezza che sui lidi tirreni questo stesso popolo risorgerà come la Fenice dalle sue ceneri per assurgere a maggiore grandezza, a dominatrice del Mondo, come emerge dalle parole di Poseidone, dio del mare: Già il Cronide ha preso a odiare la stirpe di Priamo, ora la forza d’Enea regnerà sui Troiani e i figli dei figli e quelli che dopo verranno (Il. XX, 306ss). In realtà quando Omero scrive alla metà del VII secolo  la forza d’Enea o meglio quella dei suoi successori regna da un pezzo sui lidi italici sui Troiani e i figli dei figli  immigrati in Italia. Omero mette in forma di profezia la realtà di cui è testimone oculare privilegiato.

Al motivo centrale del legame di sangue tramite il  matrimonio fra Paride e Elena si può affiancare il rapporto di ospitalità (xenìa) e riappacificazione creatosi fra Romani e Greci nel momento in cui Priamo troiano è ospite nella tenda di Achille e ne riceve il corpo del figlio e una dilazione della guerra per consentirne i funerali.

L’Ira d’Achille ha anche e soprattutto intenti pedagogici e celebra il codice morale militare romano attraverso Ettore il valoroso e umano cittadino in armi che alla testa della falange oplitica combatte per la salvezza della sua patria che si identifica colla città-stato contro il feroce, ferino, guerriero vecchio stampo Achille che combatte per un falso senso dell’onore (per una semplice schiava, cioè un oggetto, che egli non ama, Briseide, toltagli da Agamennone) seguito dai suoi Mirmidoni che combattono solo per lui. La ferocia del guerriero vecchio stampo  è ancor più esemplificata dall’amico Patroclo: « Aiaci, adesso caro vi sia vendicarvi… Giace l’uomo che traversò per primo il muro dei Danai, Sarpedone: prendiamolo e malmeniamolo, spogliamo l’armi dalle sue spalle, e qualche compagno, che lo venga a difendere, col bronzo spietato ammazziamo » Il. XVI, 556ss; « colpì l’auriga d’Ettore, Cebrione, figlio bastardo di Priamo glorioso che dei cavalli reggeva le redini, in fronte col sasso puntuto. Sfondò i due sopraccigli la pietra, non resistette l’osso, gli occhi per terra caddero nella polvere davanti ai suoi piedi; simile a un tuffatore piombò giù dal carro, lasciò l’ossa la vita. E tu, deridendolo, questo dicesti, Patroclo cavaliere: “ Oh l’agile uomo, come facilmente volteggia! Ma se venisse anche sul mare pescoso, questi cercando ostriche, sazierebbe parecchi, gettandosi dalla nave, pur col mare cattivo, come ora nel piano volteggia facilmente dal cocchio: anche fra i Teucri, dunque, ci son tuffatori! ” » Il. XVI, 737ss. Ettore bene ha fatto a togliere di mezzo simile mostro umano. « E tu, deridendolo, questo dicesti, Patroclo cavaliere » (nell’Ira d’Achille) suona abbastanza male (un tono confidenziale usato con un assassino) e  corrisponde esattamente (nel testo  greco) a  « e tu gli dicevi insultandolo, Eumeo porcaio: “ Adesso davvero, Melanzio, veglierai tutta notte, in un morbido letto, come ben ti conviene, e, nata di luce, sorgendo dalle correnti d’Oceano, la dea trono d’oro, non ti sfuggirà, quando devi portare le capre ai pretendenti, che in sala il banchetto preparino. ” Così Melanzio restò là, stretto nel laccio mortale » (Od. XXII, 194ss; Melanzio il traditore è stato  legato ad una trave del palazzo d’Odisseo). Grazie a questo riscontro è possibile sostenere che l’Ira d’Achille  è stata scritta prima e l’Odissea completata poi dallo stesso autore sempre più maestro della sua tecnica.

La stessa umanità che nell’Ira d’Achille nasce come reazione al comportamento bestiale di Patroclo (e in misura minore di Achille, barbari guerrieri villanoviani e celto-germanici, cioè protoetruschi o preetruschi come si preferisce)  è espressa da Odisseo che rimprovera Euriclea dopo la strage dei pretendenti: « In cuore, balia, godi, ma frènati, non esultare: non è pietà su uomini uccisi far festa. Costoro la Moira dei numi travolse, e le azioni malvage; perché nessuno onoravano degli uomini in terra, né il tristo, né il buono, chi arrivasse tra loro: così, pel loro folle orgoglio, turpe fine trovarono » (Od. XXII, 411ss).

L’Ira d’Achille ma anche l’Iliade che è costruita nella cornice dell’Ira d’Achille e ha dunque lo stesso finale, è una favola triste, un  poema drammatico, anzi tragico della fine del buon cittadino in armi, Ettore, sostegno di una famiglia, di una città, Troia, di una coalizione di popoli dell’Asia anteriore, il cui destino di distruzione, dopo la morte di questo, è segnato. Notevoli le caratterizzazioni di Priamo: « “ Ah, fra le mura rientra, figlio mio, per proteggere Teucri e Troiane: non dar gloria immensa al Pelide, non perder la cara vita tu stesso. Abbi pietà di me misero. Ancora ho cervello, infelice, e il padre Cronide all’orlo della vecchiaia di mala morte m’ammazzerà, visti mali infiniti, uccisi i figli, condotte schiave le figlie, i talami saccheggiati, i teneri bimbi sbattuti per terra nell’orrendo massacro, trascinate le nuore dalle mani funeste dei Danai. Me per ultimo, allora, sopra le porte i cani carnivori sbraneranno, quando qualcuno col bronzo acuto m’avrà colto o ferito, strappando la vita alle membra… I cani, sì, quelli che in casa, alla mia tavola crebbi, a far guardia, questi bevuto il mio sangue, la rabbia nel cuore, si sdraieran nell’entrata. A un giovane sta sempre bene morto in battaglia, straziato dal bronzo acuto, giacere; tutto quel che si vede, anche se è morto, è bello. Ma quando il capo bianco e la barba canuta e le vergogne sconciano i cani d’un vecchio ammazzato, questa è la cosa più triste fra i mortali infelici… ” Diceva il vecchio, e con le mani tirava i capelli strappandoli dalla testa: ma non persuase l’animo d’Ettore » Il. XXII, 56ss;  e Ecuba: « Dall’altra parte gemeva la madre, versando lacrime, e aperta la veste con una mano sollevava la poppa e gli parlava piangendo parole fugaci: “ Ettore, creatura mia, rispetta queste, abbi pietà di me, se la mammella t’ho dato, che fa scordare le pene: ricorda, creatura cara, e l’uomo nemico allontana stando qui fra le mura, non affrontarlo in duello, crudele!  Se mai t’uccidesse, ah ch’io non potrò piangerti sul cataletto, figlio, io che t’ho partorito, e neppure la sposa ricchi doni: lontano da noi ti strazieranno i rapidi cani ” » Il. XXII, 79ss;  e ancora Ecuba e Priamo:  « Disse così, ma la donna gemette e ricambiò parola: “ Ahimè! Dove è andato il tuo senno, per cui prima avevi gloria fra gli stranieri e fra le genti che reggi? Come vuoi alle navi dei Danai andare solo, sotto gli occhi d’un uomo, che tanti e gagliardi figli t’ha ucciso? Tu hai cuore di ferro. Se ti sorprenderà, ti vedrà coi suoi occhi, è un uomo crudele, infido, e non avrà compassione, non rispetto per te: ah! Piangiamo lontano, seduti nella sala… Così la Moira crudele per Ettore filò lo stame quando nasceva, quand’io l’ho partorito, che saziasse le rapide cagne, lontano dai suoi genitori presso un uomo feroce:  ma potessi il suo fegato mordere e divorarlo: sarebbe vendetta pel figlio che non m’ha ucciso mentre voltava le spalle, ma mentre a difesa dei Troiani, delle Troiane alto cinte lottava con lui, immemore di paura e di fuga! ”   

E il vecchio Priamo pari ai numi le disse: “ No, non mi trattenere, io voglio andarci! Non farmi proprio tu in casa l’uccello funesto, non potrai persuadermi… ho udito io stesso la dea, me la son vista davanti. Andrò, e non sarà vana parola. Che se mi fosse destino morire presso le navi dei Danai chitoni di bronzo, io son pronto. Sì, davvero m’uccidesse là Achille, mentre il figlio mio stringo, sfogata la brama di pianto! ” Diceva, e delle casse aprì i bei coperchi, e prese da esse dodici pepli bellissimi, dodici mantelli… troppo voleva in cuore ricomprare il figliuolo. Poi tutti i Troiani cacciò dal portico, trattandoli con male parole: “ Andate in malora, svergognati, vigliacchi! Ma dunque non avete dolori in casa, che venite ad affliggere me? O non vi basta lo strazio che Zeus Cronide m’ha dato, perdere il figlio migliore? Lo sentirete anche voi: più facile, e molto, sarà per gli Achei lui morto, distruggervi. Prima, però, prima che la città saccheggiata e distrutta veda con gli occhi, ch’io scenda alle case dell’Ade! ” Disse e scacciava col suo bastone la gente: uscirono quelli sotto la furia del vecchio. Ma anche i figliuoli sgridava, ingiuriando Èleno e Paride… “ Presto, mali figli, poltroni! Oh se tutti mi foste morti invece d’Ettore, fra le navi veloci! Ah, maledetto destino, che generai tanti figli gagliardi in Troia spaziosa, e non me ne resta nessuno… Questi Ares m’ha spenti, mi restano solo i vigliacchi, i ballerini, i bugiardi, che eccellono nei passi di danza, buoni solo a rubare in patria agnelli e capretti. E non mi preparate al più presto il carro, tutto questo ponendovi sopra, ch’io mi metta in cammino? »  Il. XXIV, 200ss;   e Andromaca: « “ Ora te fra le concave navi, lontano dai genitori, saltanti vermi roderanno, quando saran sazi i cani, nudo: e nella casa ci son le tue vesti sottili e belle, fatte da mani di donne… Ma tutte le voglio bruciare nel fuoco avvampante, e a te non gioverà, ché non giacerai fra esse, solo per farti onore davanti a Teucri e Troiane! ” Diceva così singhiozzando, piangevano intorno le donne » Il. XXII, 508ss; « tu non m’hai tesa la mano dal letto, morendo, non m’hai detto saggia parola, che sempre potessi avere presente, notte e giorno, tra il pianto! » Il. XXIV, 743ss.

Ma poiché il vero protagonista dell’Ira d’Achille  è Ettore, questa si conclude con la riappacificazione fra Achille (i Greci) e Priamo (i Troiani/Romani) e la  restituzione del corpo di Ettore  e i suoi funerali. Dunque il finale drammatico della morte di Ettore, dello scempio fatto da Achille sul suo cadavere e dell’umiliazione cui si sottopone Priamo pur di riavere il corpo del figlio e seppellirlo umanamente (« strinse fra le sue mani i ginocchi d’Achille, baciò quella mano tremenda, omicida, che molti figliuoli gli uccise », Il. XXIV, 478-479) viene attenuato dal fatto che grazie all’opera civilizzatrice dell’Ira d’Achille anche quella belva umana di Achille diventa un essere umano, urbano, un guerriero capace di provare pietà per il cadavere di Ettore e per il vecchio padre di questo, e soprattutto dalla certezza che dalle ceneri  di un grande e sfortunato popolo (quello troiano, ma in realtà quello siro-cilicio salvatosi dalle devastazioni dei Popoli del mare) rinascerà su  lidi lontani, quelli italici,  un  popolo ancora più grande, quello romano, destinato a dominare il mondo, dall’Asia all’estremo occidente. E colpisce questa preveggenza attribuibile solo agli auguri e aruspici etrusco-romani (e prima ancora caldei).

Dopo la morte di Patroclo  Achille scopre che  la sua lite con Agamennone non valeva la morte del suo unico amico Patroclo (« Atride, ah, che bene fu mai per entrambi, per te e per me, che noi due, morsi in petto dalla lite che il cuore divora, ci adirassimo per una fanciulla? Ah sulle navi l’avesse uccisa Artemide di freccia, il giorno ch’io la presi, abbattuta Lirnesso!… » Il. XIX, 56ss; Achille sta qui parlando di Briseide, una donna oggetto, e schiava per giunta, semplice ‘riposo del guerriero’)  perciò ora vuole solo vendetta su Ettore. Ma anche dopo la morte di Ettore Achille sperimenterà che con la vendetta non è riuscito a riavere indietro l’amico e in più scopre il suo lato umano attraverso l’incontro con Priamo e la riconsegna del corpo di Ettore per le ultime esequie. Concederà perfino a Priamo i giorni da questo richiesto per i funerali e in quei giorni Achille assicura che le armi taceranno. Achille da uomo brutale che ha a cuore solo « strage e sangue e orrendo gemere d’uomini » (Il. XIX, 214) è finalmente diventato un uomo civile.

Anche l’Ira d’Achille come l’Odissea lancia un messaggio su come non ci si deve comportare, e in tal caso si tratta di rifuggire dall’ira. Il messaggio è implicito nell’intervento pacificatore di Nestore ma lo troviamo espresso nell’Iliade ad opera di Odisseo (che l’omerida argolico  ha sostituito a Nestore che egli ha svalutato come personaggio comico; anche se poi il suo Odisseo, con la sua pignoleria da Azzeccagarbugli è anche più non volutamente ridicolo) rivolto ad Agamennone « e tu nel futuro anche con gli altri più giusto sarai » (Il.  XIX, 181-182) e ad Achille « certo non merita biasimo che un re plachi un guerriero, se per primo ha infuriato. » (Il. XIX, 182-183) Cioè entrambi hanno sbagliato, Achille perché ha fatto una sfuriata eccedendo nelle sue ragioni (e  Agamennone, che ha più potere e dunque conta di più,  ha  fatto bene a rimetterlo in riga), ma Agamennone ha pure sbagliato umiliando la colonna dell’esercito greco Achille portandogli via Briseide. Si doveva rifare sui beni comuni, e poiché questi non c’erano attualmente avrebbe dovuto attendere un altro saccheggio a un’altra città. Il messaggio sostanzialmente ammonisce a rifuggire dalla prepotenza, dalla superbia e dall’ira, peccati gravi di Ebrei ed Etruschi, più che dei Greci.

 

L’inganno di Era a Zeus. « Allora Era divina grandi occhi esitò, cercando come potesse ingannare la mente di Zeus egioco: questo infine le parve nell’animo il piano migliore andare sull’Ida, dopo aver bene ornato se stessa, se mai Zeus bramasse d’abbandonarsi in amore contro il suo corpo, e un sonno caldo e tranquillo potesse versargli sopra le palpebre e nei pensieri prudenti. E mosse per andare nel talamo… Ella, giuntavi, chiuse le porte splendenti. E con ambrosia prima dal corpo desiderabile tolse ogni sozzura, si unse poi d’olio grasso, ambrosio, soave, che profumò lei stessa… Unto con quello il bel corpo e pettinate le chiome, intrecciò di sua mano le trecce lucenti, belle, ambrosie, che pendono giù dal corpo immortale. E indosso vestì veste ambrosia, che Atena le lavorò e ripulì, vi mise molti ornamenti; con fibbie d’oro se l’affibbiò sopra il petto. Cinse poi la cintura, bella di cento frange, nei lobi ben bucati infilò gli orecchini a tre perle, grossi come una mora; molta grazia ne splende. D’un velo coperse il capo la dea luminosa, nuovo e bello; ed era candido come un sole. Sotto i morbidi piedi legò i sandali belli. Poi, dopo che tutti mise gli ornamenti sul corpo, uscì dal talamo e chiamando Afrodite in disparte dagli altri dèi, le disse parola: “ Ora m’ascolterai, figlia cara, in quello ch’io dico… ” E le rispose la figlia di Zeus Afrodite: “ Era, dea veneranda, figlia del grande Crono, di’ pure quello che pensi, a farlo il cuore mi spinge, se posso farlo o se, forse, è cosa già fatta. ” E meditando inganni le disse Era divina: “ Dammi dunque l’amore, l’incanto, con cui tutti vinci gli eterni e gli uomini mortali. Vado a vedere i confini della terra feconda, l’Oceano, principio dei numi, e la madre Teti, che nelle case loro mi nutrirono e crebbero, affidata da Rea, quando Zeus vasta voce Crono cacciò sotto la terra e il mare inseminato. Questi vado a vedere, scioglierò loro litigio infinito; perché da molto tempo stanno lontani dall’amore e dal letto… ” Le disse di nuovo Afrodite che ama il sorriso: “ Non si può, non è degno opporre un rifiuto al tuo verbo, ché tra le braccia tu giaci dell’altissimo Zeus. ” Disse, e sciolse dal petto la fascia ricamata, a vivi colori, dove stan tutti gli incanti: lì v’è l’amore e il desiderio e l’incontro, la seduzione, che ruba il senno anche ai saggi. Questa le pose in mano e disse parola, parlò così: “ Ecco! Mettiti in seno questa mia fascia a vivi colori, in mezzo c’è tutto: e ti dico non lascerai a mezzo ciò che brami nel cuore. ” Disse: Era divina grandi occhi sorrise, e sorridendo se la pose in seno. Ed ella entrò in casa, la figlia di Zeus Afrodite, ma Era d’un balzo lasciò la vetta d’Olimpo, venne giù nella Pieria, nell’amabile Ematia, si slanciò verso le cime nevose dei Traci che allevan cavalli, vette altissime: coi piedi non toccava la terra. Dall’Atos si buttò verso l’ondoso mare, e giunse a Lemno, città del divino Tante. Qui al Sonno si fece incontro, fratello della Morte, e lo prese per mano e disse parola, parlò così: “ Sonno, signore degli dèi tutti, degli uomini tutti, sempre la mia parola ascoltasti: ora di nuovo obbediscimi, te ne avrò grazia per sempre. Sotto le ciglia addormentami gli occhi lucenti di Zeus, di colpo, appena con lui mi sarò stesa in amore: ti darò in dono… ” Ma rispondendole disse il Sonno soave: “ Era, dea veneranda, figlia del grande Crono, un altro dei numi che vivono eterni io di certo l’addormenterei senza pena, sia pur le correnti del fiume Oceano, che a tutti i numi fu origine. Ma non voglio appressarmi a Zeus figlio di Crono, né addormentarlo, quando lui non me l’ordini… ” Riprese dunque a dirgli Era divina grandi occhi… “ …Ma via, una delle giovani Grazie io ti darò in matrimonio, ché sia detta tua sposa, Pasìtea; sempre tu ne sei innamorato. ” Parlò così: gioì il Sonno e rispondendo le disse: “ Giura dunque per l’inviolabile acqua di Stige… che tu mi darai una delle giovani Grazie, Pasìtea; io sempre ne sono innamorato. ” Disse così, non rifiutò la dea Era braccio bianco, giurò come volle… Ma quando ebbe giurato, perfetto il giuramento, mossero, lasciando la città d’Imbro e di Lemno, vestiti d’aria, compiendo in fretta il cammino. Raggiunsero l’Ida ricca di vene, madre di fiere, e il Lecto: qui lasciarono il mare e sopra la terra andavano, si piegavano sotto i piedi le cime dei boschi. Ma qui s’arrestò il Sonno, prima che gli occhi di Zeus lo vedessero, montando sul pino più alto che mai sopra l’Ida, cresciuto gigante, per l’aria salisse nell’etere:qui s’appollaiò, nascosto dai rami del pino, sembrando l’uccello canoro che nelle selve càlcide chiaman gli dèi, e gli uomini ciminde.

Era velocemente raggiunse la cima del Gàrgaro nell’Ida eccelsa; e Zeus la vide, che le nubi raccoglie. Come la vide, così la brama avvolse il suo cuore prudente, come allora che d’amore la prima volta s’unirono entrando nel letto, dei cari parenti all’oscuro. E le fu accanto, le disse parola, parlò così: “ Era, che cosa vieni a cercare quaggiù dall’Olimpo?… ” E meditando inganni Era augusta rispose:  “ Vado a vedere i confini della terra feconda… ” Ma le rispose Zeus che le nubi raccoglie: “ Era, laggiù puoi ben andare più tardi: vieni ora, stendiamoci e diamoci all’amore. Mai così desiderio di dea o di donna mortale mi vinse, spandendomi dappertutto nel petto…  tanto ti bramo ora, il desiderio mi vince! ” E meditando inganni gli rispose Era augusta: “ Terribile Cronide, che parola hai detto? Se tu ora brami abbandonarti all’amore sulle cime dell’Ida, e tutto è in piena luce, che sarà se qualcuno dei numi che vivono eterni ci veda a dormire e andando in mezzo agli dèi lo dica a tutti?… Ma se tu vuoi, e questo è caro al cuore, hai il talamo… Andiamo a stenderci là, poi che il letto ti piace. ” … afferrò tra le braccia la sposa: e sotto di loro la terra divina produsse erba tenera, e loto rugiadoso e croco e giacinto morbido e folto, che della terra di sotto era schermo: su questa si stesero, si coprirono di una nuvola bella, d’oro: gocciava rugiada lucente. Così tranquillo il padre dormì, sulla cima del Gàrgaro, vinto dall’amore e dal sonno, e stringeva la sposa. Ma il Sonno balzò  correndo verso le navi degli Achei… » (Il. XIV, 159ss).

 

Il risveglio di Zeus e la scoperta dell’inganno. uesti vado a vedere, scioglierò loro litigio infinito; perché da molto tempo stanno lontani dall’amore e dal letto

  « Ed ecco  Zeus si destò sulle cime dell’Ida, accanto a Era bel trono, e balzò in piedi, e vide i Troi e gli Achei, gli uni sconvolti, gli altri che li incalzavano dietro, gli Argivi, e in mezzo a questi il sire Poseidone. E vide Ettore steso nella pianura: intorno i compagni stavano; egli era in preda a terribile affanno, fuori dai sensi, sputando sangue, ché non il più fiacco degli Achei lo colpì. N’ebbe pietà, vedendolo, il padre dei numi e degli uomini, e terribile, guardando bieco Era, parlò: “ Ah! L’inganno tuo tristo, Era ostinata, Ettore glorioso fermò nella lotta, sconvolse l’esercito. Eppure non so se dell’insopportabile frode tu per prima non colga il frutto, io non ti frusti. Ricordi quando t’appesi in alto… Io ti ricordo questo, perché tu smetta le frodi, e veda bene se può salvarti il letto e l’amore con cui mi t’unisti lontano dai numi, e fu inganno. ” Parlò così: Era augusta grandi occhi ebbe un brivido, e rispondendo disse parole fuggenti: “ Sappia dunque la Terra e il Cielo vasto di sopra, e l’onda scorrente di Stige – questo è giuramento grande e tremendo fra i numi beati – e il tuo sacro capo e il nostro letto legittimo, pel quale non vorrò mai spergiurare, non per mio incitamento Poseidone enosictono malmena Ettore e i Troi, e soccorre gli Achei… ” Parlò così: sorrise il padre dei numi e degli uomini, e rispondendole disse parole fuggenti: “ Ah! Se tu, Era augusta grandi occhi, concordemente pensando con me sedessi fra gli immortali, allora sì Poseidone – abbia pure altra brama – subito cambierebbe pensiero, secondo il tuo e il mio volere! Ma se davvero tu parli schietto e leale, va’ tra le stirpi dei numi e comanda che qui vengano Iri e Apollo arco glorioso… ” Disse così; non fu sorda la dea Era braccio bianco, e mosse dalle cime dell’Ida…  e giunse all’Olimpo rupestre e si portò fra gli dèi immortali, raccolti nella casa di Zeus; essi vedendola balzarono tutti in piedi, le offersero le coppe. Ma ella lasciò gli altri, da Temi guancia bella prese la coppa, che prima le venne incontro correndo e la voce le volse e disse parole fugaci: “ Era, perché sei qui? Tu sembri sconvolta. Certo t’ha molto impaurita il figlio di Crono, il tuo sposo ”. E la dea Era braccio bianco rispose: “ Non chiedere questo, dea Temi, tu sai bene quanto il suo cuore è superbo e implacabile. Comincia il banchetto dei numi, uguale per tutti, dentro la sala e insieme con gli altri immortali udirai quanti malanni Zeus ci promette: io son certa che a tutti ugualmente il cuore dorrà: ai mortali e ai numi, se ancora qualcuno lieto banchetta ”. Dicendo così, la dea Era braccio bianco sedette. I numi eran sdegnati nella casa di Zeus; ella rise con le labbra, ma sopra dei sopraccigli neri la fronte non s’allietò; parlò in mezzo a tutti con ira: “ Poveri pazzi, che contro Zeus congiuriamo e forse speriamo ancora d’affrontarlo e fermarlo o con parole o per forza! Ma lui sedendo in disparte non se ne cura… Perciò tenetevi il male che manda a ciascuno: per Ares – credo – è già pronto lo strazio, è morto in battaglia il suo figlio, l’uomo più caro per lui, Ascàlafo, che suo il forte Ares proclama ”. Disse così: Ares si batté le due cosce col palmo della mano e gridò con un gemito: “ Non v’adirate con me… se corro alle navi achee a vendicare la morte del figlio, fosse pur mio destino, colpito dal fuoco di Zeus, giacere in mezzo ai cadaveri tra la polvere e il sangue ”. Disse così e comandò a Terrore e Disfatta che gli aggiogassero i cavalli e prese a vestire l’armi raggianti. Allora anche maggiore, ancor più terribile e nuova ira e corruccio di Zeus contro i numi nasceva, ma Atena, temendo per tutti gli dèi, balzò verso il vestibolo, lasciando il trono in cui stava, e dalla testa gli strappò l’elmo e dalle spalle lo scudo… e con parole investì Ares ardente: “ Pazzo imbecille! Hai perso la testa. Davvero gli orecchi ce l’hai per udire, ma morto è il giudizio e il rispetto. Non senti che cosa dice la dea Era braccio bianco, che or ora dal fianco di Zeus Olimpio ritorna? Oppure vuoi, tutti i mali colmando, tu stesso tornartene  per forza con dolore all’Olimpo, e seminare per tutti gli altri gran danno? Perché subito i Teucri superbi e gli Achei lascerà  Zeus e verrà sull’olimpo a scacciarci, tutti ci afferrerà, chi ne ha colpa e chi no. Perciò ti consiglio di tralasciare l’ira del figlio: già guerriero migliore di lui per forza e per braccio venne ucciso e sarà ancora ucciso: è difficile di tutti gli uomini salvare il sangue e la stirpe ”. Dicendo così, fece sedere sul trono Ares ardente; ma Era chiamò fuori della sala Apollo ed Iri, che è nunzia dei numi immortali… » (Il. XV, 4ss).

 

 

 

 

 

L’Iliade, ovvero la trasformazione dell’Ira d’Achille in poema  tragicomico di gusto popolaresco da parte dell’omerida al servizio di Fidone d’Argo (VII sec. a. C.)

 

5 – Guerrieri dipinti su lastra fittile da Pazarli, presso Bogăzköy, Museo di Ankara.

 

 

L’Ira d’Achille celebrava Roma e le sue origini troiane attraverso Ettore, il leale combattente dell’esercito cittadino e dunque democratico, organizzato nella falange politica,  che diceva “ è bello combattere per la patria, è bello morire difendendo la patria. ”  Ettore, la colonna dei Troiani moriva e subito dopo Troia sarebbe caduta ma dalle sue ceneri sarebbe risorto sui lidi italici un popolo ancora più forte, destinato a dominare il Mondo. L’Ira d’Achille era un poema che aveva qualche sfumatura comica ma era  fondamentalmente serio e tragico. In mano all’omerida argolico al servizio di Fidone d’Argo il poema complessivamente si trasforma nella celebrazione del popolo greco tanto da diventare il poema nazionale greco, ma al contempo accentua la sua vena comica e diventa  poema tragicomico. Non è possibile ritenere non voluta la comicità perché in tal modo si fa torto all’autore. Egli avrebbe voluto esprimere qualcosa seriamente e avrebbe  invece avuto dei risultati comici. Se poi questo giudizio potrebbe anche  adattarsi all’arte etrusca come la conosciamo e dunque ad un autore etrusco (nel caso Omero; ma Omero è autore troppo raffinato per attribuirgli effetti non voluti) non si capisce come mai invece questa comicità non voluta sarebbe accentuata proprio nella parte attribuibile ad un omerida argolico, cioè greco (nonostante il fatto che questo sia un eccezionale imitatore d’Omero). La comicità è voluta e passa inosservata ad una lettura superficiale e tradizionalmente classicista  dell’Iliade, dove l’attenzione è tutta concentrata sui fatti bellici e dunque serissimi. La comicità è voluta e poiché prende di mira solo gli eroi e gli dèi greci occorre concludere che immediatamente i poemi omerici ebbero grandissima fortuna nel mondo greco e i protagonisti divennero così famosi coi loro tratti già comici in Omero che un autore greco poteva tranquillamente accentuarne la comicità senza urtare la suscettibilità greca e anzi rispondendo ad un’esigenza evidentemente sentita. Si andava ad ascoltare il cantore per divertirsi dopo una giornata di duro lavoro nei campi e dappertutto il contadino ride allo stesso modo, tanto più se si pensa che noi abbiamo la Grecia in casa (la Magna Grecia).

Ho fatto una sintesi dell’Ira d’Achille in cui ho volutamente accentuato una versione seria e drammatica del poema (che, sia ben chiaro, è quella prevalente), ma è inequivocabile  che già l’Ira d’Achille fosse venata quanto meno da una sottile ironia che colpiva gli Achei e gli dèi che combattevano dalla parte di questi. Abbiamo così già nel libro I degli episodi comici. Prima di tutto Agamennone e Achille se ne dicono di tutti i colori arrivando quasi alle mani e sembrano due pupi siciliani. Ad Achille che piange sul suo destino così poco glorioso si avvicina la madre Teti  (pensate alla Marchesini), dea e pertanto onnisciente, che domanda  al figlio: « Creatura mia, perché piangi? Che pena ha colpito il tuo cuore? Parla, non la nascondere, perché tutti e due la sappiamo! » e Achille (pensate a un Solenghi) le risponde sconsolato: « Lo sai! Perché devo dirlo a te, che sai già tutto quanto? ». La madre promette al figlio  giustizia da parte di Zeus che infatti assicura che da questo momento per onorare Achille darà la vittoria ai Troiani. E qui inizia una nuova serie di scene comiche, con Zeus signore dell’Olimpo che teme che Era possa venire a conoscenza dell’incontro con Teti, e poi ancora (ma da qui in poi abbiamo  l’interpolazione dell’omerida argolico) un alterco  da pupi siciliani fra  Era (che ha scorto Teti presso Zeus) irata con  Zeus perché adesso gli Achei perderanno, e questo che le risponde alterato intrecciando frasi sconnesse: « “ Oh sciagurata, sempre sospetti, in nulla ti sfuggo; eppure nulla potrai: anzi, lontano dal cuore mi sarai sempre più: e ti sarà più amaro. Se la cosa è così, vuol dire che questo mi piace. Ma siedi senza parlare e obbedisci al mio ordine: non ti saranno d’aiuto quanti son numi in Olimpo, quando ti venga vicino, t’avventi le mani invincibili ”. Disse così, tremò Era augusta grandi occhi, e sedette in silenzio, facendo forza al suo cuore  ».  E  scoppierebbe  una innocua (perché gli dèi sono immortali e dunque possono anche venire alle mani e darsele di santa ragione, perfino ferirsi ma nulla di più, ciò che alla fine li trasforma in tromboni impotenti e ridicoli o, com’è stato scritto, in borghesi stressati) baruffa generale fra gli dèi quando entra in scena Efesto lo zoppo che prima con una battuta calma la madre e poi mescendo il nettare camminando sciancato intorno alla tavola  riesce a far ridere il divino consesso facendo sbollire  la tensione precedente. Comunque non convince la conclusione (dell’omerida argolide) della lite fra Zeus ed Era coi due che come niente fosse se ne vanno a dormire uno accanto all’altra.

L’Ira d’Achille può essere comica perché è una creazione di fantasia (seppure da frammenti di verità), una bella favola. Il suo protagonista apparente Achille  è già comico in se stesso, trattandosi di un gigante, cui non vanno bene le armi dei Greci, tranne lo scudo di Aiace Telamonio e la lancia che s’è portata da casa. Probabilmente l’episodio più importante di tutta l’Ira d’Achille è il duello mancato fra Achille, che vediamo per la prima volta in assoluto scendere in campo dopo la riappacificazione coi capi achei, e il pio Enea amato dagli dèi e destinato a perpetuare la nazione troiana-romana sul lido laziale: « Già il Cronide ha preso a odiare la stirpe di Priamo, ora la forza d’Enea regnerà sui Troiani e i figli dei figli e quelli che dopo verranno » (Il. XX, 306ss).  E infatti Poseidone interviene scampandolo  da sicura morte. Poseidone/Dagan, dio dell’occidente e del corso superore dell’Eufrate, cioè dell’alta Siria, doveva essere nei poemi omerici originari, come abbiamo già rilevato più volte, la divinità più tipicamente etrusco-romana. Dunque Poseidone solleva Enea volando in aria come fosse un Genio della lampada e lo deposita a terra lontano dalla battaglia. Si tenga bene a mente che nella stesura originaria dell’Ira d’Achille gli dèi intervenivano in battaglia solo nei libri XX e XXI, la battaglia degli dèi e fluviale, non prima. Gli dèi omerici, soprattutto quelli dalla parte degli Achei, sono la caricatura degli esseri umani. Abbiamo così  il pauroso Ade: « tremò sotto la terra sire degli Inferi, l’Ade, e tremando balzò dal trono, gridava per la paura che gli facesse saltare la terra Poseidone Enosìctono, a tutti apparissero, mortali e immortali, le case mucide, spaventose, che i numi hanno in odio; tanto rimbombo sorse allo scontrarsi dei numi » (Il. XX, 61ss), e ancora  Efesto che zoppica:    « s’affatcavano sotto le gambe sottili » o Ares che sbraita esagitato e colpisce Atena con la lancia e questa per tutta risposta gli tira contro un gran cippo confinario stendendolo lungo per terra « l’armi gli rimbombarono intorno… e via lo condusse la figlia di Zeus Afrodite: fitto gemeva, a fatica riprendeva gli spiriti », o delicati come Artemide             “ fanciulletta ” percossa ripetutamente con l’arco da Era “ corpulenta comare ” (Il. XXI,  489ss: « Bella è la flagellazione di Artemide, che cerca di sottrarsi ai colpi piegando la testa da una parte e dall’altra e fugge come una colomba; intanto le sue frecce si spargono a terra e poco dopo Latona le raccoglie dalla polvere insieme con l’arco » F. Codino, op. cit., p. 182), o ancora piccini nella loro tifoseria da campanile come la coppia Era e Atena, divinità davvero spregevoli (soprattutto la seconda, dea della menzogna e dell’inganno, che nel libro I scende inviata da Era per aizzare Achille contro Agamennone: « ingiuria con parole, dicendo come sarà: così ti dico infatti, e questo avrà compimento: tre volte tanto splendidi doni a te s’offriranno un giorno per questa violenza », sotto le sembianze di Laodoco figlio di Antenore istiga Pandoro a ferire Menelao (Il. IV, 86ss) e sotto le sembianze del fratello Deifobo tende un ultimo, inutile, tranello a Ettore, Il. XXII, 226ss – ma l’autore del libro V se non ha rielaborato materia omerica ha fatto della dea un vero personaggio cattivo da cartone animato alla Crudelia Demon: « “ Diomede Tidide… non temere più Ares… Anzi su Ares per primo spingi i cavalli solidi zoccoli e colpiscilo da vicino, non rispettare Ares furioso; quello è un pazzo, una vera sciagura, una banderuola, che prima promise e proclamò a me e ad Era di pugnar contro i Teucri e d’aiutare gli Argivi, e ora è là fra i Troiani, s’è scordato degli altri ”. E parlando così,  gettò Stènelo a terra dal carro, spingendolo con la mano; e quello balzò fuori in fretta. Montò essa sul cocchio, presso Diomede glorioso, la dea impaziente » (V, 826ss); e che si complimenta con Odisseo perché lui è il più ingannevole fra gli umani, lei fra gli dèi, Od. XIII, 291ss;  con buona pace di  W. Gladstone l’unica, e autentica, « notevole somiglianza » di   Atena «  con la tradizione ebraica  » è con la furbizia dei patriarchi  e dei personaggi veterotestamentari i quali tanto più sono  sostenuti e aiutati da Jahvè quanto più ladri e disonesti, come Giacobbe, che servì come pastore presso Labano l’Arameo per  ottenerne la figlia Rachele, rubandogli poi con l’astuzia parte del gregge (Genesi, 29-31: da questa vicenda trae spunto la storia dell’indovino Melampo, Od. XV, 225ss, che per ottenere per suo fratello Biante la figlia, Pero,  di Neleo re di Pilo, gli porta il  bestiame di Ificlo di Filace dopo essere stato in prigione per un anno, vedi anche Apollodoro, Biblioteca, I, 9); o veramente dèi come Apollo troiano (« Ennosìgeo, tu sano di cervello non mi diresti se combattessi con te per dei mortali meschini, simili a foglie, che adesso crescono in pieno splendore, mangiando il frutto del campo, e fra poco imputridiscono esanimi. Presto, lasciamo la lotta: combattano soli! » Il. XXVI,  462ss; « fra gli immortali parlò Febo Apollo: “ Crudeli voi siete, o numi, distruttori! A voi forse non bruciava mai Ettore cosce di bovi e di capre perfette? E ora non volete salvarlo, nemmeno cadavere, per la sua sposa… No. Achille funesto volete aiutare, voi numi, Achille che sana ragione non ha, non ha animo trattabile in petto, sa solo cose selvagge, come leone quando alla sua gran forza, al cuore superbo obbedendo, va tra le greggi degli uomini a procacciarsi il cibo. Così Achille ha distrutto ogni pietà, né rispetto c’è in lui… Chiunque può perdere una persona carissima… Costui Ettore glorioso, da che gli ha tolto la vita, attacca ai cavalli e dell’amico intorno alla tomba lo trascina: e questo non è bello, né giusto. Badi, per quanto bravo, che non prendiamo a odiarlo, lui che nell’ira infierisce contro terra insensibile! » Il. XXIV, 32ss); o cinici come Zeus (« ormai son periti. Ma io me ne resto in una valle d’Olimpo, seduto, e guardando di là divertirò la mia mente: voi altri andate e raggiungete i Troiani e gli Achei, gli uni e gli altri aiutate secondo il cuore d’ognuno » (il. XX, 22ss). Questo Zeus è certamente ispirato al prototipo hurrita (se prototipo v’è; perché al contrario è possibile che il libro di Giobbe si sia ispirato alla più antica Odissea) del libro di Giobbe, che nella sua versione attuale è dei primi del V sec. a. C.: « Egli con una tempesta mi schiaccia, moltiplica le mie piaghe senza ragione, non mi lascia riprendere il fiato, anzi mi sazia di amarezze… Se avessi ragione, il mio parlare mi condannerebbe; se fossi innocente, egli proverebbe che sono reo. Sono innocente? Non lo so neppure io, detesto la mia vita! Per questo io dico: “ E’ la stessa cosa ”: egli fa perire l’innocente e il reo! Se un flagello uccide all’improvviso, della sciagura degli innocenti egli ride. La terra è lasciata in balìa del malfattore: egli vela il volto dei suoi giudici; se non lui chi dunque sarà? »  (Giobbe, 9, 17ss); il mandriano di Odisseo Filezio afferma: « Padre Zeus, nessuno fra i numi è più funesto di te: non t’importa che gli uomini, a cui tu stesso dai vita, sian sempre in mezzo a sciagure e mali crudeli » (Od. XX, 201ss).

Questa era la comicità nell’Ira d’Achille, messa in ombra dalla tragedia di Ettore, della sua famiglia, dei Troiani. Veniamo ora alle trasformazioni operate da un omerida su commissione  di Fidone d’Argo  (VII sec. a. C.) che intendeva celebrare se stesso e la sua politica, e ad esempio l’Iliade poté celebrare non solo la sua potenza che si estendeva sul Peloponneso come quella di Agamennone, ma anche la sua soprintendenza alle Olimpiadi, attraverso i giochi aggiunti alla corsa delle bighe in occasione dei funerali di Patroclo, oltre che la Grecia complessivamente. Questo autore deve risolvere un grosso problema, e cioè raccordare i suoi XII libri celebrativi dell’eroismo greco rappresentato dall’eroe argolico Diomede (Diomede, che l’omerida argolide sostituisce all’omerico Aiace Telaminio, domina, nonostante l’opinione contraria di F. Codino,  la scena dai libri V a XIV; con l’omerida argolico i greci sono chiamati anche Argivi, oltre che Achei e Danai) con l’Ira d’Achille che invece celebra la carica troiana che ricaccia i Greci alle navi. Non solo, deve anche conciliare i due assalti vincenti  che attribuisce ai Greci contro l’esercito troiano con la promessa di Zeus a Teti che darà, ovviamente subito, la vittoria ai Troiani per punire Agamennone che ha offeso Achille. La soluzione del problema è ovviamente poco consistente perché estremamente difficile. Egli immagina che Zeus invii ad Agamennone il Sogno cattivo che gli promette l’imminente caduta di Troia. Pertanto Agamennone raduna l’esercito per informarlo. Ma deve fare i conti con la fuga omerica e allora immagina una messa alla prova dell’esercito che ha come risultato quello di presentarci Agamennone come un arrogante despota orientale che fa dell’esercito, stremato da nove anni di guerra, ciò che vuole, assomigliando allo  Jahvè che invita Satana a tentare il suo fedele servitore Giobbe, gettandolo nella più nera miseria e disperazione, con l’unica motivazione che Dio è onnipotente e con l’uomo fa ciò che vuole (Giobbe, 1,8ss e 2,3ss). Non c’è bisogno di dire che questa immagine del capo e dei soldati greci strideva fortemente con l’universale idea dei Greci come uomini liberi occidentali. Dunque l’espediente dell’omerida argolico consiste semplicemente nel ritardare la promessa di Zeus con la giustificazione che Zeus non ha promesso di dare subito la vittoria ai Troiani.

Il Sogno cattivo e il ricordo nostalgico di Agamennone (« Ormai nove anni del grande Zeus sono andati, e delle navi il legno è muffito, son lente le funi; le nostre spose coi figli balbettanti siedono nelle case, bramose; e a noi l’opera è ancora incompiuta per cui venimmo qua… » 134ss; si noti la comicità di questi figli balbettanti che evidentemente le madri hanno avuto dai loro amanti nell’assenza ormai novennale dei loro mariti; assai prima di nove anni i bambini di tutto il mondo parlano e non più balbettano) serve ad introdurre un primo ampliamento consistente in un una specie di flash back  compreso fra il libro II e il VII  contenente per sommi capi e non esattamente in ordine cronologico,  gli antefatti del primo anno della guerra di Troia, e più in generale dei primi nove anni di guerra: il primo incontro di Paride e Elena a Sparta;  il prodigio –  alla partenza della flotta achea da Aulide –  che secondo Calcante il profeta prometteva la presa di Troia al decimo anno d’assedio; il Catalogo delle Navi, una panoramica della costa dell’Ellesponto al momento dello sbarco della flotta panellenica;  la descrizione da parte di Elena  a Priamo  sulla torre delle porte scee dei capi achei appena sbarcati; le proposte di transazione –  restituzione del maltolto più un risarcimento ulteriore,  ma non di Elena –  da parte dei Troiani; il duello fra Paride e Menelao, che doveva essere celebrato da subito come sostitutivo della guerra; la costruzione del vallo a difesa delle navi achee che logicamente dové avvenire nel primo anno di guerra.  Per dire meglio, le scene che si susseguono sono per lo più del tempo presente – e infatti si ricorda spesso che Achille, irato, è assente dalla battaglia – ma sono simili e dunque  riflettono  quelle antiche che sintetizzano i primi nove anni di guerra. Alla fine del libro VII invece della vittoria dei Troiani come promesso da Zeus a Teti abbiamo al contrario l’esito del massimo avanzamento degli Achei (guidato dalla performance di Diomede) che si conclude con la proposta troiana di restituire il tesoro sottratto a Menelao e la costruzione del muro a difesa delle navi.  Se vogliamo è proprio questa allusione ai primi anni di guerra (nei quali il sopravvento era dei Greci, che assediavano Troia) che in parte giustifica e rende meno stridente la palese vittoria dei Greci contro il giuramento di Zeus a Teti di dar la vittoria ai Troiani. Rimane il fatto che il lettore è annoiato dalle continue scene di guerra e alla fine la carica dei Troiani al vallo e alle navi (quella omerica) passa inosservata; è inoltre  irritato dal fatto che Achille rimanga ozioso alle tende mentre avrebbe tutto il tempo di andarsene a Ftia come ha promesso, mentre proprio a causa della sua inerzia muore l’amico Patroclo. Diomede, che combatte perfino contro gli dèi e li vince, è l’indiscusso protagonista di questa parte. Si può parlare di una Diomedea nei libri V-VI-VIII, dove infine Diomede, sul cocchio di Nestore,  affronta Ettore ma deve desistere perché questo  è perentoriamente favorito dal tuonare di Zeus.  Dal libro VIII (che fa da cerniera fra i libri che precedeno e quelli che seguono) al libro XIV è un secondo ampliamento, ampliamento della carica travolgente dei Troiani al vallo e alle navi del libro XV.

Dunque  Agamennone dichiara, contro le vere intenzioni, che si torna a casa, e gli Achei se la danno a gambe. La fuga precipitosa degli Achei alle navi viene fermata dall’intervento di Atena su quello che ora è diventato un Azzeccagarbugli,  Odisseo, dalla cui bocca, secondo Elena, escono « parole simili ai fiocchi di neve d’inverno », ma che nel libro II fa le sue arringhe a suon di randellate (con « lo scettro avito, indistruttibile sempre » di Agamennone) a destra e a manca fino a che gli Achei sono di nuovo schierati e pronti al combattimento. Sempre Odisseo nel libro XIX si mette in mezzo con una pedanteria da far invidia all’Azzeccagarbugli manzoniano, per garantire che sia rispettata per filo e per segno la procedura della riconciliazione fra Achille ed Agamennone, « perché niente della giustizia si lasci », ma quando si tratta di combattere ecco che se la dà a gambe « “ Laerziade divino, ingegnoso Odisseo, dove fuggi, voltando il dorso nella calca da vile? Bada che tra le spalle non t’aggiusti l’asta qualcuno! Ma vieni, allontaniamo il selvaggio guerriero dal vecchio “. Disse così, ma non udì Odisseo glorioso, paziente, passò di corsa, verso le navi curve degli Achei » (Il. VIII, 93ss). E c’è chi discute  se l’Odisseo dell’Iliade e quello dell’Odissea possano essere lo stesso personaggio!

Il  re-giudice Nestore del libro I: « dalla sua lingua anche più dolce del miele la parola scorreva » (v. 249; cf. anche Teogonia  81ss;  la regina etrusca Arete, Od. VII, 68ss;  il re-giudice Giobbe,  29,21ss),  già dal libro XXIII dell’Ira d’Achille si trasforma in generale-consigliere da pensionamento che non perde occasione per scocciare  coi ricordi dei suoi  tempi (« Magari fossi ancor giovane, avessi intatta la forza come quando… »). I due Aiaci (Telamonio e d’Oileo)  combattono in coppia, prototipo delle coppie  tutte muscoli e poco cervello. O ancora la coppia Aiace Telamonio e Teucro: « Ed ecco Aiace scostare lo scudo e l’eroe far capolino; ma quando uno tra la folla di freccia aveva colpito, e quello cadendo, aveva perduto la vita, spariva, come bambino dietro la madre, tornando presso Aiace; questi lo nascondeva dietro lo scudo splendente » (Il. VIII, 268ss).  Ma soprattutto Achille nell’Iliade, se non già nell’Ira d’Achille, si configura come prototipo del gigante   fifone ammazzasette, figlio di dea, che dice armiamoci e partite, e chi deve partire è l’amico Protesilao, figlio di comune mortale (« Così il fuoco invase la poppa. E Achille gridò a Patroclo, battendosi le cosce: “ Presto, divino Patroclo, guidatore di cavalli, vedo presso le navi ardere il fuoco spietato: ah che non le distruggano e noi non abbiamo più scampo! Vesti l’armi in fretta, io ti raccolgo l’esercito “ ». Achille ha giurato sul suo scettro di re che non interverrà mai più in guerra, anzi  vuole far vela al più presto per la sua Ftia, e nel frattempo interverrà in guerra solo se i Troiani attaccheranno le sue tende e le sue navi. Ora, delle due l’una, o i Troiani stanno attaccando le sue navi, e allora Achille deve tornare in campo perché è sciolto dal giuramento e non inviare vigliaccamente l’amico Patroclo che non è invincibile come lui, oppure le navi non sono le sue e allora come non deve scendere in campo lui non deve nemmeno l’amico, che se poi Achille ha cambiato idea e s’accora per le sorti degli Achei allora sempre lui deve per primo scendere in campo e non delegare l’amico cui dice di tenere tanto a parole. E non finiscono qui le scenette comiche con protagonista il guascone  Achille. Come ho detto, egli nella prima versione omerica si getterebbe (è ciò che presumo, perché di prove non ce ne sono) nella mischia anche da solo, vestito com’è, armato della sua sola infinita rabbia, ma cosa ti combina l’omerida dell’Iliade? Ti ci ficca la storia che è rimasto senza le sue armi, indossate da Patroclo e ormai nelle mani di Ettore. Ci si chiede come mai avesse un solo set di armi. Quanto alla seconda domanda, perché non chieda le armi ad altri guerrieri, l’omerida ci previene dicendo che solo lo scudo di Aiace Telamonio sarebbe stato della sua taglia, ma egli ha anche a disposizione  la sua lancia, che Patroclo non aveva presa: « ma non prese l’asta dell’Eacide perfetto, grande, pesante, solida: nessuno dei Danai poteva brandirla, solo Achille a brandirla valeva, faggio del Pelio, che Chirone aveva donato al suo padre, dalla cima del Pelio, per dare morte ai guerrieri » (XVI, 140ss). Ci chiediamo che misura cranica avesse per non poter chiedere un elmo ai suoi compagni, ma Achille è un gigante di statura. Dunque, gigante,  furioso com’è  e superiore a tutti i guerrieri a Troia,  scudo  e lancia basterebbero, ma in attesa che la madre Teti gli porti una nuova armatura fatta da Efesto, con Iri,  che per conto di Era lo sollecita ad entrare in battaglia,  Achille così si giustifica:  « E come andrò nella mischia? Han le mie armi coloro e prima la madre non vuole che marmi, prima che coi miei occhi io la veda tornare; disse che mi porterà belle armi d’Efesto. D’altri non so di chi mai posso vestire le nobili armi, tranne lo scudo d’Aiace Telamonio; ma anch’egli, penso, si trova fra i primi, infuriando con l’asta intorno a Patroclo morto » (XVIII, 188ss). E quando ha  le armi  forse Achille  va finalmente a combattere? Niente affatto. Convoca l’assemblea, a modo suo, naturalmente, andando « lungo la riva del mare… gridando paurosamente ». Intervengono tutti gli eroi, resi malconci dagli ultimi scontri, « vennero zoppicando, il Tidide furia di guerra e Odisseo luminoso, appoggiandosi all’aste… Per ultimo venne il sire di genti Agamennone, ch’era ferito » (Il. XIX, 47ss). Achille dice di voler smettere l’ira e chiede che Agamennone ordini l’attacco. Quello fa un lungo discorso dando la colpa del suo comportamento, scorretto nei confronti d’Achille, agli dèi e in particolare Ate, il destino, e tira in ballo l’iganno di Era a favore di Euristeo e dichiara di voler fare ammenda e di dare i doni promessi il giorno prima (! versi 140-141) con l’ambasceria (libro IX). Achille insiste che bisogna combattere. Allora interviene Odisseo sostenendo che prima la truppa deve mangiare: « Ma su, sciogli l’esercito, ordina che preparino il pasto; e i doni il sire d’eroi Agamennone li porti in mezzo alla piazza, perché tutti gli Achei li vedan con gli occhi e tu ti rallegri nel cuore. E giuri giuramento, in piedi in mezzo agli Achei, che mai è salito nel letto, né si è unito a Briseide… e così nel petto si plachi l’aimo tuo. Non solo, nella sua tenda ti inviti a cena abbondante perché niente della giustizia si lasci » (Il. XIX, 171ss). Agamennone si dichiara soddisfatto. Achille insiste che bisogna combattere. Odisseo lo richiama mettendo avanti la sua maggiore età e sapienza, per cui la truppa deve prima mangiare e poi si reca alla tenda di Agamennone e porta via i doni promessi ad Achille, Agamennone celebra il sacrificio di un verro giurando che Briseide è illibata, e scioglie l’assemblea. Infine si decide a combattere con Ettore con l’aiuto della dea Atena  che inganna costui nel modo peggiore, fingendosi il suo fratello Deifobo. Anche la dea Atena dell’Iliade non è la stessa dell’Odissea:  quella è ladra, questa è assassina. La comicità dell’omerida argolico è in sintonia con la comicità tutta italica dell’Efesto del libro VIII dell’Odissea, tradito da Afrodite nel letto matrimoniale con Ares (il tema del cornuto è fra i più cari alla comicità  italica; anche  Menelao è un cornuto (contento, pare, perché nei poemi non mostra alcuna gelosia nei confronti della moglie) ma non viene ridicolizzato nell’Iliade  perché questa, come l’Odissea, ha anche dei messaggi morali da lanciare, come la punizione di coloro che approfittano dell’ospitalità altrui per compiere male azioni: « Zeus signore, fa’ che mi vendichi di chi per primo m’ha fatto del male, d’Alessandro glorioso, uccidilo per mia mano, perché ciascuno tremi, anche degli uomini che saranno, di far del male a un ospite ch’abbia mostrato amicizia » (Il. III, 351ss) ma per la verità lo sciancato Efesto, che altrove fa ridere, qui non fa ridere affatto di sé ma scatena il riso degli dèi da lui chiamati ad assistere al tradimento di sua moglie con Ares,  presi nella rete, capolavoro della sua arte di metallurgo, predisposta come trappola dopo  una soffiata del Sole che dall’alto tutto vede: « Diceva così, e i numi s’adunarono sulla soglia di bronzo; venne Poseidone che cinge la terra; venne il benefico Ermete; venne il sovrano presenvatore Apollo; le dee, per pudore, rimasero nella sua casa ciascuna. Stavano ritti nel portico i numi beati a vedere la trappola dell’abilissimo Efesto. Così qualcuno guardando diceva a un altro vicino: “ Non fruttan bene le male azioni; il lento acchiappa il veloce. Come appunto ora Efesto, che è lento, acchiappò Ares, il più veloce fra i numi che hanno l’Olimpo, lui, lo zoppo, con l’arte sua; e pagherà l’adulterio! ” Così dicevano queste cose fra loro. E il sire Apollo figlio di Zeus diceva a Ermete: “ Ermete figlio di Zeus, messaggero, datore di beni, vorresti, premuto così sotto gagliarde catene, dormire in letto con l’aurea Afrodite? ” E gli rispose il messaggero Argheifonte: “ Potesse questo avvenire, sovrano lungisaettante Apollo, catene tre volte più grosse, infinite, mi tenessero avvinto, e tutti veniste a vedermi, voi dèi, e poi anche le dee: io dormirei volentieri con la dorata Afrodite! ” Così diceva, e una risata scoppiò fra i numi immortali » (Od. VIII, 321ss). Analogamente, riflettendoci sopra,  non fa poi tanto ridere l’altro brutto, dell’Iliade, Tersite, che pur essendo un povero soldato semplice, oltretutto deforme (dunque da riformare, altro che combattere a Troia!), ha il coraggio di dire quel che pensa ad alta voce, e di dirlo bene (« Solo Tersite vociava ancora smodato, che molte parole sapeva in cuore… per sparlare dei re: quello che a lui sembrava che per gli Argivi sarebbe buffo » Il. II, 213ss; « Tersite, lingua confusa, per quanto arguto oratore, smetti e non osare, tu, di offendere i re » gli dice Odisseo, Il. II, 246-247),  tanto che paga prendendosi le randellate di Odisseo e suscitando il riso fra la soldataglia. Se Tersite è tutta farina del sacco dell’omerida argolico sono portato a complimentarmi con lui per essere uscito dalla banalità della civiltà greca che apprezzava i belli che erano anche intelligenti e disprezzava i brutti che dovevano anche essere stupidi. L’omerida argolico ci ha fatto capire che anche fra gli strati bassi della popolazione c’era chi sapeva ragionare con la propria testa. Anche Achille ha fatto le stesse accuse ad Agamennone, ma  gigantesco, forzuto, e con ampio seguito com’è s’è guardato bene dal trarne le conseguenze eliminandolo fisicamente, preferendo vigliaccamente ritirarsi dall’impresa. Insomma, i brutti e deformi d’Omero o dei suoi validi imitatori non sono per questo anche degli idioti, anche se devono soccombere spesso in una società   di vecchio stampo villanoviano cioè di tipo  celto-germanico,  dove prevalgono  i violenti guerrieri.

 

Nel libro VIII Zeus con l’episodio della bilancia che prende in mano e che pende a favore dei Troiani comincia a soddisfare la richiesta di Teti:

 

« … [Zeus] aggiogò al carro i cavalli piedi di bronzo,  rapido volo, ch’hanno criniere d’oro; oro vestì lui stesso sul corpo, e prese la frusta d’oro, ben fatta, e salì sul suo carro e frustò per andare; quelli volarono ardenti a mezzo fra la terra e il cielo stellato. E venne all’Ida, ricca di fonti, mafre di fiere, alla cima del Gàrgaro, dov’è il suo sacro recinto, l’altare odoroso. Qui fermò i cavalli il padre dei numi e degli uomini, e li sciolse dal carro, versò molta nebbia intorno. Egli sopra le vette si assise, splendente di gloria, guardando alla città dei Troiani, alle navi achee.

Intanto prendevano il pasto gli Achei lunghi capelli, in fretta, fra le tende; e dopo s’armarono. S’armarono anche i Troiani, dall’altra parte, nella città, pur meno numerosi; ma ardevano di lottar nella mischia, spinti dal bisogno, per i figli e le donne. E tutte le porte furono aperte, l’esercito balzò fuori, cavalieri e fanti; immenso frastuono saliva…

Finché fu mattino e il giorno divino saliva, sempre i dardi dalle due parti colpivano, cadeva la gente; ma quando il sole raggiunse il mezzo del cielo. Allora il padre agganciò la bilancia d’oro: e due Chere vi pose di morte lungo strazio, dei Troi domatori di cavalli e degli Achei chitoni di bronzo; la tenne sospesa nel mezzo; precipitò il giorno fatale degli Achei. Le Chere degli Achei verso la terra nutrice di molti piombarono, quelle dei Troi salirono al cielo vasto. Dall’Ida forte allora tuonò, e fiammeggiante lampo scagliò fra l’esercito acheo; essi a vederlo restarono allibiti, li prese tutti verde terrore » (Il. VIII, 41ss).

 

Ma le cose procederanno assai lentamente, e prima ci sarà il tentativo di Agamennone di rabbonire Achille offrendo il risarcimento del danno oltre alla restituzione di Briseide, ma la risposta di Achille alla delegazione non potrebbe essere più decisa:

 

«  a lui riferite tutto come comando, chiaramente, perché tutti gli Achei lo disprezzino, se spera di giocare qualcun altro dei Danai, ché sempre di spudoratezza è vestito. Quanto a me, certo, non avrà più l’ardire, per cane che sia, di guardarmi nel viso. Aiuto non gli darò, non di consiglio e non d’opera, no. M’ha giocato, è colpevole, non potrà più illudermi con le parole: basta con lui. Se ne vada in pace alla malora, ché il saggio Zeus gli ha portato via il senno. Mi sono odiosi i suoi doni, lo stimo quanto un capello. Anche se dieci, venti volte di più mi donasse di quanto ora possiede, e se altro guadagni, quanto affluisce ad Orcòmeno, o quanto a Tebe egizia… nemmeno se tanto mi desse quant’è la sabbia o la polvere, nemmeno così potrà più persuadere il mio cuore Agamennone, prima che tutta m’abbia pagato l’offesa strazio del cuore. Non sposerò la figlia dell’Atride Agamennone, neppure se l’aurea Afrodite vincesse in bellezza, e nell’opere Atena occhio azzurro uguagliasse; neanche così la vorrò… » (Il. IX, 369ss).

 

Poi l’impresa notturna di Diomede e Odisseo  contro la spia troiana Dolone, la controffensiva greca in cui si distinguono di seguito Agamennone, l’onnipresente Diomede, poi le sorti della battaglia si pareggiano e infine i Greci hanno la peggio e nella ritirata si distinguono Odisseo e Aiace Telamonio; Paride ferisce Macaone e Achille invia Patroclo ad informarsi su chi sia l’eroe  che vede portar via ferito alla tenda di Nestore:

 

« Nestore intanto fuor dalla mischia traevano le cavalle di Neleo, sudando, e Macaone portavano, il pastore di popoli. Lo scorse e lo riconobbe Achille glorioso, piede veloce, ché stava ritto sopra la poppa della sua nave fianchi profondi, l’aspra fatica osservando, la rotta lacrimevole; e si rivolse subito all’amico suo Patroclo, chiamandolo dalla nave; quello sentì dalla tenda e corse, simile ad Ares; e fu principio di male per lui » (Il. XI, 597ss).

 

Mentre Patroclo va ad informarsi la battaglia arriva al muro col libro XII, ma la carica troiana (dell’Ira d’Achille) ci sarà solo nel libro XV. All’inizio del libro VIII i Troiani sono nella pianura davanti alle navi e fuori delle mura di Troia esattamente come all’inizio dell’Iliade e da nove anni, perché il muro fu costruito all’inizio della guerra per proteggere le navi, evidentemente, dall’assalto dei troiani. Nel libro IX Agamennone ripete, questa volta credendoci, l’invito fatto nel libro II, dopo il sogno, ad abbandonare l’impresa e a tornare in Grecia: «  Ah! Così come io dico facciamo tutti concordi, fuggiamo sulle navi verso la terra patria. Mai più prenderemo Troia spaziosa » (Il. IX,26ss), ma soprattutto Diomede (l’eroe argivo protagonista dell’Iliade voluta verisimilmente da Fidone d’Argo)  si oppone all’idea e la guerra continua. Fra il primo e il secondo inserimento di libri il libro VIII fa da cerniera. Vera e propria interpolazione dell’omerida argolide è certamente quella di Sarpedone, d’origine greca, corinzia, che defrauderà Ettore del primato dell’assalto al vallo greco, fin dal libro VI, dove Diomede, e tramite suo Fidone e Argo, rifulgono  come  la luna di luce riflessa attraverso l’incontro con il corinzio Glauco  di illustre casato che indirettamente rinvia allo splendido mecenate del Viaggio d’Odisseo, Demarato, il più potente cittadino di Tarquinia. Lo stesso omerida è autore inoltre  di molto  ampi brani dei canti XII e XIII (si avverte palesemente, anche nella traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, la mano diversa di un autore che scrive in una  prosa che ha perso il tipico  ritmo omerico), duplicazione del XV omerico e che servono a far sì che prima Asio e poi Sarpedone, di origine greca in quanto discendente da Bellerofonte corinzio (secondo altra tradizione era comunque greco, per l’esattezza cretese, in quanto fratello di Minosse e Radamanto), tolga a  Ettore il primato del varco nel vallo acheo: « Nemmeno allora però i Teucri ed Ettore illustre avrebbero rotto le porte del muro, la grossa sbarra, se il saggio Zeus non suscitava il figlio suo Sarpedone, come leone contro buoi corna lunate… Così allora il divino Sarpedone fu spinto dal cuore a balzar contro il muro, a fracassare i ripari…  E Sarpedone, afferrando con le mani pesanti il riparo, lo tirò, e venne via tutto intero, di sopra rimase nudo il muro e dava a molti passaggio » (Il. XII, 290ss). In questo episodio si inserisce  Glauco (l’“etrusco”) che viene spronato da  Sarpedone  alla battaglia. Sarpedone gli ricorda, come se Glauco fosse un pusillanime,  che essi sono i primi nei privilegi dei capi proprio perché ci si aspetta da loro che siano i primi in battaglia (307ss); e   Glauco, subito ferito da una freccia di Teucro (fratello di Aiace Telamonio), esce di scena prima dell’impresa del muro: « Venne pena a Sarpedone al partire di Glauco, subito che lo vide; ma non si scordò della lotta » (387ss). Il nostro omerida argolide ha dovuto moltiplicare le scene di battaglia da un capo all’altro della palizzata (che lui, ovviamente, ha trasformato in un muro) per togliere gloria agli etrusco-romani rappresentati da Ettore. Ma il diavolo, come si dice, fa le pentole ma non i coperchi. E così il nostro apprendista stregone si trova in un bell’imbarazzo a gestire le sue creazioni e ad armonizzarle  col poema omerico, e a un certo punto sbotta in un’espressione di sconforto perché avverte che la sua pozione gli va esplodendo fra le mani: « E combattevano tutti, ciascuno per la sua porta: ma raccontare ogni cosa, come un dio, m’è difficile  » (Il. XII, 175-176). Per Omero tutto è sovranamente facile, mai si sarebbe lasciato andare a simile espressione di pessimismo. L’impresa è davvero più grande dell’omerida argolide perché mentre lo scopo di ritardare e rendere più difficile e dunque meno gloriosa  l’avanzata troiana avrebbe dovuto prendere in considerazione assalti da punti differenti delle mura, questo incapace epigone ha duplicato l’assalto di Ettore che assalta le mura e le navi inserendolo appunto nel libro XIII, quando Omero lo “ ricolloca ” nel libro XV. Sarpedone è stato dunque  inserito dal nostro omerida anche nel suo libro V delle gesta di Diomede altrimenti questo sarebbe spuntato fuori dal nulla. L’autore di questo libro, peraltro completamente digiuno di fatti bellici, perfino quelli  del suo tempo, non sa più che uso fare del carro se non come di un mezzo per spostarsi nel campo e da cui scendere per combattere a piedi « la frusta e le briglie lucenti afferra, e io dal carro scenderò per combattere, oppure affrontalo tu, io penserò ai cavalli » (V, 226ss). A causa delle sue interpolazioni che ritardano in modo grossolano l’impianto iniziale dell’Ira d’Achille l’omerida argolide è costretto ad avvertire più volte che presto darà la vittoria ai Troiani facendoli arrivare fino alle navi. Lo dice alla fine del libro VIII (470ss), all’inizio del XII (3ss), ora nel muro è stato aperto un varco e addirittura il muro è caduto (XIV, 15), ma ecco che Omero in persona ‘ripete’ l’avviso come se niente  fosse all’inizio del XV (59ss).

Dunque nell’attesa che Zeus si decida a dare la vittoria ai Troiani e ciò inizia, ma ancora con alterne vicende, nel libro VIII e si conclude nel libro XV, nella prima parte dell’Iliade (prima dell’avanzata troiana omerica del libro XV) abbiamo complessivamente un’avanzata troiana, una controffensiva greca, una nuova avanzata troiana con Ettore che sfonda una delle  porte  del muro, una nuova controffensiva greca che  respinge i Troiani dalle mura e dal fossato, mentre addirittura Aiace Telamonio mette fuori combattimento Ettore tirandogli contro un pesante macigno. Pur rimanendo inalterata la cornice dell’Ira d’Achille con la travolgente carica troiana contro le mura e l’incendio della nave di Protesilao al libro XV, con l’Iliade omerica i Greci si prendono una rivincita costituita da due controffensive riuscite nonostante il padre degli dèi sia loro contrario. Il risultato  è di appesantire la narrazione e renderla noiosa cosicché  quando finalmente la carica originaria dei Troiani avviene, nel libro  XV, passa quasi inosservata. Mentre l’Odissea, tutta omerica salvo verisimilmente la parte finale, è un insieme di libri legati fra loro, i libri da I-fine a XIV-inizio dell’Iliade sono palesemente giustapposti ma non legati fra loro e lo stesso dicasi per i libri postomerici inseriti nella parte seconda, omerica, dell’Iliade.

Nonostante tutte le critiche possibili sento di dover dare un giudizio positivo particolarmente sui primi libri (I-fine, II e III) dell’omerida argolide.  Ci sono degli episodi riusciti come  la sfuriata di Zeus con Era, Efesto lo zoppo, Odisseo e Tersite, lo stesso Catalogo delle navi, che ho sempre trovato poetico, nonostante la difficoltà di rendere poetica una lista di navi e di armati, ma qui il genio dell’omerida omerico (sempre che non rielabori materiale omerico) si ferma. Ma è dai primi libri dell’Iliade che ci formiamo il giudizio che questa assomiglia a degli altorilievi in cui potenti le figure dei protagonisti si stagliano come Laocoonte e il Drago marino sul mare indistinto della terra tinta di sangue. Ciò anche perché l’Iliade è fatta fin dall’inizio di dialoghi, mentre l’Odissea assomiglia più ad una pittura murale proprio perché inizia soprattutto con un racconto in terza persona. Se l’omerida argolico avesse fatto un’opera rigorosamente tragica l’Iliade varrebbe senz’altro almeno come l’Odissea. Che del materiale omerico sia stato asportato e spostato dal suo contesto fa prova l’incontro fra Ettore e Andromaca (ora nel libro VI, originariamente fra gli attuali libri XIV e XV) che certo doveva essere avvenuto poco prima della morte,  presagita appunto come imminente, di Ettore per mano di Achille (libro XXII). L’incontro fra Ettore e Andromaca serviva all’omerida argolide per dare corpo al suo libro VI dove introduceva la figura dell’eroe argolico Diomede (l’eroe che doveva celebrare il re Fidone d’Argo, che reputo committente dell’Iliade, cioè delle aggiunte all’Ira d’Achille), che come luna riceveva lustro di nobiltà dall’eroe (con cui si incontrava) di parte troiana Glauco, di origine corinzia come il committente dell’Odissea (per la precisione, del Viaggio d’Odisseo) Demarato dei Bacchiadi.

Il giudizio completo sull’Iliade dell’omerida al servizio di Fidone d’Argo deve tenere presente che fino al libro VIII è una continua attesa di una carica troiana che non viene e dopo il libro VIII e fino al XV e un continuo annunciare questa carica che poi avviene ma si moltiplica con nessuna efficacia fino addirittura ad essere respinta con Ettore atterrato da una sassata. La celebrazione del valore greco poi ricorda  la stucchevole ampollosità dei nostri poemi della serie Orlando Furioso e Gerusalemme Liberata. Perciò il giudizio definitivo è che qualche episodio si stacca dal monotono e stucchevole fondo che per giunta è ampiamente comico e non tragico come dovrebbe. Non riesce ad essere comico fino in fondo e non riesce ad essere tragico fino in fondo. E’ tragicomico.

Nell’Odissea,  composta senza condizionamenti da Omero dopo il Viaggio d’Odisseo scritto per i banchieri di Cere, Omero si  ispira alla vera storia di Romolo nella  Vendetta sui Proci. Dal mio studio sulla vera storia di Romolo (vedi sul mio sito) emerge che lo pseudo Enea era in realtà, secondo i dati forniti dallo stesso Dionisio d’Alicarnasso, un avventuriero Turša/Tirreno dell’Egeo, cioè della stessa stirpe che aveva appunto contribuito a formare l’ethnos etrusco. Pertanto la sua rivalità con Romolo, posto che ci sia davvero stata, era comunque fra etruschi di più o meno lunga data. Ora nell’Iliade l’omerida argolico (o lo stesso Omero) accenna ad una tradizione, quella dei Gemelli/Dioscuri in collegamento con Elena/Afrodite (libro III, 236ss) che presuppone l’esigenza di pacificazione fra le comunità predinastiche dell’Aventino e del Palatino. I Dioscuri o Castori, protettori della navigazione e dei commerci, erano molto venerati a Ostia, il porto di Roma sul Tirreno fondato da Tullo Ostilio, nel Foro Romano in connessione con lo scalo tiberino,  nel santuario delle tredici are di Lavinio. Sono attestati anche a Tarquinia in una dedica su kylix attica (500 a. C. ca.) ai Tinascliniiaras, ai figli di Tina, lo Zeus etrusco. A Gravisca, porto di Tarquinia è attestato inizialmente il culto di Afrodite/Turan con iscrizione del 560 a. C. ca. su cratere laconico; associata ad Adone/Atunis, dio della fertilità. Anche Enea, figlio di Afrodite e che scende agli Inferi può essere considerato una personificazione di Adone e infatti a Laurento è identificato con Giove Indigete, una divinità catatonia, ciò che rinvia alla sua identificazione con Poseidone/Conso. L’itinerario che Dionisio d’Alicarnasso fa percorrere allo pseudo-Enea da Troia a Lavinio è costellato di centri fenici dedicati al culto di una Afrodite Aineias (da cui Enea) spesso associata ad una divinità maschile identificata con Enea ma che  è detta Aineias dai ‘luoghi alti’  su cui si trovano i suoi santuari.

L’Iliade omerica doveva essere lunga più o meno quanto l’Odissea (fino a XXIII, 246), cioè circa 11.000 versi, mentre l’Iliade attuale comprende  più o meno 15.692 versi.

 

 

Le similitudini più belle.   « …come vanno gli sciami dell’api innumerevoli ch’escono senza posa da un foro di roccia, e volano a grappolo sui fiori di primavera, queste in folla volteggiano qua, quelle là; così fitte le schiere dalle navi e dalle tende lungo la riva bassa si disponevano in file,  affollandosi all’assemblea » (Od. II, 87ss).

« Così disse, e gli Argivi gridarono come onda contro ardua roccia, se l’alza il Noto, venendo contro scoglio sporgente: mai questo lasciano l’onde di  tutti i venti, se qua e là se ne formano » (Od. II, 394ss).

«  come innumerevoli schiere d’uccelli alati, d’oche o di gru o di cigni lungo collo, nei prati d’Asia, sulle correnti del Caístro, qua e là volteggiano, sbattendo l’ali con gioia, e mentre con gridi si posano la prateria risuona – così innumerevoli schiere di questi dalle navi e dalle tende si riversavano nella pianura Scamandria » (Il. II, 459ss).

« i Teucri andavano con grida e richiami, come uccelli, come sotto il cielo s’aggira il grido delle gru, che quando fuggon l’inverno, la pioggia infinita, volano con gridi sulle correnti d’Oceano, strage e morte portando ai Pigmei: all’alba dànno esse la mala battaglia » (Il. III, 2ss).

« li seguiva nube di fanti: Così vede nube talvolta dalla vedetta un capraio, venir per il mare, sotto l’urlo di Zefiro; a lui, lontano, nerissima come la pece appare, venendo pel mare, porta grande tempesta; rabbrividisce a vederla, sotto la grotta conduce la greggia » (Il. IV, 274ss).

« Come contro la riva echeggiante il flutto del mare si scaglia senza sosta sotto l’impulso di Zefiro; prima si gonfia nel mare, ma ecco infrangendosi contro la terra urla roco, e intorno alle punte s’alza in volute, sputa la schiuma del mare; così allora senza sosta movevano le file dei Danai » (Il. IV, 422ss).

« andava impetuoso per la pianura, simile a un fiume in piena, ingrossato da piogge, il quale correndo in furia travolge le dighe; non lo trattengono le dighe alzate a far argine, non lo trattengon le siepi intorno agli orti fioriti, se dilaga improvviso, quando scroscia la pioggia di Zeus; molte belle opere di giovani cadono sotto di esso. Così dal Tidide eran travolte le dense falangi dei Troiani » (Il. V, 87ss).

« Così uno stallone, ben nutrito alla greppia, strappa la corda e corre per la pianura al galoppo, uso a lavarsi nel fiume bella corrente, superbo; alta tiene la testa, la criniera s’agita sopra le spalle, gode del fior delle forze; e i garretti lo portano agili al luogo noto, pascolo delle cavalle; così Paride, figlio di Priamo, giù per la rocca di Pergamo, correva… » (Il. VI, 506ss).

« Come nell’orto un papavero piega da un lato la testa, grave del frutto, o dalle piogge primaverili, così da un lato s’abbandonò la testa, grave dell’elmo » (Il. VIII, 306ss).

« Come le stelle in cielo, intorno alla luna lucente brillano ardendo, se l’aria è priva di venti; si scoprono tutte le cime e gli alti promontori e le valli; nel cielo s’è rotto l’etere immenso, si vedono tutte le stelle; gioisce il cuore il pastore; tanti così, fra le navi e lo Xanto scorrente lucevano i fuochi accesi dai Troi davanti a Ilio; mille fuochi ardevano nella pianura, e intorno a ciascuno cinquanta eran seduti, alla vampa del fuoco fiammante; i cavalli, mangiando l’orzo bianco e la spelta, ritti accanto ai carri, l’Aurora bel trono aspettavano » (Il. VIII, 555ss).

« le Preghiere son figlie del gran Zeus; zoppe, rugose, losche d’entrambi gli occhi, esse s’affannano a correre dietro alla Colpa. E la Colpa è gagliarda e lesta di piedi; tutte le lascia indietro, di molto; e avanti per tutta la terra va, danneggiando gli umani; quelle, dietro, riparano. Chi le figlie di Zeus rispetta, che vengon vicino, dànno a costui molto bene, l’ascoltano se prega; chi nega invece e duramente rifiuta, vanno esse, allora, e pregano Zeus Cronide che la Colpa l’insegua, paghi il fio con suo danno » (Il. IX, 502ss).

« Come quando scende alla piana un fiume gonfio, un torrente dai monti, le piogge di Zeus lo accompagnano, e molte aride querce e molti pini trascina, e getta molto fango nel mare, così travolgendo incalzava il nobile Aiace per la pianura » (Il. XI, 492ss).

« trassero rapidi il carro veloce tra i Teucri e gli Achei, montando sui corpi e gli scudi; e l’asse di sangue è tutto insozzato di sotto, e la ringhiera del carro, che colpiscono schizzi dagli zoccoli equini e dai cerchioni » (Il. XI, 533ss).

« Come fulvo leone da un chiuso di bovi scacciano i cani e gli uomini dei campi, non gli lascian rapire il grasso pingue dei bovi, tutta notte vegliando; quello bramoso di carne, assalta, ma non può far nulla: dardi folti gli cadono addosso, lanciati da intrepide mani, e fiaccole ardenti, che teme, per quanto furioso; e all’alba s’allontana col cuore avvilito » (Il. XI, 548ss).

« come un asino, quando allorlo del campo resiste ai fanciulli, testardo, e molti bastoni sopra di lui son spezzati, ma esso entra a mietere il grano folto; i fanciulli lo battono coi bastoni, ma la forza è bambina, e a stento lo spingono fuori, quando è sazio di grano; così il grande Aiace di Telamone allora insieme Troiano superbi e alleati famosi continuamente inseguivano » (Il. XI, 558ss).

« come le falde di neve cadono fitte in un giorno d’inverno, che il saggio Zeus si leva a nevicare, e agli uomini mostra quali son le sue armi; i venti addormenta, e versa e versa, fino che copre le cime dei monti alti e i picchi elevati e le pianure erbose e i grassi arati degli uomini; perfino in riva del mare canuto cadon le falde, sui golfi e le punte, e l’onda dove lambisce le ferma; ma tutto il resto è coperto e nascosto, quando s’abbatte la tormenta di Zeus –  fitte così volavano di qua e di là le pietre » (Il. XII, 278ss).

« se adesso presso le navi fossimo scelti, tutti i migliori, per un agguato, in cui davvero si vede il valore degli uomini,   – qui è manifesto  l’uomo vile e il gagliardo, perché il colore del vile si cambia in cento maniere, il cuore non sa tenerlo a sedere senza tremito, ma si rannicchia e siede or su un piede or sull’altro, e il cuore, dentro, fortissimo palpita pensando alla morte, gli battono i denti: ma il colore del bravo non cambia, né troppo si turba al momento che si accovaccia in agguato, brama gettarsi al più presto nella strage sinistra » (Il. XIII, 276ss). 

« Come quando si slancia la mente d’un uomo, che molta terra percorse, e pensa nei suoi pensieri sottili “ qui sono stato e qui! ” e molte cose ricorda, così velocemente volò bramosa Era augusta » (Il. XV, 80ss).

« come quando l’onda su rapida nave s’abbatte violenta, nutrita di vento sotto le nuvole: tutta la nave scompare sotto la schiuma; il soffio tremendo del vento mugola nella vela, tremano in cuore atterriti i marinai, ché per poco non sono travolti da morte. Così si spezzava il cuore agli Achei » (Il. XV, 624ss).

« Apollo davanti con l’egida venerata abbatté il muro degli Achei senza fatica, come un bimbo la sabbia sulla riva del mare, che dopo aver costruito i suoi giochi infantili, di nuovo coi piedi e le mani rovescia tutto giocando » (Il. XV, 360ss).

« come una bimba piccina, che dietro la madre correndo, la forza a prenderla in braccio, le afferra la veste, la tira mentre cammina, la guarda piangendo per essere presa in braccio? Simile a questa, Patroclo, spandi tenere lacrime » (Il. XVI, 7ss).

« come le vespe dei sentieri, che i fanciulli abitualmente tormentano stuzzicandole, esse lungo il sentiero hanno il nido. Sciocchi! Preparano un male a tutti comune, perché se dopo, passando vicino, un viandante senza volere le scuote, quelle con animo forte gli volano tutte addosso, per difendere i figli. Simile cuore ed animo avendo, i Mirmidoni si riversarono dalle navi » (Il. XVI, 259ss).

« Come quando dall’alta vetta d’una grande montagna Zeus adunatore di folgori scosta una nuvola spessa, e appaiono tutte le cime, i picchi alti, e le valli, ché s’è squarciato l’etere immenso in cielo; così i Danai, allontanato il fuoco divoratore delle navi respiravano un poco » (Il. XVI, 297ss).

« E come dalla tempesta tutta la terra nera è gravata in un giorno d’autunno, in cui pioggia violenta rovescia Zeus, se adirato con gli umani imperversa perché con prepotenza contorte sentenze sentenziano, e scacciano la giustizia, non curano l’occhio dei numi; ed ecco i loro fiumi si riempiono tutti, scorrendo, e molte pendici i torrenti dilavano, gemono forte, correndo verso il livido mare a capofitto dai monti; devastano le fatiche degli uomini; così le cavalle troiane gemevano forte correndo » (Il. XVI, 384ss).

« Come Euro e Noto gareggiano fra loro tra le gole del monte a squassare una selva profonda, quercia e faggio e corniolo larga corteccia, ed essi fra loro scagliano i lunghi rami con stormire infinito, schioccano i rami infranti, così correndosi addosso Achei e Troiani si uccidevano » (Il. XVI, 765ss).

 

Un tentativo di valutazione della poesia omerica.  Nell’VIII secolo il   villanoviano egualitario  entra in contatto con le stimolazioni che provengono dai principi Rasenna della costa siriana. Nasce allora la fase eroica del popolo etrusco che elaborò le saghe eroiche o frammenti di queste saghe (Argonauti, guerra di Troia) poi organizzate e messe in poesia da Omero. Si può dire con M. Pallottino che alla sfera intellettuale etrusca era « estranea ogni speculazione concettuale del tipo che si era andato affermando in Grecia, come pure ogni sensibilità etica ed ogni disposizione del gusto se non in funzione di una costante praticità legata ai perentori dettami di una legge superiore tramandata e scritta, la cosiddetta Etrusca disciplina, nonché alle esigenze concrete della vita. Per ciò noi vediamo apparire gli Etruschi, soprattutto agli inizi della loro storia, come un popolo attivo e industrioso che sfrutta al massimo i suoi beni naturali… crea città popolosissime… opera esuberantemente sui mari » (Gli Etruschi, CDE spa, Milano, 1998, p. 21), e con F. Codino «  che tutta l’esistenza di questi uomini coincide esattamente con la loro attività sociale o “ professionale ” (cioè con l’attività economica – sia la guerra o l’agricoltura – che prima che si affermi la divisione sociale del lavoro è un compito uguale per tutti). Gli eroi dei poemi formano ancora una società di liberi e di uguali: siamo già al punto della rottura, esistono forti differenze di ricchezze e di prestigio, ma ciascuno può superare queste differenze a proprio vantaggio senza osservare convenzioni giuridiche o principi morali superiori. Achille è umiliato da Agamennone, ma può resistere senza dover temere o invocare un’autorità superiore o esterna. Odisseo ha conti da regolare con i pretendenti, ma, purchè gli bastino l’intelligenza e la forza, potrà ancora sconfiggerli senza l’aiuto d’intermediari (leggi e poteri pubblici). L’unica legge è quella della timè: possesso materiale ottenuto col merito personale, col successo pratico, e accompagnato dal prestigio sociale. Tutte le definizioni di caratteri… si riferiscono alla forza coraggiosa e intelligente, che è l’unica virtù umana riconosciuta, e dunque sono tutte qualifiche “ professionali ”. Di quest’unica virtù, definita in tutta la sua estensione dal termine aretè (che indica il successo, il buon esito, in qualsiasi campo di attività pratica), posseduta in misura maggiore o minore, è fatta la personalità degli eroi. Inutilmente si cercherebbero in queste figure le manifestazioni di una patologia etico-psicologica derivante dalla contrapposizione dell’individuo a quadri sociali fissi e differenziati » (Introduzione a Omero, pp. 140-141). Nella poesia di questo periodo di transizione  gli uomini vivono in un limbo in cui la società primitiva non è più e quella più civile che la sostituisce non è ancora strutturata rigidamente, « ogni loro azione si giustifica da sola, trae il suo valore unicamente dall’esito immediato, non viene rapportata ad alcuna norma superiore, ma è semplicemente descritta in assoluta presenza locale e temporale, senza sottintesi significati etici » (Codino, p. 191). Come dice Goethe « I personaggi più adatti », per l’epica e la tragedia, « sono quelli che non hanno superato quel certo grado di cultura in cui la spontaneità dell’agire si affida unicamente a se stessa, ed in cui l’uomo non agisce ancora in senso morale, politico e meccanico, ma in senso individuale. Le tradizioni greche [o piuttosto etrusche e veterotestamentarie, il corsivo è mio] dell’età eroica furono, in questo senso, particolarmente favorevoli ai poeti ». Dunque le favole (che sono anche favole siro-cipriote, orientali in genere) sono già bell’e pronte nel villanoviano e Omero, cui la madre le ha raccontate mille volte da bambino, le mette in poesia nell’orientalizzante. Non può cambiarle, se non limitatamente, e dunque mantengono il loro sapore primitivo pur essendo calate nell’orizzonte  straordinariamente raffinato di Tarquinia e Roma di VII secolo.

Omero l’etrusco è il primo scrittore occidentale, cioè con lui per la prima volta la scrittura, d’origine fenicia, viene impiegata per scrivere e per scrivere  poemi immortali che bene o male hanno costituito e costituiscono le fondamenta  della cultura e della civiltà dell’occidente, e sappiamo bene quanto la civiltà occidentale sia debitrice degli Etruschi, che mangiavano tre volte al giorno, seduti a tavola, introdussero  l’uso del cognome, si lavavano e cambiavano spesso di vesti, amavano i divertimenti e l’arte (la produzione vascolare greca, quella migliore, si trova in Etruria e nei musei etruschi di tutto il mondo),  trattavano con le donne da pari a pari, viaggiavano per i mari lontani e per le terre oltre lo Stretto di Gibilterra in concorrenza coi loro cugini Fenici.

Dopo Omero Roma si dedicò esclusivamente alle guerre e ebbe poco tempo da dedicare allo svago (comunque « si legge nelle « Origini » di Catone che i convitati solevano nei banchetti cantare accompagnati dal flauto le virtù degli uomini illustri » Cicerone, Tusc. I, 2), ma il gusto popolare rimase legato al genere introdotto dall’Iliade, e cioè alla commedia e alla tragicommedia. Roma, diventata agricola in reazione ai re etruschi amanti del mare, fu anche di gusti assai semplici, com’è tipico delle genti contadine. Quando Roma, venuta a contatto, attraverso la guerra, con la Magna Grecia, riscoprì la letteratura greca,  e Livio Andronico (III sec. a. C.) tradusse in verso saturnio l’Odissea, il genere che ebbe fortuna fu ancora la commedia. Ancor più è significativa la prosa – in greco! – degli annalisti anteriori a Catone: « L’uso della lingua greca, che veniva ritenuta la lingua della cultura diffusa nel bacino del Mediterraneo (il latino rimaneva circoscritto – dice Cicerone – suis finibus, exiguis sane), ci mostra uno dei fini dell’annalistica: quello di diffondere le idee di Roma, e, soprattutto, di giustificare la sua politica espansionistica dopo la seconda guerra punica. In ciò l’annalistica replicava alle tendenze di una storiografia filocartaginese, in cui si distinse Filino di Agrigento (III sec. a. C.). A quest’opera, ispirata soprattutto a criteri di pubblica utilità, si accinsero personaggi per lo più assai in vista  della vita politica romana, senatori e magistrati, in gran parte personaggi di rilievo anche nelle vicende che andavano narrando. Tipico dell’annalistica doveva essere il tono (quasi epico) di esaltazione, il gusto del meraviglioso e del favoloso… » (Armando Salvatore e Antonio Salvatore, Storia della letteratura latina, Loffredo Ed. Napoli, 1973, p. 66). Abbiamo visto e vedremo nel corso della storia etrusco-romana dall’VIII al III sec. a. C. un orientarsi della politica in senso filogreco con deviazioni in senso filopunico a seconda delle convenienze commerciali dell’Etruria e di Roma, cui non importava tanto farsi grandi con una storiografia o un’epica celebrative, quanto sfruttare queste a fini puramente politici ed economici… il senso pratico dei Romani, ma anche degli Etruschi. E l’iconografia del povero Omero cieco che gira per le corti greche in cerca di un frusto di pane come il suo conterraneo, l’esule Dante di due millenni posteriore (e altrettanto più antico di idee), non potrebbe essere più lontana dalla realtà.

 

 

Appendice

 

1 – Quando gli dèi erano amici degli uomini.  Nei poemi omerici è presente sia il tremendum («  Febo Apollo… aveva l’egida ardente, tremenda, sfrangiata, radiosa, che il fabbro Efesto diede  da portare a terrore degli uomini » Il. XV, 307ss), cioè il terrore dei fenomeni attribuiti alla divinità, sia  il fascinosum (« davanti Pallade Atena, una lucerna d’oro tenendo, bellissimo lume faceva. E stupito Telemaco parlò… “ O padre, prodigio grande vedo cogli occhi! Davvero i muri e i begli architravi di casa, e le traverse d’abete e le colonne eccelse splendono agli occhi come se ardesse il fuoco: qui certo c’è un dio, di quelli che il vasto cielo possiedono ” » Od. XIX, 33ss), la meraviglia dei fenomeni attribuiti alla divinità, che insieme compongono il numinoso, la manifestazione del dominio della divinità. Perché sorga una religione dovrebbe essere necessaria anche la ribellione al concetto di morte, destino di tutti i mortali, e dunque la teorizzazione della resurrezione o, formulato in termini più corretti, dell’immortalità dell’anima (risorge ciò che non era, mentre sparendo il corpo l’anima continua a vivere, nella sua dimensione di anima libera dai condizionamenti corporali; sia ben chiaro che non esprimo il mio parere ma delucido il pensiero di chi ci crede); e ancora magari l’idea della punizione dei malvagi e del premio per i buoni, dalla qual cosa si arguirebbe che la condizione corporale è di passaggio verso quella eterna spirituale e fatta apposta per valutare e premiare o punire gli uomini; e ancora la sessualità e la prolificità come benedizione divina (“ crescete e moltiplicatevi ”). La religione ebraica veterotestamentaria e quella (non in cui crede, perché Omero è ateo) messa in poesia proprio perché poetica di Omero fanno eccezione a ciò che ci attenderemmo. Giobbe (e tanti altri con lui) è succube della divinità ma non crede nell’immortalità dell’anima, crede invece nella prolificità perché dopo che Dio ha permesso a Satana che perdesse tutto, beni e figli, gli ridona altrettanti beni (rimpiazzabili) e figli (non rimpiazzabili). Omero è rappresentato bene da  Odisseo, che non è succube della divinità, diffida di tutti, anche della sua dea personale Atena, ed è pronto ad ingannare tutti, perfino sua moglie Penelope, se necessario. Confida solo in se stesso, nella sua ragione e nella sua astuzia. Non crede nell’immortalità dell’anima e nemmeno gli interessa. Non si può certo definire anima l’ombra di Anticlea che appare ad Odisseo sollecitata da una nekyia  o quella di Patroclo che appare ad Achille in sogno. Lo stesso Achille preferirebbe essere l’ultimo dei mortali piuttosto che il primo nell’Ade. Rifiuta il dono dell’immortalità offertogli da Calipso, per cui i semiti darebbero un occhio e pure tutti e due dal tempo di Gilgameš. Chi non cerca l’immortalità non può credere in Dio né ha bisogno di credere in Dio. Possiede tutto in se stesso. Prolificità? Odisseo non vi aspira più di quanto non aspiri all’immortalità. Da sempre in famiglia sono figli unici. Premio e punizione? Questo concetto lo esprime magnificamente Penelope:     « Gli umani han vita breve. Ora chi è senza cuore e senza cuore si mostra, tutti gli auguran dietro del male i mortali da vivo, e morto lo disprezzano tutti; chi, invece, ha cuore nobile e cuore nobile mostra, di lui larga fama gli ospiti portano intorno fra tutti gli uomini, e molti lo dichiarano buono. »  (Od. XIX, 328ss) Si tratta di un uomo buono laico che viene premiato non in una vita di là dove nessuno può controllare, ma in questa vita dove una cattiva fama da morto potrà anche non costare nulla al defunto ma certo ai suoi figli, alla sua famiglia, alla sua città, e dunque attraverso questo giudizio laico si viene ad influire sulle persone indirizzandole al bene e distogliendole dal male, molto più sicuramente ed efficacemente di un giudizio ipotetico demandato ad un al di là dove nessuno ha mai avuto la fortuna di andare e tornare a riferircene. L’etrusco Omero, non c’è dubbio alcuno, è il primo uomo occidentale e, purtroppo, per lungo tempo anche l’unico.

L’unica realtà che  Omero concede agli dèi è quella della favola. Essi sono estremamente poetici (sia nella tradizione ebraica dell’unico dio, sia in quella semitica, politeistica, in generale, confluite nella cultura etrusca). Sono i  protagonisti ideali delle favole. Tutto nasce dal fatto che il re feacio (di Tarquinia o prima ancora di Hypereia, ‘regione alta’, alta Siria) o, che è lo stesso, della casta dei giganti guerrieri, è figlio degli dèi (cf. Genesi 6, 1-7; Baruc 3, 26-28; Od. VI, 3-10, VII,56-60, 201-206), che vivono costantemente accanto a lui, un poco dietro, un poco al di sopra, proteggendolo. Esemplare di questa concezione della regalità d’origine divina e benedetta dagli dèi e perciò abbracciante (nella stessa disposizione del fabbricato intorno ad una grande corte quadrata centrale) ogni aspetto della vita e della morte della collettività è il palazzo di Murlo (Siena), di ascendenze siriane, risalente alla metà del VII secolo, dalla cui sommità le statue acroteriali degli antenati sorvegliano benevole l’operato dei re loro discendenti. Come emerge dalle decorazioni fittili a rilievo dei lati dei portici, un posto centrale nella vita di corte occupano il banchetto pubblico (che serve a suggellare alleanze, trattati, matrimoni, a consolidare l’immagine del re di fronte al suo popolo), e il matrimonio, altro simbolo, ancora più forte del banchetto pubblico, di tali rapporti. Odisseo non sposerà Nausicaa perché a Itaca lo aspetta la fedele Penelope che deve liberare dai Proci ma, come si dice, quel che conta è il pensiero e Alcinoo mostra di voler stringere con Odisseo un legame strettissimo com’è quello matrimoniale, un legame di sangue, il che, esteso alle nazioni etrusca e greca da essi rappresentate, esprime l’opinione che Etruschi e Greci possono considerarsi la stessa nazione: « Oh se – Zeus padre e Atena e Apollo! – bello come tu sei, unanime con me nei pensieri, la figlia mia avessi e ti chiamassi mio genero, restando qui! Io ti darei casa e beni, se ti piacesse restare » (Od. VII, 311ss).

Ritorniamo adesso al banchetto, che è anche epifania del re defunto divinizzato e dunque diventato vero e proprio dio. I Feaci vivono in mezzo e fra gli dèi: « sempre, infatti, gli dèi ci si mostran visibili, quando per loro facciamo elette ecatombi, banchettano in mezzo a noi, sedendo dove noi siamo; e se un viandante, anche solo, li incontra, non si nascondono, perché siamo prossimi a loro, come i Ciclopi e le selvagge tribù dei Giganti » (Od. VII, 201ss), e sono essi stessi divini: « Ma appena t’avranno accolto casa e cortile, traversa subito la grande sala e avvicinati alla madre: al focolare lei siede, nella luce del fuoco, girando il fuso purpureo, meraviglia a vederla, a una colonna appoggiata: dietro le ancelle siedono. Qui, accanto a lei, s’appoggia il trono del padre, che beve il vino, seduto, e pare un nume immortale » (Od. VI, 303ss). Nel più antico fra i bacini lustrali rituali scoperti a Mardikh-Ebla (alta Siria),  nell’area del Tempio BI (dedicato a Reshef, il dio della morte, della pestilenza e della guerra) della necropoli reale della città paleosiriana: « Il banchetto è rappresentato già in questo esemplare arcaico di bacino secondo uno schema classico nel quale il sovrano, che cinge una tipica tiara a calotta con una prominenza frontale in cui si devono riconoscere forse le terminazioni delle corna della corona divina, siede levando una coppa davanti ad una caratteristica tavola offertoria a supporto centrale ed estremità arcuate a zampe taurine colma di pani azimi » (P. Mattiae, Ebla, un impero ritrovato, Einaudi, 1977 e 1989, p. 190). Cerimonie comunitarie incentrate sul banchetto sacro « sono note per il culto… dei rapi’uma, gli antenati regali divinizzati della città, che nella più tarda tradizione dei libri biblici divengono i rephaim, mitici giganti abitatori della Palestina antichissima e ombre dei defunti vaganti nell’aldilà, secondo una tipica alterazione semantica dello stesso termine provocata dalla nuova situazione sociale, religiosa e ideologica della Palestina israelitica…   i rapi’uma…  avevano la funzione di assicurare la protezione degli antenati regali ed eroici alla comunità cittadina e al sovrano legittimamente regnante. Era, infatti, solo in questa stretta relazione cultuale tra la società dei vivi e la comunità dei morti che, nell’ideologia della regalità urbana paleosiriana, era garantita, attraverso la memoria e il recupero della tradizione nel culto funerario dei gloriosi antenati regali, la prosperità e la sicurezza della città… e, più in generale, per gli eroi divinizzati accolti nelle liste dinastiche dei re defunti da alcuni testi rituali ugaritici del Periodo Mediosiriano, secondo una tradizione religiosa che, pur se pienamente documentata in Siria solo nel XIII secolo a. C., risale certamente al Periodo Paleosiriano ed era seguita anche in tutta la Mesopotamia nell’ambiente amorreo paleobabilonese da Mari a Babilonia ad Assur » (P. Mattiae, op. cit. pp. 185-186).  Non è chi non veda in tutto ciò l’anticipazione di millenni dell’Ultima Cena e dell’Eucarestia, che è l’epifania di Cristo nel banchetto sacro col pane e col vino. E poiché le tradizioni alto-siriane sono state portate fin nella lontana Irlanda dal movimento degli Hyksos, Pelasgi (nel senso di Palestinesi) e  Celti (cioè indeuropei; vedi su questo sito: La vera storia di Romolo), appare oggi difficile se non impossibile stabilire quanto della leggenda del celta Artù e del Graal appartenga ad era precristiana o cristiana, ma ad esempio  la spada nella roccia dello stesso mito ha lontane origini hurrite  ed ittite (e una eco nella legittimazione alla regalità dello stesso Teseo d’Atene, vedi Apollodoro).   Poiché gli eroi sono figli degli dèi e dèi essi stessi, trattano con gli dèi da pari a pari, li sposano, ne vengono sposati, nei casi estremi li vincono a duello (ferendoli al massimo) o da questi vengono uccisi quando suona l’ora decretata dal destino, destino che è per lo più nelle mani degli uomini che spesso per i loro errori muoiono prima del tempo che sarebbe stabilito dalla natura stessa dell’uomo, che è mortale. Si ha la netta impressione che gli dèi in Omero  si prendano tutte le colpe degli errori degli uomini, che al contrario si prendono tutto il merito delle cose giuste che fanno. Si può affermare che gli dèi rappresentino realtà e fenomeni naturali (dai monti ai mari, dagli astri all’arcobaleno)  e fisiologici dell’uomo, compresa l’ira incontrollabile da cui dipendono tanti errori. Gli eroi sono quasi sempre seri, gli dèi quasi sempre comici. Scherza coi santi e lascia stare i fanti, sembra dire Omero, al contrario dei moderni. Ma se non si temono gli dèi e ci si può ridere sopra, ecco che essi finiscono col diventare simpatici. Uno non ci crede lo stesso, ma almeno può vivere in pace con essi senza dissidi. Certo Omero si distacca dall’interpretazione ebraica dove Dio scruta l’uomo che si sente spiato e controllato dall’’occhio di Dio’ che guarda perfino nelle profondità sua anima e dei suoi pensieri. A quale scopo, dato che l’uomo è mortale e peccatore per definizione e dunque imperfetto, imperfettissimo di fronte alla perfezione di Dio. Quando l’uomo sarà morto, più presto che non si dica, Dio rimarrà di nuovo solo con la sua perfezione, e a cosa gli sarà valso aver perseguitato la sua creatura? Questa è la domanda irrisolta cui il libro di Giobbe non da alcuna risposta. Omero, pur di origini orientali, è egli stesso  un occidentale  cui dobbiamo la nostra identità. Gli orientali agognano l’immortalità ma non godono neppure quei pochi anni di vita mortale, schiacciati dall’unico essere immortale, Dio, che ne violenta – senza alcuno scopo apparente (detto meglio: il semita si tormenta da se stesso senza scopo) – l’anima come il turbine i granelli di sabbia del deserto, come i despoti orientali  i loro sudditi; l’occidentale accetta il suo stato mortale, e dalla sua rassegnazione deriva la sua forza per agire, lui, da solo, con o senza l’aiuto di un santo protettore. L’aver preso la civiltà occidentale fin dagli inizi un indirizzo ebraico della concezione della vita (con Esiodo, con gli omeridi  argolico e pisistratide, che hanno rivalutato la divinità nei poemi: « Zeus padre, sì, che esistono gli dèi sull’eccelso Olimpo, se veramente i principi la folle violenza pagarono! » Od. XXIV, 351-352) ignorando quello omerico  è costato parecchio all’umanità: tutto il Medioevo, il sonno della ragione che genera mostri.

L’uomo omerico, anzi il re (anche Giobbe era un re-giudice) vive in simbiosi, in pace, col dio padre e protettore. L’Odissea più dell’Ira d’Achille è il poema della regalità, che ha la sua apoteosi nell’elogio fatto alla regina Arete e nelle parole con cui Odisseo elogia la regina Penelope « fama di te sale al vasto cielo come d’un re perfetto, che, pio verso i numi, su numeroso popolo e fiero tenendo lo scettro, alla giustizia è fedele: porta la terra nera grano e orzo, piegano gli alberi al peso dei frutti, figliano senza sosta le greggi, il mare offre pesci, per il suo buon governo: prospera il popolo sotto di lui » (Od. XIX, 108ss).

Gli dèi omerici, dal più grande Zeus al più piccolo spiritello, secondo una concezione animistica che vede un principio apposito dietro ad ogni manifestazione del reale, vivono in un mondo parallelo strettamente vicino a quello umano e ne possono uscire allo scoperto con gli  eroi che lo meritano per il loro valore o perché sono di ascendenza celtica  come Achille (che vede Atena: « gli stette dietro, per la chioma bionda prese il Pelide, a lui solo visibile… » Il. I, 197ss) e Odisseo, che per di più è un reincarnato (« Telemaco non la vide  [Atena], « non poté scorgerla, perché non a tutti si mostrano chiaramente gli dèi. Odisseo, sì, la vide, e i cani, e non abbaiavano, ma uggiolando fuggirono dall’altra parte del chiuso » (Od. XVI, 160ss), o con la casta dominante dei  Feaci, che sono imparentati coi Giganti siriani e con gli dèi.  Gli dèi hanno il dono dell’invisibilità e possono nascondere dentro la nebbia druidica le loro navi (le navi dei Feaci, che « l’abisso del mare velocissime passano, di nebbia e nube fasciate » Od. VIII, 561-562) o gli eroi da essi protetti, come fa Atena con Odisseo: « Attraversò la sala il costante Odisseo luminoso, con tutta la nebbia che gli versò intorno Atena, finché giunse ad Arète e ad Alcìnoo sovrano; alle ginocchia d’Arète gettò le braccia Odisseo, e solo allora la prodigiosa nebbia si sciolse » (Od. VII, 139ss). Poseidone versa nebbia sugli occhi ad Achille affinché non veda e non uccida Enea, poi « sciolse dagli occhi d’Achille la nebbia, prodigiosa; e quello tornò a vederci bene con gli occhi » Il. XX, 341-342), e così via. O  fanno scendere su di loro il buio: « già c’era luce sulla terra, ma Atena di notte coprendoli, rapidamente fuori città li guidava » Od. XXIII, 372). I signori del buio sono anche i signori della luce. Gli dèi si manifestano ancora attraverso prodigi, tuoni, fulmini, stelle cadenti, una luce soprannaturale, il melammu o xvarena o aura orientali, il terribile fulgore soprannaturale che emana dalla divinità e dal re. Così in Od. XIX, 33ss già esaminato a proposito del fascinosum. Quando gli dèi si rendono invisibili si possono ancora riconoscere da uno spiffero d’aria perché essi volano veloci e provocano un “ soffio di vento ” (Atena « mosse verso la stanza ornata, in cui una fanciulla dormiva, alle immortali simile per aspetto e bellezza, Nausicàa, la figlia del magnanimo Alcìnoo; e vicino due ancelle, che delle Càriti avevan bellezza, di qua e di là dagli stipiti; le porte splendenti eran chiuse. Come un soffio di vento balzò al letto della fanciulla, le stette sopra la testa e le disse parola, sembrando la figlia di Dìmante, nocchiero famoso, che le era coetanea e molto cara al cuore » Od. VI, 15ss) o volano “ insieme col soffio del vento ” (« non fu sordo il messaggero Argheifonte. Subito sotto i piedi legò i sandali belli, ambrosii, d’oro, che lo portavan sul mare e sulla terra infinita, insieme col soffio del vento » Od. V, 43ss).  Iri poi è detta “ piede di vento ” (e quando si tuffa nel mare per portare messaggi agli dèi marini, questo geme, a causa della velocità, Il. XXIV, 79), “ piede di turbine ”, “ ala d’oro ”. Se gli dèi omerici si potessero vedere tutti insieme, il mondo che ci circonda apparirebbe come un palpitare di presenze, come un sottobosco formicolante di esseri tutti pronti a venire in aiuto dei mortali.  Odisseo nel ritorno da Troia ed esattamente nel primo anno (il secondo è stato da Circe ed, eccetto pochi altri episodi circoscrivibili a pochi giorni, è stato ben otto anni presso Calipso) ha accecato l’unico occhio di Polifemo, ragione per cui suo padre Poseidone lo perseguita;  in realtà Odisseo è stato punito perché è stato un cinico pirata, distruggendo città e depredandole di tesori e donne da rendere schiave, ma poco alla volta passando attraverso l’inferno di Circe, il purgatorio di Calipso (qui meditando a lungo sulle sue malefatte comincia a lavorare onestamente per la prima volta in vita sua costruendo la zattera con cui parte da Ogigia) il paradiso di Arete, dove come Giobbe viene premiato ottenendo il doppio delle ricchezze che aveva perduto (e conquistato disonestamente) e dove  si purifica fino a potersi reincarnare a Itaca dopve potrà salvare  moglie e figlio dalle mani dei malvagi Proci. Come nelle favole troviamo ì Orchi (Polifemo) e Mostri marini (Scilla e Cariddi, Sirene), Fate buone (Ino Leucotea, ma anche Calipso, la signora del purgatorio luogo di purificazione), Maghi buoni (Ermete) e Maghe cattive (Circe, che però è affine a  Calipso nella sua funzione di signora di un luogo di purificazione a regime più duro del purgatorio, una specie di inferno), Folletti buoni dell’aria (Iri ‘ala d’oro’) e Arpie dei venti cattivi. I Maghi e le Maghe hanno le loro inseparabili bacchette magiche e le pozioni con cui compiono i loro sortilegi (rendono ad esempio vecchi o giovani, ricchi o mendichi gli uomini, come fa Atena con Odisseo) o li rendono inefficaci (con l’erba moly di Ermete). Gli dèi sono capaci, come Circe, di ammansire come cagnolini lupi montani e orsi (Od. X, 210ss), oltre che trasformare gli uomini in porci. Soprattutto incantano gli esseri umani (Atena e Zeus i Proci, non appena Telemaco e Odisseo prenderanno le uniche armi lasciate nel salone, Od. XVI, 295ss, Apollo, agitando l’egida, gli Achei, mentre i Troiani attaccano le navi, Il. XV, 320ss, 592ss, e per conseguenza gli occhi degli Achei sono appannati da una « nuvola oscura prodigiosa » Il. XV, 668-669). L’esempio migliore di incantamento è dato in Il. XIII, 434ss: « questo [Alcàtoo] allora domò Poseidone per mano d’Idomeneo, gli incantò gli occhi lucenti, le belle membra inceppò. Non poté più fuggire, non poté più scansarsi, ma come pilastro o albero alta fronda, immoto, lo colse nel petto con l’asta l’intrepido eroe Idomeneo ». L’arte di incantare o affascinare o ipnotizzare è tipica dei druidi e in particolare dei vati o eubagi, che compongono e recitano o cantano satire (maledizioni), ed è stata impiegata anche dagli  Etruschi, che in parte derivano la civiltà dall’ambito celto-germanico. Svetonio Paolino, che guidò l’assalto all’isola di Mona (Anglesey), riporta che « Stava sulla spiaggia la schiera dei nemici, densa di uomini e di armi, percorsa da donne, coperte di nere vesti al modo delle Furie e che, sparse le chiome, agitavano delle fiaccole; intorno stavano i Druidi, che, levate al cielo le mani, lanciavano preghiere e maledizioni contro di noi e con lo strano loro aspetto colpirono i soldati al punto che questi, in un primo tempo, col corpo paralizzato  si esponevano alle ferite, come avessero tutte le membra legate. Poi, scossi dagli incitamenti dei capi e facendo stimolo a se stessi, per non dare spettacolo di paura dinanzi a una massa di donne e d’invasati, si lanciarono contro di loro, li abbatterono e li travolsero nelle loro stesse fiamme » (Tacito, Annali XIV, 29). Molto tempo prima l’esercito guidato da  Marco Fabio Ambusto fu sbaragliato da Falisci e Tarquinesi: « Ne nacque un immenso terrore, perché i sacerdoti di quei popoli portando innanzi fiaccole accese e serpenti, e correndo a guisa di furie, scompigliarono con quell’insolito spettacolo i soldati romani. E allora questi, come invasati e sgomenti, si precipitarono in gran disordine nelle loro trincee; quindi, poiché il console, i luogotenenti e i tribuni li deridevano e li rimproveravano per quel puerile terrore ch’essi provavano davanti a vani spauracchi, la vergogna mutò di botto il loro stato d’animo, ed essi si gettarono come ciechi contro quegli stessi spauracchi davanti ai quali erano fuggiti. Sgombrata così quella vana messa in scena dei nemici, piombarono in mezzo agli armati, travolgendo l’intero esercito » (Livio, VII, 17). Gli dèi amano assumere anche l’aspetto di uccelli, specie il cigno che è l’animale divino dell’Altro Mondo e dunque l’animale di Elena e di sua cugina Penelope.  Ino Leucotea è materializzata in una folaga, Atena nella  rondine o nell’aquila marina o nel falco, Apollo nel gabbiano o nel nibbio, mentre gli uomini da morti si trasformano in squallidi pipistrelli che volando attraverso le caverne giungono nella « dimora ampie porte dell’Ade » dove vengono giudicati da Minosse. Come uccello è raffigurata in Etruria l’anima del defunto che si può evocare (quelle nell’Ade da Odisseo o quella del giudice Samuele dal re Saul), e dunque gli uccelli sono i messaggeri degli dèi e i loro messaggi sono interpretati dagli auguri come Calcante (oionopòlos, Il. I, 69). L’Ade omerico ha l’aspetto dello Sceol ebraico, « la terra delle tenebre e dell’ombra, terra di caligine e di disordine, dove la luce è come le tenebre » (Giobbe, 10, 21-22). « Tese le braccia, parlando così, ma non l’afferrò: l’anima come fumo sotto la terra sparì stridendo; saltò su Achille, stupito, batté le mani insieme e disse mesta parola: “ Ah! C’è dunque, anche nella dimora dell’Ade, un’ombra, un fantasma, ma dentro non c’è più la mente… ” » (Il. XXIII, 99ss). Merita d’essere citato l’inizio del XXIV libro dell’Odissea anche se in contesto non omerico, perché se non è tratto da Omero certo ne ha appreso perfettamente la lezione: « Ma Ermete Cillenio chiamava le ombre dei pretendenti; aveva in mano la verga bella d’oro, con cui gli occhi degli uomini affascina, di quelli vuole e può svegliare chi dorme; le guidava movendola, e quelle gli andavano dietro squittendo. Come le nottole nel cupo d’un antro divino squittendo svolazzano, quando una cade dal grappolo appeso alla roccia; poi si riattaccano una all’altra; così squittendo l’ombre andavano insieme; le conduceva l’astuto Ermete per putridi sentieri. Giunsero alle correnti d’Oceano e alla Rupe Bianca; e alle Porte del Sole e tra il popolo dei Sogni arrivarono; e presto furono nel prato asfodelo, dove abitan l’ombre, parvenze di morti ». Un altro aspetto del mondo fiabesco omerico è quello della robotica, che dà vita alle cose, con quell’inventore straordinario, una specie di Mago Merlino o di Leonardo da Vinci, che è il fabbro siriano Efesto, cui si devono tutte le creazioni fantastiche nei poemi omerici, dai cani immortali a guardia del palazzo, ai tedofori che illuminano i banchetti di Alcinoo, alle sue  navi che « sanno da sole il pensiero e l’intendimento degli uomini », ai tripodi per gli dèi e alle sue (di Efesto) ancelle semoventi e soprattutto alla sua officina, dove comunque la sua manodopera di artista rimane insostituibile: « e tornò verso i mantici: al fuoco li rivoltò, li invitò a lavorare: e i mantici, tutti e venti, soffiarono sulle fornaci, mandando fuori soffi gagliardi e variati a volte buoni a servirlo con fretta, a volte il contrario, come Efesto voleva e procedeva il lavoro; e poi pose sul piedistallo la grande incudine, afferrò in mano un forte maglio, con l’altra afferrò le tanaglie » (il. XVIII, 468ss).

 

 

2 - Il galateo e lo spirito di carità e fratellanza propugnati dalla ricca borghesia mercantile cerite. 

I poemi omerici evocano il medioevo cristiano dell’Europa nord-occidentale coi suoi castelli e cavalieri (soprattutto l’Iliade), o dell’Europa centrale, coi suoi liberi comuni e  la ricca borghesia mercantile (soprattutto l’Odissea). Ma l’orizzonte culturale in cui si muovono i personaggi omerici è quello borghese anche nell’Iliade. E’ nel villanoviano ugualitario, l’età eroica della nazione etrusca, che sono nate queste favole, che Omero ha fissato alla metà del VII sec. a. C. e  che dunque hanno per sfondo un mondo assai simile a quello feudale medioevale che del resto è documentato a Murlo alla metà del VII sec. a. C. La borghesia mercantile vincente sia a Roma che a Tarquinia si ispira ancora all’etichetta e ai costumi dell’età precedente dell’aristocrazia terriera, per cui il paesaggio feudale che fa da sfondo ai poemi è puramente decorativo, mentre la realtà in cui vivono i personaggi dei due poemi è quella mercantile che avvicina Tarquinia e Roma alle città fenicie piuttosto che a quelle della colonizzazione greca. Lo spirito che anima i due poemi, anche l’Ira d’Achille, intesa primariamente a intensificare e promuovere gli scambi mercantili col mondo ellenofono incentrati sul santuario-banca tiberino, è quello della borghesia che, se nella  Roma guerriera mantiene un atteggiamento più austero  per tenere sotto controllo la plebe, a Tarquinia si mostra orgogliosamente  ricca e godereccia attraverso le parole di Alcinoo (« sempre il festino c’è caro, la cetra, la danza, vesti mutate, e bagni caldi, e l’amore » Od. VIII, 248-249). Le buone relazioni mercantili e dunque l’elaborazione di un codice di comportamento del buon mercante è essenziale. L’ospitalità è alla base di qualsiasi proficua relazione mercantile (« alle tue ginocchia veniamo supplici, se un dono ospitale ci dessi, o anche altrimenti ci regalassi qualcosa; questo è norma per gli ospiti. Rispetta, ottimo, i numi; siamo tuoi supplici. E Zeus è il vendicatore degli stranieri e dei supplici. Zeus ospitale, che gli ospiti venerandi accompagna » (Od. IX, 266ss) « L’ospite, infatti, ricorda per sempre l’ospitatore, che gli ha offerto buona amicizia » (Od. XV, 54-55) « Io questo calice mio, bellissimo, ancora gli dono, d’oro, perché ogni giorno di me ricordandosi, libi dentro la sala a Zeus e agli altri dèi » (Od. VIII, 430ss;  la buona accoglienza che Odisseo ha ricevuto alla corte di Alcinoo è una buona ragione per  i ceriti di attendersi un’affluenza notevole di scambi commerciali coi Greci intorno all’attuale santuario pirgense di Ino Leucotea). Fra ospiti ci si scambiano i doni come fra Mente re dei Tafi e Telemaco, anche se questo scambio cela un pagamento dei diritti di passaggio attraverso le isole di Telemaco, all’andata e al ritorno, da parte di Mente. Dunque lo scambio di doni viene rimandato a quando Mente farà ritorno da Cipro avendovi venduto il ferro etrusco in cambio di bronzo (Od. I, 316ss). Per inciso va detto che le isole Ionie fra cui Itaca erano poste davanti al golfo di Corinto e abitate da pirati affini ai vicini Tafi e Tesproti dell’Epiro e che taglieggiavano le navi corinzie all’andata e al ritorno dall’occidente e dall’Etruria. Da qui l’idea, sorta a Omero dalla celebrazione della classe dominante corinzia di Tarquinia, di collocare Odisseo il pirata, figlio di Sisifo corinzio, a Itaca e nel suo regno delle isole Ionie.  Comunque va evitato anche l’eccessivo attaccamento all’ospite (« Telemaco, certo non ti terrò qui a lungo a sospirare il ritorno; biasimerei anzi un altro, il quale, ospitando, esagerasse in calore o esagerasse in freddezza: l’equilibrio val meglio. Pecca ugualmente chi all’ospite, che non vuole partire, fa fretta, e chi, mentre già parte, lo ferma. Ma aspetta, che i doni belli portando, li metta sul carro, e tu con gli occhi li veda; e dica alle donne di preparare il pranzo in sala, con l’abbondanza che c’è » (Od. XV, 68ss).  Ma dalla necessità delle buone maniere nei rapporti fra mercanti (che poi sono marinai e dunque qui si parla soprattutto della solidarietà della gente di mare) e fra mercanti e popolazioni indigene si   sviluppa anche un sentimento diffuso di fratellanza (più di una semplice carità, dunque) nei confronti dello straniero e del prossimo in generale che si trovi in difficoltà, anche temporanea,  senza alcuna discriminazione di razza, di cultura, di credo, di ceto sociale. Il soccorso, a seconda delle possibilità immediate, e successivamente man mano sia possibile estenderlo, consiste nel lavare e ungere  d’olio profumanto il bisognoso,  nel vestirlo, nel dargli da mangiare e da bere, nell’accompagnarlo dove è diretto: « “ …Ma questi è un  misero naufrago, che c’è capitato, e dobbiamo curarcene: vengon tutti da Zeus gli ospiti e i poveri; e un dono, anche piccolo, è caro. Via, date all’ospite, ancelle, da mangiare e da bere, e nel fiume lavatelo… ” …Come fu tutto lavato, unto d’olio abbondante, vestì le vesti che gli donò la giovane vergine… “ …Su, date all’ospite, ancelle, da mangiare e da bere ” » (Od. VI, 206ss); successivamente Nausicaa indica a Odisseo  la via per il  palazzo reale affinché, meglio rifocillato e pieno di doni, sia riaccompagnato alla sua Itaca da una nave feacia. Per rafforzare il comando morale si afferma che spesso gli dèi si travestono da bisognosi per verificare il comportamento degli umani e premiarli o punirli di conseguenza: « Antinoo, male colpisti un ramingo infelice, pazzo; e se fosse per caso un nume del cielo? Spesso gli dèi, simili a ospiti d’altre contrade, sotto tutte le forme girano per le città, per vedere i soprusi e i retti costumi degli uomini » (Od. XVII, 483ss); « vengon tutti da Zeus gli ospiti e i poveri; e un dono, anche piccolo, è caro », dice Nausicaa (Od. VI,  207-208); e al contrario gli dèi condannano tanto gli indigeni che si comportano coi mercanti come l’antropofago Polifemo (« tu fai crudeltà intollerabili, pazzo! Come in futuro potrà venir qualche altro a trovarti degli uomini? Tu non agisci secondo giustizia » (Od. IX, 350ss) e non può non esporsi alla giustizia divina (« Ciclope… su di te doveva tornare il delitto, pazzo, ché gli ospiti osasti mangiare nella tua casa; così t’ha punito Zeus e gli altri dèi » (Od. IX, 477ss), sia i mercanti che si comportano da predoni con gli indigeni: « …non amano le male azioni gli dèi beati, solo giustizia onorano, le azioni oneste degli uomini. Anche quei tristi e ribaldi che sulle terre altrui sbarcano, e Zeus concede loro la preda, e riempite le navi tornano indietro in patria; anche nel loro cuore cade forte paura dell’occhio divino » Od. XIV, 83ss; cf. Giobbe 24, 23:  « Anche Dio gli concede sicurezza ed egli sta saldo, ma i suoi occhi sono sopra la sua condotta »). Da tutto ciò si sviluppa  una moralità sorprendente, anche per i nostri  tempi (e che salvo il libro di Giobbe, che però è dell’inizio del V secolo, e potrebbe derivare lui dall’Odissea, non si riscontra, formulato in modo così organico,  in tutto il mondo orientale), che non propugna il bene solo per raggiungere uno scopo, nemmeno quello di un premio da parte degli dèi in questa o in un’altra vita (abbiamo già considerato l’accusa rivolta da qualcuno dei Proci ad  Antinoo,  Od. XVII, 483ss o il pensiero di  Nausicaa, Od. VI,  207-208), in cui ben pochi credono  ma propugna il bene in se stesso  (« L’ospite, il supplice, è come un fratello per l’uomo che abbia anche solo un poco di senno »,  dice Alcinoo (Od. VIII,  546-547; siamo al messaggio di Cristo « ama il prossimo tuo come te stesso » che però nell’interpretazione cristiana è diventato, a far tanto, « ama il prossimo tuo – se è cristiano come te – come te stesso »), « Gli umani han vita breve. Ora chi è senza cuore e senza cuore si mostra, tutti gli auguran dietro del male i mortali da vivo, e morto lo disprezzano tutti; chi, invece, ha cuore nobile e cuore nobile mostra, di lui larga fama gli ospiti portano intorno fra tutti gli uomini, e molti lo dichiarano buono », dice Penelope, Od. XIX, 328ss. Si tratta di un uomo buono laico che viene premiato non in una vita di là dove nessuno può controllare, ma in questa vita dove una cattiva fama da morto potrà anche non costare nulla al defunto ma certo ai suoi figli, alla sua famiglia, alla sua città, e dunque attraverso questo giudizio laico si viene ad influire sulle persone indirizzandole al bene e distogliendole dal male.  Il messaggio morale dell’Odissea nel suo complesso è così riassunto da Odisseo: « tu comprenda in cuore e lo dica anche agli altri, quanto val meglio l’onesto del malo operare » (Od. XXII, 373-374). Come corollario v’è: « Ah no! Mai uomo dovrebb’essere ingiusto, ma in silenzio tenersi il dono dei numi, quello che dànno » (Od. XVIII, 141-142). Se Odisseo non fosse stato avido di ricchezze non avrebbe patito venti anni di sofferenze incentrate sulla guerra di Troia e sarebbe altrettanto ricco e felice con la moglie, il figlio, gli amici, il suo popolo, nella sua terra. Anche l’Iliade ha un messaggio ugualmente educativo perché Achille ha esagerato nella sua ribellione all’autorità di Agamennone (« E tu non volere, Pelide, contendere col re faccia a faccia, perché non ebbe in sorte onore comune un re scettrato, a cui Zeus diede la gloria… questi è ben più potente, ché su molti comanda » Il. I, 277ss, come insegna Nestore ad Achille). Non è detto che questo avrebbe deciso di togliere Briseide ad Achille per risarcirsi della perdita di Criseide (« Ma via, queste cose potremo trattare anche dopo… » Il. I, 140), mentre ciò avviene perché Achille assale Agamennone con insulti e questo, ferito nel suo amor proprio reagisce (Il. I, 148ss: « Ma guardandolo bieco Achille piede rapido disse: “ Ah vestito di spudoratezza, avido di guadagno… ”), mentre la lezione  espressa ad Agamennone da Odisseo (che nel frattempo s’è sostituito a Nestore  come fonte di saggezza) è: « e tu nel futuro anche con gli altri più giusto sarai » (Il. XIX, 181-182), perché tutto è nato dall’arroganza con cui Agamennone ha rifiutato il riscatto di Criseide. Insomma, i difetti principali degli antichi che la classe dirigente  etrusco-romana voleva eliminare erano la rapacità, la prevaricazione, l’irascibilità. Ma al di là del tema specifico dell’Ira d’Achille Achille stesso lancia un messaggio in sintonia con quello dell’Odissea: « Odioso m’è colui, come le porte dell’Ade, ch’altro nasconde nel cuore ed altro parla » Il. IX, 312-313).

Il messaggio, soprattutto quello di deontologia professionale del buon mercante, che dunque non è un pirata, è rivolto proprio al mondo greco (anche se praticamente tutti sono pirati tranne gli Etruschi/Feaci). Dopo un passato di pirati (i pirati Tirreni/Turša dell’Egeo e magari anche i Feaci siriani parenti stretti dei Fenici) gli Etruschi sono diventati una potenza sfruttando le miniere dell’Etruria e adesso hanno interesse a liberare il Mediterraneo dalla pirateria greca  come  più anticamente aveva fatto Minosse con la pirateria dell’Egeo. I Greci praticavano al tempo di Odisseo e praticano ancora al tempo di Omero la pirateria. Nelle isole Ionie  regno di Odisseo vivono popoli dediti alla pirateria, come i  Tesproti e i Tafi del continente che prelevavano diritti di passaggio dalle navi che da Corinto andavano verso occidente e l’Etruria come fece lo stesso Demarato assai prima di stabilirvisi definitivamente. Ma al tempo di Omero, dopo che la costruzione del santuario di Pyrgi dedicato a Ino Leucotea voluto dai  corinzi gli ha tolto il monopolio dei traffici etruschi con Cipro e l’oriente i pirati più temibili sono diventati gli Eubei di Ischia e Cuma, che assaltano con attacchi pirateschi i convogli etruschi diretti in oriente. Così Poseidone dà  fastidio a Odisseo proprio davanti a Pyrgi e poi se ne ritorna nel suo santuario di Ege in Eubea (V, 282ss) e Alcinoo ricorda l’impresa dei Feaci orientali che trasportarono Radamanto (nome teoforico del dio Ra, il Sole, dunque un faraone) in Eubea dove verisimilmente fece prigioniero il gigante Tizio che aveva offeso sua madre Latona che andava a Pito/Delfi (VII, 321ss; XI, 576ss). Il santuario di Delfi poi ricorda ai Greci la necessità di ricambiare il favore, perché Cere ha già un suo thesauros nel santuario panellenico.

 

3 - La vita beata dei ricchi borghesi.  Il lussuoso tenore di vita delle corti etrusche richiede presto l’elaborazione di un cerimoniale (che appunto deriva il suo nome da Cere, Cerveteri) di buone maniere e di galateo. La vita scorre tranquilla dentro le solide mura della corte, dove un maestro di palazzo – a  Tarquinia-Pyrgi è il molto sapiente (dunque potremmo dire il druida, druis, druides del De Bello Gallico da un archetipo *dru-wid-es,  onniscienti, sapientissimi)  Echeneo –  è incaricato di far rispettare l’etichetta: « “ Alcìnoo, ecco una cosa non bella, non ti s’addice che l’ospite in terra sieda, sul focolare, in mezzo alla cenere; e gli altri stanno immobili la tua parola aspettando. Su, l’ospite su un trono a borchie d’argento fa sedere, rialzandolo, e comanda agli araldi di mescolare il vino, che a Zeus folgoratore libiamo ancora, il quale accompagna i supplici venerandi: e cena la dispensiera dia all’ospite, quello che c’è ”. Appena udì questo la sacra potenza d’Alcìnoo, per mano prendendo il saggio Odisseo, ricco d’astuzie, dal focolare lo sollevò, lo fece sedere su un trono splendente, comandando d’alzarsi al figlio, il prediletto Laodàmante [“ signore del    popolo ”, che è un probabile riferimento  a Lucumone/re Tarquinio Prisco], che gli sedeva accanto: lo amava moltissimo. Venne un’ancella a versare lavacro da brocca bella, d’oro, su un bacile d’argento, ché si lavasse… » (Od. VII, 159ss). Nel palazzo di Odisseo si vive nella più completa anarchia, ma anche Telemaco sa cosa voglia dire l’etichetta di corte: « e vide Atena [nelle vesti di Mente re dei Tafi]. Le mosse incontro pel portico, e provò ira in cuore che l’ospite avesse atteso alla porta: davanti a lei stette, le prese la destra, ne ricevette l’asta di bronzo, e a lei rivolto, parole fugaci parlava: “ Salute, ospite! Sarai bene accolto fra noi. Poi tu, quando il cibo t’avrà ristorato, dirai che cosa t’occorre ”. Dicendo così precedeva, Pallade Atena seguiva. E quando furono dentro l’alto salone, andò a posar l’asta contro una lunga colonna; nella lucida astiera… » (Od. I, 118ss). Qui, nell’alto salone, « sale a spire profumo d’arrosto e la cetra risuona » (Od. XVII, 270-271). I nobili siedono (com’è in uso presso gli Etruschi) in fila attorno a lunghe tavolate serviti da ancelle ed efebi « sempre stillanti d’unguento la testa e il bel viso »  che versano acqua alle mani, mischiano l’acqua al vino nel cratere, portano il pane, mentre lo scalco taglia una scelta varietà di carni. Si mangia rigorosamente con le mani. Durante il pranzo i nobili giocano con le pedine « avanti al portico, sulla soglia dell’atrio » (Od. I, 103-104) o ascoltano il cantore o la « concava cetra » o assistono a spettacoli di danza o d’acrobati: « Ma quando la voglia di vino e di cibo cacciarono i pretendenti, altro piacque loro nel cuore, musica e danza: essi sono ornamento al banchetto. Pose l’araldo la cetra bellissima in mano a Femio » (Od. I, 150ss), « cantava tra loro il divino cantore sonando la cetra,  due acrobati intanto, dando inizio alla festa, roteavano in mezzo » (Od. IV, 17-18), « di musica dolce e di danza armoniosa. Del rumore dei piedi la gran volta echeggiava, mentre uomini e donne bella cintura danzavano » (Od. XXIII, 145ss). I cantori etruschi assomigliano da vicino ai bardi celtici (una specializzazione dei druidi),  poeti lirici che accompagnano, con l’arpa i loro canti, costituiti da inni dedicati agli dèi e versi dedicati ai prodi. Odisseo alla corte di Alcinoo recita le sue disavventure ininterrottamente per  poco più di 1400 versi  e gli altri poco più di  700  dopo una breve sosta. Alcinoo si complimenta con lui dicendogli: « tu hai bellezza nelle parole e, dentro, saggi pensieri, e il tuo racconto, come un aedo, con arte l’hai fatto, gli affanni di tutti gli Argivi, e i tuoi propri » (Od. XI, 367ss). Cesare ci dice che i discepoli dei druidi « debbono imparare a memoria un gran numero di versi… Non ritengono lecito scrivere i loro sacri precetti; invece per gli altri affari, sia pubblici che privati, usano l’alfabeto greco » (De Bello Gallico, VI, 14). Alio e Laodamante « una bella palla si presero in mano, purpurea, che il saggio Pòlibo aveva fatto per loro, e uno l’andava lanciando fino alle nuvole ombrose, piegato all’indietro; l’altro balzando alto da terra, agilmente la riprendeva, prima di ritoccare il suolo coi piedi » (Od. VIII, 372ss). Poco fuori dal palazzo (ad es. di Romolo) ci sono aree destinate ai giochi (ad es. i ludi saeculares, in particolare il circo per la corsa delle bighe e quadrighe). Assistendo ai duelli fra i principi dell’Iliade vengono alla mente anche i tornei (i duelli cavallereschi fra Glauco e Diomede, fra Ettore e Aiace Telamonio, con scambio di doni), dove, come in tempo di guerra assistiamo a sfilate di fanti e cavalieri nelle loro fulgide armature sormontate da pennacchi colorati, e scudieri e cavalli coperti da gualdrappe variopinte e araldi  e alfieri e  squillar di trombe e sventolare di bandiere. Vi sono anche  aree teatrali destinate alla danza, al canto, agli spettacoli vari di buffoni e acrobati. Più in là ci sono le case coloniche dei pastori, dei mandriani, dei porcari,  e più in là ancora i boschi dove i nobili vanno a caccia di cervi o cinghiali con arco,   lancia,  coi cani,  come Argo, cui non « sfuggiva, anche nel cupo di folta boscaglia, qualunque animale vedesse, era bravissimo all’usta [cioè a fiutare le tracce di animali] » (Od. XVII, 316-317) e più in là ancora s’apre il mondo incognito dell’avventura, dove vanno solo i più audaci, perché nel mondo antico è più facile che uno muoia là dov’è nato senza aver mai varcato la soglia del suo piccolo universo costituito dalla città-stato. E i più audaci sono per vocazione i cavalieri, cioè i figli cadetti che non hanno diritto alla spartizione del feudo e perciò devono andarselo a conquistare, anche al di là del mare, in origine dandosi ad attività di pirateria e poi al commercio da una parte verso Cipro e il Levante (e il confronto con le crociate si fa più interessante se si pensi al fatto che la più parte delle tradizioni confluite nei poemi omerici, come la dea dell’amore Elena/Afrodite Urania di Ascalona – intorno alla quale è costruita la favola della guerra di Troia –  e  il calice dell’Ultima Cena e della Resurrezione, epifania del dio, Alcinoo, che « beve il vino, seduto, e pare un nume immortale », traggono origine dalla Palestina o, più esattamente, dall’Hypereia o probabilmente anche Hyperesia  da cui provengono i Feaci di Tarquinia-Pyrgi), dall’altra verso la Francia, la Spagna, oltre le colonne d’Ercole (Apeira?) dove però si scontrano con i Fenici. Anche la ricca borghesia mercantile ha combattuto e combatte, affinché « nobile gloria la coroni fra gli uomini », contro draghi marini e orchi montani antropofagi, contro  giganti e pigmei, diversi ma sempre rigorosamente pericolosi ed ostili.

Se pensiamo al fatto che le storie medievaleggianti dell’Iliade e dell’Odissea applicano all’ambiente occidentale  greco-etrusco-romano storie d’origine siro-cilicia (gli Achei/Aqawaša circoncisi che impersonano i Greci e i  Tirreni/Turša circoncisi anch’essi, che impersonano i Troiani omerici, che hanno  una civiltà parimenti se non più occidentale di quella dei Greci) dove troviamo la tradizione millenaria e precristiana del Calice della Cena e della Resurrezione, di Alcinoo, pensando al ritorno in patria degli eroi achei e in particolare a quello di Agamennone sarà facile riandare col pensiero al tempo delle crociate in Terra Santa, fatte per conquistare il predominio sulle vie carovaniere e sui porti che conducevano alla Cina, altro che difesa del Santo Sepolcro o reazione all’espansione islamica. (Anche oggi  l’Iraq è la chiave di volta del controllo del petrolio su cui l’America e il suo satellite inglese  vogliono mettere le mani ad ogni costo; c’è un filo rosso che trascende ogni cosa e lega la storia dell’umanità dalle origini ai nostri tempi e passa sempre per il Medio Oriente, anche quella della Troia omerica – che in realtà è la Siria-palestina, non dimentichiamolo mai –  e vede sempre lo scontro fra Occidente e Oriente, fra Occidentali e Asiatici, e sono questi ultimi che ci fanno più bella figura!)  Quando ritornano a casa dopo almeno dieci anni di guerra i cavalieri trovano l’usurpatore che gli ha sedotto la moglie, come Egisto, che  tolse di mezzo l’aedo cui Agamennone aveva affidato il palazzo e la moglie (« condusse il cantore sopra uno scoglio deserto e l’abbandonò, che fosse preda e cibo d’uccelli » Od. III, 270-271) intrigò con Clitemnestra e quando il re  legittimo  tornò dopo dieci anni con il suo seguito « l’uccise a banchetto, come s’uccide un toro alla greppia. Nessuno restò dei compagni d’Atride che lo seguivano, nessuno quelli d’Egisto, ma nel palazzo s’uccisero » (Od. IV, 534ss). E  Oreste si copre di gloria vendicando il padre (Od. I, 298ss). In Palestina, nelle guerre contro i Filistei (intorno al 1200 a. C. e cioè al tempo della mai avvenuta guerra di Troia, e oltre) gli Israeliti mettevano in campo migliaia di carri e altrettanti fanti. Immaginiamo poi, anche sulla scorta dei poemi omerici, le torri merlate,  i padiglioni del campo acheo, lo sventolio dei vessilli e degli stendardi, gli squilli di tromba, lo sfolgorio delle armature. L’iconografia di Ettore che frusta i cavalli del suo carro guidato dal Sole (possiamo immaginare anche che  « sotto le ruote dei carri cadevano uomini » Il. XVI, 378-379) alla testa dell’esercito troiano che si abbatte come una gigantesca onda  contro il fosso e il muro merlato che protegge le navi achee potrebbe benissimo essere tratto dall’iconografia egizia o ittita  delle guerre in Siria di Thutmosis III e Ramesses II e dei corrispondenti re ittiti. Dall’Iliade e dall’Odissea trapela un ambiente palestinese tribale e pastorale che s’accorda bene con quello irlandese e scozzese medievale, cioè celto-germanico e druidico, fatto di continui scontri fra clan a causa del furto di bestiame, come il gregge  rapito, pastori compresi, dai messeni a Itaca, per il quale andò a trattare il giovane Odisseo o le cavalle smarrite  e finite  nelle stalle di Eracle  che, benché ospite, uccise Ifito che era andato a reclamarle (Od. XXI, 16ss) o ancora il progetto di Odisseo di rifarsi del bestiame divoratogli dai Proci andando in parte a razziarlo a sua volta (Od. XXIII, 356ss). Paride (e i figli di Priamo) è re-pastore come re Davide. Lo sfondo della mondiale e cosmica ‘guerra di Troia’ è costituito da più banali zuffe per il furto di bestiame, cf. i ricordi di Priamo (Il. XXIV, 260ss) e Nestore (Il. XI, 670ss), oltre Odisseo di cui ho detto.  Ma pur vivendo sotto le tende questi re-pastori (etimologia popolare ed errata di Hyksos) sono raffinati come gli imbelli figli dei re di città, come Priamo « ballerini… che eccellono nei passi di danza» (Il. XXIV, 261): Davide (1 Samuele, 16, 14ss) e Achille suonano la cetra: « con la cetra sonora si dilettava, bella, ornata; e sopra v’era un ponte d’argento. Questa, distrutta la città di Eezìone, tra il bottino si scelse; si dilettava con essa, cantava glorie d’eroi » (Il. IX, 186ss).

La storia di Odisseo omerico è una variante a lieto fine di quella di Agamennone, ma  tanto vaga quanto  può essere solo una favola. A Itaca non comanda nessuno e per di più 108  Proci dilapidano nella casa privata di Odisseo le sue sostanze (perché nessuno più s’è incaricato di riscuotere le tasse per i banchetti pubblici), si ubriacano e vengono anche alle mani,  violentano le ancelle (non vale addurre il consenso  di queste perché nel diritto antico gli schiavi non hanno personalità ma sono equiparati agli animali da lavoro, come il mulo che fa girare la macina,  e dunque possiamo qui parlare di danneggiamento), sfruttano il lavoro della servitù facendola lavorare a cottimo, attentano alla vita di Telemaco, sequestrano in casa Penelope imponendole di scegliere un marito fra loro,  eppure tutto sembra procedere come se Odisseo, il re, non fosse assente da Itaca da venti anni. I Proci, lo dice anche Penelope, non intendono affatto sposarla (e chi la sposasse sarebbe il re di Itaca) ma prendono questa scusa per continuare a far baldoria con la roba altrui: « pretendenti alteri, che su questa casa d’un uomo da tanto tempo lontano piombate a mangiare e bere continuamente, e non poteste trovare nessun pretesto di finte parole, ma solo perché mi fate la corte e mi volete sposare » (Od. XXI, 68ss). Non rappresentano dunque un rovesciamento del potere interno alle isole del regno di Odisseo come si vuol far credere, perché sarebbe interesse primario di tutti i principi di non dilapidare il capitale ma semmai i frutti, che vengono solo dalla corretta gestione di quello. I Proci possono solo rappresentare uno di quei popoli del mare razziatori tipici del XIII-XII secolo, magari gli stessi Dori.

 

 

 

 

Note

 

 

[1]   Omero ed Esiodo furono contemporanei e rivali, come attesta la tradizione  di una Gara fra Omero ed Esiodo, suffragata dai botta e risposta a distanza fra i due. Al libro primo dell’Ira d’Achille « è molto più facile nel largo campo degli Achei strappare i doni a chi a faccia a faccia ti parla, re mangiatore del popolo » (229ss) fanno eco i « re mangiatori di doni » delle Opere (39, 164); i « Stupidi campagnoli, che avete corti pensieri » (Od. XXI, 85) e  a « Diceva parlando molte menzogne simili al vero » (Od. XIX, 203) fanno eco i « pastori, cui la campagna è casa, mala genìa, solo ventre; noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare » della Teogonia (26ss). Vissero entrambi nell’età del ferro, corrotta (« dalla tempesta tutta la terra nera è gravata in un giorno d’autunno, in cui pioggia violenta rovescia Zeus, se adirato con gli uomini imperversa perché con prepotenza contorte sentenze sentenziano, e scacciano la giustizia, non curano l’occhio dei numi » Il. XVI, 384ss) ma le corti etrusco-romane, che hanno davanti a sé un futuro ricco di espansione politica ed economica, vogliono solo sentir cantare di cose positive e felici, gli accenni a fatti negativi sono ignorati (e l’invasione dorica è ignorata davvero perché non toccò le regioni levantine da cui Omero proviene): « nemmeno il banchetto splendido darà più gioia, quando la peggio la vinca » (Il. I, 575-576),  ed è per questo che Omero guarda alla tradizione israelitica di Abramo, Mosè, e soprattutto Davide e Salomone, l’età d’oro, quando tutta la Siria era sotto il dominio diretto o indiretto dell’Israele dei re. Attraverso gli splendori della corte di  Davide e Salomone Omero  celebra l’ambiente ricco e raffinato di Tarquinia o potente di Roma che superava perfino quello splendore e quella potenza (e lo splendore dei regni micenei). Esiodo guarda all’età degli eroi di Troia narrata da Omero con sola nostalgia (anche se è conscio che si tratta di invenzione) se confrontata all’ambiente greco in cui viveva,  in declino e comunque  non propriamente  florido.

 

[2] Della famiglia dei Bacchiadi, stabilitosi a  Tarquinia   dopo il colpo di stato di Cipselo del 657 a. C. (cf. Dionisio d’Alicarnasso III, 46). E’ logico che Pyrgi, città con una forte presenza greca, membro della anfizionia di Delphi (la tradizione dice che Cere aveva un deposito di valori a Delphi –   ma evidentemente si tratta di Pyrgi, sul Tirreno, fin da quando dipendeva da Tarquinia    come anche Spina, sull’Adriatico), abbia preceduto  Roma con l’idea di un poema in greco rivolto ai Greci per festeggiare un santuario-banca  che era la risposta in termini di reciprocità a quello di Delphi, menzionata nei poemi col vecchio nome di Pito. Come i Pirgensi avevano un thesauròs nel santuario delfico così si richiedeva ai Greci di costituire un thesauròs nel santuario pirgense a garanzia dei traffici commerciali con l’Etruria.

 

[3] Il suo successore  Neco II intorno al 600 incarica marinai fenici della circumnavigazione dell’Africa – riuscita –  dallo stretto di Gibilterra da cui ritornano dopo tre anni; fonda la potenza navale egizia e si fa arrivare le triremi   da guerra dai cantieri navali di Corinto; assai prima di Necho II gli etruschi, in competizione con i fenici miravano allo sfruttamento di terre al di là dello stretto di Gibilterra, forse l’Apeira da cui proviene la schiava donata a Nausicaa dai sudditi di Alcinoo. Gli Etruschi predecessori dei Vichinghi nella scoperta dell’America?

 

[4] Omero è un  classico  internazionale da quasi tre millenni perché è riuscito a trascendere il suo particolarismo nazionale  impiegando  un linguaggio e  un vocabolario universali per far comprendere a tutti le proprie esperienze, esperienze anch’esse universali. Ciò nonostante leggendolo con attenzione e con la cultura adeguata  se ne possono rintracciare le radici culturali e dunque nazionali. Gli eroi omerici usano armi di bronzo nonostante operino nell’età del ferro, non muovono un dito se non col responso favorevole d’un dio tramite un sacerdote interprete (tutti avranno sentito parlare di Calcante, l’indovino accreditato al seguito dell’esercito acheo a Troia),  praticano l’aruspicina (c’è un aruspice a capotavola de i Proci), l’incinerazione, seppelliscono le urne cinerarie sotto alti tumuli,   dedicano la testa (troncata dal resto del corpo) e le armi dei nemici uccisi agli dèi,  lapidano  chi viola la legge. I Troiani sono ‘domatori di cavalli’ « che in un momento decidono la gran contesa della guerra crudele » (Od. XVIII, 263-264). I Feaci sono i migliori marinai, sono maestri nelle canalizzazioni (vedi la reggia di Alcinoo), le loro donne sono le migliori tessitrici (ma tutte le donne di rango Achee e Troiane, come anche le loro dèe, tessono e filano la lana, mentre i loro uomini si occupano della guerra) ma, soprattutto, godono di grande indipendenza e autorità (il padre e la signora – pòtnia –  madre, scrive Omero), come Nausicaa che non ha vergogna a trattare a tu per tu col nudo Odisseo, come la regina Arete, ospite di Odisseo e che  alla stregua dei re-giudici Nestore e Giobbe veterotestamentario dirime le contese fra i potenti che a lei si rivolgono per la sua saggezza e autorevolezza. Tutto ciò rinvia al villanoviano quando, per dirne una, le deposizioni femminili sono accompagnate da  fuseruole, fusi o rocchetti, quelle maschili da rasoi o spade; e alle costumanze etrusco-romane che vogliono le donne di rango occupate nella nobile attività di filare la lana e di dirigere nella stessa attività le loro serve (« Su, torna a casa,  e pensa all’opere tue, telaio, e fuso; e alle ancelle comanda di badare al lavoro; alla guerra penseran gli uomini tutti e io sopra tutti, quanti nacquero ad Ilio » Il. VI, 490ss),  come la tradizione ci informa riguardo a Tanaquilla, moglie di Tarquinio Prisco (Plinio il Vecchio),  e Lucrezia, moglie di Tarquinio Collatino (Livio). Omero attribuisce ad Akkhijawa/Achei e Turša/Troiani (che però a ben vedere praticano la circoncisione e probabilmente hanno origini semitiche come i Rasenna etruschi) gli stessi usi e costumi del suo popolo etrusco. Ma in un solo caso ha ben netta la differenza che passa fra il suo e gli altri popoli, quando si parla della donna, che presso gli altri popoli è sottomessa (Penelope, Andromaca) o malvagia (Clitemnestra), comunque malvista (Esiodo; Antico Testamento), mentre la donna etrusca è saggia, operosa, capace di trattare da pari a pari con gli uomini e spesso superiore a questi (il cosiddetto matriarcato etrusco). Ovviamente Omero scrive per i Greci, e dunque per rispetto alle loro costumanze non raffigura le donne etrusche a tavola con gli uomini, ovviamente seduti, alla maniera etrusca, com’è riscontrabile nei reperti etruschi di VII secolo (ma fa eccezione per  la regina Arete, che ha una posizione di parità e a volte superiorità rispetto al marito Alcinoo, che è seduta a  banchetto quando Odisseo fa la sua apparizione a corte, e anche successivamente). Di origine rasennia (oltre che eventualmente indigena), cioè etrusca siriana, oltre alla dedica agli dèi della testa e delle armi del nemico ucciso, alla divinazione, all’incinerazione, alla lapidazione, è l’ololyghè, cioè il tipico grido acuto rituale delle donne berbere cioè puniche (Erodoto le chiama libiche, IV, 189) cioè siriane dunque etrusco-romane e che infatti Omero attribuisce alle troiane antenate delle romane: « Esse [Ecuba e le anziane] tesero tutte, col grido sacro, le mani ad Atena… la bella guancia Teano… supplice invocava la figlia del gran Zeus… » (Il. VI, 301ss; vedi anche Od. XXII, 408). Per Erodoto Atena è una dea libica (IV, 180 e 189).

Principi e re  sono rappresentati come Davide a pascolare le pecore –  comune è il titolo omerico di poimēn laõn (pastore di popoli) –  e dietro ciò si intravede la falsa etimologia di ‘re pastori’ attribuita agli Hyksos, i ‘capi dei paesi stranieri’ che, invadendo i paesi civilizzati dell’Oriente, diedero avvio (con direzione da sud a nord, da oriente a occidente)  alla civiltà micenea e ad altre consimili. Paride, che ha giudicato Afrodite la più bella fra le dèe ha in Omero il titolo di ànax andrõn, signore degli uomini, portato anche da Agamennone, che è il capo indiscusso della lega panellenica a Troia. La moda poetica vuole rendere omaggio al passato nomade di questi popoli sedentarizzatisi, come qualche capo di stato arabo dei nostri tempi ama continuare a vivere sotto la sua tenda  beduina pur avendo a portata di mano tutti i mezzi della confortevole vita occidentale moderna. Così le guerre di cui si ama favoleggiare, compresa la guerra tebana (Esiodo), ha come causa l’appropriazione delle greggi (in Omero vedi Odisseo e i figli ballerini e imbelli di Priamo), ma questi re, come Davide, hanno una cultura superiore e sanno  danzare (come Paride) e suonare la cetra (come Achille). Fuori dalle tende o dai palazzi,  avvoltoi,  sciacalli e leoni (quei leoni che gli studiosi hanno creduto si aggirassero nella Grecia antica, mentre si aggiravano in Siria) scarnificano carcasse di bufali  e antilopi, ma una volta ambientata sui lidi tirrenici, nella poesia omerica fanno la loro apparizione anche falchi, lupi e orsi nostrani. Lo sfondo culturale dei poemi è quello del tempo in cui i giudici di Silo combattevano contro i Filistei e in cui  Davide e Salomone  dominavano sull’intera Palestina.

Omero, un Emilio Salgari ante litteram,  viaggiò soprattutto con la sua fantasia, applicando a luoghi e popoli lontani i costumi (lo abbiamo visto) e il paesaggio tirreni (il paesaggio siro-palestinese e orientale in genere solo attraverso i racconti e i canti tradizionali e le  letture del  patrimonio rasennio della casta dominante a Tarquinia di cui egli era membro probabilmente più  per parte di madre  che di padre). Dunque leggiamo Omero avendo davanti agli occhi la Maremma tosco-laziale, soprattutto costiera, ad esempio i tomboli di Feniglia, e Giannella da una parte e dall’altra di Orbetello,  potremo immaginare  le  « innumerevoli schiere d’uccelli alati, d’oche o di gru o di cigni lungo collo, nei prati d’Asia, sulle correnti del Càistro, qua e là volteggiano, sbattendo l’ali con gioia, e mentre con gridi si posano la prateria risuona – così innumerevoli schiere di questi [gli Achei] dalle navi e dalle tende si riversavano nella pianura Scamandria » (Il. II, 459ss; versi  probabilmente  omerici in un  contesto di dubbia autenticità  omerica), gli antenati  dei butteri (che vestono gambiere di pelle di capra e, come dice Lawrence, hanno la faccia e l’indole di fauni),  i Troiani  ‘domatori di cavalli’, i prati di asfodelo (l’asfodelo rosa-pallido che a dire  di  Lawrence è « una caratteristica che spicca in tutto il paesaggio costiero » di Cerveteri), il « prato asfodelo » attraverso cui  se ne va contenta l’anima d’Achille nell’Ade, il caprifico (« gli assetati caprifichi che ondeggiano su i gran massi quadrati verdi tra il cielo e il mar, su i gran massi cui il vigile mercator tirreno saliva, le fenicie rosse vele nel seno azzurro ad aspettar » del Carducci) là dove la cinta di Troia era più sguarnita e  oltre il quale Ettore non osava andare prima dell’ira d’Achille;  le  « piante grossolane di brughiera, spinose e appiccicose…  fitte e rigogliose, con le cime sempre piegate, frustate dai venti incessanti del mare » (D. H. Lawrence, Paesi etruschi, Nuova immagine editrice, Siena, II edizione 1989, p. 124) che  rammentano Odisseo sulla sua zattera: « Lo portavano  sulla corrente l’onde enormi qua e là, come quando Borea autunnale porta i fiori del cardo per la pianura, e stanno stretti, attaccati uno all’altro » Od. V, 327ss. Su questo paesaggio spuntano le capanna dei contadini maremmani produttori di formaggio, simili alla tenda, che poi è una capanna, di Achille (la « tenda del Pelide Achille… alta, che al sire avevano fatto i Mirmìdoni, tagliando travi d’abete, e sopra avevano messo un tetto di frasche, dai prati ammassandole, e intorno avevano fatto una gran corte al signore, con pali fitti e chiudeva la porta un’unica sbarra d’abete, ma tre achei la mettevano e tre la toglievano, la gran sbarra della sua porta, tre degli altri, Achille la metteva anche da solo » Il. XXIII, 448ss). Su  questa tipologia di capanna  Omero ha creato la caverna di Polifemo produttore di formaggio, ma si tenga presente che Lawrence a Cerveteri sosta presso un ‘Vini e cucina’ situato in un « antro », come anche lo chiama, frequentato da butteri, fra cui uno somigliante ad un fauno. L’Odissea è il poema degli affetti familiari e la chiusa del libro primo è significativa con la schiava Euriclea che mette a letto Telemaco (il letto, alto e duro, oserei dire è tuttora il mobile più importante in una casa etrusca) adattando ad un piolo la tunica di questo e poi uscendo e tirando il paletto. L’Odissea rievoca la campagna etrusco-laziale coi suoi casolari, la campagna ben lavorata e ordinata,  i fattori come Eumeo, il servo etrusco che poteva permettersi di avere una sua proprietà di che viverci sopra e un suo proprio schiavo acquistato coi propri risparmi. Non ho mai mangiato il sanguinaccio ma ne ho spesso sentito parlare dai miei, e Omero ne accenna in due casi (Od. XVIII, 44ss; XX, 25ss). Purtroppo anche i discendenti degli Etruschi amano la caccia e in particolare ora come allora quella al cinghiale (Omero ci narra della storia del cinghiale Calidonio e del cinghiale che ferì il giovane Odisseo quando andò a trovare il nonno Autolico). Lawrence (in età fascista) afferma: « La caccia al cinghiale è ancora tra gli sport preferiti degli italiani, il più spettacolare sport che ci sia in Italia. Anche gli etruschi devono averlo amato, perché nelle tombe lo hanno rappresentato in continuazione ». Come anche il loro fido Argo, aggiungo io. Si potrebbe continuare, ma avvicinandoci dal paesaggio odierno a quello Omerico sentiamo di entrare meglio in contatto col personaggio per comprenderlo meglio. Omero viaggiò sicuramente,  soprattutto per mare perché sono innumerevoli e vari e frutto di ricordi dei suoi conterranei  le similitudini e gli accenni alla pirateria dei  tirreni (quando assalivano l’Egitto e i centri costieri dello stretto dei Dardanelli fino al Mar Nero: saga degli Argonauti), e probabilmente di esperienza sua propria quelli alla guerra navale coi greci euboici, alla struttura e all’equipaggiamento delle navi, alle navi e ai marinai in balia del mare agitato, alla nave che affonda, alla pesca, al mare, ecc., ma certamente ebbe una conoscenza superficiale della Troade,  figuriamoci   dell’Anatolia occidentale in generale e dunque del Caistro, fiume della Lidia; e anche della Grecia ha una conoscenza superficiale, soprattutto costiera (Omero non ha una seria conoscenza della Grecia interna, delle  distanze ed ubicazioni delle aree interne intorno a Pilo e Micene visitate da Telemaco e Pisistrato), frutto delle informazioni ricevute dai marinai etruschi che nel secondo quarto del VII secolo erano i signori del Mediterraneo.                       

Omero indubbiamente esalta i Feaci (sia quelli siriani sia quelli etrusco-tarquiniati) come popolo di navigatori superiore a tutti gli altri (perfino ai Greci), imparentato con gli dèi e divino esso stesso (cf. Genesi 6, 1-7; Baruc 3, 26-28; Od. VI, 3-10, VII,56-60, 201-206). Ciò determina un aspetto essenziale della poesia omerica e cioè lo stretto contatto fra dèi ed eroi loro figli. I primi seguono passo passo i secondi come se fossero le loro ombre, ombre vere e proprie, poiché sono impotenti a determinarne il destino in bene o in male. Solo l’uomo è padrone del proprio destino e altrimenti lo è il destino, superiore a tutti gli dèi (vedi Appendice, 1).  I Feaci, cioè i potenti signori della casta dei giganti guerrieri (e sovrani) –  provenienti dalla Siria (Hypèreia, Alta Siria), ed infatti hanno come dio capostipite Poseidone/Dagan –  nel corso dell’VIII sec. sono ascesi ai vertici di Tarquinia e Roma e da qui di tutta l’Etruria. Non c’è bisogno di essere laureati per capire che la Scheria dei Feaci (che non è un’isola, bensì è una terra isolata dal mondo civile, ovviamente quello caratterizzato dalla civiltà greca, ad oriente) non corrisponde a Corfù (Corfù è Grecia, a un tiro di schioppo da Itaca – e dunque Alcinoo non potrebbe affermare che suo padre guidò l’immigrazione a Scheria/Corfù « lontano dagli uomini industri » cioè « lontano dagli uomini civili » senza contemporaneamente offendere i Greci cui è rivolta l’Odissea,  eppure Odisseo non conosce Arete e Alcinoo e viceversa, e si presenta: « Ma prima il nome dirò, ché anche voi lo sappiate, e, finalmente sfuggito al giorno fatale, io sia ospite   xeînos vostro, pur abitando casa lontano » Od. IX, 16ss). E’ anche evidente  che Pyrgi, di cui Omero permette l’identificazione attraverso una profezia di Nausitoo, padre di Alcinoo, è la città capitale della Scheria. Poseidone, irato coi Feaci perché hanno ricondotto a Itaca sano e salvo Odisseo, trasforma in scoglio la nave dei Feaci che ritorna ed è già in vista  di Pyrgi « e poi coprirà la nostra città d’un gran monte. Così parlava il vecchio; e questo il dio compirà o lascerà incompiuto, come piace al suo cuore » Od. VIII, 569ss: tutto ciò per rivelare il nome della città dei Feaci, « il monte Perge dei Tirreni » dove sarebbe sepolto Odisseo (cf. Licofrone, Alexandra, 805). Lo splendido re Alcinoo può giustamente vantare le qualità del popolo etrusco di fronte al greco Odisseo: « siamo a navigare eccellenti. E sempre il festino c’è caro, la cetra, la danza, vesti mutate, e bagni caldi, e l’amore » (Od. VIII, 247ss). Leggendo questi versi la mente corre ai dipinti tombali di Tarquinia e gli  uomini abbronzati e le donne emancipate ivi danzanti al suono della cetra e del doppio flauto par vengano avanti dalle pareti ammuffite e riprendere corpo e vita come per magia. Altrove, quando Omero descrive l’interno della reggia di Alcinoo, VII, 81ss –  possiamo immaginarci la Tomba delle Sedie e degli Scudi cerite, che rappresenta appunto una casa aristocratica di metà VII secolo – ricorda senz’altro  i giovani efebi dipinti in diverse tombe e li immagina  immobili come statue a sorreggere  torce accese (nella posa riscontrabile in innumerevoli candelieri di bronzo etruschi)  ad illuminare i banchetti del re e della sua corte, pallida immagine di quelli celebrati sull’Olimpo (ma  Omero il suo vero Olimpo lo collocava certo sugli Appennini).  Omero è probabilmente nato  a Pyrgi o comunque nella città-stato di Tarquinia. Egli col primo nucleo dell’Odissea (il Viaggio d’Odisseo)  volle verisimilmente celebrare il viaggio esplorativo di un ammiraglio etrusco alla scoperta di paesi e popoli lontani del Mediterraneo seguito, dopo  il ritorno in patria, dalla relazione sul viaggio alla coppia reale.

 

[5] Gli ‘Etruschi’  dell’Egeo, che provenienti dall’Etruria (teoria di Mirsilo di Metimna, snobbata dagli etruscologi ma più convincente dell’inversa)  a Lemno e Imbro parlavano una lingua simile all’etrusco (ma vivendo da tempo lontano dall’Etruria avevano assunto, già al tempo di Ramesses II,  costumanze diverse come la pratica orientale della circoncisione) e cercavano metalli attraverso i Dardanelli fino al Mar Nero, scontrandosi con le popolazioni delle città costiere come Troia a guardia dei Dardanelli (saghe degli Argonauti e della guerra di Troia). Tramite l’Enea di Samotracia (citata insieme a Lemno e Imbro in Il. XXIV, 753; si noti che  nei fondali fra   Imbro e Samotracia vive Teti, madre d’Achille, con le sue ondine,  Il. XXIV, 78) i Turša sono antenati anche dei Romani, cf. Dionisio  d’Alicarnasso, I, 68. Insomma, attraverso Lemno e Imbro gli  Etruschi erano identificati con gli Ioni e soprattutto i Lidi, nome col quale sono anche noti presso i Romani. Questa non è l’origine degli Etruschi,  semmai l’esito delle migrazioni etrusche, ma serve alla classe dirigente di Roma per avere un appiglio per trattare  delle origini etrusco-romane da un punto di vista greco per sottolineare le comuni origini anatoliche.

Omero nel Viaggio d’Odisseo, attraverso  la profezia di Tiresia del libro XI, 121ss, accennerà alla pretesa  greca di attribuirsi, tramite il greco Odisseo (vedi anche Dionisio d’Alicarnasso), niente di meno che la fondazione di Roma attraverso il suo rituale tipico del suovetaurilia, che Odisseo avrebbe dovuto celebrare laddove in occidente avesse trovato un popolo, ovviamente quello romano, da civilizzare  perché ignaro della navigazione e del sale.  Tutte queste tradizioni Omero mette in risalto, lo sottolineo ancora, per rendere più interessanti ai Greci, così resi orgogliosi dal loro protagonismo, i suoi poemi.

 

[6] Si confronti l’omerico « calò nell’abisso, come fa il piombo che, versato nel corno di bove selvaggio, scende a portar morte tra i pesci voraci » (Il. XXIV, 80ss) con  « sprofondarono come piombo in acque profonde » dal cantico di Mosè in Esodo, 15,10; « i fratelli, nei quali di solito uno confida come alleati, per grave lotta che nasca » (Od. XVI, 97ss e 115ss) con « I fratelli e un aiuto servono nell’afflizione » Siracide, 40,24; « L’ospite, il supplice, è come un fratello per l’uomo che abbia anche solo un poco di senno » (Od. VIII, 546-547)    con « Chi disprezza il suo prossimo è privo di senno » Proverbi 11,12; « dei Troiani sazierai cani e uccelli col corpo e le carni, caduto davanti alle navi » (Il. XIII, 831-832; Ettore  ad Aiace Telamonio) con « Fatti avanti e darò le tue carni agli uccelli del cielo e alle bestie selvatiche » 1 Samuele, 17,44 (Golia a Davide); « io l’ho allevato come pianta in conca di vigna » (Il. XVIII, 57; dice Teti di Achille) con « Io ti piantai vitigno scelto, tutto con ottime barbatelle. Come mai tu hai mutato i tralci in quelli di una vigna bastarda? » (Geremia 2,21; dice Dio a Israele; e altre analoghe similitudini nell’A. Testamento sulla vigna); « Come quando si slancia la mente d’un uomo, che molta terra percorse, e pensa nei suoi pensieri sottili “ qui sono stato e qui! ” » (Il. XV, 80ss) con « Chi ha viaggiato sa molte cose… Molte cose ho veduto nei miei viaggi, ed ho compreso più di quanto possa ridire » (Siracide, 34,9ss); « Come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini; le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva fiorente le nutre al tempo di primavera; così le stirpi degli uomini: nasce una, l’altra dilegua » (Il. VI, 146ss) con « Come le foglie spuntate su albero verdeggiante, ora cadono e ora sbocciano, così son le generazioni della carne e del sangue, una muore e l’altra nasce » (Siracide, 14,18). E molte di più sono le affinità anche solo concettuali che si possono riscontrare fra prosa e poesia dell’A. T. e poesia omerica, anche se gli stessi concetti sono espressi più anticamente (come redazione) e infinitamente meglio in Omero. Un esempio fra quelli che non ricorrono in altri luoghi di questo lavoro è il parallelo fra « Ah! C’è dunque, anche nella dimora dell’Ade, un’ombra, un fantasma, ma dentro non c’è più la mente » (Il. XXIII, 103-104; Achille a proposito dell’anima di Patroclo apparsagli in sogno) e « Tutto quello che ti occorre di fare, fallo mentre sei in vita, perché non ci sarà più né attività, né pensiero, né conoscenza, né sapienza giù nel soggiorno dei morti, dove stai per andare » (Qohelet, 9,10).  L’occhio di Dio scruta continuamente il comportamento di Giobbe e tale è presentato anche nel Siracide. Non v’è idea di retribuzione in vita delle opere buone o cattive, ma certo « non amano le male azioni gli dèi beati, solo giustizia onorano, le azioni oneste degli uomini. Anche quei tristi e ribaldi che sulle terre altrui sbarcano, e Zeus concede loro la preda, e riempite le navi tornano indietro in patria; anche nel loro cuore cade forte paura dell’occhio divino » (Od. XIV, 83ss). Conforme a questa linea è anche: « Ahi troppo Zeus t’ha odiato fra gli uomini, benché pio di cuore » (Od. XIX, 363-364), che si potrebbe mettere pari pari in bocca a Giobbe quale suo giudizio del comportamento persecutorio di Dio nei suoi confronti. Nell’Antico Testamento prevale comunque l’idea che l’uomo buono è premiato da Dio direttamente nel corso della sua vita con la salute, la prosperità, la discendenza, così in Omero abbiamo anche « Ma li punisca Zeus supplice, che tutti vede i mortali dall’alto, e castiga chi pecca » (Od. XIII, 213-214). I contatti col superstizioso mondo ebraico e semitico da cui Omero comunque si differenzia sono ancora visibili nella sollecitazione da parte degli dèi di segni, come quando Odisseo chiede un segno a Zeus e questo mandò un tuono, cui fece seguito l’imprecazione contro i proci della serva addetta alla macina (libro XX) e come nel caso dell’ordalìa suggerita a Odisseo da Telemaco: « Le donne ti consiglio, sì, di provarle… ma gli uomini non vorrei stalla per stalla provarli, vorrei lasciar questa cura per dopo, se un segno sicuro di Zeus egioco tu sai » (Od. XVI, 316ss). A Xanto, cavallo parlante di Achille (Il. XIX) va confrontata l’asina parlante del profeta Balaam (Numeri 22).

 

[7] Il tempio di Mater Matuta era in relazione con lo scalo sul Tevere come dimostrano  i frammenti di ceramica  della prima età del ferro  e greca euboica della prima metà dell’VIII secolo ritrovati negli strati inferiori,  oltre due a due brevi iscrizioni etrusche della fine del VII e della prima metà del VI secolo. Nel vicino Vicus Tuscus era un santuario di Vertumno (da *Vertomenos, colui che si trasforma, dunque il Proteo del IV libro dell’Odissea) e in età più tarda un tempio dei Dioscuri (cioè un riferimento a Romolo e Remo) e non lontano era l’area del  Circo Massimo o dovunque si siano svolte le corse di bighe o quadrighe legate ai Consualia.

 

[8] Ideato originariamente come ritorno a Tarquinia-Pyrgi di un ammiraglio etrusco da un viaggio esplorativo nel Mediterraneo orientale, poi trasformato in un viaggio nell’al di là – attraverso un inferno, un purgatorio, un paradiso,  viaggio dantesco ante litteram – di un defunto  reincarnatosi, per volontà degli dèi, per liberare la moglie e il figlio oppressi da occupanti stranieri durante la sua assenza.

 

[9] A riprova del fatto che i Romani (Roma/Ruma – vedi  anche Rama, la città del giudice Samuele –  in ebraico significa Colle/i) non erano Latini o Sabini c’è l’episodio ricordato da Livio: « Romolo inviò ambasciatori alle genti limitrofe per stipulare un trattato di alleanza col nuovo popolo e per favorire la celebrazione  di matrimoni… non dovevano disdegnare di mescolare il sangue e la stirpe. All’ambasceria non dette ascolto nessuno; tanto da una parte provavano un aperto disprezzo, quanto dall’altra temevano per sé e per i propri successori la crescita in mezzo a loro di una simile potenza. Nell’atto di congedarli, la maggior parte dei popoli consultati chiedeva se non avessero aperto anche per le donne un qualche luogo di rifugio (quella infatti sarebbe stata una forma di matrimonio alla pari). La gioventù romana non la prese di buon grado… » (I, 9). I luoghi di rifugio romulei ricordano da vicino le città di rifugio mosaiche, concepite per evitare la sommaria giustizia privata dei parenti dell’ucciso. Romolo li aveva usati per aumentare la popolazione dando ricetto a chiunque fuggisse dalle altre comunità senza andare troppo per il sottile. Gli studiosi scrivono che i personaggi di Omero non distinguono fra commercio e pirateria (domanda di Nestore a Telemaco, Odissea III, 71ss). Tutto falso, tanto più che i poemi omerici vogliono insegnare la moralità in guerra (Ira d’Achille) e la moralità nei commerci (Odissea). L’indifferenza dei personaggi omerici nei confronti di omicidi (Telemaco con Teoclimeno, Od. XV, 260ss) e pirati di professione  dichiarati (Eumeo con Odisseo sotto mentite spoglie, Od. XIV, 199ss) nasce dall’esperienza dei luoghi di rifugio romulei.

 

[10] Fra Ramnenses ed Israeliti v’erano strettissime similitudini culturali, e anche i dodici popoli della federazione etrusca avevano fra loro legami di sangue come le dodici tribù di Israele (cf. Livio, V, 17, dove si parla esplicitamente di  parentela e  consanguineità fra Etruschi riuniti al Fanum Voltumnae e Veienti, Capenati e Falisci, anch’essi rappresentati al santuario federale). La tradizione romana faceva risalire i Consualia al dio Conso identificato con Poseidone e proprio per questo motivo gli erano dedicate le corse dei cavalli e delle bighe (le stesse dei funerali di Patroclo nel libro XXIII) del vicino Circo Massimo perché il cavallo era simbolo di Poseidone/Dagan del Paese Superiore, l’Hypereia omerica (Od. IV, 4). Apione per primo accusò gli Ebrei di adorare nel tempio di Gerusalemme una testa d’asino d’oro (Gius. Flav. Contr. Apion. II, 7). Che gli Ebrei spesso e volentieri abbiano deviato dalla religione che li contraddistingue è ad abundantiam testimoniato dall’Antico Testamento. Dunque non è inverosimile che in certi momenti di devianza adorassero una divinità simile a Poseidone, o meglio  al Vertumno/Conso etrusco-romano, cui era sacro il cavallo che, per spregio contro gli Ebrei e i Cristiani, diventò… un asino, manifestazione del cattivo Seth, dio degli Hyksos, uccisore del buon Osiride.

 

[11] Erodoto, che intervistò i sacerdoti egizi, dice che Elena  a Troia non arrivò mai perché fu intercettata (probabilmente si trattava della statuetta della divinità Atargatis) dal visir Toni o Toone insieme a Paride ed entrambi affidati al faraone. Menelao dopo l’inconcludente guerra di Troia, perché Elena a Troia non c’era, dové lui stesso rapire Elena dall’Egitto per ricondurla a Sparta, come apprendiamo dalla tragedia omonima di Euripide. Il santuario del Foro Romano o del Vicus Tuscus  poteva aver avuto origine diretta da quello del quartiere fenicio  di Memfi visitato da Erodoto (II, 112) e probabilmente non ignoto al piccolo Mosè,  salvato dalle acque come Romolo e Remo. Dunque la ‘guerra di Troia’ fu un’invenzione omerica. Prima di Omero nessuno aveva mai raccontato una leggenda simile. Naturalmente gli etruschi narravano spezzoni di storie legate alla loro antica pirateria nel Mediterraneo (dunque anche dalle parti di Troia) e del Mar Nero (saga degli Argonauti).  Elena era una personificazione di Afrodite Urania/Atargatis/Derketo di Ascalona, in Siria (Erodoto, I, 105). E’ evidente dalla lettura dei poemi omerici che  Menelao e Paride, alla ricerca di Elena e con Elena si spostano nel Mediterraneo orientale, fra Siria ed Egitto (su tutta la questione vedi Erodoto II, 112-120).

 

[12] « Da tempo si è osservato che le gesta di Agamennone nel libro XI s’interrompono a metà (vv. 597 sgg.) per lasciar posto alla missione di Patroclo… Ci aspetteremmo un rapido ritorno di Patroclo, tanto più che egli rifiuta di sedersi dicendo che deve tornare subito dal terribile Achille (vv. 649, 654). Invece – altra interruzione – Nestore lo intrattiene con un lungo racconto delle sue gesta giovanili. Infine Patroclo riparte correndo, ma a metà strada si ferma presso Euripilo ferito, parla con lui e lo cura. E qui viene lasciato mentre la narrazione prende un indirizzo diverso: si torna alla battaglia, che continua nell’intricata serie dei libri CII-XV, con i suoi mutamenti di fronte, con quel muro di cinta attorno alle navi che a volte… appare come una fortificazione in piena regola, con ben cinque porte… Al libro XV (v. 390) finalmente rivediamo Patroclo, che assiste ancora Euripilo e si decide di correre da Achille. Riprende quindi quel combattimento presso le navi che avrebbe dovuto concludersi molto prima. Ai primi versi del libro XVI Patroclo arriva da Achille e ha inizio la « Patroclia ». In questa lunga serie di canti sono concentrati episodi disparati, che il debole motivo della missione di Patroclo ha la funzione di tenere insieme alla meglio collegandoli alla Patroclia che deve seguire. E non saremo troppo severi vol poeta che al momento del ritorno di Patroclo (XVI 2 sgg.) si è completamente dimenticato lo scopo originario della sua missione: informarsi sull’identità del ferito portato in salvo da Nestore. » (F. Codino, Introduzione a Omero, p. 201, 202)

 

[13] L’episodio in cui Nestore di Pilo uccide il gigante Ereutalione ricorda quello di Davide che uccide il gigante Golia: « fossi giovane come quando sul Celàdonte rapido combattevano insieme Pilî ed Arcadi… sulle correnti del Giàrdano! [il Giordano!] Sorse un eroe fra essi, Ereutalìone simile a un nume…  Egli… sfidava tutti i più forti; ed essi tremavano, avevan terrore, nessuno osava. Solo me spinse a combattere il mio cuore, costante nella sua forza; ed ero fra tutti il più giovane. Io mi battei con quello, e Atena mi diede l’onore; sì, l’uccisi, quell’uomo così grande e gagliardo, e giacque immenso [*], fuor della strada di qua e di là » (Il. VII, 133ss). Nestore di Pilo sarà piuttosto Nestore di… Silo. L’episodio di Preto corinzio che su istigazione della moglie Antea che l’accusa d’averla insidiata (e qui c’è  al contempo la storia di Giuseppe, Putifarre e la moglie di questo, Genesi, 39) invia Bellerofonte da suo suocero Iobate di Licia con una messaggio scritto su tavolette in cui l’invita  a mettere a morte il latore della missiva  (Il, VI, 152ss). Non è chi non veda l’analogia con la lettera con cui re Davide ordina al generale Ioab (non è curiosa l’assonanza del nome dell’esecutore delle volontà reali Ioab/Iobate?) di far morire Uria l’ittita per prenderne la moglie Betsabea (2 Samuele, 11). Gli episodi suddetti intervengono in un contesto che attribuisco più volentieri ad un omerida argolico che in quanto capace imitatore d’Omero potrebbe essersi documentato sulle stesse fonti o aver rielaborato materiale omerico. L’amicizia un poco ambigua fra Achille e Patroclo che ad Omero servono fondamentalmente per rappresentare il guerriero barbaro che la civiltà urbana di Roma vuole sostituire con l’umano Ettore, è palesemente ricalcata su quella di Davide e Gionata. Fra le altre similitudini che non ho già trattato al luogo opportuno c’è quella del pomo  offerto da Eva ad Adamo, motivo per  cui, come dice il Siracide « Dalla donna ha avuto inizio il peccato, e per colpa sua tutti moriamo » (25,24), e del pomo della discordia assegnato da Paride alla più bella fra le dee, Afrodite, causa e origine di tutti i mali dei Greci: « per Elena quanti perimmo! », dice Odisseo ad Agamennone (che a sua volta riassume il giudizio dell’Antico Testamento: « è un essere infido la donna ») nel mondo dei morti (libro XI).

 

          [*] Si ritiene  che questo passo sia stato interpolato da un autore posteriore a Omero per il fatto che qui il vocabolo parēoros significherebbe  ‘lungo disteso’, ‘disteso a terra’ (L. Rocci), ‘fuor della strada’ (R. Calzecchi Onesti) mentre in Il. XVI, 152, 471, 474, che è sicuramente omerico,  il termine significa ‘cavallo di rinforzo’, bilancino (cf. F. Codino, Introduzione a Omero, pp. 57-58).  Ciò collima con la mia attribuzione del libro VII all’omerida argolico, che non afferra l’orientale linguaggio omerico, ma rielabora anche lui materiale ispirato all’Antico Testamento, cioè le stesse fonti omeriche. Questo passo  prova anche, senza dubbio, che il saggio re giudice Nestore nella stesura finale dell’Iliade è diventato una figura comica, cominciando a presentarsi come senex « querulus, laudator temporis acti se puero, castigator censorque minorum » (e che Orazio in questi versi 173ss dell’Ars poetica si sia ispirato a Nestore lo suggerisce il fatto che qualche verso prima ha finito di parlare di Omero e dei suoi poemi).

 

[14] Omero nella sua mente abbraccia a grandi linee tutto il mito della guerra di Troia ma poi nella realizzazione fa solo dei cenni ad antefatti ed episodi che stanno fuori, il che non significa che rimandi a fatti noti. Egli tramite questi cenni consente di farsi facilmente un’idea generale del suo progetto. Saranno i  poeti successivi a completare il mito, con la loro fantasia,  partendo dai punti di riferimento omerici.

 

[15] Nel 1076 a. C., il rapimento in battaglia  dell’arca santa da parte dei Filistei scatenò su di loro la peste di Jahvè fino a quando su suggerimento degli indovini  non fu  riconsegnata agli Israeliti insieme a cinque topi e cinque bubboni d’oro, uno per ciascuna città filistea (1 Samuele, 5-6). In questa circostanza alle suggestioni bibliche potrebbero accavallarsi quelle storiche ed eventualmente di canti eroici della Siria-Cilicia risalenti alla campagna militare del re ittito Suppiluliuma (XIV sec. a. C.) in questa regione, morto nella  peste portata dal suo esercito di ritorno in patria.

 

[16] Quanto all’ira degli dèi ed eroi omerici se n’è scritto tanto ma essa è prima di tutto figlia dell’ira  di Jahvè, riscontrabile qua e là nell’Antico Testamento, ad esempio del Cantico di Mosè: « Lo hanno fatto ingelosire con dèi stranieri e provocato con abomini all’ira » (Deuteronomio, 32, 16), o ancora « l’ira del Signore divampò contro Israele » (2 Re, 13,3), oppure, classico, « Ma quando Gog arriverà sul suolo d’Israele, assicura il Signore Dio, l’ira salirà alle mie nari » (Ezechiele, 38, 18).

 

 

 

Fine

 

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