Marco G. Corsini
Introduzione all’Iliade e all’Odissea di Omero
1
- Terracotta babilonese con
figura di arpista (II millennio a. C.) Parigi, Louvre.
Omero
cantò l’Ira d’Achille per i
Consualia del 649 a. C., cioè le
celebrazioni da tenersi ogni secolo, i
ludi saeculares – istituiti da Romolo nel quarto anno dalla fondazione di
Roma con corse equestri dedicate
a Poseidone-Vertumno (il Proteo egizio del libro IV dell’Odissea) nel suo
santuario federale etrusco del Foro – per
il centenario della fondazione di Roma. Certo sarebbe uno scoop provare che
Omero (la cui produzione gli studiosi posdatatano sempre di più ma comunque
entro l’VIII secolo) conobbe Romolo, gli parlò faccia a faccia e da lui
ricevette l’incarico di dare al mondo un’immagine faraonica di Roma
signora del mondo. Disgraziatamente la Roma di Romolo, costituita da un
insieme di povere capanne – solo alla metà del VII secolo le tombe a capanna di Cere (nella vicina Pyrgi, che nel
secondo quarto del VII secolo
dipende da Tarquinia, è
ambientato l’incontro fra Odisseo Alcinoo
e Arete) cominciano a strutturarsi come vere e proprie case
principesche – non può costituire la scenografia dell’aristocratica vita
dei nobili di cui abbiamo un riflesso nei banchetti olimpici: « Ella [Teti]
si assise accanto a Zeus padre, le fece posto Atena: Era le pose in mano
una coppa d’oro, bellissima, l’allietò con parole: Teti bevve e le ritese
la coppa » (Il. XXIV, 100ss). Come non condividere l’opinione di
Lawrence che in simili rappresentazioni (letterarie, pittoriche, coroplastiche
poco importa) « gli etruschi hanno davvero il senso del tatto, tutte le
persone e le creature hanno un tocco speciale, una loro qualità tattile.
Questa qualità è tra le più rare, nella vita come nell’arte…
Qui, in questa sbiadita pittura etrusca, un quieto flusso tattile
unisce l’uomo e la donna distesi sul divano, il timido ragazzino là dietro,
il cane che annusa l’aria, perfino le ghirlande appese ai muri »? (Paesi
etruschi, Nuova immagine editrice, Siena, II edizione, 1989, p. 78). Se
riandiamo ai bassorilievi o alle pitture tombali più antiche (dell’Etruria
meridionale) con scene di banchetto vi ritroviamo la stessa grazia, la stessa
olimpica serenità dei ricchi beati. Omero scrive (probabilmente all’etrusca,
su volumi lintei – opera delle abilissime donne feacie, che tessono
tele e girano fusi, sedute, simili a foglie d’altissimi pioppi
– col
calamo intinto nell’inchiostro nero, rosso per i titoli e le indicazioni accessorie)
a cavallo del 680-50 a. C. Ancora durante la seconda guerra punica,
mentre i Ceriti forniscono grano e altri viveri a Scipione l’Africano per la sua
impresa contro Cartagine, Tarquinia fornisce tela per le vele delle navi (Livio
XXVIII, 45). E’ dunque rimasta una città manifatturiera di tessuti come al
tempo di Alcinoo, non solo, ma la città marinara dei Feaci, i migliori
marinai del mondo.
E’
contrario a quanto documentato nel mio lavoro e anche ad ogni logica ritenere
Omero ed Esiodo viventi su un’isola lontana e distaccata dal rimanente della
letteratura greca, che ha inizio nel VII secolo a. C. E’ riscontrabile nella
loro produzione come un botta e
risposta che conferma la loro
competizione tramandataci dagli
antichi. Poiché Omero è più grande, si deve pensare piuttosto ad un’invidia
e rivalità dalla sola parte di Esiodo, che di regola scrive dopo [1].
Questo
lavoro è nato in pochissimo tempo, uno o due anni (mi proponevo la ricerca di
tracce di testi letterari d’età micenea da affiancare alla mia decifrazione
del Disco di Festo e invece ho scoperto una nuova civiltà) ma è frutto di
oltre trent’anni dedicati allo studio delle civiltà, della storia, delle
letterature antiche. E’ assolutamente originale e rivoluzionario circa l’identità
culturale di Omero e l’epoca in
cui visse e operò e poi circa l’interpretazione dei suoi poemi di cui
finora a ben vedere s’era compreso assai poco.
Omero
(semitico Omar) intorno al 680 a. C. – a questa data appaiono le prime
rappresentazioni figurate, su
vasi, dell’episodio dell’accecamento di Polifemo –
canta il Viaggio d’Odisseo nella spianata del tempio di Leucothea a
Pyrgi (odierna Santa Severa; Pyrgi è lo scalo dei metalli che vengono
estratti nei Monti della Tolfa e dunque nel 680 ca. è nell’orbita di
Tarquinia, mentre alla metà del VII secolo entra nell’orbita di Cere
insieme ai Monti della Tolfa), davanti ad una platea costituita dai ceti
trainanti di Tarquinia tra cui una nutrita comunità di greci, alla presenza
di Demarato, ricco mercante corinzio [2],
tra gli artefici del sorprendente decollo minerario manifatturiero e mercantile
della città-stato etrusca che controlla i Monti della Tolfa e ha
soppiantato Ischia e Cuma, colonie euboiche, nel traffico soprattutto del
ferro con Cipro e l’oriente, Al-Mina sull’Oronte ecc. (Od. I,180ss).
Demarato ha appunto commissionato a Omero il poema con cui celebrare in una
lingua internazionale l’inaugurazione del santuario-banca dove i Greci sono
invitati a depositare i beni a garanzia degli scambi commerciali con una
città che, come s’inventerà la
mitopoietica omerica, nell’età mitica dei Greci – quella del movimento
dei popoli del mare e dell’esodo in Anatolia incalzati dai Dori – ha
assistito e dato ospitalità (tramite il numen loci
Leucothea stessa e la sua personificazione di Nausicaa figlia del re
Alcinoo) a Odisseo naufrago di ritorno dalla guerra di Troia. Nella mitica
età della guerra di Troia da tempo l’Egitto non era più il paese dove i
faraoni passavano a miglior vita in bare d’oro massiccio. Da poco era
tramontata (656 a. C. circa) la
XXV dinastia che Manetone
chiama etiope, proveniente dall’Etiopia
(in realtà si tratta di faraoni neri della Nubia, da cui il nome di
Kuscita dato oggi alla dinastia), sì, proprio là dove Zeus e Poseidone (all’inizio dell’Ira d’Achille e del
Viaggio d’Odisseo) amano passare una dozzina di
giorni a odorare il fumo degli olocausti offerti loro dai pii Egizi.
(Nel 661 Assurbanipal scende in Egitto e depreda e distrugge Tebe, la più
celebre città del mondo antico, ricordata perfino da Achille: Tebe
egizia, ove son nelle case ricchezze infinite, Tebe che ha cento porte,
e per ognuna duecento armati passano, con i carri e i cavalli)
Gli era subentrata una dinastia saitica
che si aggrappava
formalisticamente ai ricordi di un Egitto faraonico che non era più,
la dinastia XXVI fondata da Psammetico I [3],
che si reggeva grazie all’impiego di mercenari stranieri, per lo più greci.
Questi gli erano stati mandati in
soccorso dal re Gige di Lidia
che, come prima di lui il re Mida
(676 a. C.) di Frigia, combatté contro il barbaro popolo invasore dei Cimmeri
(che abitano nei pressi della porta dell’Ade omerico, Od. XI inizio) e fu da
questo sconfitto e ucciso in battaglia (652 a. C.): « degli Ioni e dei Cari,
salpati per fare della pirateria furono gettati
sulle coste dell’Egitto; costoro sbarcarono a terra indossando armature di
bronzo e qualcuno corse nelle paludi ad avvisare Psammetico: poiché non aveva
mai visto prima degli uomini con armature di bronzo, il messaggero riferì che
dal mare erano venuti uomini di bronzo a depredare la campagna. » (Erodoto,
II, 152; il corsivo sostituisce: fossero) Siamo nell’età del
ferro ma le armi, come quelle degli eroi omerici, sono rigorosamente di
bronzo. Gli etruscologi imperanti sostengono che i siro-ciprioti non possono
aver colonizzato l’Etruria nell’orientalizzante perché a quel tempo i
Greci colonizzavano l’Italia meridionale e non avrebbero fatto a meno di
informarcene. Il fatto è che i
Greci non avevano alcun interesse a far risalire l’Etruria ai Fenici;
inoltre si avventuravano al di
là dello stretto di Messina per fare la guerra piratesca o, come si dice, di corsa, e difficilmente fra loro c’era uno storico della
civiltà etrusca. L’Odissea cade in un momento in cui la colonizzazione
greca dell’Italia è cosa fatta da un pezzo ma cerca di vedere le cose in un
tempo lontano intorno ai secoli XII-VIII,
e allora descrive la Sicilia solo come luogo in cui i Greci vanno a comprar
schiavi (e i principi itacesi come venditori
di schiavi nel mercato siculo).
Omero
non è greco, bensì etrusco [4],
figlio di etruschi rasenna (da Rasennia, cf. Dionisio d’Alicarnasso, I, 30 e
i documenti etruschi: ras(e)n(n)a cioè della casta dominante a
Tarquinia Cere e Roma fin dall’VIII secolo, proveniente dal eg. Rtnw o Rsnw
cioè dalla costa siriana comprendendo a nord e ad ovest la Cilicia e Cipro, l’Hypereia
omerica o Paese Superiore con cui è nota nel Medio Oriente antico fin dal III
millennio a. C. E’ una civiltà
mista, soprattutto plurilingue, abbastanza antica e civile da essere all’origine
di un documento come il Disco di Festo (metà del XVI sec. a. C.),
sopravvissuta alle invasioni dei popoli del mare e alle vicende che posero
fine ai grandi imperi orientali e che trasferitasi in Etruria (e prima di tutto a Roma
Cere e Tarquinia) fa da ponte fra le grandi civiltà orientali e l’occidente
semibarbaro (quando in Etruria abbiamo il ‘villanoviano’). Posso
ipotizzare che il padre di Omero fosse cipriota, dunque di lingua greca
(dunque da lui Omero apprese la lingua dei suoi poemi), e la signora (pótnia)
madre (quella che probabilmente portava i pantaloni in famiglia; peccato non
conoscere il gentilizio di Omero nonostante gli Etruschi a questa data
avessero inventato il cognome o nome di famiglia) originasse verisimilmente
dai Daniti ebrei o Danuna (che diventeranno i Danai di Omero) stabiliti dall’VIII
secolo nella pianura di Adana in Cilicia. Dalla cultura materna Omero attinse
il meglio della sua poesia, i suoi contenuti fantastici. La Cilicia aveva
ispirato alcuni canti epici che
avevano ad oggetto i Danai, la presa di Tebe ipoplacia (in Cilicia) e l’uccisione
da parte di Achille del re di questa città, Eezione, padre di Andromaca,
moglie di Ettore. Achille nella
sua tenda suona la bellissima cetra di Eezione, bottino di guerra
come bottino di guerra della distruzione della città cilicia di
Lirnesso – menzionata insieme a
Tebe ipoplacia: Il. II, 691 – è la bella Briseide figlia del re Minete e
concausa dell’Ira d’Achille. E’ di tutta
evidenza che non aveva alcun senso, al decimo anno di guerra a Troia,
disperdere le energie, attaccare
e distruggere due città cilicie,
all’estremo opposto di Troia. Dobbiamo dedurne che Omero trasfigurava
il movimento dei ‘popoli del mare’, avvenuto a cavallo del 1200 a. C.
e antefatto della colonizzazione greca dell’Anatolia e in particolare
della Troade (dove dal XIV secolo erano stanziati i circoncisi
Akkhijawa/Achei che daranno il loro nome, solo il nome, ai coloni
greci, mentre i Troiani rappresentano
i circoncisi Turša/Tirreni/Etruschi e ovviamente i Romani [5]),
nell’epica impresa dell’invincibile armata achea partita da Aulide; e che,
essendo etrusco, adattava alla sua favola della guerra di Troia
tradizioni della sua terra materna e paterna, siro-cilicio-cipriota,
cioè del Levante. Il gigante Achille (Achille
non è un bel ragazzo tra il femmineo e l’atletico, ma l’uomo più
gigantesco fra quanti andarono a combattere la mai avvenuta guerra di Troia,
quindi se si mette a piangere come una femminuccia deve necessariamente
suscitare il riso) ‘protagonista’ dell’Ira d’Achille, è figlio di
Teti, figlia di Nereo, il dio della Nahrina, la regione dei fiumi siriana.
Anche Toosa, madre di Polifemo (che è siriano e non siculo), è figlia di
Forchis, figlio di Nereo.
La
cultura omerica e gli orientali modelli letterari cui fa riferimento sono dell’area
compresa fra Cipro Cilicia e Siria ed è una cultura fortemente influenzata
dall’Antico Testamento. Con l’ascesa della monarchia di Davide e Salomone
l’influenza della civiltà ebraica fu molto importante. Poi le guerre di
invasione assiro-babilonesi portarono la distruzione anche da queste parti. La
poesia di Omero può esser compresa in gran parte grazie al confronto con l’Antico
Testamento [6]
purché sia ben chiaro che Omero ha di gran lunga superato il suo
modello di cui abbiamo testimonianza indiretta,
dato che i poemi omerici sono più antichi della più antica redazione
dell’A. T. di cui disponiamo, che è postesilica (la redazione
definitiva è di Esdra, 444 a. C.). Quando Omero scrive, a Samaria
non risuonano più i canti e il suono della cetra, e gli Israeliti del
nord sono deportati in Assiria, mentre Gerusalemme è in declino e fra pochi
decenni anche i Giudei del sud saranno deportati a Babilonia. La letteratura e l’arte
siro-cipriota (gli « uomini
ritratti sui muri, figure di Caldei disegnati col minio » di Ezechiele 23,14)
rivivono dunque sulle sponde dell’Alto Lazio dove i tumuli monumentali di
Cere e Palestrina si ergono come piccole piramidi coniche ricche di manufatti
d’oro, d’argento, d’avorio, in stile orientalizzante e la cetra di Omero
e la sua stessa voce risuona a cavallo del secondo quarto del VII sec. a. C.
davanti al santuario-banca di Leucothea a Pyrgi e di Mater Matuta nel
Foro Romano [7]. Lo splendido oriente s’è trasferito fra il
Tevere e l’antico fiume, di cui non sappiamo il nome, nel cui alveo gli
Etruschi realizzarono il canale d’accesso al porto di Pyrgi e dove Omero
immagina che Odisseo approdi nuotando alla terra dei Feaci. Non sarà la prima
volta e sentiremo ancora parlarne da Giovenale negativamente e da Petronio, un
secolo dopo, positivamente. E la cosa si ripete ai giorni nostri. I Feaci si
distinguono appunto fra Feaci siriani, estinti, e Feaci occidentali, gli
Etruschi veri e propri. L’ethnos etrusco è schematicamente formato dall’elemento
‘autoctono’ dei Turša/Tirreni che hanno dato il nome internazionalmente
noto di Etruschi e che già parlano etrusco (vedi Lemno e Imbro e teoria di
Mirsilo di Metimna in Dionisio d’Alicarnasso, criticata dagli etruscologi e
invece la sola corretta, secondo cui i Tirreni andarono dall’Etruria all’Egeo
e non viceversa, ovviamente al tempo della loro più antica ‘talassocrazia’).
Ancora nel villanoviano vige la civiltà dei Tirreni.
Con l’VIII secolo esplode in Etruria la civiltà dei Rasenna e
cambia l’indirizzo politico e culturale del paese. L’orientalizzante
dell’Etruria non è una moda ma il manifestarsi di una civiltà orientale
trapiantata in occidente, prima di tutto fra Tarquinia e Roma, di una casta
dirigente allotria. Da Tarquinia e Roma la civiltà rasenna si imporrà su
tutta l’Etruria. Non è la prima volta nello studio delle civiltà antiche
(vedi quella ittita) che si chiama col nome del popolo autoctono (Etruschi)
anche quello successivo (della minoranza Rasenna) che da finalmente alla
civiltà etrusca il suo carattere inconfondibile, e che
si chiama con nome diverso (villanoviano) la civiltà che ha dato nome
agli Etruschi. Si tratta solo di non fare inutili guerre terminologiche e
comprendere il nocciolo della questione. E’ possibile conciliare la teoria
villanoviana con quella rasenna tenendo presente che l’impulso alla nascita
ed espansione del villanoviano potrebbe già attribuirsi a prospettori
minerari siro-ciprioti
simboleggiati letterariamente dalle navigazioni verso Kittim e Taršiš delle
navi di re Salomone. Anche l’Enea italico, da spostare nell’VIII secolo e
contemporaneo di Romolo, è visto da Dionisio d’Alicarnasso e Livio come un
avventuriero in cerca di ferro e metalli presso il Tevere. La civiltà etrusca
durò i dieci saecula pronosticati dai sacerdoti. Il primo iniziò nell’849
a. C. (in base alla scadenza normale dei ludi saeculares da me individuata),
nel villanoviano. L’ultimo nel 49 a. C., al tempo di Cesare.
Omero
trasfigura le migrazioni e colonizzazioni fra XIII e VIII secolo, che di
miceneo non hanno nulla, e di cui ha conoscenza assai indiretta, vedendole
attraverso le tradizioni e l’arte visiva etrusco-romana (in particolare dai
fregi in terracotta riproducenti
schiere di opliti preceduti dal re sulla biga), i canti rasenni orali o
scritti, l’artigianato siro-cipriota, etrusco, egizio (che ripete immutati
prototipi antichi, si pensi alla coppa di Nestore, ricalcata da manufatti
etruschi e siro-ciprioti in oro e ai manufatti egizi ricevuti in dono da
Elena), e antiquariato orientale (l’elmo miceneo ricoperto di zanne
indossato da Odisseo). Per tornare all’esempio dei mercenari (soprattutto
etruschi – come quello
tarquiniese che si riportò in patria un dono del faraone, una situla con
inciso il cartiglio di Bocchoris, 720-715, della XXIV dinastia
– le cui tradizioni
Omero apprende fin da bambino dalla viva voce dei vecchi lupi di mare e pirati
Tirreni – « Non si può certo nascondere il ventre affamato, funesto,
che tante pene dà agli uomini, per lui s’allestiscono le navi buoni scalmi
sul mare mai stanco, a portar mali ai nemici »
– che un tempo avevano
attaccato l’Egitto fino a diventare la guardia scelta del corpo dei
faraoni Ramessidi) Omero ne trasferirà le imprese nella sua opera
mitopoietica (‘ creatrice di mito ’) della guerra di Troia, ed allora: «
all’Egitto bella corrente arrivammo…
[a]i miei fedeli compagni… alla
violenza cedendo, seguendo il loro furore, subito i campi bellissimi degli
Egiziani saccheggiarono, le donne e i bambini lattanti rapivano, uccidevano
gli uomini; ma presto alla città giunse i grido. E quelli, udito il grido,
all’apparire dell’alba arrivarono; s’empì tutta la piana di fanti e
cavalli e del lampo del bronzo; e Zeus folgoratore tra i miei gettò mala fuga…
Là molti dei miei m’uccisero col bronzo affilato, altri con sé
trascinarono vivi a lavorare per forza… » (Od. XIV, 257ss; vedi anche
XVII, 426ss). Il risultato è che generazioni e generazioni di
professionisti, crederanno e tuttora credono alla storicità della guerra di
Troia (ci ha creduto pure Manetone) e del ritorno di Odisseo, mentre Omero aveva solo creato una storia pubblicitaria per
celebrare Tarquinia signora del mare e Roma signora del mondo attraverso le
origini della casta dominante (spostandole dall’originaria Siria all’Anatolia)
confondendole con quelle della
nazione greca d’Asia in modo che i Greci, cui i poemi erano destinati, si
sentissero coinvolti nel successo di Tarquinia e Roma viste come prodotto
della propria civiltà e dunque una cosa sola con questa ed allentassero i
cordoni della borsa venendo ad investire in Italia. Ingegnoso, non è vero?
Qui c’è tutto il genio italico, popolo industrioso, mercante, esploratore,
navigatore… e poeta.
La
genesi del processo mitopoietico nasce con l’Ira d’Achille voluta da Tullo
Ostilio. Poi Omero rivedrà il Viaggio d’Odisseo [8] inserendolo nell’Odissea nell’ottica della
guerra di Troia. Dunque scopo del latino
Tullo Ostilio, terzo re di Roma e committente dell’Ira d’Achille,
era celebrare le origini di Roma e il ratto delle sabine e latine [9]
– con cui i Ramnenses/Libanesi di Romolo (cf. egizio Rmnn = Libano)
avrebbero formato da stirpi diverse un unico popolo romano –
avvenuto in occasione dei primi Consualia, del 749 a. C. nel santuario
federale del Foro Romano dove erano stati invitati i popoli vicini,
e Omero immagina niente di meno che una mai avvenuta
guerra di Troia, causata dal giudizio di Paride principe-pastore (falsa
etimologia di Hyksos, i re dei paesi stranieri, per lo più siriani, ma al cui
seguito gli indeuropei creano i regni ‘micenei’
dal levante e andando da oriente a occidente, da sud a nord) che
giudica più bella fra le dee Afrodite (in origine Afrodite Urania/Atargatis
di Ascalona in Siria, dea del matrimonio che avviene tramite il rapimento, cf.
anche il ratto delle danzatrici del santuario federale di Silo da parte dei
Beniaminiti, Giudici, 21, [10]).
Questa gli promette l’amore di Elena (che in realtà è una sua
manifestazione, identificabile con Mater Matuta tiberina, con
Ino-Leucothea pirgense e con Aurora, divinità importantissima nell’Odissea:
i tre nomi corrispondono alla stessa divinità – identificata nelle lamine
auree di Pyrgi con Uni/Giunone-Astarte – vedi Prisciano: GLK II, 76, 18ss; cf. Cicerone, Tusc. I, 18;
da un’iscrizione frammentaria su lamina di bronzo da Pyrgi emerge con
verisimiglianza il nome etrusco dell’Aurora, Thesan; ovviamente il padre
della storia Erodoto ci assicura
che Elena a Troia non arrivò mai
[11]), la più
bella fra le donne, moglie di Menelao di Sparta. Nasce così attraverso il
matrimonio di Paride con la rapita Elena il legame di sangue che unisce dai
tempi mitici Troiani/Romani e Achei/Greci. I Troiani non c’erano più,
annientati dai valorosi guerrieri greci, ma rivivevano grazie a Enea nel
popolo romano sulle sponde del Lazio con cui dunque i Greci continuavano ad
avere oggi una speciale relazione di legame di sangue intorno al santuario di
Mater Matuta/Aurora/Ino Leucothea come ieri intorno ad Elena/Afrodite, per cui
i Greci possono venire a Roma sentendosi a casa loro.
Creare belle favole era una pratica millenaria di Israele dove l’Antico
Testamento, dal Genesi e via via decrescendo verso gli ultimi lavori, è
frutto di una fervida fantasia.
Come
conseguenza del depistaggio omerico (ben noto ai greci del VII secolo che
però fecero finta di nulla secondo il piano preciso di cancellare tutte le
tracce che portavano Omero e i poemi all’Italia; e ciò vale anche per le
altre tradizioni etrusche come le Argonautiche) Erodoto e i logografi ionici e
poi anche Virgilio (Agylla/Cere « dove un dì lidia gente in guerra illustre
si collocò su’ vertici d’Etruria » Eneide, VIII, 479-480)
riferiranno non all’area siro-cipriota, bensì a quella ionico-lidia
l’origine degli Etruschi, pur facendo esattamente riferimento alla casta dei
giganti guerrieri e a Cere, considerata da Virgilio
la città madre o comunque un’importante città etrusco-rasennia.
Così Omero, che non andò mai molto più lontano di Tarquinia o Roma, ci
illustra una scena davvero suggestiva (« come innumerevoli schiere d’uccelli
alati, d’oche o di gru o di cigni lungo collo, nei prati d’Asia, sulle
correnti del Càistro, qua e là volteggiano, sbattendo l’ali con gioia, e
mentre con gridi si posano la prateria risuona – così innumerevoli schiere
di questi [gli Achei] dalle navi e dalle tende si riversavano nella
pianura Scamandria » Il. II, 459ss). Il Caistro è fiume della Lidia.
Peccato (o per fortuna) che Omero s’è ispirato alle scene dell’Etruria
costiera lagunare dove dai canneti s’alzavano in volo allora come un po’
meno oggi stormi di fenicotteri e
aironi. Ma nonostante il travisamento omerico la civiltà dei poemi omerici
rimane fenicia marinara e non greca terriera, come invece ritengono gli
studiosi imperanti.
Omero
non è meno civile della civiltà che racconta, come sarebbe se Omero agli
albori della civiltà greca narrasse della civiltà micenea al suo massimo
splendore. Vive nella civiltà che racconta, nel secondo quarto del VII secolo
a. C. (e la racconta come vedendola fra presente e passato, ovvero celebrando
il presente trasfigurato come se visto nel passato), ed è consapevole che
questa civiltà è perfino più civile di quella micenea al suo massimo
splendore, che dico micenea, è la più splendida civiltà esistente, erede
dei fasti d’Egitto e di Babilonia: « Ma ora ascolta parola mia, ché
anche ad altri eroi tu possa narrare, quando là nel palazzo banchetterai
vicino alla sposa e ai tuoi figli, le nostre vrtù ricordando, in quali opere
Zeus concede anche a noi l’eccellenza, fin dal tempo dei padri… siamo a
navigare eccellenti. E sempre il festino c’è caro, la cetra, la danza,
vesti mutate, e bagni caldi, e l’amore », dice Alcinoo a Odisseo. Omero
si sforza di ricostruire gli antefatti
(movimento dei ‘popoli del mare’ e poi colonizzazione greca dell’Anatolia),
della sua civiltà di VII secolo, e in questo tentativo di ricostruzione
storica (per il quale ovviamente Omero non dispone degli strumenti critici a
nostra disposizione) l’età micenea tarda (ma Omero ha come modello l’età
villanoviana e la più antica storia siro-cipriota) assume un aspetto a volte primitivo, come
quando come ultima arma di offesa i guerrieri si tirano contro
enormi macigni raccolti da terra, reminiscenze dell’età mitica dei
Giganti guerrieri e dei Titani re e sacerdoti.
A
parte le autocelebrazioni della nazione etrusco-romana e dei suoi capi, la classe dirigente intende i poemi come
celebrazione della cultura e civiltà etrusco-romana faro luminoso di tutto il
Mediterraneo. Come Minosse egiziano nel XVI secolo a. C. Tarquinia e Roma alla
metà del VII secolo erano
interessate alla regolarità dei commerci nelle acque del ‘Mare Nostrum’,
alla civilizzazione del mondo d’allora secondo i principi di un diritto
internazionale e una morale laica sottoscrivibili da tutti i popoli del
Mediterraneo (una globalizzazione ante litteram; ha ragione il Barbagallo,
Roma era un impero prima della caduta dell’ultimo re e con la repubblica
dové cominciare tutto daccapo) e ben superiore e più anticamente documentata
di quella giudeo-cristiana. Tutto ciò approfondiremo trattando specificamente
dei poemi e nell’Appendice, 2. Qui va chiarito una volta per tutte che Omero
creò dal nulla il mito (attività mitopoietica) della guerra di Troia e del
ritorno di Odisseo proprio come
realizzazione dell’intento pubblicitario e propagandistico di Demarato e
Tullo Ostilio che volevano vendere all’estero
il prodotto Italia. L’Odissea e l’Iliade dunque come soap opere o
come Aida celebrativa dell’apertura del Canale di Suez. Ciò vuol dire che
se, come è verisimile, dei canti sono stati scritti o portati a memoria
prima di quelli omerici non
potevano trattare né della guerra di Troia né del ritorno degli Achei in
Grecia e si occupavano di altri argomenti da cui eventualmente Omero può aver
tratto ispirazione diretta o indiretta, ma certo, se ve ne furono, dopo la
divina creazione d’Omero i vecchi poemi caddero in oblìo e finirono con l’andare perduti perché di scarsissimo
valore. Ci si dovrebbe aspettare che i Greci (se Omero era autenticamente
greco) imitassero la tecnica omerica componendo altri poemi impostati allo
stesso modo. Invece no. Non impararono nulla dall’arte omerica e
continuarono a realizzare poemi di scarsissimo valore che integravano il mito
omerico (poemi ciclici, che si occupavano del ciclo della guerra di Troia,
degli antefatti e dei postumi, come
il ritorno degli eroi achei e l’esodo di quelli troiani) e finirono
ugualmente nell’oblìo oppure si limitarono a scopiazzare Omero (omeridi)
manipolando o ampliando i suoi stessi poemi, oppure ancora lasciarono perdere
del tutto un genere a loro fondamentalmente estraneo e si dedicarono ad altro,
il che non vuol dire che non abbiano raggiunto alte vette poetiche, ad esempio
con Saffo.
Omero
non ha affatto ideato inizialmente il poema lungo. I suoi poemi (il Viaggio d’Odisseo
di 4000 versi e l’Ira d’Achille
di 6000) furono scritti e cantati come poemi brevi nella scia eventuale della
tradizione, sicuramente quella
orientale. Solo l’Odissea, dopo l’aggiunta finale dell’arrivo a Itaca,
della strage dei pretendenti fino
e non oltre il riconoscimento e ricongiungimento di Odisseo e Penelope (Od.
XXIII, 246: qui Omero intendeva effettivamente conclusa tutta la sua opera) e dell’inserimento
della Telemachia, ha raggiunto gli 11000 versi circa. Se Omero avesse voluto
completare l’Ira d’Achille, cosa di cui dubito fortemente, questa avrebbe
raggiunto probabilmente gli 11000 versi. L’iliade (che è inglobata nell’Ira
d’Achille), attribuibile a un’omerida argolico al servizio di Fidone d’Argo,
coi suoi quasi 15700 versi copia il modello del poema lungo creato da Omero.
Possiamo
verficare il progressivo perfezionarsi della tecnica omerica confrontando ad
esempio la frase che (con minime varianti)
più volte nell’Odissea Telemaco
rivolge alla madre Penelope: « Su, torna alle tue stanze, e pensa all’opere
tue, telaio e fuso; e alle ancelle comanda di badare al lavoro; all’arco
penserai gli uomini tutti, e io sopra tutti; mio qui in casa è il comando »
frase che non solo è pienamente legittima in ambiente greco (dove la donna
viene segregata nel gineceo) ma ha una sua giustificazione nel fatto che
Telemaco ormai si sente grande e padrone di casa (e nel caso specifico intende
allontanare la madre dalla carneficina imminente) e l’identica frase, in
bocca ad Ettore (nell’Ira d’Achille)
che incontra per l’ultima volta la moglie prima di essere ammazzato,
che evidentemente è stata qui ideata per la prima volta e
suona assai rozza: « Su, torna a casa, e pensa all’opere tue,
telaio e fuso; e alle ancelle comanda di badare al lavoro; alla guerra
penseran gli uomini tutti, e io sopra tutti, quanti nacquero ad Ilio ».
Dall’Ira d’Achille all’Odissea
Omero perfeziona una sua espressione, che nella prima
è: « non parlò/rispose », nella seconda: « e a lei/lui
senz’ali restò la parola ».
La
tesi, in apparenza acuta,
sostenuta da Bernard Andreae secondo cui l’Iliade è più antica dell’Odissea
perché la trama dell’Iliade e dell’Odissea rispecchiano la decorazione
vascolare coeva, prima sequenziale (al tempo dell’Iliade, verso il
730 a. C.) e poi a intreccio (al tempo dell’Odissea, verso il 680 a. C.) è
in parte infondata e in parte consente di sostenere il contrario, che l’Odissea
è più antica dell’Iliade. Odissea e Iliade sono state realizzate in due
tempi e non concepite e realizzate interamente di getto, per cui l’aspetto
sequenziale o ad intreccio che offrono alla valutazione complessiva è solo
frutto di coincidenza (e questo vale soprattutto per l’Iliade, di due autori
differenti). Il nucleo originario, omerico, dei due poemi narrava,
concentrandola in pochi giorni, una serie di fatti centrali nel mito globale
della guerra di Troia e del ritorno di Odisseo, entrambi inventati di sana
pianta da Omero. Dunque né sequenzialità né intreccio. Ma se si guarda più
attentamente, mentre il racconto di Odisseo alla corte di Alcinoo è una serie
di fatti sequenziali (cioè il racconto alla corte di Alcinoo fatto da Odisseo
della sua permanenza nell’ordine
presso Ciconi, Lotofagi, Ciclopi, Eolo, Lestrigoni, Circe, ecc.), nel libro
primo dell’Iliade, sicuramente omerico fino al colloquio di Zeus e Teti
compreso (dov’è l’ira d’Achille per eccellenza), c’è una serie di
fatti intrecciati l’uno all’altro: dopo la lite con Agamennone Achille se
ne va al suo accampamento presso il mare nel mentre che
Agamennone invia Odisseo a restituire Criseide al padre
e manda gli araldi al campo di Achille a prendersi Briseide;
Achille a sua volta piangendo invoca da sua madre Teti vendetta contro
gli Achei, mentre Odisseo raggiunge Crisa
con la sacra ecatombe, restituisce
Criseide al padre e fa ritorno al lido di Troia; intanto poiché Zeus è
tornato dagli Etiopi Teti gli fa visita e ottiene la promessa che darà la
vittoria ai Troiani per vendicare l’affronto ad Achille. Più intreccio di
così… Ancora, gran parte dei libri iliadici che attribuisco all’omerida
argolide, sia attraverso quella specie di flash back dei libri da II a VII,
sia attraverso la missione di
Patroclo alla scoperta dell’eroe greco ferito e raccolto da Nestore [12],
sia attraverso le ondate di attacchi alle porte del vallo che protegge le navi
(ma qui la moltiplicazione degli eventi è ulteriormente ampliata dal fatto
che si inserisce davanti all’attacco al vallo
omerico), dei libri da VIII a XIII, invitano ad elogiare questo
imitatore d’Omero per aver osato la realizzazione
di un progetto tanto mirabile nella sua complessità e tanto superiore alle
sue forze. Quanto alla iscrizione – da
osteria – su vaso del 730 a. C. ca. da Ischia che fa semplice
riferimento a una coppa da cui si beve bene di un tale Nestore, nulla prova
che tragga ispirazione dai versi omerici. Al contrario una tradizione relativa
ad un Nestore gran bevitore può essere stata raccolta dall’omerida argolico
e trasfusa nel libro XI, 632ss dell’Iliade quando Nestore si trasforma con
lui in personaggio comico.
L’omerida
argolide al servizio di Fidone d’Argo utilizzò pochi anni dopo il 649 a. C.
(a quel tempo non c’era il diritto d’autore, ma è anche vero che l’omerida
più che modificare l’Ira d’Achille
vi inseriva materiale nuovo o riciclato dallo stesso Omero e facilmente
distinguibile) l’Ira d’Achille come cornice entro cui inserire la bellezza
di XII libri che vanno dal verso 539 del libro I al verso 158 del libro XIV.
Sono inoltre dell’omerida argolide i libri XVII, XIX, XXI, XXIII dal verso
653 in poi. Poiché chi legge l’Iliade parte sostanzialmente dalla
produzione di questo omerida, che occupa la prima parte del poema (ed
evidentemente se ne innamora, in quanto l’Iliade
viene ritenuta in genere più bella dell’Odissea; non certo da chi scrive),
ritiene magari che la seconda parte (quella omerica) costituisca un ulteriore
miglioramento dell’arte del poeta. L’Iliade attuale, manipolata dall’omerida
al soldo di Fidone d’Argo, è diventata
filogreca: « si avverte la più attenta cura dell’autore nella gelosa e
costante dimostrazione della superiorità militare achea, mentre i Troiani
sono tenuti in un limitato grado di dignità e di valore, proprio per lasciare
ai Greci integra la gloria di superarli » (W. Gladstone). Non c’è dubbio
quindi che l’Iliade come ci appare oggi vada attribuita più all’anonimo
omerida argolico che a Omero, mentre solo l’Ira d’Achille rimane
attribuibile ad Omero. Chi scrive ritiene bella l’Ira d’Achille, meno l’Iliade,
stupenda l’Odissea. L’omerida argolide autore dell’Iliade non è certo
bravo quanto Omero (ed è soprattutto per questo motivo che attribuisco a lui
e non a Omero l’Iliade, perché per il resto hanno uno stesso fondo
culturale semitico [13], uno stesso humour, ecc. che però attribuisco alla buona
capacità imitativa dell’omerida) ma
si può dire che ce la mette tutta. E’ un coraggioso costruttore di azioni
belliche (le sue scene di battaglia sono migliori di quelle di Omero, uomo di
pace) arditamente intrecciate oltre le sue possibilità e da cui i duelli
degli eroi si stagliano come altorilievi
su sfondi di bellezza
discontinua. E’ maestro nelle similitudini. Avrebbe realizzato un’opera
assai migliore se non avesse seguito Omero in una certa inclinazione al comico
nell’Ira d’Achille. Avrebbe dovuto puntare decisamente all’interpretazione
e proseguimento dell’Ira d’Achille come opera tragica e in tal caso l’Iliade
sarebbe almeno equiparabile all’Odissea, che invece proprio per il contrasto
coi pericoli corsi per mare e la lotta contro l’occupante straniero, fa
agognare la serenità degli affetti familiari e dell’amicizia (dei marinai
uniti contro i pericoli esterni) in borghi di campagna dove la vita scorre
tranquilla, e perciò assomiglia più ad una tempera (o ad un arazzo di quelli
filati da Andromaca, Elena e Penelope) dai colori tenui, sempre ugualmente
bella. L’omerida argolide introduce Diomede come protagonista dell’Iliade
(al posto di Aiace Telamonio) durante l’assenza di Achille, il nome di
Argivi a fianco di Achei e Danai, parla bene di Eracle (Il. V, 628, 638; ecc.)
che invece è considerato da Omero nell’Odissea come ladro di bestiame e
assassino dell’ospite sacro. Dunque Omero scrive prima il Viaggio d’Odisseo,
poi l’Ira d’Achille e infine completa l’Odissea, mentre l’Iliade è
creazione di un omerida argolico.
Omero morì più verisimilmente a Roma dove s’era trasferito qualche anno
prima del 649 a. C. per comporre l’Ira d’Achille e dove completò l’Odissea
ispirandosi alla vera storia di Romolo. C’è un passo in cui nell’Odissea
si accenna al poeta chiamato da un paese straniero e questo potrebbe riferirsi
a lui Omero, chiamato a Roma dalla natia Pyrgi, ora dipendente da Cere: «
chi uno straniero andrà in persona a invitare, se non si tratta d’artigiani
o maestri, o un indovino, o un carpentiere, o un guaritore di mali, o anche un
divino cantore, che diletta cantando? » (XVII, 382ss). Omero visse fra
Pyrgi, dove nacque nell’ultimo quarto dell’VIII secolo e dove ebbe
l’ispirazione del Viaggio d’Odisseo, e Roma dove visse l’ultima parte
della sua vita, da poco prima della metà del VII secolo, chiamato a Roma da
Tullo Ostilio al tempo in cui Pyrgi era entrata nell’orbita di Cere. Morì nel terzo
quarto del VII secolo certamente onorato con un bel sepolcro dallo stesso re
Tullo o dal successore Anco Marcio. Non ci si chieda come mai di questo
sepolcro e di un culto del poeta non vi siano tracce. Se qualcosa rimane del
sepolcro non mancherà di essere riportato alla luce un giorno o l’altro.
Omero era ben noto e amato a corte ma poco noto e dunque amato in patria a
causa della sua poesia in lingua greca, incomprensibile alla stragrande maggioranza dei Romani. In Grecia Omero non andò mai e
nemmeno a Troia e in Asia Minore che aveva reso celebri con i suoi poemi. Se
Omero fosse greco e comunque avendo scritto in greco per i Greci di lui
dovrebbe essere attestata la tomba o un culto al poeta nazionale, cosa che
parimenti non è documentata.
Gli
dèi delle comunità coloniali greche in Anatolia sono Apollo (Eoli e Dori) e
Poseidone (Ioni) e questi corrispondono agli dèi dell’Etruria e di Roma.
Così Apollo (cioè il dio Sole, divinità dell’Asia e d’Egitto) è il dio
che scatena la peste nel campo acheo all’inizio dell’Ira d’Achille
ascoltando le preghiere del suo sacerdote Crise di cui Agamennone, il capo
della coalizione greca, ha fatto prigioniera la figlia Criseide (e allora
Achille sollecita l’interrogazione dell’indovino Calcante affinché
spieghi perché il dio è adirato con gli Achei e questo incolpa Agamennone,
da qui il litigio fra Achille ed Agamennone e la decisione di Agamennone di
restituire Criseide ma di rifarsi sulla schiava di Achille Briseide), è il
dio che guida la carica dei Troiani contro il vallo e le navi. Apollo, il dio
arciere, lo ritroveremo nella prova dell’arco nel libro XXI dell’Odissea.
Poseidone è il dio etrusco-romano per eccellenza, corrispondendo a
Proteo-Vertumno, il dio del santuario federale etrusco-romano che Romolo
inaugurò a Roma con una corsa di bighe o anche quadrighe (Omero conosce le
quadrighe) al quarto anno dalla fondazione (749 a. C.), quando questa divenne
con lui la principale città della dodecapoli etrusca. Al tempo del Viaggio d’Odisseo,
un secolo dopo la fondazione di Roma, Omero colloca a Scheria, nel territorio
di Tarquinia, la sede del santuario federale, anche qui incentrato sul
santuario di Poseidone (cf. Od. VI, 266). Il dio del mare per Omero è
Poseidone, mentre per la leggenda greca era Atena. Atena aveva affondato le
navi di molti greci di ritorno dalla guerra di Troia, Atena era irata con
Odisseo, e numerosi sono i passi dell’Odissea che ce lo ricordano (Ermete
all’inizio dell’ira d’Achille riporta a Calipso pari pari l’ordine
ricevuto da Zeus: « Dice dunque che un uomo c’è qui, su tutti infelice,
quanti eroi intorno alla rocca di Priamo lottarono nove anni, e al decimo
anno, distrutta la rocca, partirono verso la patria: ma nel ritorno offesero
Atena, che contro di loro scagliò mal vento e flutti giganti. Poi tutti gli
altri perirono, i suoi forti compagni; lui il vento e l’onda, spingendolo,
gettarono qui. Questo Zeus ti comanda di far partire al più presto » Od. V,
105ss). Omero le sostituisce la più poetica figura di Poseidone e al
contempo fa una gentilezza ai
Greci, cui i poemi sono indirizzati, non offuscando la figura di Atena, loro
tipica divinità. La dea protettrice del Viaggio d’Odisseo non è Atena,
bensì il numen loci Ino Leucothea-Ilitia iperborea e dunque celtica di Pyrgi
(questa componente celto-germanico-pelasgica che richiama la teoria dell’origine
nordica, danubiana, pelasgica,
sia egea che palestinese degli
Etruschi si può spiegare unitariamente attribuendola al movimento semitico e
contemporaneamente indeuropeo degli Hyksos e dei suoi strascichi; vedi anche
La vera storia di Romolo, sul mio sito). Omero introduce Atena per la prima
volta nella Telemachia e nella seconda parte dell’Odissea, quando essa
emerge come numen loci di Itaca
greca. E’ adesso che Omero deve spiegare come mai Atena, la protettrice di
Odisseo, sia stata assente durante le sue peripezie al ritorno dalla guerra di
Troia e lo giustifica col fatto che questa temeva di offendere suo zio
Poseidone (Od. VI, 328ss; XIII, 339ss). Però
nell’Odissea troviamo anche Atena che parla male dei Feaci (ad es. all’inizio
del libro VII) e spinge Odisseo a
diffidare proprio di coloro che
lo hanno aiutato veramente e disinteressatamente (mentre lei era assente
quando doveva da solo affrontare Ciconi, Lotofagi, Polifemo, Lestrigoni,
Circe, Sirene, Scilla e Cariddi!). Evidentemente qui non è Omero che scrive
ma un omerida (un versificatore da quattro soldi) agli ordini di Pisistrato
tiranno d’Atene (VI sec. a. C.) che utilizzò propagandisticamente l’Iliade
e l’Odissea per celebrare la sua occupazione di Sigeo sull’Ellesponto, l’organizzazione
delle grandi Dionisiache (da qui possibilmente l’accenno al culto di
Dionisio), la maggiore solennità data alle grandi Panatenee, e più in
generale per esaltare la sua politica e l’orgoglio ateniese. Operazione più
impossibile che spudorata, in quanto il suo eroe Eracle tebano, è trattato da
Omero nell’Odissea come ladro di bestiame e assassino dell’ospite sacro,
mentre gli Ateniesi nell’Iliade sono accusati di codardia e gli Ioni sono
detti ‘dalla tunica strascicante’. Analogamente nell’Ira d’Achille
Omero ha ragionevolmente privilegiato il
valore greco su quello troiano (allo scopo di interessare i mercanti greci cui
l’opera era indirizzata), mentre tutti
gli eccessi che fanno esageratamente
grandi i Greci e esageratamente sviliti i
Troiani devono essere attribuiti in primo luogo alle interpolazioni di un
omerida argolide (del VII sec. a.
C.) al soldo di Fidone d’Argo, che dominando su tutta l’Argolide ne fece
lo stato più potente del Peloponneso e per qualche tempo ebbe la
soprintendenza dei giochi olimpici. In più abbiamo delle interpolazioni
pisistratidi ad esempio dove leggiamo che Ettore « era ancora là,
dove prima balzò dentro la porta e il muro, dense file di Danai armati di
scudo spezzando; là c’erano le navi d’Aiace e Protesìlao, in secco sulla
spiaggia del mare canuto, e di fronte il muro fu costruito bassissimo; là
soprattutto eran violenti in battaglia essi e i cavalli. Ma allora Beoti e
Ioni dalle tuniche lunghe, e Locri e Ftii ed Epei luminosi, a stento lo
trattenevano dal balzar sulle navi; e non riuscivano a scacciare Ettore
glorioso, simile a fiamma, neppure gli scelti Ateniesi » (Il. XIII,
679ss; la falange oplitica è del tempo di Omero ed è attestata anche e prima
di tutto nel libro XVI, 211ss
dell’Ira d’Achille: « Come con pietre fitte rinsalda un uomo il muro
dell’alta casa, per difendersi dalla violenza del vento, così s’infittirono
gli elmi e gli scudi convessi; scudo a scudo si strinse, elmo a elmo,
uomo a uomo; s’urtavano gli elmi chiomati coi cimieri lucenti al loro
chinarsi, tanto densi fra loro si strinsero »). Poseidone è dalla parte
degli Achei nell’Iliade (dunque grazie alle manipolazioni dell’omerida
argolide) mentre è proprio lui, nell’opera omerica, l’Ira d’Achille, a
salvare Enea, l’antenato (secondo la
tradizione accolta dai Greci) dei
Romani, da sicura morte nello scontro con Achille.
2
– Una delle prime rappresentazioni dell’accecamento di Polifemo su un lato
del cratere di Aristonothos, da Cere (secondo quarto del VII sec. a. C.)
mentre sull’altro lato compare la scena di battaglia navale (sopra) fra una
nave cerite (a destra) ed una di
pirati euboici.
Dobbiamo
immaginarci un rapido e dilagante successo dei poemi omerici che venivano
declamati in tutto il mondo ellenofono, anche italico,
per singole unità di recitazione o canti, ciascuno dei quali poteva
essere agevolmente recitato da un differente attore o autore-attore. E’
probabile che si preferisse portare in scena solo pochi canti, i più
significativi, per celebrare questo o quell’avvenimento, o i più graditi al
pubblico, e così è possibile che molta parte dei poemi sarebbe andata
perduta se non fosse intervenuta
l’interessata redazione di Pisistrato (tiranno
d’Atene dal 561 al 527 a. C.) «
che, si dice, dispose per la prima volta i libri di Omero, per l’innanzi
confusi, nel modo come ora li abbiamo » (Cicerone, De oratore III 34, 137).
Se si guarda a Era, che è disposta a dare Argo, Sparta e Micene in cambio di
Troia (Il. IV, 51ss), si può pensare anche ad una funzione antispartana, e
antiromana, dell’Iliade pisistratide come viceversa l’Ira d’Achille
avrebbe potuto al limite celebrare con funzione antiateniese un
asse Roma-Sparta – il legame per via matrimoniale fra Paride
troiano-romano e Elena spartana – le due città militariste del tempo. Fu
con Fidone d’Argo e con
Pisistrato d’Atene che il poema nato per celebrare Roma signora del mondo
divenne il poema nazionale greco. L’Odissea invece s’è salvata da
manipolazioni nazionalistiche ed è rimasta più vicina al nostro patrimonio
culturale. L’interesse degli Ioni per i poemi omerici grazie ai loro
intensi rapporti di VI secolo con l’Etruria fu anteriore e indipendente da
quello di Pisistrato d’Atene. Omero scrisse lontano dalla Grecia ma per i
Greci, cosicché i suoi poemi furono subito
noti in Grecia, al contrario di tutto ciò che riguardava lui, Omero.
I Greci fecero di tutto per mantenere nell’ombra l’origine
tirrenica di Omero per raggiungere l’effetto che noi tutti conosciamo, la
credenza di un Omero i cui natali sono contesi da più città greche,
soprattutto d’Asia, padre della nazione, girovago per tutta la Grecia come a
benedirla, mentre egli era soprattutto un etrusco orgoglioso celebratore della
civiltà tirrenica, un poeta ricercato e conteso dalle più ricche corti del
mondo civile di allora, quelle di Demarato tarquiniate
e Tullo Ostilio romano. Certo in una terra dove si cantava
latino e non greco, e dove soprattutto si pensava alla guerra e non
certo al canto, di Omero perfino
il ricordo doveva sparire assai
presto (in Etruria il ricordo sparì con la sottomissione di questo grande
paese a Roma e con la perdita del patrimonio letterario e della conoscenza
stessa della lingua etrusca), mentre nella Ionia d’Asia, in intensi rapporti
culturali ed economici con l’Etruria già dal VII secolo, fiorirono le
leggende sulla sua vita e le scuole degli Omeridi, i cantori omerici di Chio e
Smirne. Di autenticamente greco nei poemi omerici c’è praticamente solo la
lingua, che poi fondamentalmente è o era il dialetto cipriota (arcado-cipriota).
A noi i poemi sono giunti nella versione fortemente influenzata dal dialetto
ionico-attico degli Omeridi di Chio e Smirne. Omero è il padre di tante cose
che sarebbe più facile definirlo negativamente per ciò di cui non è padre.
Certamente è anche il fondatore della filosofia greca e in particolare della
scuola di Mileto. Il Viaggio d’Odisseo è il poema del mare in cui è
protagonista un mercante etrusco (ciò trapela anche quando poi
protagonista è diventato, con lo stesso Omero,
Odisseo il pirata) perché gli Etruschi, a differenza dei Romani, erano
un popolo pacifico che pensava ad arricchirsi col genio dell’arte
manifatturiera e col commercio: « qui, un uomo senza sonno prenderebbe due
paghe, una pascendo bovi, l’altra pecore bianche menando; perché son vicini
i sentieri della notte e del giorno » (Od. X, 84ss). Le esperienze
geografiche etrusche raggiunsero la Ionia e Mileto anche attraverso i poemi
omerici e così Omero si può e si deve definire come il caposcuola (un secolo
prima) della scuola filosofica di Mileto. Per Omero Poseidone è il dio del
mare della talassocrazia etrusco-rasennia e Poseidone corrisponde a
Oceano, consorte di Teti, la coppia primordiale secondo quelle che
erano del resto le concezioni delle religioni orientali (egizia ed
assiro-babilonese) la cui cultura affondava nella notte del sorgere dell’umana
civiltà. Come per Talete anche per Omero tutto è fatto d’acqua. Omero, che
non crede agli dèi, e nemmeno ad un dio,
sa bene che sono fenomeni
naturali concreti quelli che riveste di poesia. Che Zeus mandi il temporale
tutte le volte che è scontento delle male azioni degli uomini potrebbe essere
segno di credenza nell’esistenza di un dio, ma Omero ci dice che solo in
autunno (quando è ovvio che piova, naturalisticamente) Zeus è scontento
delle male azioni degli uomini, è come dire che Zeus non esiste: « E come
dalla tempesta tutta la terra nera è gravata in un giorno d’autunno, in cui
pioggia violenta rovescia Zeus, se adirato con gli umani imperversa perché
con prepotenza contorte sentenze sentenziano, e scacciano la giustizia, non
curano l’occhio dei numi; ed ecco i loro fiumi si riempiono tutti,
scorrendo, e molte pendici i torrenti dilavano, gemono forte, correndo verso
il livido mare a capofitto dai monti; devastano le fatiche degli uomini; così
le cavalle troiane gemevano forte correndo » (Il. XVI, 384ss). Solo un
etruscologo può comprendere quale sorpresa sia Omero in quanto etrusco. E che
responsabile del razionalismo omerico possa essere stato il padre cipriota e
dunque greco potrebbe essere una falsa, assai falsa pista.
Se
aver inquadrato Omero nella sua civiltà d’appartenenza, quella
siro-cipriota e etrusca del secondo quarto del VII secolo, nei luoghi dove
compose e cantò è importante e fondamentale, con questa
introduzione voglio privilegiare la poesia omerica rispetto alla storia
e dunque come fine ultimo intendo trasmettere la mia passione per i due primi
e a mio giudizio massimi capolavori della letteratura occidentale e mondiale,
e lo stesso piacere che io traggo, ogni volta di più, dalla loro lettura. Chi può impari a leggerli dal greco. In
ogni caso la traduzione a fronte
di Rosa Calzecchi Onesti (Einaudi) è quasi letterale e soprattutto molto
poetica e da me adottata in
questo lavoro. L’unico appunto che mi sento di fare a questa traduttrice è
il non aver rispettato sistematicamente la traduzione in certi casi (e appunto
perciò ho provveduto a correggerla nei brani riportati), come scrivere Danai
quando c’è Achei (va meno bene Achivi) e viceversa; o Teucri (che non c’è
mai) invece del corretto Troiani, e così via.
Chi
ha scritto l’Odissea ha anche scritto l’Ira d’Achille con la stessa
tecnica, con la stessa impostazione di
fondo. Le modifiche (il vero problema è costituito dall’Iliade) sono
intervenute in un tempo successivo a Omero. Il linguaggio epico (che non è
greco ma semmai greco orientale, cipriota, non si dimentichi mai) non sarà
certo stato inventato da Omero ma Omero l’ha portato alla perfezione, ad un
livello tale che non si ritenne di far sopravvivere la produzione in greco
precedente, assai scadente al confronto. Ciò vale anche per la poesia ebraica
che è la più vicina cui si possa far riferimento (indiretto, cercando di
immaginarla alla luce dell’Antico Testamento) e che se anche fosse
sopravvissuta non avrebbe retto il confronto con quella di Omero. La
poesia omerica è composta
da versi ciascuno dei quali è composto da strutture più
piccole che chiamo moduli. Con questi moduli che descrivono (con variabilità
di sinonimi e d’espressione) nel modo più sintetico possibile i differenti
elementi del mondo poetico, Omero
può comporre qualsiasi cosa. Sottolineo che tutta la poesia omerica è fatta
così, anche se un determinato modulo e un determinato verso omerico può
comparire anche solo una volta in entrambi i poemi. (Proprio ciò distingue
soprattutto nell’Ira d’Achille la poesia omerica da quella dei suoi
imitatori e interpolatori, che fanno assolutamente della prosa e cattiva,
anche quando inseriscono, ovviamente male, moduli o versi omerici) E’ sempre
un modulo, un verso che racchiude un concetto nel miglior modo possibile ed è
dunque suscettibile di essere ripreso in altro passo del poema. Tutta la
poesia omerica è costituita da moduli e quelli più ripetuti non sono nemmeno
i più belli (le concave navi; Achille piede veloce; sul dorso ampio
del mare, sul mare colore del vino; navigavano sentieri d’acqua; la terra
dono di biade, ecc.), costituenti la minima unità poetica, componibili
con altri moduli o semplicemente ampliati da parole non costituenti unità
poetica, che in tal modo compongono un verso (Ma quando, figlia di luce,
brillò l’Aurora dita rosate; poi
quando la voglia di vino e di cibo cacciarono; calò il sole, tutte le vie s’oscuravano;
Tutta la notte corse la nave e all’alba compiva il cammino, ecc.),
mentre più versi sono componibili a formare un insieme coordinato
(« Tutto quel giorno, fino al calare del sole, / sedemmo a goderci
carni infinite e buon vino. / Come il sole andò sotto e venne la tenebra, /
allora dormimmo sul frangente del mare », « Subito quelli salivano e sui
banchi sedevano, / e in fila seduti battevano il mare schiumoso coi remi »,
ecc.). Voglio sottolineare che Omero è capace di esprimere questi stessi
concetti con moduli e versi totalmente differenti o anche solo con variazione
sul tema degli stessi. Ripeto che moduli e versi che compaiono poche o una
sola volta potrebbero essere suscettibili di un impiego maggiore in altre
circostanze. Sono tutti della medesima efficacia e sintesi espressiva. Si può
affermare che Omero riesce sempre e in qualsiasi circostanza ad esprimersi
poeticamente con la sapiente miscela di quelli che sono sempre moduli e versi,
infinitamente variati, di straordinaria efficacia poetica. E’ come se avesse
a disposizione un sofisticatissimo gioco
ad incastro costituito da pezzi di diversa forma e colore, e questi pezzi non
fossero determinati nel numero, nella forma e nel colore ma Omero riuscisse a
crearne in continuazione sempre diversi ed originali eppur sempre mattoni
essenziali di una costruzione unica ed inimitabile.
Se
a volte la fraseologia omerica stanca perché troppo ripetitiva si rifletta se
per caso ciò non dipenda dall’abuso che ne hanno fatto i continuatori e
interpolatori d’Omero, in particolare l’omerida al servizio di Fidone d’Argo.
Omero dosa sempre sapientemente la sua fraseologia mantenendosi nei limiti del
buon gusto. Il problema comunque non si pone tanto per l’Odissea, opera
compiuta, praticamente totalmente omerica, quanto per l’Iliade, che è stata
manomessa nel tempo e che contiene ampi brani non omerici. Pur riconoscendo
che l’Iliade è un poema di più difficile realizzazione e contiene dei bei
momenti di poesia sublime, tuttavia preferisco l’Odissea con cui Omero
raggiunge la vetta della sua arte. La similitudine in Omero fa la sua prima
timida comparsa nel Viaggio d’Odisseo (e non colpisce il lettore neppure
nell’Odissea, dove si fonde così bene col testo da passare inosservata) e
raggiunge l’apice nell’Iliade, di cui è parte integrante, ad opera dell’omerida
argolico, confermandoci l’ordine in cui vennero composti i poemi, prima il
Viaggio d’Odisseo, poi l’Ira d’Achille, l’Odissea, l’Iliade. Ancora
una volta la realtà è diversa da quanto sostenuto dagli accademici.
Entrambi
i poemi si svolgono in tre parti cruciali. Nel
libro VII dell’Odissea Odisseo si presenta alla corte di Alcinoo re
dei Feaci chiedendo di essere riaccompagnato a Itaca; nel libro XVI
si fa riconoscere dal figlio Telemaco
con cui prepara la vendetta sui pretendenti e nel libro XXIII si
ricongiunge con Penelope. Nel
libro VIII dell’Iliade Zeus
decide di dar la vittoria ai Troiani per compiacere Teti madre di Achille
offeso da Agamennone, nel libro XVI muore Patroclo da cui deriva il rientro in
battaglia di Achille e la morte di Ettore, con la
riconsegna del cui cadavere a Priamo si chiude il poema al libro XXIV.
Forse Omero aveva in mente
qualcosa sull’ampliamento dell’Iliade affinché raggiungesse le dimensioni dell’Odissea
ma è certo che l’omerida
argolico, da grande conoscitore
dell’Odissea, ne attuò la tripartizione anche nell’Iliade.
Secondo
l’opinione unanime di antichi e moderni Omero è il maestro dei Greci, e
questo era infatti il principale
compito che Omero (e i suoi committenti con lui) s’era prefisso, educare i
Greci, o meglio, tutti coloro che parlavano o comprendevano il greco, e
tramite essi tutti i popoli del mondo di allora: con il Viaggio d’Odisseo (e
poi l’Odissea) a cessare la pirateria marittima (particolarmente contro le
coste tirreniche) e osservare le norme del buon commercio, con l’Ira d’Achille
(l’Iliade – a riprova che i
Greci non hanno capito Omero – con
la sua violenza gratuita e barbarica mortifica gli intenti omerici) a seguire
le norme della cavalleria e combattere le guerre secondo norme di giustizia
che avrebbero dovuto costituire il patrimonio comune dell’umanità civile.
Più in generale Omero insegnava il galateo, le norme di civile convivenza, la
fratellanza fra gli uomini senza distinzione di razza, religione, ceto
sociale, e ciò mettendo per scritto assai prima e meglio della civiltà
giudeo-cristiana: « L’ospite, il supplice, è come un fratello per l’uomo
che abbia anche solo un poco di senno », dice Alcinoo, capo della lega
etrusca con sede Tarquinia-Pyrgi a Odisseo nel libro VIII dell’Odissea:«
Dodici re gloriosissimi fra il popolo nostro governan sovrani, e io
tredicesimo » Od. VIII, 390-391). Tarquinia secondo le fonti (Verrio
Flacco, Strabone, Licofrone, ecc.) fu la più antica città etrusca, e
città-madre delle altre undici della lega dell’Etruria propria, fondata da
Tarconte. Qui fu fondata l’aruspicina da Tagete, in rapporto con Tarconte.
Tarconte è troppo affine a Tarkhund/ta ittito-siriano (assimilabile a Zeus
folgoratore, il dio dei Feaci) per poterne ignorare l’origine alto-siriana.
Qui furono tenacemente conservate le tradizioni del rituale etrusco.
In
una parola, Omero ha insegnato a tutti la
civiltà. Ma l’occidente non ha recepito immediatamente Omero. Sono prevalsi
gli insegnamenti giudeo-cristiani da Esiodo in poi, fino alla Rivoluzione
Francese, da cui data la civiltà occidentale e mondiale attuale. Da allora
Omero è amato e studiato con sempre maggiore interesse. Per quel che mi
riguarda, in quanto etrusco, sono
orgoglioso di aver riguadagnato alla mia nazione il massimo poeta mondiale.
Il
Viaggio d’Odisseo, il poema divino dell’aristocratica
Tarquinia
‘Signora del Mare’
L’Odissea,
il poema di Odisseo, in latino Ulisse, racconta il ritorno del più importante
eroe greco a Troia, quello che con l’inganno del cavallo di legno –
nella cui pancia s’era nascosto coi più valorosi
guerrieri achei – riuscì
a penetrare nelle mura imprendibili di Troia, a spalancarne le porte all’esercito
acheo che la saccheggiò e incendiò ponendo fine alla guerra decennale.
Conclusa la guerra di Troia gli Achei riprendono
la via del ritorno a casa sulle loro navi cariche di schiavi e oggetti
preziosi. L’ultimo a tornare in patria è Odisseo, che dopo due anni di
peregrinazioni finisce naufrago nell’isola Ogigia (Sardegna) dove rimane
sette anni, fino a che Zeus e gli altri dèi ne decidono il ritorno. Su una
zattera riprende il mare e naufraga per volere di Poseidone che l’ha in odio
perché ha accecato l’unico occhio a suo figlio Polifemo. Si risveglia nella
Scheria dei Feaci (Etruria) che lo riportano a Itaca. Qui i più influenti
principi del regno d’Odisseo, in coincidenza con la dichiarabilità di morte
presunta del re, da tre anni dissipano i beni di Odisseo e tengono
sotto sequestro la regina Penelope chiedendo che sposi uno di loro
trasmettendogli il regno. Questa li
ha ingannati ritardando le nozze col pretesto di tessere il sudario per il re
Laerte, ma adesso è messa alle strette e deve decidersi. Odisseo, ormai a
Itaca, fingendosi un mendicante, si presenta prima al porcile del fedele
Eumeo, dove si fa riconoscere da Telemaco che era andato a Pilo e
Sparta per cercare notizie di suo padre, quindi prepara la strage dei
pretendenti, alla latina Proci. Penelope intanto riceve da tutti i pretendenti
i doni per le nozze, ma evidentemente questi non sono tali da indurla a
scegliere fra loro il suo sposo. Così decide la prova dell’arco di Odisseo.
I pretendenti falliscono la prova e ritengono che ciò sia dovuto al fatto che
quel giorno era dedicato alla festa di Apollo arciere, per cui
rimandano la prova al giorno successivo. Odisseo con la scusa di voler
verificare se ancora le forze gli consentono di tendere l’arco riesce ad
averlo in mano. Vince la prova facendo passare la freccia attraverso l’anello
di dodici scuri e uccide i
pretendenti con l’aiuto di Telemaco, del porcaro Eumeo e del bovaro Filezio.
Si fa poi riconoscere da Penelope grazie alla conoscenza del segreto che
circondava la costruzione del loro letto nuziale.
L’Odissea
è chiaramente ispirata alla vera storia di Romolo (vedi sul mio sito),
principe ereditario di Laurolavinio che, nato e vissuto in clandestinità nei
boschi del Palatino con sua madre Lavinia/Rea Silvia e suo padre Tirreno,
principe etrusco nascosto sotto la falsa identità
di Faustolo il porcaro,
una volta divenuto maggiorenne diede con
questo e gli altri esuli l’assalto al palazzo di Lavinio, cacciando e
uccidendo gli usurpatori stranieri che si rifugiarono ad Alba Longa e laggiù
crearono la falsa tradizione dell’origine di Roma da Alba Longa. Anche
Odisseo si nascose presso il fedele porcaro Eumeo prima di uscire allo
scoperto uccidendo tutti gli usurpatori.
Omero
può aver concepito l’Odissea interamente, ma l’ha realizzata
in due tempi. Scrisse il Viaggio
d’Odisseo, di 4000 versi ca., su commissione del ricco mercante corinzio
Demarato della famiglia dei Bacchiadi di Corinto,
stabilitosi a Tarquinia, con cui commerciava,
dopo l’instaurazione della tirannide di Cipselo, nel 657 a. C. (ma
probabilmente Demarato dev’essersi stabilito a Tarquinia abbastanza prima di
questa data) e fra i responsabili del decollo manifatturiero e commerciale
della antica città-stato attraverso il suo porto di Pyrgi. Il mecenate
Demarato si autocelebra dietro al
personaggio di re Alcinoo, e celebra suo figlio Lucumone, ovvero, Tarquinio
Prisco, quinto re di Roma (Dion.
Hal. III, 46ss), dietro all’amato figlio di Alcinoo Laodamante. Si trattava
di celebrare l’inaugurazione del santuario-banca di Ino Leucothea-Ilitia
iperborea e celtica a Pyrgi con un poema di levatura internazionale e
di celebrare la
civiltà della ricca Signora dei Mari, Tarquinia, che s’era data un
cerimoniale (le cerimonie sono gli
‘ammaestramenti di Cere’, i rituali) di corte e
un codice di deontologia del mercante – che metteva ovviamente al bando la pirateria (che un tempo era stata anche degli
Etruschi, o meglio dei Protoetruschi, mentre ora era dei Greci, che violavano
gli spazi commerciali tirreni) –
da cui derivava a sua volta un
codice umano e morale (vedi Appendice - 2) che andava
al di là della carità nei confronti del prossimo in difficoltà anche
solo momentanea, fino a proclamare la fratellanza umana assai prima e meglio
di quanto non sia stato lasciato scritto dalla civiltà giudeo-cristiana.
Le
Argonautiche di Apollonio Rodio, pur collocando la capitale di Scheria a Corfù (nella fase di sistematica
distruzione dei legami fra i cicli epici etruschi e l’Etruria), vi associano
la famiglia dei Bacchiadi (IV, 1206ss). Proprio partendo dalle tradizioni di
Efira/Corinto Omero ha individuato il protagonista, il furbo Odisseo, tanto
furbo da andare all’Inferno e farvi ritorno, figlio (per alcune tradizioni
unico, come tutti i discendenti di Laerte, per altre no, perché il porcaro
Eumeo era stato allevato da
Anticlea insieme alla figlia
Ctimène « che ultima partorì tra i suoi figli » Od. XV, 564)
del furbo dei furbi Sisifo (Laerte è un’invenzione posticcia), anch’egli
fuggito dall’Ade. Una volta pensato ad Odisseo corinzio era facile riandare
ai pirati del continente (Epiro) e delle isole ionie, Tesproti e Tafi, che
tagliavano la strada del golfo di Corinto taglieggiando i mercanti che
commerciavano con l’Etruria e l’occidente, e dunque collocare
fittiziamente Odisseo a Itaca. Come si può immaginare la pacifica e defilata
civiltà divina dei Feaci in un ambiente così degradato, dove sul continente
(Epiro) vive un re crudele di nome Echeto che ama amputare tutte le sporgenze
alle sue vittime e cui i Proci minacciano di portare Odisseo e Iro?
Secondo Omero già Nausitoo, padre di Alcinoo, avrebbe prestabilito l’impianto
urbanistico dello scalo di Pyrgi: « di mura circondò la città, fabbricò
case, e fece templi ai numi e divise le terre » (Od. VI, 9-10; che la
città portuale sia descritta da Omero
nella sua fase di passaggio dal villanoviano all’orientalizzante è evidente
da quanto appare a Odisseo: « le lunghe mura, eccelse, munite di
palizzata, meraviglia a vederle » Od. VII, 44-45; il porto etrusco di
Pyrgi è realizzato all’interno di un canale che lo collega col mare, canale
realizzato nell’alveo del fiume cui Odisseo, entrato nelle sue acque, si
rivolge pregandolo di portarlo in salvo, Od. V, 441ss), mentre una
generazione dopo, intorno al 680 a. C. il personaggio che si nasconde dietro
ad Alcinoo inaugurò il santuario di Ino Leucotea (ai margini dell’abitato)
e una via Tarquinia-Pyrgi (analoga a quella che alla metà del secolo unirà
Cere-Pyrgi, larga m. 10,80 e percorribile nei due sensi di marcia)
percorsa sul “ carro alto, buone ruote, munito di sponde,
tirato da mule ” da Nausicaa e a piedi dallo stesso Odisseo. Ed è
certo al momento della sistemazione del porto e
della via Tarquinia-Pyrgi che fu realizzato il primo impianto del
santuario di Leucothea. Il Viaggio
d’Odisseo, composto in onore della dea Ino Leucothea, fu cantato da Omero
verso il 680 a. C. nella spianata del santuario pirgense. Qui gli archeologi
hanno riportato alla luce due santuari dedicati alla dea, il più antico dei
quali risale al 500 a. C. ca. ed è affiancato da un edificio di venti
cellette che, almeno in origine, può essere stato un thesauròs (deposito di
valori) con decorazione acroteriale raffigurante emblemi che in direzione (N)E
– (S)O procedevano dal Sole alla Notte, da oriente a occidente, quasi un
invito da cartellonistica pubblicitaria (un secolo e mezzo dopo il Viaggio d’Odisseo)
ad investire in occidente rivolto ai mercanti orientali.
Intorno
al 680 a. C. i corinzi di Tarquinia tolgono
agli euboici di Ischia il monopolio dei mercati etruschi con l’oriente,
provocandone il risentimento e atti
di pirateria in ritorsione di cui abbiamo una eco nel celebre vaso del secondo
quarto del VII sec. a. C. ca. da
Cere, con battaglia navale, del ceramografo Aristonothos, e
anche nei poemi omerici, dove l’ultimo
assalto di Poseidone a Odisseo davanti alle acque di Pyrgi parte dal santuario
di Ege in Eubea dove fa ritorno subito dopo (Od. V, 365-381) o dove si
rammentano attriti di lunga data con gli Euboici, risalenti a quando Radamanto
con una nave dei Feaci orientali si recò in Eubea a catturarvi il gigante
Tizio che aveva offeso
Latona madre del Sole e dunque del re Radamanto (Od.
VII, 321-324; XI, 576-581), che in realtà –
vedi l’Apoteosi di Radamanto, sul mio sito –
è un faraone della XVII dinastia tebana, Seqenenra Ta’o II. Di
queste battaglie navali (e Omero fu certo anche un uomo di mare – forse
perché pur di famiglia nobile per parte di madre dové cercare fortuna come
tutti i figli cadetti – e nei suoi poemi sono molteplici le similitudini
legate alla vita di mare e ai viaggi: « la dea Era braccio bianco… mosse
dalle cime dell’Ida verso l’Olimpo vasto. Come quando si slancia la mente
d’un uomo, che molta terra percorse, e pensa nei suoi pensieri sottili “
qui sono stato e qui! ” e molte cose ricorda, così velocemente volò
bramosa Era augusta » Il. XV, 78ss) è una eco nella stessa Iliade nello
scontro alle navi fra Ettore e Aiace Telamonio dell’omerico libro XV: «
marciava a gran passi pei banchi delle navi, brandiva in pugno una pertica
enorme, da lotta navale, di ventidue cubiti, fatta di pezzi uniti da anelli »
(676ss; vedi ancora i « lunghi pali: ce n’erano pronti sopra le
navi, armi navali ben commesse, vestite in cima di bronzo » Il. XV, 388-389).
Tarquinia è l’opulenta città mercantile del Tirreno per eccellenza,
signora dei traffici con l’oriente come più tardi Venezia sull’Adriatico.
La sua talassocrazia nel Mediterraneo (dal Nord-Europa
di cui era intermediaria dell’ambra e dello stagno all’estremo
oriente cipriota e siriano dove, ad Al Mina, giungevano i suoi metalli e in
particolare il ferro) nel secondo quarto del
VII secolo è confermata
dall’Odissea. Dunque Tarquinia, come a suo tempo Minosse signore dell’Egeo,
si propose di sconfiggere la pirateria (cui si aggiungeva ora quella euboica)
per rendere sicuri i commerci, e l’Odissea serve anche a questa propaganda
(rivolta ai pirati greci; tramontati gli Etruschi, obliato Omero, la storia
scritta dai Greci vincitori ha tramandato l’accusa di pirateria rivolta dai
Greci agli Etruschi, accusa inconsistente, dato che veniva lanciata dai Greci
mentre entravano a commerciare e poi anche a rapinare
nelle acque sotto influenza etrusca) rappresentando la civilizzazione
sui mari, come parallelamente l’Iliade
mirava alla civilizzazione sulla terraferma.
Con l’inaugurazione del santuario-banca di Ino Leucotea a Pyrgi intorno al 680 a. C., Tarquinia, a guida corinzia, entra direttamente nella gestione dei traffici mercantili con Cipro (cf. Od. I, 180ss) e l’oriente, prima monopolizzati dagli Eubei, che evidentemente non la presero bene (iniziando da questo momento una feroce concorrenza sfociante in azioni di pirateria), e nemmeno il vate di questa terra in declino, il pessimista e bigotto Esiodo (che, forse con la Teogonia, vinse un tripode nelle commemorazioni di un re di Calcide in Eubea), cui le Muse hanno parlato dicendo: « O pastori, cui la campagna è casa, mala genìa, solo ventre; noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare » (Teogonia, 26ss), in evidente polemica con Omero, il creativo pubblicitario al servizio delle grandi imprese politico-economiche. Omero non fa storia ma poesia e creazione fantastica seppur verisimile, mentre per il lontano mille miglia Esiodo la poesia deve avere ad oggetto la verità, la Teogonia, la celebrazione (che è anche del libro di Giobbe, il pessimista) del Moloch della religione, che annienta l’uomo più di quanto non lo faccia la difficile età presente del ferro. Anche Omero vive nell’età di Esiodo ma da ottimista che vive nella ricca e in continuo sviluppo Tarquinia fa leva sulle potenzialità umane e canta la libertà e il divino dell’uomo. Se perfino Odisseo, seppur tardi, è tornato a Itaca, una volontà forte consentirà a tutti di raggiungere lo scopo (nell’Ira d’Achille il messaggio è ancora positivo: Ettore è morto ma Achille è diventato un guerriero civile come Ettore; Troia è caduta, ma al suo posto sorgerà l’immortale Roma). Gli dèi contano quanto l’ombra che segue gli uomini; gli uomini attribuiscono loro le proprie debolezze e i propri fallimenti. Qui c’è il pensiero di Marx a proposito della religione.
3
- La coppia reale di Tarquinia
Alcinoo e Arete sarà stata più o meno simile ai due Sposi
dell’omonimo ‘Sarcofago’, un’urna
cineraria cerite della seconda metà del VI secolo al Museo di Villa
Giulia a Roma.
Il
Viaggio d’Odisseo viene ritenuto un’appendice dell’Odissea, un momento
di riposo nel piano generale del poema, mentre ne costituisce il nucleo
centrale. L’azione si concentra nei pochi giorni che Odisseo passa alla
corte di Alcinoo e Arete raccontando le sue peripezie da Troia a Scheria. Solo
successivamente Omero inserisce la Telemachia nello spazio costituito dai
dodici giorni in cui Poseidone, avversario del ritorno d’Odisseo, è assente
presso gli Etiopi che gli celebrano dei sacrifici. E’ possibile che questo
spazio non sia stato pensato apposta. Certo poi lo ritroveremo nell’Ira d’Achille
pari pari con la sostituzione di Zeus a Poseidone. Forse Omero immaginava di
inserire qualcosa in questo spazio (gli episodi attuali e antichi che
servivano a fare il riepilogo dei precedenti nove anni di guerra?)
analogamente a quello che aveva fatto nell’Odissea (tanto da portare
l’Ira d’Achille a 11000 versi come l’Odissea?). In ogni caso l’omerida
argolico che ha finito col diventare autore dell’Iliade trovò una soluzione
diversa e non ne fece uso.
Dalle
prime battute della Telemachia l’uditorio
viene a conoscenza della situazione di estremo disagio in cui versano Telemaco
e Penelope sia per l’assenza di Odisseo sia per i soprusi dei pretendenti al
matrimonio con Penelope, alla latina Proci; e poi
attraverso la narrazione fatta ai sovrani dei Feaci delle sue
disavventure da Odisseo, cosicché all’inizio del libro XIII l’uditorio s’è
compenetrato totalmente nella causa di Odisseo e può felicitarsi poi della
eliminazione dei Proci. Analogamente all’Ira d’Achille (dove abbiamo l’uccisione
di Ettore da parte di Achille finalmente tornato a combattere, dimessa l’ira),
l’uditorio è in continua e ansiosa attesa del protagonista e dell’azione
annunciata come principale, lo sterminio dei Proci, e questo è l’unico
legame fra due storie che
altrimenti, anche per la tecnica con cui sono narrate, di scorcio il Viaggio e
cronachisticamente le vicende a Itaca, rischierebbero di rimanere come due
parti separate che l’unicità
del protagonista non sarebbe sufficiente ad unire. L’Odissea è un poema
perfettamente riuscito, compiuto e praticamente tutto omerico. E’ anche
superiore all’Iliade per l’idea straordinaria che ne è all’origine di
un uomo che dall’al di là vien fatto tornare a casa sua per difendere
figlio e moglie da una masnada di stranieri invasori. L’idea come vedremo
rimane leggibile anche attraverso quello che è stato poi da Omero stesso
narrato come un ritorno normale. Attraverso la creazione del mito verisimile
(ma mai realmente avvenuto) del Viaggio d’Odisseo,
che era un racconto piacevole e
non un’opera storica, è chiaro, Omero si riprometteva di far risalire ad
età eroica la relazione di ospitalità fra Tarquiniati e Greci, quando già
Ino Leucothea aveva salvato Odisseo dal naufragio prima in forma di folaga poi
nelle vesti di Nausicaa figlia d’Alcinoo e Arete coppia reale di
Tarquinia-Pyrgi che lo avevano fatto ricondurre in patria da una nave feacia.
I mercanti greci erano così chiamati a commerciare con l’Etruria ponendo il
controvalore sotto la protezione del santuario-banca pirgense di Ino Leucothea,
di cui Odisseo aveva già sperimentato la protezione, come della casa regnante
tarquiniate che lo aveva ricondotto in patria più carico di ricchezze di
quante ne aveva prese a Troia e perdute in mare con nave e compagni. Da questo
punto di vista il nocciolo del Viaggio d’Odisseo è l’antica relazione di
ospitalità (xeinosúnēs proskēdéos): « Ma prima
il nome dirò, ché anche voi lo sappiate, e, finalmente sfuggito al giorno
fatale, io sia ospite (xeînos) vostro, pur abitando casa lontano » (Od.
IX, 16ss), cui si aggiunge l’offerta, assai discreta, di Alcinoo a
Odisseo di dargli in moglie Nausicaa con ricca dote qualora volesse rimanere
nella Scheria/Etruria. Alcinoo sa bene che Odisseo non può e non vuole
accettare perché la prima cosa che ha chiesto presentandosi a corte
(umiliandosi in mezzo alla polvere e alla cenere come Giobbe di fronte a
Jahvè, cf. Od. VII, 153-154; Giobbe 42,6) è stata di essere
riaccompagnato a Itaca dove c’è una moglie che lo aspetta da vent’anni.
Ma ciò che conta è il pensiero, in quanto i Tarquiniati d’età eroica
stabilirono con Odisseo un rapporto di ospitalità tanto forte da
corrispondere ad un legame di sangue per via matrimoniale. I
moderni non hanno compreso il nocciolo dell’Iliade e dell’Odissea. Per
quanto riguarda l’Odissea, il greco Zoilo di Anfipoli, il più celebre
detrattore d’Omero, addirittura si scandalizzava per il fatto che Alcinoo
offriva sua figlia Nausicaa al
primo straniero naufragato nudo su una spiaggia del suo regno. Poiché il
Viaggio d’Odisseo era scritto – e dunque doveva essere comprensibile –
per i Greci appare
strano che Zoilo non afferrasse un’idea così semplice come quella
dei legami di sangue stretti per via matrimoniale, messaggio ben noto
dalla decorazione fittile del palazzo del tiranno di Murlo (Siena), d’origine
siriana e risalente alla metà
del VII sec. a. C. La dea dell’amore e del matrimonio in Grecia era Afrodite
e avatara di Afrodite era Elena
– sposa di Paride troiano e
dunque antenato dei Romani – che nell’Odissea dona a Telemaco in visita a
Sparta un peplo da lei stessa
ricamato da donare alla sua sposa nel giorno delle nozze (XV, 125ss) e nell’Iliade
è definita dea dell’ « opere amabili delle nozze » (V, 429).
Il
Viaggio d’Odisseo era composto da circa 4000 versi e comprendeva, grosso
modo, i versi 1-79 del libro I
con la dea Ino Leucothea-Ilitia
iperborea (poi sostituita da Atena) che perorava il ritorno di Odisseo nel
concilio degli dèi in cui Zeus, approfittando dell’assenza di Poseidone (il
Signore della Terra, Potis + Da, che cinge
la terra, Od. IX, 528; III, 55, come Oceano,
principio dei mumi, Il. XIV,
ed è definito dallo stesso Zeus come il dio
più vecchio e più forte,
Od. XIII, 142; è il siriano
Dagan, dio dell’Occidente e del Paese Superiore), contrario perché Odisseo
aveva accecato l’unico occhio a suo figlio Polifemo, decideva il ritorno di
Odisseo e nel libro V, dal verso 28 in poi, inviava Ermete all’isola Ogigia
di Calipso con l’ordine di lasciarlo libero di tornare a Itaca (Ermete
ricordava secondo tradizione che Atena era la nemica del ritorno degli Achei e
di quello di Odisseo), la partenza di
Odisseo su una zattera e il suo naufragio a Pyrgi,
dove, libro VI, incontrava Nausicaa che lo guidava alla città dei
Feaci dove, libri VII e VIII, ospite di Alcinoo (a metà fra il dio del
Paradiso e il committente corinzio del Viaggio d’Odisseo) e Arete stabiliva
per la prima volta le relazioni di xenìa fra Greci ed Etruschi anticipando
quelle attuali intorno al
santuario-banca pirgense di Ino Leucotea e raccontava, libri IX-XII, le sue
disavventure marine (frutto di almeno due
tradizioni del viaggio del defunto agli Inferi fuse insieme: c’è la
duplicazione di Polifemo/Lestrigoni,
Calipso/Circe); seguiva, vv. 1-187 fino ad ‘altare’ del libro XIII, il suo
riaccompagno a Itaca con « quanta ricchezza da Troia mai Odisseo avrebbe
preso, se incolume fosse tornato, con la sua parte di preda » (V, 39-40, XIII, 137ss),
il compimento della profezia di Nausitoo (originario dell’alta Siria
e dunque della casta regale dei giganti guerrieri) padre di Alcinoo ed ecista
di Pyrgi, secondo cui Poseidone irato coi Feaci perché avevano ricondotto a
casa sano e salvo Odisseo, trasforma in scoglio la nave dei Feaci che ritorna
ed è già in vista di Pyrgi «
e poi coprirà la nostra città d’un gran monte. Così parlava il vecchio; e
questo il dio compirà o lascerà incompiuto, come piace al suo cuore » (Od.
VIII, 569ss), tutto ciò per rivelare il nome della città dei Feaci, «
il monte Perge dei Tirreni » dove sarebbe sepolto Odisseo (Licofrone,
Alexandra, 805; Licofrone, dalla lettura di Omero,
aveva ben chiara la relazione fra Odisseo e Pyrgi). Nausicaa dice che
la città è circondata da un muro (pýrgos) alto (Od. VI, 262; ed era questa
delle « lunghe mura, eccelse, munite di palizzata, meraviglia a
vederle », Od. VII, 44ss, una delle maggiori particolarità di Pyrgi
appunto, ‘le Mura’). La
Piccola Odissea terminava dunque con
le « suppliche al sire Poseidone » dei
« principi e i capi della città dei Feaci, ritti intorno all’altare »
dei vv. 185-187 del libro XIII. Scheria non è un’isola, è solo
isolata, come emerge dalle parole di Nausicaa: « Viviamo in disparte, nel
mare flutti infiniti, lontani… » (Od. VI, 204-205) « dai popoli industri
» (completa Omero, Od. VI, 8). M. Pallottino descrive analogamente l’Etruria
senza rendersene conto: L’Etruria
fiorisce « in un’area periferica rispetto ai grandi centri di sviluppo di
civiltà del Mediterraneo orientale » (Etruscologia, 1985, p. 29), o ancora,
« in una zona alquanto appartata dalle grandi rotte dei traffici marittimi
mediterranei » (Gli Etruschi, Edizione CDE spa, Milano su licenza RCS Libri
spa, 1998, p. 18).
L’Odissea,
per quanto unitaria, non è stata composta di getto così com’è da Omero,
ma in due momenti, e cioè dapprima il Viaggio d’Odisseo e poi il rimanente.
Ancora oggi il Proemio indica il
suo oggetto originario, e cioè il Viaggio
d’Odisseo: « L’uomo ricco d’astuzie raccontami, o Musa, che a lungo
errò dopo ch’ebbe distrutto la rocca sacra di Troia; di molti uomini le
città vide e conobbe la mente, molti dolori patì in cuore sul mare, lottando
per la sua vita e pel ritorno dei suoi. Ma non li salvò, benché tanto
volesse, per loro propria follìa si perdettero, pazzi! Che mangiarono i bovi
del Sole Iperìone, e il Sole distrusse il giorno del loro ritorno. Anche a
noi di’, da un punto qualsiasi, di queste avventure, o dea, figlia di
Zeus ». Nessun cenno alla
Telemachia né alla Vendetta sui pretendenti.
L’Odissea
omerica inizia con un’invocazione
alla Musa, ma è evidente dalla lettura del Viaggio
che la vera musa ispiratrice di Omero è Nausicaa
manifestazione della dea Ino
Leucotea/Ilitia del santuario di Pyrgi (Santa Severa), guida e protettrice del
Viaggio di Odisseo. La dea s’è dapprima materializzata sotto forma di
folaga che salva Odisseo dal
naufragio in vista del santuario, dandogli un magico velo salvagente. Il primo
essere umano che Odisseo, nudo, pieno di graffi e sporco di alghe e salsedine,
vede al suo risveglio è la giovane bella e spensierata Nausicaa, la
figlia di Alcinoo (figlio di Nausitoo, della casta dei
giganti re e guerrieri della Siria settentrionale ed ecista di Pyrgi)
re attuale di Tarquinia-Pyrgi (e al momento capo della lega etrusca,
che periodicamente si spostava nella sede dell’Etruria meridionale di cui
era originario il sacerdos – analogo al giudice israelita –
eletto: « Dodici re gloriosissimi fra il popolo nostro governan
sovrani, e io tredicesimo » Od. VIII, 390-391) che con le sue ancelle sul
‘carro alto, buone ruote, munito di sponde, tirato da mule’
percorrendo la via Tarquinia-Pyrgi, s’è
recata su suggerimento onirico del numen loci
Ino Leucothea (non Atena,
sostituitale in età pisistratide) ai lavatoi presso il fiume a lavare i
panni, con la speranza d’incontrare
marito, ovviamente greco. La più incantevole figura femminile di Omero è senza alcun
dubbio l’etrusca Nausicaa, in
cui il poeta vede la stessa incarnazione del numen loci Ino Leucothea che
Omero e Odisseo identificano con Artemide (che con Latona
è nutrice di Apollo/Dioniso e dunque identificabile
con Ilitia e Juno Lucina; la comune invocazione omerica, ad es.
Od. VII, 311, comprende tre divinità, Zeus, Atena, Apollo, che sono le tre
divinità greche corrispondenti a quelle del santuario pirgense, Tinia,
Uni/Astarte e, secondo le fonti, Apollo): « ella e le ancelle giocarono a
palla… e fra loro Nausicàa braccio bianco [leukòlenos, ciò che
richiama Leukothèa] il canto intonava. Come va per i monti Artemide
urlatrice… godendo di rapide cerve o cinghiali, con lei le ninfe, figlie di
Zeus egioco, abitatrici dei campi, scherzano; gode in cuore Letò… così tra
le ancelle si distingueva la giovane vergine » (Od. VI, 99ss); « Io mi t’inchino,
signora: sei dea o sei mortale? Se dea tu sei, di quelli che il cielo vasto
possiedono, Artemide, certo, la figlia del massimo Zeus, per bellezza e
grandezza e figura mi sembri… riverenza a guardarti mi vince. In Delo una
volta, così, presso l’ara d’Apollo, vidi levarsi un fusto nuovo di palma
» (VI, 149ss). Il Cantico dei Cantici (attribuito dalla tradizione a re
Salomone), la cui redazione attuale è del V o IV sec. a. C., ci offre un verso affine: « La tua statura rassomiglia a una
palma » (7,8). Al momento degli addii Nausicaa dice a Odisseo-Omero: «
Sii felice, straniero: tornato alla terra dei padri, non scordarti di me,
perché a me per prima devi la vita » (VIII, 461ss). Ciò potrebbe essere un omaggio alla figlia del suo sponsor,
la cui gloria, grazie all’opera
di Omero sarà « inestinguibile sopra la terra dono di biade » (VII,
332-333), ma è più probabile che di vera e propria salvezza della vita
si tratti, di resurrezione, se poi Odisseo nel giorno di Halloween torna sulla
terra fra i vivi a compiere la sua vendetta e a rivedere, foss’anche per l’ultima
volta, il figlio e la moglie. Odisseo le risponde come a dea: «
Nausicàa, figlia del magnanimo Alcìnoo, così faccia Zeus, lo sposo tonante
d’Era, ch’io arrivi a casa e veda il ritorno. E anche laggiù, come a un
dio, a te farò voti, sempre ogni giorno: tu m’hai salvato, fanciulla » (VIII,
464ss). Omero fa di Nausicaa, incarnazione
di Ino Leucothea, una ben
più credibile Musa ispiratrice di
quella probabilmente sostituitale in età postomerica.
L’Odissea,
il poema che s’ispirò alla vera storia di Romolo fondatore di Roma
Il
viaggio d’Odisseo nasce non come viaggio vero e proprio ma come viaggio nell’al
di là dopo la morte di Odisseo a Troia o da qualche parte durante il viaggio
di ritorno a casa. Il cavallo di legno è un’invenzione come tutta la guerra
di Troia. Lo stesso Dionisio d’Alicarnasso scrive: « Allorché Ilio fu
presa dagli Achei, sia con l’inganno del cavallo di legno, come narra Omero,
sia per il tradimento degli Antenoridi, sia anche per un’altra causa… »
(I, 46,1) Omero stesso ci dice chiaramente che il cavallo di legno non era
affatto indispensabile a Odisseo per entrare a Troia e spalancare nottetempo
le porte della città agli Achei: « Maltrattato se stesso con brutte
ferite, di vili stracci coperto le spalle, sembrando uno schiavo, nell’ampia
città dei nemici riuscì a penetrare, e un altro sembrava, ché aveva
nascosto se stesso; sembrava un mendico… io sola lo riconobbi [Elena], anche
così conciato, e l’interrogai molte volte: e con astuzia eludeva. Ma quando
io lo lavavo e l’ungevo con l’olio, e vesti gli posi addosso e giurai gran
giuramento, che non avrei scoperto ai Troiani Odisseo prima che fosse tornato
all’agili navi e alle tende, allora tutto il piano degli Achei mi narrò.
Poi, dopo ch’ebbe ucciso molti dei Teucri col bronzo affilato, tornò fra
gli Argivi e molte notizie portò
» (Od. IV, 244ss). Nel mondo dei morti e degli dèi Odisseo viene a
sapere che la madre s’è lasciata morire per il dolore, il padre, più del
dovuto invecchiato dalle pene s’è ritirato in campagna, la moglie e il
figlio subiscono giorno dopo giorno da quattro anni le angherie dei
pretendenti, in casa sua i suoi beni sono depredati,
la servitù angariata e stuprata, l’ospite e il supplice maltrattati.
I pretendenti sono verisimilmente i Dori
o i ‘popoli del mare’, non
certo i principi del regno di Odisseo, che si sarebbero preoccupati di
governare l’isola e non di depredarla, come afferma la stessa Penelope: «
pretendenti alteri, che su questa casa d’un uomo da tanto tempo lontano
piombate a mangiare e bere continuamente, e non poteste trovare nessun
pretesto di finte parole, ma solo perché mi fate la corte e mi volete sposare
» (XXI, 68ss). Noi troviamo Odisseo nell’isola di Ogigia (Sardegna),
regno della ninfa Calipso, sulla riva del mare a piangere e sospirare il
ritorno. Ma la preoccupazione vera e propria la troviamo espressa da Telemaco,
suo figlio (il che dimostra che la Telemachia si integra perfettamente, forse fin dall’inizio, nel progetto dell’Odissea) e dagli dèi
riuniti a concilio e in particolare dalla dea Atena che fa preciso riferimento
all’oppressione dei Proci. Esiste e ancor più esisteva nell’idea omerica
originaria un nesso di causalità fra i tormenti di Odisseo e soprattutto
di Telemaco e la decisione degli dèi di intervenire per consentire al
morto Odisseo di tornare sulla terra e liberare i familiari dall’oppressione
degli usurpatori. E’ in questo stato di fatto che dura da quattro anni che
Telemaco – che ormai più che
ventenne, comincia a rendersi conto della gravità delle circostanze ma è
ancor giovane e incapace di ribellarsi ai soprusi, circondato da nemici e da
qualche amico privo di autorità – è angosciato di non poter proteggere la madre, la casa e i
beni, e si trova in questo stato di intensa eccitazione emotiva prossima allo
svenimento da dolore intenso e dunque al sonno e alla morte, più esattamente
allo stato di trance, quando si
accorge della presenza di Atena: « La vide per primo Telemaco simile a un
dio; sedeva tra i pretendenti, crucciato nell’anima, sognando il nobile padre nel cuore, se
a un tratto venisse e liberasse da tutti i pretendenti la casa, e
riavesse il suo onore e sopra i suoi beni regnasse. Questo, seduto fra i
pretendenti, sognava; e vide Atena. Le mosse incontro… » Od. I, 113ss.
Rosa Calzecchi Onesti ha tradotto sognando e sognava e ciò
rende bene l’idea del desiderio, perché Telemaco non sta di certo dormendo,
estraniato dalla stupida baldoria che lo circonda, concentrato sul suo
dolore. Telemaco non ha i poteri straordinari di Odisseo e dei cani, che si
accorgono della presenza della dea Atena, Od. XVI, 159ss, il primo
perché è un morto reincarnato, e dunque partecipa dell’essenza
divina, i secondi perché hanno particolari poteri paranormali (non è stato
il cane Argo il solo ad accorgersi del ritorno
d’Odisseo, pur nelle vesti di vecchio mendicante? Od. XVII, 291ss,
mentre non lo riconosce, pulito e rimesso a nuovo, nemmeno sua moglie
Penelope?) E’ dunque sostenibile che Telemaco si accorge della dea Atena
solo perché il suo stato d’animo è fortemente alterato ed eccitato nello
stato più vicino allo svenimento e alla morte, laddove lo spirito, libero dai
vincoli della materia, può entrare in contatto con altri spiriti. E’ tale
la forza psicologica dell’angoscia di Telemaco da mettere in moto il Cielo
affinché Odisseo trattenuto nell’Altro Mondo (in quella
specie di purgatorio diretto da Calipso, dove Odisseo sconta la pena
per la sua attività di pirata che ha distrutto città e razziato tesori
perdendo alla fine tutto, come Giobbe, gli uomini su cui aveva la
responsabilità del comando e i tesori mal guadagnati, affondati a Scilla e
Cariddi, e naufragando ad Ogigia nudo come un verme), possa, attraverso il
paradiso della terra dei Feaci, ritornare in carne ed ossa per l’ultima
volta a Itaca e rendere giustizia
alla moglie e al figlio inermi, violentati per quattro anni da una cricca di
predoni. Così la sofferenza intensa di Telemaco coincide con la decisione
degli dèi di decidere il ritorno di Odisseo. Per intercessione di Atena nell’Odissea
(e di Ino Leucotea-Ilitia iperborea e dunque celtica nel nucleo più antico,
sempre omerico, del Viaggio d’Odisseo) Odisseo avrà la possibilità di
materializzarsi, al crepuscolo della magica
Halloween, a Itaca, per quel tanto che sarà necessario (cinque giorni, sono
stati calcolati dagli esperti di simili questioni) fino
all’eliminazione dei Proci e all’abbraccio con la sposa Penelope,
un attimo che forse (ed è qui l’attenuazione del poema triste, come nell’Iliade
la riconsegna del cadavere di Ettore da parte di un Achille che da belva umana
è diventato finalmente un uomo sensibile e civile come propugnato dalla
classe dirigente romana) viene fermato da Atena
nell’eternità.
Odisseo
su una zattera parte da Ogigia/Sardegna di Calipso. Ogigia e la Colchide di
Circe sono terre magiche (come il Paradiso di Scheria), abitate da
dee che cantano « con bella voce e percorrendo il telaio con spola
d’oro », o piuttosto suonano la
cetra? ed hanno come messaggeri gli uccelli, nel mondo celtico i cigni o, se
vogliamo, le oche che compaiono in sogno a Penelope, Od. XIX, 535ss,
imparentata con Elena, la dea nata dall’uovo di cigno. Ogigia è un
omphalòs (Od. I, 50), luogo particolarmente carico di potenziale e di energia
sacra, da cui si entra in contatto con i Campi Elisi. Omero l’ha immaginata
pensando al giardino dell’Eden con quattro fiumi, con l’albero della
scienza del bene e del male e quello dell’immortalità, dove vivono solo
Adamo ed Eva e ha creato un’isola Ogigia dal
paesaggio meraviglioso, con quattro fonti, dove vivono solo Odisseo e
Calipso, la dea che gli offre l’immortalità tema caro agli orientali fin da
Gilgameš (Od. V, 63ss). Siamo ovviamente a dicembre. Fa dunque freddo e nella
grotta di Calipso è acceso il fuoco. Il mare è livido e nebbioso. Sarà
capitato a molti di notare che quando un grande dolore ci serra la bocca dello
stomaco, anche il mondo esterno, foss’anche una splendida giornata di
primavera, ci appare triste e buio. La malinconia di Odisseo che vuole tornare
a Itaca ma non può che sognarla al di là del lontano orizzonte dalla riva
del mare è in perfetta sintonia con questa fredda giornata di dicembre che
appunto per questo ci appare ancora più fredda e triste, nonostante il
paesaggio sia bellissimo e perfino un dio frettoloso e olimpico come Ermete «
a venir qui… doveva incantarsi guardando, e godere nel cuore. Fermo, dunque,
ammirava il messaggero Argheifonte » (Od. V, 73ss).
Ma
quando Odisseo dopo diciotto giorni di navigazione ed ormai in vista della
Scheria, viene investito dalla tempesta
scagliatagli contro da Poseidone (che Omero ha sostituito alla poco poetica
Atena), allora dalla malinconia si passa alla tragedia e la morte per
annegamento incombe sul protagonista che per qualche giorno se la vede davvero
brutta, fino che prende terra miracolosamente alle foci del fiume di Pyrgi,
dopo aver superato l’ «
immane scogliera, in un luogo pauroso ».
Odisseo naufraga di notte e si sveglia di giorno sulla spiaggia di Pyrgi (Santa Severa) la città portuale della Scheria/Etruria e tramite Ino Leucothea che lo salva dall’acqua e poi la sua incarnazione Nausicaa viene portato di fronte a quelle divinità che si chiamano Alcinoo e Arete: « appena t’avranno accolto casa e cortile, traversa subito la grande sala e avvicinati alla madre: al focolare siede, nella luce del fuoco, girando il fuso purpureo, meraviglia a vederla, a una colonna appoggiata: dietro le ancelle siedono. Qui, accanto a lei, s’appoggia il trono del padre, che beve il vino seduto, e pare un nume immortale » (Od. VI, 303ss). In realtà i Feaci sono imparentati con gli dèi come i principi della casta dei giganti guerrieri siriani cui si devono i tumuli monumentali dell’orientalizzante etrusco di VIII-VII secolo ricchi di manufatti siro-ciprioti. Qui c’è tutta l’ideologia di origine alto-siriana degli dèi che seguono come ombre, stando poco al di sopra, i loro regali figli proteggendoli (e a volte perseguitandoli come l’occhio di Jahvè scruta Giobbe o Poseidone perseguita Odisseo) come le statue acroteriali dai tetti dei palazzi-santuario tipo quello di Murlo, arrivando a vivere solo di vita riflessa, la vita che si svolge sulla terra e che anima la corte olimpica, la cui vita altrimenti sarebbe altrettanto monotona del Paradiso cristiano. Gli dèi omerici in definitiva sono impotenti di fronte a tutto, di fronte al destino che sono incapaci di mutare e che li sovrasta, di uccidersi fra loro perché sono immortali e dunque le loro baruffe sono sempre ridicole e inutili. Secondo l’occidentale Omero (« Ah quante colpe fanno i mortali agli dèi! Da noi dicon essi che vengono i mali, ma invece pei loro folli delitti contro il dovuto han dolori » Od. I, 32ss) gli uomini attribuiscono agli dèi solo i propri errori e le proprie colpe, mentre quando agiscono bene imputano ciò solo a sé stessi. Se l’occidente avesse preso fin da subito le orme di Omero (greco-etrusco! E gli etruscologi possono comprendere meglio di tutti quale sorpresa sia Omero in quanto etrusco) e non quelle di Esiodo (greco) o Giobbe (ebraico), la nostra sarebbe oggi una civiltà estremamente più evoluta e civile. Ad Alcinoo e Arete Odisseo racconta il suo viaggio di ritorno da Troia ad Ogigia. Odisseo ha incontrato nel Mediterraneo orientale popoli antropofagi come Polifemo (che non appartiene in realtà alla casta dei Ciclopi artigiani e metallurgi siriani, anche se dobbiamo situarlo in Siria, bensì a quella dei Centimani agricoltori e allevatori) ingannato dall’astuzia compresa in quel « Nessuno è il mio nome » e i Lestrigoni, i Lotofagi, che dandoti da mangiare il loro frutto ti fanno dimenticare chi sei, da dove vieni e dove vai, e animali marini, le Sirene, dai poteri analoghi esercitati attraverso una voce melodiosa e seducente che ti fanno naufragare fra gli scogli dove le tue ossa si sbiancano al sole (Poteri analoghi ha la maga Circe che con le sue pozioni e la bacchetta magica trasforma i marinai in porci, incanta lupi e orsi e li ammansisce come cagnolini domestici, e che ha un potente avversario nel mago Ermete con la sua erba moly; ma Circe è più assimilabile per la sua funzione alla ninfa Calipso), giganteschi serpenti marini come quello che avvolge con le sue spire Laocoonte e i suoi figli trascinandoli nelle profondità delle acque antistanti Troia, presagio che convince definitivamente i Troiani a far entrare in città l’ex voto come perorato dall’igannatore Sinone, o Scilla e Cariddi/Stretto di Messina, che divora sei compagni di Odisseo, venti cattivi di nome Arpie e venti buoni come Zefiro lasciato libero da Eolo per portare Odisseo in patria, tutti gli altri racchiusi in un otre di pecora, aperto, mentre Odisseo dorme stremato, dai compagni curiosi e irresponsabili, i prodigi manifestatisi dopo l’uccisione (da parte dei soliti compagni irresponsabili) delle vacche del Sole di Trinachia/Sicilia (storia originariamente ambientata in Egitto, a Eliopoli nel Tridente, cioè il delta egizio): « si movevan le pelli, muggivano intorno agli spiedi le carni cotte e crude: come di vacche s’udiva voce » (l’idea di questo episodio proviene forse a Omero da Genesi 15, 9-17), tutte favole comuni ai popoli dell’antico Mediterraneo, che Omero aveva udito centinaia di volte da bambino e ha riportato o creato per analogia da grande, come quella della tela di Penelope, che poi è il sudario per Laerte, tessuto di giorno e disfatto di notte per ben tre anni e il bello è che c’è voluta la spiata di un’ancella infedele per far capire l’inganno a quelle teste dure di Proci, o quella del Cavallo dentro la cui pancia si nascondono tanti guerrieri, che devono stare zitti perché Elena da fuori, sospettando l’inganno, li invita a rispondere, imitando la voce delle rispettive mogli, e dunque a tradirsi.
4
- Il cavallo di Troia, dall’Odissea di Franco Rossi per la RAI.
Ma
il Cavallo di Troia non è mai esistito (come Elena, che era un aspetto della
dea Afrodite Urania di Ascalona) se non come sepoltura di Odisseo. Secondo
Omero Odisseo era stato il vero artefice della caduta dell’imprendibile
Troia con il suo stratagemma del Cavallo di legno che aveva posto fine a dieci
anni di guerra stremante. Chiunque al posto suo sarebbe andato orgoglioso
della sua impresa, che salvò la vita a tanti Achei che viceversa avrebbero
ancora bagnato col loro sangue la pianura di Troia per chissà quanto ancora.
Mentre ascolta l’aedo tarquiniate, che lui stesso ha invitato a cantare l’impresa
del Cavallo, Odisseo scoppia in lacrime « Come donna » che pianga il
marito morto per difendere la città, « così Odisseo sotto le ciglia
pianto angoscioso versava » Od. VIII, 523ss. Il Cavallo è un sarcofago a
forma di cavallo, emblema del re etrusco (animale sacro a Poseidone,
alto-siriano Dagan, dio del mare romano, etrusco e troiano: cf. le corse dei
cavalli nei ludi saeculares in onore di Poseidone che circonda la Terra -
Consualia - istituiti da Romolo al quarto anno dalla fondazione di Roma
nel 753 a. C., cui rinviano
quelle nei giochi funebri in onore di Patroclo del libro XXIII dell’Iliade;
il santuario di Poseidone
a Pyrgi, la città portuale di Tarquinia e dei Feaci, Od. VI, 266; è
infine Poseidone che nel libro XX dell’Iliade salva Enea destinato a regnare
sui Troiani nel Lazio), dentro cui vengono poste le ceneri di Odisseo (gli
Etruschi praticavano l’incinerazione, al contrario degli Italici e dei Greci
che in età omerica praticavano l’inumazione). Il Cavallo sarcofago-navetta,
è il veicolo che nella fase del riflusso di marea mette in comunicazione il
re druida, frequentatore del santuario pelasgico-celtico di Dodona, con l’Altro
Mondo.
Il
viaggio all’Altro Mondo
celtico avviene « sul mare, tranne poche tappe sulla terraferma, tappe che
sfidano il buon senso geografico. Per andare all’Altro Mondo e per tornare
da esso si segue sempre una rotta marittima. Il passaggio dell’acqua, la
lotta contro i marosi, secondo molte testimonianze antiche, sono connessi con
tale concezione, che rappresenta la giustificazione mitica del potere dei
druidi sull’acqua » (Françoise Le Roux, Christian-J. Guyonvarc’h, I
Druidi, ECIG, II Edizione 2000, p. 395). Una lotta di questo tipo è quella di
Odisseo contro le forze del mare materializzate nel mostro Scilla e Cariddi,
contro cui egli si arma e combatte inutilmente (« vestite l’armi
gloriose e due lunghe aste impugnando, sul ponte della nave salii, a prora: di
qui m’aspettavo che dovesse mostrarsi Scilla petrosa, prima di massacrarmi i
compagni » Od. XII, 228ss). Da Troia a Scilla e Cariddi e isola di
Trinacria si ha l’impressione che Odisseo tocchi le tappe successive o i
gironi di una specie di Inferno, per poi passare al Purgatorio di Ogigia e al
Paradiso di Scheria, concezione diversa da
quella celtica medievale dove « Nessun testo, di nessun tipo, sottende un
binomio cielo/inferno secondo cui le anime si dividono seguendo una sorte
postuma determinata in base ai meriti o alle colpe della loro esistenza
terrena. La nozione di peccato, con il suo retaggio di premi e di punizioni,
di perdono e di pentimento, di paradiso e d’inferno, è totalmente ignota: i
demoni dell’epoca precristiana, cioè i Fomoire, non compaiono mai nel sid
– se non per una confusione di
epoca tarda – donde è bandita ogni bruttura. Non c’è che piacere,
gioia e giovinezza senza la minima restrizione. E non c’è nemmeno un
purgatorio: il peccato veniale, al pari dell’empietà o del delitto, non
esiste. E gli abitanti del sid, anch’essi
divinità, non si preoccupano dell’intercessione dei santi e non
hanno mai conosciuto il Diavolo… Nei fatti, non esiste traccia attendibile
di un ‘giudizio’ divino nelle credenze celtiche » (Françoise Le Roux,
Christian-J. Guyonvarc’h, op. cit., p. 377). Che il Viaggio d’Odisseo, il
primo nucleo di 4000 versi, della futura Odissea avvenga nei tre stadi dell’al
di là noto alla tradizione
dantesca è confermato dal fatto che servì a inaugurare il santuario-banca di
Ino Leucotea-Ilitia iperborea e celtica a Pyrgi e dunque costituì una specie
di soap opera per divertire ed invitare i capitalisti ellenofoni a depositare
tranquillamente i loro valori a garanzia degli scambi con l’Etruria e
Tarquinia in particolare, dato che, scherzosamente, Omero poneva nel
Mediterraneo orientale tutti i pericoli per la navigazione mentre superato lo
Stretto di Messina a occidente v’erano solo i miti buoi del Sole di Sicilia
da lasciar pascolare in pace, la bella ninfa Calipso di Sardegna che voleva
sposare il marinaio dandogli in cambio l’immortalità e, dulcis in fundo, il
re Alcinoo d’Etruria che gli offriva sua figlia in sposa con la dote o, a
scelta, lo riaccompagnava foss’anche agli estremi confini del mondo carico
di ricchezze.
Dopo
la cena di Resurrezione (prototipo alto
siriano dell’affine cristiano), ad Halloween, la Samain celtica (« Per
loro immolò un bove la sacra forza d’Alcìnoo a Zeus nube nera Cronide, che
di tutti è signore; e bruciate le cosce, banchettarono glorioso banchetto,
giocondi » Od. XIII, 24ss), Odisseo
di notte sale sulla nave
dei Feaci (e le navi dei Feaci sono « rapide come l’ala e il pensiero »
Od. VII, 36, « guidate dal pensiero », « sanno da sole il pensiero e
l’intendimento degli uomini, e san le città e i pingui campi di tutti, e l’abisso
del mare velocissime passano, di nebbia e nube fasciate; mai hanno paura di
subir danno o d’andare perdute » Od. VIII, 556ss; si noti la nebbia
druidica) che ovviamente sfrutta il riflusso di marea, come le consimili navi
della tradizione celtica dirette all’Altro Mondo. Secondo i commenti ad
Esiodo di Tzetzes in Procopio Goth. IV, 20: « Sul litorale oceanico che
circonda la Bretagna abitano pescatori sudditi dei Franchi… Nel sonno, essi
odono attorno alle loro case una voce che li chiama e hanno l’impressione
che qualcuno bussi alla loro porta. Si alzano, trovano imbarcazioni straniere
piene di passeggeri, salgono a bordo e, in un baleno, giungono in Bretagna con
un solo colpo di timone… Laggiù fanno sbarcare gli ignoti passeggeri da
loro trasportati. Senza vedere nessuno, odono le voci di coloro che li
accolgono… Poi, con un unico slancio, ritornano al loro paese e si accorgono
che il loro vascello è alleggerito dal peso di coloro che essi hanno condotto
», e ancora Claudiano, In Rufinum I, 123-128: « Là dove si stende la
spiaggia più remota della Gallia, c’è un luogo circondato dalle acque dell’Oceano;
laggiù – si narra – Ulisse animò con libagioni di sangue il popolo dei
morti. Laggiù si ode il tenue soffio delle ombre che volano lamentose. La
gente del posto vede partire le pallide schiere dei morti ». Omero aveva ben
chiara questa collocazione dell’Altro Mondo. Odisseo da Circe, nella
Colchide, sul Mar Nero, si imbarca e navigando a occidente, presumibilmente
come gli Argonauti lungo il Danubio e il Reno, « ai confini arrivò dell’Oceano
corrente profonda. Là dei Cimmèrii è il popolo e la città, di nebbia
avvolti; mai su di loro il sole splendente guarda coi raggi, né quando sale
verso il cielo stellato, né quando verso la terra ridiscende dal cielo; ma
notte tremenda grava sui mortali infelici » (Od. XI, 13ss), dove entra in
comunicazione coi defunti. In Il. VIII, 478ss viene meglio identificato il
luogo: gli « estremi confini della terra e del mare, dove Crono e Giapeto,
seduti, non dai raggi dell’altissimo Sole, non godono dei venti, ma intorno
è il Tartaro fondo ». Secondo Plutarco: « Ogigia è un’isola remota
in alto mare, dista dalla Britannia cinque giorni di navigazione, a ovest.
Altre tre isole, lontane da tale isola tanto quanto distano l’una dall’altra,
sorgono oltre, proprio a nord-ovest. Su una di esse, secondo le leggende dei
Barbari, Saturno sarebbe stato imprigionato da Zeus. Sorvegliato da suo
figlio, egli dimorava nella più remota, oltre il mare chiamato mare di Crono
o di Saturno. I Barbari aggiungono che il grande continente che circoscrive il
grande mare dista un po’ meno delle altre isole, è a circa cinquemila stadi
da Ogigia; e non vi si può sbarcare se non su imbarcazioni a remi. Nei fatti,
le acque consentono soltanto una navigazione lenta » (De facie in orbe Lunae,
26).
Comunque
Omero colloca Ogigia in Sardegna e l’Altro Mondo in Etruria (che del resto
Esiodo chiama isole sacre degli
illustri Tirreni, Teogonia, 1015-1016; dunque Scheria non è un’isola ma è
isolata, eppure nei testi antichi, vedi le isole di Kittim nei testi
veterotestamentari più recenti, l’Etruria, la Sardegna e la Sicilia sono
tutte insieme considerate le isole dove vivono i popoli italici o i Romani)
perché vuole celebrare il santuario pirgense e la dinastia dei mecenati
corinzi di questa città.
Sulla
nave dei Feaci che lo riporta a casa nel viaggio notturno « a lui dolce
sonno sulle ciglia cadeva, un sonno profondo simile in tutto alla morte »
(Od. XIII, 79-80), ciò che appare adatto ad entrare in comunicazione con
le divinità e il mondo dei morti. All’alba Odisseo si risveglia a Itaca,
dove la seconda parte dell’Odissea comincia con le parole: « E intanto
si svegliava Odisseo luminoso, addormentato sopra la terra dei padri » (Od.
XIII, 187-188). L’Odissea
è il poema dell’incontro fra il divino e l’umano, dell’invisibile e del
visibile, della notte e del giorno, della tenebra e della luce, del
sogno e della veglia. Odisseo viaggia nell’Altro Mondo nel brevissimo tempo
che intercorre fra la notte che non è più notte e il giorno che non è
ancora giorno. Si incontra con Penelope
a notte fonda e nel breve sonno che si concedono Penelope
ha la sensazione di aver dormito con accanto Odisseo (XX, 88ss) e
questo ha avuto l’impressione di udire le parole di Penelope (XX, 92ss) là
dove dorme sotto il portico su rozze pelli di animale: « “ Sì, con me questa notte ha
dormito qualcuno identico a lui, qual era quando andò con l’esercito: e
dunque il mio cuore godeva, perché non pensavo che fosse un sogno, ma il vero
”. Così diceva, e a un tratto l’Aurora trono d’oro arrivò, e la sua
voce piangente sentì Odisseo luminoso; e fu in dubbio un momento, gli sembrò
in cuore che lei, già sapendo, accanto al capezzale gli fosse ». E’ in
questo momento magico in cui non è più notte e non è ancora giorno che i morti come Odisseo possono incontrarsi coi vivi come Penelope
tanto più quando intenso è il desiderio di comunicare attraverso il pensiero
da svegli o il sogno da dormienti. Con l’aiuto soprannaturale degli dèi che
lo hanno rimandato sulla terra, Odisseo fa giustizia sui Proci
e libera moglie e figlio dalle loro angherie. Da quando è approdato,
di giorno, a Itaca all’abbraccio con Penelope sono trascorsi cinque giorni,
come ci informano coloro che hanno studiato a fondo il succedersi dei giorni
nei poemi. Quando v’è l’intervento divino sulla terra il tempo non scorre
più normalmente e un attimo equivale all’eternità. Ciò è lo stesso per
la festa di Samain celtica, che dunque va considerata come un tempo magico al
di fuori del tempo umano. L’abbraccio
fra Penelope e Odisseo è struggente, tanto più se si colloca nel contesto da
me sostenuto di un incontro che si suppone dovrà avere lo spazio di qualche
minuto e l’intensità di un’eternità. Ci aspettiamo infatti che al primo
canto del gallo e cioè col sorgere dell’alba come dileguano i fantasmi
così Odisseo dovrà tornare per sempre nel Mondo dei Morti. Per scongiurare
questa evenienza non è
sufficiente che Atena cerchi di allungare il più possibile l’incontro fra
Penelope e Odisseo fermando il carro dell’Aurora, ma il
poema si chiude al verso 246 del libro XXIII lasciandoci la
speranza che per Odisseo e Penelope l’Aurora fermi il suo corso per l’eternità:
« basta che il momento preso in esame, all’occorrenza Samain, sia un
«periodo concluso», non appartenendo né all’anno che finisce né a quello
che inizia, perché gli avvenimenti che vi si verificano sfuggano alle
contingenze delle due dimensioni » (Françoise Le Roux, Christian-J.
Guyonvarc’h, op. cit., p. 322); a Samain « il contatto tra umano e divino
è possibile anzitutto in virtù di una sospensione o di una interruzione del
corso del tempo umano » (Françoise Le Roux, Christian-J. Guyonvarc’h, op.
cit., p. 324). In ogni caso una conclusione triste è sempre vincente: «
e a lui venne più grande la voglia del pianto; piangeva, tenendosi stretta la
sposa dolce al cuore, fedele. Come bramata la terra ai naufraghi appare, a cui
Poseidone la ben fatta nave nel mare ha spezzato, travolta dal vento e dalle
grandi onde; pochi si salvano dal bianco mare sopra la spiaggia nuotando,
grossa salsedine incrosta la pelle; bramosi risalgono a terra, fuggendo la
morte; così bramato era per lei lo sposo a guardarlo, dal collo non gli
staccava le candide braccia. E certo sul loro pianto sorgeva l’Aurora dita
rosate, se non pensava altra cosa la dea Atena occhio azzurro: la notte sull’orizzonte
allungò, trattenne sopra l’Oceano l’Aurora aureo trono; i cavalli rapido
piede non le lasciava aggiogare, che la luce agli uomini portano, Lampo e
Faètonte, i due cavalli che l’Aurora trasportano » Od. XXIII, 231-246.
L’Odissea
è una favola triste, appena appena temperata da un finale che lascia una via
d’uscita alla speranza che l’incontro fra Odisseo e Penelope rimanga
fissato nell’eternità. L’idea del poema
Omero l’aveva avuta, io credo, a Pyrgi, dov’era il santuario della
dea Iperborea e celtica, ma anche dov’era
un tumulo che la voce popolare e
la tradizione attribuivano a qualche capo pirata etrusco di quelli che erano
andati a depredare il delta egizio, che aveva molto viaggiato e conosciuto
popoli diversi raccontando poi le
sue avventure al re una volta tornato; o ancora un principe guerriero
straniero quali erano all’inizio gli immigrati orientali siriani
anche di lingua greca (cipriota) della casta dei giganti venuto in Etruria e
qui rimasto mentre la sposa lo attendeva nella terra d’origine. Ad Omero
giovanetto non andava giù che questo straniero fosse morto lontano dalla sua
patria e dalla sposa e dal figlio e da ciò gli venne l’idea di
ricongiungere i due anche se attraverso l’intervento divino e in via
trascendentale. Come che sia Licofrone
mostra di aver compreso più o meno quel che affermo quando localizza la tomba
di Odisseo a Pyrgi. Io credo che
mai Omero avrebbe potuto immaginare una storia più commovente e
fantastica di questa sulla base di quel povero tumulo di ‘eroe ignoto’ ai
piedi del quale fanciullo si sedè e si addormentò tante volte sognando nella
sua Pyrgi.
Una
scelta dei passi più belli.
Quando ero ragazzo preferivo l’Iliade e ora che sono adulto
stravedo per l’Odissea,
anche se l’Iliade rimane bella nella parte direttamente o indirettamente
riconducibile a Omero e cioè soprattutto nell’Ira d’Achille. L’Odissea
è tutta bella, ma se ne possono ugualmente sottolineare i passi più belli
fra i belli. Il libro V contiene
il volo di Ermete all’isola Ogigia di Calipso con l’ordine di Zeus di
lasciar partire Odisseo: « non fu sordo il messaggero Argheifonte. Subito
sotto i piedi legò i sandali belli, ambrosii, d’oro, che lo portavan sul
mare e sulla terra infinita, insieme col soffio del vento. E prese la verga
con cui gli occhi degli uomini affascina, di quelli che vuole, e può
svegliare chi dorme. Questa tenendo in mano, volò il potente Argheifonte.
Sulla Pieria balzato, piombò dal cielo sul mare; e si slanciò sull’onde,
come il gabbiano, che negli abissi paurosi del mare instancabile, i pesci
cacciando, fitte l’ali bagna nell’acqua salata; simile a questo, sui
flutti infiniti Ermete correva. Ma quando arrivò nell’isola lontana,
allora, dal livido mare balzato sul lido, andava, finché fu alla grande
spelonca, dove la ninfa trecce belle abitava; e la trovò ch’era in casa.
Gran fuoco nel focolare bruciava e lontano un odore di cedro e di fissile tuia
odorava per l’isola, ardenti; lei dentro, cantando con bella voce e
percorrendo il telaio con spola d’oro, tesseva. Un bosco intorno alla grotta
cresceva, lussureggiante: ontano, pioppo e cipresso odoroso. Qui uccelli dall’ampie
ali facevano il nido, ghiandaie, sparvieri, cornacchie che gracchiano a lingua
distesa, le cornacchie marine, cui piace la vita del mare. Si distendeva
intorno alla grotta profonda una vite domestica, florida, feconda di grappoli.
Quattro polle sgorgavano in fila, di limpida acqua, una vicina all’altra ma
in parti opposte volgendosi [qui c’è sicuramente una reminiscenza dell’Eden
da cui partono quattro fiumi fra cui il Tigri e l’Eufrate]. Intorno molli
prati di viola e di sedano erano in fiore; a venir qui anche un nume immortale
doveva incantarsi guardando, e godere nel cuore. Fermo, dunque, ammirava il
messaggero Argheifonte » (V, 43ss), alcuni passi riguardanti Calipso: «
Maligni siete, o dèi, e invidiosi oltre modo, voi che invidiate alle dee di
stendersi accanto ai mortali palesemente, se una si trova un caro marito…
Così con me v’adirate ora, o dèi, che mi sia accanto un mortale. Ma io lo
salvai, ch’era solo, aggrappato alla chiglia, perché l’agile nave col
fulmine abbagliante Zeus gli aveva colpita e infranta nel livido mare. E tutti
gli altri perirono, i suoi forti compagni, lui il vento e l’onda
spingendolo, gettarono qui. E io lo raccolsi, lo nutrii, e promettevo di farlo
immortale e senza vecchiezza per sempre. Ma certo il volere di Zeus egioco non
può un altro dio trascurare o far vano: e dunque andrà, se Zeus l’ordine e
m’obbliga » (Od. V, 118ss); « Infelice, non starmi più a piangere qui,
non sciuparti la vita: ormai di cuore ti lascio partire » (Od. V, 160-161);
« Laerzìade divino, accorto Odisseo, dunque alla casa, alla terra dei padri
subito andrai? Ebbene, che tu sia felice! » (Od. V, 203ss); Poseidone «
Per diciassette giorni navigò traversando l’abisso, al diciottesimo
apparvero i monti ombrosi della terra feacia: era già vicinissima, sembrava
uno scudo, là nel mare nebbioso. Ma dagli Etìopi tornando il potente
Enosìctono, di lontano lo scorse, dai monti Sòlimi: di là lo vide che
navigava pel mare, e s’infuriò orrendamente; scotendo la testa, disse al
suo cuore: “ Ecco là, certo i numi han cambiato pensiero per Odisseo, mentr’ero
in mezzo agli Etiopi: Già s’avvicina alla terra Feacia, dove gli è fato
sfuggire al termine grande di pianto che lo minaccia: ma voglio spingerlo
ancora a saziarsi di mali ”. Così dicendo radunò i nembi, sconvolse il
mare brandendo il tridente, tutti scatenò i tutbini di tutti i venti, e
coperse di nubi la terra e il mare; notte venne dal cielo… Allora si
sciolsero petto e ginocchia a Odisseo, e disse irato al suo cuore magnanimo:
“ O me infelice! Che ancora mi
capita? Temo che tutto vero m’abbia detto la dea, quando diceva che in mare,
prima di giungere in patria, il colmo avrei dei dolori: e ora tutto si compie,
di tali nembi il cielo ampio incorona Zeus, e il mare ha sconvolto e galoppano
i turbini di tutti i venti: ora l’abisso di morte è sicuro per me. O tre e
quattro volte beati quei Danai, che allora perirono nell’ampia Troade, in
grazia degli Atridi! Così anch’io fossi morto, avessi seguito il destino,
il giorno che in folla le lance di bronzo mi scagliavano i Teucri intorno al
morto Pelide. Avrei avuto gli onori dei morti e la mia gloria gli Achei
vanterebbero. Invece m’era destino di misera morte esser preda ”. Mentre
diceva così, gli s’avventò un’onda altissima, con terribile impeto, e
fece girare la zattera. Lontano, fuori dalla zattera fu sbalzato e il timone lasciò andare di mano: in mezzo si spezzò l’albero sotto
l’orrenda raffica dei venti lottanti, lontano la vela e l’antenna caddero
in mare » (Od. V, 278ss); « Mentre così meditava nell’animo e in cuore,
alzò un’onda immane Poseidone Enosìctono, un’onda inarcata, travolgente,
terribile, e in pieno lo colse. Come un vento gagliardo disperde un mucchio di
pula secca, e quella si sparpaglia qua e là, così si dispersero i tronchi;
allora Odisseo montò su un tronco, come chi guida un cavallo da corsa,
spogliò le vesti che la lucente Calipso gli diede, il velo rapidamente
intorno al petto si stese, e prono in mare saltò, allargando le braccia a
nuotare: lo vide il possente Enosìctono, e scosse la testa e disse al suo
cuore: “ Adesso erra pel mare così, molte pene soffrendo, finché verrai
tra uomini alunni di Zeus. Spero che non potrai lamentarti della tua parte di
mali ”. Così dicendo frustò i cavalli belle criniere, e venne ad Ege, dov’è
il suo nobile tempio » (Od. V, 365ss). Il libro VI contiene il sogno di
Nausicaa mandatole nel Viaggio d’Odisseo verisimilmente dal numen loci Ino
Leucotea poi sostituita nell’Odissea da Atena: « Al suo palazzo andò la
dea Atena occhio azzurro, a preparare il ritorno per Odisseo magnanimo: e
mosse verso la stanza ornata, in cui una fanciulla dormiva, alle immortali
simile per aspetto e bellezza, Nausicàa, la figlia del magnanimo Alcìnoo; e
vicino due ancelle, che delle Càriti avevan bellezza, di qua e di là dagli
stipiti; le porte splendenti eran chiuse. Come un soffio di vento balzò al
letto della fanciulla, le stette sopra la testa e le disse parola, sembrando
la figlia di Dìmante, nocchiero famoso, che le era coetanea e molto cara al
cuore. Quella sembrando, parlò Atena occhio azzurro: “ Nausicàa, così
trascurata t’ha fatto la madre? Le vesti vivaci son là in abbandono, e a te
le nozze s’appressano, quando bisogna che belle tu stessa ne vesta e n’offra
a quelli che devon condurti: per queste cose corre tra gli uomini fama
gloriosa, godono il padre e la madre sovrana (pòtnia). Su, andiamo a lavare
appena spunta l’aurora; anch’io verrò ad aiutarti; perché tu l’abbia
pronte al più presto: non per molto sarai vergine ancora, già ti domandano
qui nel paese i migliori di tutti i Feaci, dove tu pure hai stirpe. Ma tu
sollecita il padre glorioso, avanti l’aurora, a prepararti le mule e il
carro ” » (Od. VI, 13ss). Libro VII: « Cinquanta ancelle erano in
casa d’Alcìnoo: alcune con mole poliscono giallo frumento, altre tessono
tele e girano i fusi, sedut, simili a foglie d’altissimi pioppi: dalle tele
in lavoro goccia limpido l’olio » (Od. VII, 103ss). Libro VIII,
il congedo di Nausicaa: « ma Nausicàa, che aveva bellezza per dono dei
numi, s’arrestò accanto al pilastro del solido tetto, e stupì d’Odisseo,
a vederlo con gli occhi, e gli si volse e disse parole fugaci: “ Sii felice,
straniero: tornato alla terra dei padri, non scordarti di me, perché a me per
prima devi la vita ”. E rispondendole disse l’accorto Odisseo: “
Nausicàa, figlia del magnanimo Alcìnoo, così faccia Zeus, lo sposo tonante
d’Era, ch’io arrivi a casa e veda il ritorno. E anche laggiù. Come a un
dio, a te farò voti, sempre ogni giorno: tu m’hai salvato, fanciulla ” »
(Od. VIII, 457ss). Libro IX, Polifemo il pastore antropofago. Qui più che
il soliloquio fra Polifemo e il suo ariete è bella la descrizione notturna
dell’approdo all’isola: « A questo porto arrivammo, e un dio ci
guidava, in una notte scura, non c’era un filo di luce; c’era una nebbia
fonda intorno alle navi, e la luna non brillava nel cielo, era coperta di
nuvole. Nessuno l’isola poteva vedere con gli occhi, nemmeno la lunga
risacca frangentesi al lido vedemmo, prima che vi s’appoggiassero le navi
bei banchi » (Od. IX, 142ss). Libro XII: Circe indica a Odisseo il
percorso per tornare in patria: « Di qua rupi altissime, a picco;
battendole, immane strepita il flutto dell’azzurra Anfitrite: “ Rupi
erranti ” gli dèi beati le chiamano. Qui neppure gli alati si salvano, non
le colombe trepide, che ambrosia a Zeus padre portano, ma sempre anche di
quelle una la nuda rupe ne afferra: un’altra il padre ne manda a compiere il
numero. Mai scampò nave d’uomini che qui capitasse, ma tutto insieme,
carcasse di navi e corpi d’uomini l’onde del mare e la furia d’un fuoco
mortale travolgono. Sola riuscì a passarvi una nave marina, quell’Argo che
tutti cantano, tornando dal regno d’Eèta: e quella pure il flutto contro le
immani rocce scagliava, ma Era la spinse oltre, perché l’era caro Giàsone.
E poi i due Scogli: uno l’ampio cielo raggiunge con la cima puntuta: e l’avviluppa
una nube livida; e questa mai cede, mai lume sereno la sua vetta circonda, né
autunno né estate; né potrebbe mortale scalarlo, né in vetta salire, quand’anche
i suoi piedi fossero venti e venti le mani: perché nuda è la roccia, che par
levigata. A metà dello Scoglio c’è una buia spelonca, volta verso la
notte, all’Erebo: e qui voi dovete drizzare la concava nave, splendido
Odisseo. Ma da concava nave un uomo nel fior delle forze con l’arco mirando
la grotta cupa, non la potrebbe raggiungere. Là dentro Scilla vive,
orrendamente latrando: la voce è come quella di una cagna neonata, ma essa è
mostro pauroso, nessuno potrebbe aver gioia a vederla, nemmeno un dio, se l’incontra.
I piedi son dodici, tutti invisibili: e sei colli ha, lunghissimi: e su
ciascuno una testa da fare spavento; in bocca su tre file i denti, fitti e
serrati, pieni di nera morte. Per metà nella grotta profonda è nascosta, ma
spinge le teste fuori dal baratro orribile, e lì pesca, e lo scoglio intorno
intorno frugando delfini e cani di mare e a volta anche mostri più grandi
afferra, di quelli che a mille nutre l’urlante Anfitrite. Mai naviganti si
vantano d’averla potuta fuggire indenni sulla nave: ghermisce con ogni testa
un uomo, afferrandolo dalla nave prua azzurra. L’altro scoglio, più basso
tu lo vedrai, Odisseo, vicini uno all’altro, dall’uno potresti colpir l’altro
di freccia. Su questo c’è un fico grande, ricco di foglie: e sotto Cariddi
gloriosa l’acqua livida assorbe. Tre volte al giorno la vomita e tre la
riassorbe paurosamente. Ah che tu non sia là quando assorbe! Non ti
salverebbe dalla rovina neppur l’Enosìctono. Piuttosto lungo lo scoglio di
Scilla navigando veloce fa passare la nave, perché è molto meglio piangere
sulla nave sei uomini che tutti quanti » (Od. XII, 59ss). Libro XII:
Odisseo passa con la sua nave fra Scilla e cariddi: « sul ponte della nave
salii, a prora: di qui m’aspettavo che dovesse mostrarsi Scilla petrosa,
prima di massacrarmi i compagni: ma in nessun luogo potevo scorgerla, e mi si
stancavano gli occhi a scrutare da tutte le parti lo scoglio nebbioso. Così
per lo stretto navigavamo gemendo. Da una parte era Scilla, dall’altra la
divina Cariddi paurosamente ingoiava l’acqua salsa del mare; ma quando la
vomitava, come su grande fuoco caldaia, tutta rigorgogliava sconvolta: dall’alto
la schiuma pioveva giù, sulle cime d’entrambi gli scogli. E quando ancora
ingoiava l’acqua salsa del mare, tutta sembrava rimescolarsi di dentro, e la
roccia rombava terribile; in fondo la terra s’apriva, nereggiante di sabbia.
Verde spavento prese i compagni. Guardavamo Cariddi, paventando la fine. E
proprio in quel punto Scilla ghermì dalla concava nave sei compagni, i più
vigorosi per la forza del braccio. Mi volsi all’agile nave e ai compagni, ma
potei solo scorgere braccia e gambe lassù, sollevate nell’aria: mi
chiamavan gridando invocando il mio nome – per l’ultima volta – angosciati. Così il pescatore su un picco, con la lenza
lunghissima insidia i piccoli pesci l’esca gettando, butta nel mare il corno
di bove selvatico, poi, preso un pesce, lo scaglia fuori guizzante; come
guizzavano quelli, tratti su per le rocce. E sulla bocca dell’antro se li
divorò, che gridavano e mi tendevan le mani nell’orrendo macello: fu quella
la cosa più atroce ch’io vidi con gli occhi, fra quanti orrori ho
affrontato, le vie del mare cercando » (Od. XII, 229ss).
Libro XIII: il congedo dalla regina
Arete: « in piedi sorse Odisseo luminoso, e nelle mani d’Arète
pose la duplice coppa, e a lei rivolto parole fuggenti parlava: “ Siimi
felice, o sovrana, per sempre, finché la vecchiaia venga e la morte, che agli
uomini sono comuni. Io me ne vado: e tu, in questo palazzo, godi dei figli,
del popolo e d’Alcìnoo sovrano ” » (Od. XIII, 56ss). Il viaggio
notturno dei Feaci che riportano Odisseo a Itaca: « come alla nave
giunsero e al mare, subito nella concava nave la scorta gloriosa accolse e
ripose vesti, cibo e vivanda. E poi per Odisseo stesero panni e lini sul ponte
della concava nave, ché dormisse tranquillo, a poppa; allora lui pure salì,
e si stendeva in silenzio; essi sedevano sui banchi, a uno a uno, in ordine, e
la gomena sciolsero dalla pietra forata: poi piegandosi in avanti, presero a
rovesciare il mare col remo; intanto a lui dolce sonno sulle ciglia cadeva, un
sonno profondo simile in tutto alla morte. Come nella pianura quattro cavalli
maschi balzano tutti insieme a un colpo di frusta, alti rampando, e in fretta
compion la via, così della nave s’alzava la poppa, e dietro l’onda del
mare urlante spumeggiava sconvolta. Essa correva sicura, diritta; neppur lo
sparviero, il nibbio, l’avrebbe seguita, tra i volanti il più rapido. Così
correndo veloce, l’onda del mare solcava, portando un uomo che aveva
saggezza simile ai numi… Come
la lucentissima stella brillò, che più di tutte annuncia il raggio dell’alba
nata di luce, ecco che all’isola già s’accostava la nave marina. C’è
un porto, sacro a Forchis, il Vecchio del mare, nell’isola d’Itaca; due
punte s’avanzano sporgendo a picco, e la baia proteggono, fuori ne chiudono
l’onde immani dei venti violenti; e dentro senza ormeggio rimangono le navi
buoni scalmi, quando alla fonda sian giunte. In capo alla baia c’è un olivo
frondoso, e lì vicino un antro amabile, oscuro, sacro alle ninfe che si
chiamano Naiadi. Dentro anfore stanno e crateri di pietra; e là fanno il
miele le api. Telai di pietra vi sono, dove le ninfe tessono manti di porpora,
stupore a vederli; e vi sono acque perenni… Qui essi entrarono, ché già
sapevan la baia; e la nave corse sopra la spiaggia per metà della chiglia,
rapidamente, tanto dal braccio dei rematori gagliardi era spinta. Essi dalla
nave bei banchi a terra scendendo, prima Odisseo portarono fuori dalla concava
nave… e lo adagiarono sopra la rena, vinto dal sonno: poi le ricchezze
sbarcarono, che i Feaci splendidi gli offersero al suo partire… e in mucchio
al piede dell’olivo le posero, fuori strada, perché, passando, un viandante
non le rubasse, prima che fosse desto Odisseo » (Od. XIII, 70ss). Il
Viaggio d’Odisseo termina al verso 187 con ‘altare’. Dell’Odissea è
bello quasi tutto. Per quanto riguarda la Telegonia citerei dapprima il
seguente passo del libro III: « e quello, in pace, nella vallata d’Argo
che nutre cavalli, molto la donna d’Agamennone con parole incantava. E lei
prima rifiutava l’orribile azione, Clitemnestra gloriosa: aveva buon
sentimento. E l’era vicino il cantore, a cui molto raccomandò, andando a
Troia, l’Atride di sorvegliargli la sposa. Ma quando la Moira dei numi
irretì Egisto per perderlo, allora condusse il cantore sopra uno scoglio
deserto e l’abbandonò, che fosse preda e cibo d’uccelli. E lei volente,
volendolo, si portò a casa sua » (Od. III, 263ss). Poi è bello tutto l’episodio
di Menelao e Proteo nel libro IV. L’Odissea prosegue dal verso 187 del libro
XIII con Odisseo che si domanda
dove sia capitato e dubita dell’onestà dei Feaci: « E intanto si
svegliava Odisseo luminoso, addormentato sopra la terra dei padri; e non la
conobbe, da tanto era lontano… Per questo tutte le cose sembravano estranee
al sire, i lunghi sentieri, i comodi porti, le rocce inaccessibili e gli
alberi floridi. Balzò in piedi e là fermo guardava la patria, e ruppe in un
gemito e si batteva la coscia a mano aperta, e singhiozzava e diceva: “ O
povero me, di che uomini ancora arrivo alla terra? Forse violenti, selvaggi,
senza giustizia, oppure ospitali, e hano mente pia verso i numi? E tutte
queste ricchezze dove le porto? Dove io stesso andrò errando? Era meglio
restar tra i Feaci, laggiù; forse a un altro dei potenti signori sarei
venuto. Che m’ospitasse e mi desse accompagno. Ora non so dove mettere i
beni, ma certo qui non posso lasciarli, ché d’altri non diventino preda.
Ahi, non del tutto giusti e sapienti erano i principi e i capi feaci, che in
altra terra m’han fatto condurre: dicevano di volermi guidare a Itaca ben
visibile, e non l’han fatto. Ma li punisca Zeus supplice, che tutti vede i
mortali dall’alto, e castiga chi pecca. Almeno voglio contare le mie
ricchezze e vedere che non sian partiti portandomi via qualcosa nella concava
nave ”. Così dicendo, i lebeti e i bellissimi tripodi contava, e l’oro e
le belle vesti tessute: ma nulla ebbe a rimpiangere. Solo la patria piangeva,
trascinandosi lungo la riva del mare urlante, con molti singhiozzi ». Falso
racconto di Odisseo a Eumeo: « [la nave] filava
con vento di Borea bello e gagliardo in alto mare su Creta; ma Zeus a
loro preparava rovina. Quando Creta avevamo lasciato, e ormai nessun’altra
delle terre appariva, ma solo cielo e mare, ecco livido nembo distese il
Cronide sopra la concava nave: s’abbuiò sotto il mare. E Zeus tutt’insieme
tuonò e scagliò sulla nave la folgore, tutta girò su se stessa, colpita da
Zeus con la folgore; e fu piena di fumo sulfureo: tutti caddero fuori. Quelli
come cornacchie in giro alla nave nera furono preda dell’onda, un dio negò
a loro il ritorno » (Od. XIV, 299ss). Il
cane Argo: « tali parole fra loro dicevano: e un cane, sdraiato là,
rizzò muso e orecchie, Argo, il cane del costante Odisseo, che un giorno lo
nutrì di sua mano (ma non doveva goderne), prima che per Ilio sacra partisse,
e in passato lo conducevano i giovani a caccia di capre selvatiche, di cervi,
di lepri; ma ora giaceva là, trascurato, partito il padrone, sul molto letame
di muli e di buoi, che davanti alle porte ammucchiavano, perché poi lo
portassero i servi a concimare il grande terreno (témenos méga) d’Odisseo;
là giaceva il cane Argo, pieno di zecche. E allora, come sentì vicino
Odisseo, mosse la coda, abbassò le due orecchie, ma non poté correre
incontro al padrone. E il padrone, voltandosi, si terse una lagrima,
facilmente sfuggendo a Eumeo; e subito con parole chiedeva: “ Eumeo, che
meraviglia quel cane là sul letame! Bello di corpo, ma non posso capire se fu
anche rapido a correre con questa bellezza, oppure se fu soltanto come i cani
da mensa dei principi, per splendidezza i padroni li allevano ”. E tu
rispondendogli, Eumeo porcaio, dicevi: “ Purtroppo è il cane d’un uomo
morto lontano. Se per bellezza e vigore fosse rimasto come partendo per Troia
lo lasciava Odisseo, t’incanteresti a vederne la snellezza e la forza. Non
gli sfuggiva, anche nel cupo di folta boscaglia, qualunque animale vedesse,
era bravissimo all’usta. Ora è malconcio, sfinito: il suo padrone è morto
lontano dalla patria e le ancelle, infingarde, non se ne curano. Perché i
servi, quando i padroni non li governano, non hanno volgia di far le cose a
dovere; metà del valore di un uomo distrugge il tonante Aeus, allorché
schiavo giorno l’afferra ”. Così detto, entrò nella comoda casa, diritto
andò per la sala fra i nobili pretendenti. E Argo la Moira di nera morte
afferrò appena rivisto Odisseo, dopo vent’anni » (Od. XVII, 290ss). I
colloqui di Odisseo con Eumeo e Penelope: « Diceva parlando molte menzogne
simili al vero e a lei, sentendo, scorrevano lacrime, si scioglieva il suo
viso. Come la neve si scioglie su cime di
monti, Euro l’ha sciolta, Zefiro l’aveva ammucchiata; e della neve
sciolta, correndo, s’empiono i fiumi: così si scioglievano le sue belle
guance nel piangere, nel lacrimare lo sposo, che le era accanto seduto.
Odisseo nel cuore aveva pietà della sua donna gemente, ma i suoi occhi eran
fermi come il corno e l’acciaio, immoti fra le palpebre: ad arte tratteneva
le lacrime » (Od. XIX, 203ss). Il riconoscimento di Odisseo da parte di
Anticlea: « intanto la vecchia aveva preso il lebete lucente, per lavare i
suoi piedi, e in abbondanza versava acqua fredda, poi aggiunse la calda;
Odisseo al focolare sedeva, ma verso il buio si volse di scatto; d’un tratto
in cuore gli venne paura che ella toccandolo la cicatrice riconoscesse, e
tutto fosse scoperto. Lei, dunque, lavava il suo re, standogli accanto; e
davvero la cicatrice conobbe, che gli fece un cinghiale con la candida zanna…
Ora la vecchia, toccando la cicatrice con le due mani aperte, la riconobbe
palpandola, e lasciò andare il piede. Dentro il lebete cadde la gamba,
risomò il bronzo e s’inclinò da una parte. In terra si sparse l’acqua. A
lèi gioia e angoscia insieme presero il cuore, i suoi occhi s’empiron di
lacrime, la florida voce era stretta. Carezzandogli il mento, disse a Odisseo:
“ Oh sì, Odisseo tu sei, cara creatura! E non ti ho conosciuto prima d’aver
ttutto palpato il mio re!… ” » (Od. XIX, 386ss e 467ss). L’usignolo:
« Come la figlia di Pandareo, il bruno usignolo, soave gorgheggia, al
principio di primavera, degli alberi stando tra il denso fogliame; e ogni poco
girandosi, versa voce armoniosa, piangendo il figlio, Itilo amato, che un
giorno col bronzo uccise, pazza! Itilo, stirpe del sire Zeto; così pure il
mio cuore con moti opposti s’agita di qua e di là » (Od. XIX, 518ss). Due
similitudini: « Come una cagna, che i teneri cuccioli bada, se non
riconosce l’uomo, latra e si tien pronta a combattere, così dentro latrava
il suo cuore, sdegnato dalle azioni malvage » (Od. XX, 14ss); « ma lui si
voltava da una parte e dall’altra. Come su un gran fuoco ardente un
ventriglio ripieno di grasso e sangue di qua e di là gira un uomo e,
impaziente, vorrebbe che molto in fretta arrostisse; così da una parte e dall’altra
Odisseo si voltava, pensando come poteva gettare le mani sui pretendenti
sfrontati, solo fra molti » (Od. XX, 25ss). Le parole rivolte dal
finto accattone Odisseo ai Proci. L’episodio paranormale (uno dei
tanti dell’Odissea e del Viaggio) del sangue e del terrore che già aleggia
intorno ai pretendenti che ridono avendo gli occhi pieni di lacrime: «
Così parlò Telemaco: e fra i pretendenti Pallade Atena inestinguibile riso
eccitò, travolse loro la mente. Ridevano allora d’un riso involontario,
inconsulto, mangiavano carni insanguinate; ma i loro occhi erano pieni di
lacrime, l’animo pianto voleva. Ed ecco tra loro parlò il divino
Teoclìmeno: “ Ah sciagurati, che rovina vi tocca? Di tenebra avete fasciate
le teste e le facce e, sotto, i ginocchi, il singhiozzo vi brucia, son
lacrimose le guance, di sangue sono spruzzati i muri e i begli architravi; d’ombre
è pieno il portico, pieno il cortile, che scendono all’Erebo, sotto la
tenebra; il sole del cielo s’è spento, fatale è scesa una notte di morte
” » (Od. XX, 345ss; un episodio analogo è il riso, il ghigno degli
dèi che combattono nel libro XX dell’Iliade).
Penelope prende l’arco dall’armadio, Od. XXI, 42ss: « come
arrivò alla stanza la donna bellissima, e la soglia di quercia salì, che l’artefice
levigò ad arte, e la squadrava a livella, e sopra drizzò gli stipiti, vi
adattò porte splendenti, subito sciolse rapida la cinghia dell’anello,
spinse dentro la chiave e dei battenti allontanò i chiavistelli con un colpo;
i battenti muggirono come toro, che pasce nel prato; così sonoro muggirono le
porte belle al colpo di chiave, e le si aprirono subito. Allora sull’alto
palco salì, dove l’arche stavano, e dentro l’arche vesti odorose. Di lì
protendendosi, dal chiodo staccava l’arco con la custodia, che lo fasciava
splendente. E seduta per terra, sulle ginocchia tenendolo, piangeva forte,
togliendo dalla custodia l’arco del re ». La scenetta comica di
Eumeo che avendo paura non sa a chi deve dare l’arco: « Intanto,
preso l’arco ricurvo, già lo portava il porcaio glorioso: e i pretendenti
urlavano tutti dentro la sala, e così ripeteva qualcuno dei giovani alteri:
“ Dove lo porti l’arco ricurvo, porcaio vigliacco, pazzo? Presto fra le
tue scrofe i cani rapidi han da sbranarti, lontano dagli uomini, i cani da te
nutriti, se Apollo ci vuol esser benigno, e gli altri numi immortali ”.
Così urlavano: e allora posandolo lo lasciò dove stava, atterrito, perché
gridavano molti dentro la sala. Ma anche Telemaco dall’altra parte
minaccioso gridava: “ Vecchio, portagli subito l’arco: non puoi obbedir
bene a tutti. Bada che io non ti cacci in campagna a sassate, pure essendo
più giovane: ma sono anche più
forte. Fossi, di quanti pretendenti vi sono in sala, altrettanto più forte di
vigore e di braccia; subito malamente ne farei uscir qualcuno di casa nostra,
perché male azioni commettono ”. Così diceva; e tutti scoppiarono a ridere
forte di lui, i pretendenti, e smisero l’ira violenta contro Telemaco; ma l’arco
portando attraverso la sala, il porcaio lo mise in mano al forte Odisseo,
standogli accanto » (Od. XXI, 359ss). La prova dell’arco: « già
aveva preso l’arco Odisseo, e lo girava da tutte le parti, lo tentava qua e
là, se avessero i tarli roso il corno, mentre il padrone non c’era. Allora
qualcuno guardando diceva a un altro vicino: “ Certo costui era un esperto,
un uomo pratico d’archi. E forse anche lui possiede archi simili in casa, o
sta pensando di farsene uno, tanto fra mano sopra e sotto lo gira, il randagio
esperto di mali ”. E un altro dei giovani alteri diceva: “ Oh se potessi
incontrare altrettanta fortuna quant’è vero che quello riesce a tendere l’arco!
” Così dicevano i pretendenti; e l’accorto Odisseo, all’improvviso,
dopo che il grande arco palpò e osservò da ogni parte, come un uomo che è
esperto della cetra e del canto, senza fatica tende le corde sui bischeri
nuovi, fissando ai due estremi il budello ben torto di pecora, così senza
sforzo tese il grande arco Odisseo. Poi con la mano destra pizzicò e provò
il nervo, che bene gli cantò sotto, simile a grido di rondine. Ma ai
pretendenti strazio grande ne venne, a tutti il colore cambiò. E Zeus tuonò
forte per dare il segno; e godette Odisseo costante, glorioso, che gli
mandasse un segno il figlio di Crono pensiero complesso. Prese la freccia
rapida, ch’era davanti a lui sulla mensa, nuda, l’altre nella faretra
capace stavano, e presto gli Achei le dovevan provare; l’arco nel mezzo
afferrò, tirò nervo e cocca, dal suo posto, seduto sul seggio, e lasciò
andare la freccia mirando dritto: non fallì di tutte le scuri l’anello
alto, ma li traversò e ne uscì fuori il dardo greve di bronzo » (Od. XXI,
393ss). Quattro similitudini: « Ma gli altri, come avvoltoi unghie
adunche, becchi rapaci, che piombano dai monti, sugli uccelli si abbattono;
questi nella pianura si lascian cadere, fuggendo le nuvole, ma gli avvoltoi li
assalgono e fanno strage; non c’è riparo ne fuga; godono della caccia anche
gli uomini; così quelli sui pretendenti gettandosi in sala, colpivano in
cerchio; gemito orrendo saliva dei colpiti nel capo, il suolo fumava tutto di
sangue » (Od. XXII, 302ss), « Ma tutti li vide fra il sangue e la polvere,
riversi i più, come pesci, che i pescatori in un seno del lido, fuori dal
mare canuto hanno tratto con rete dai mille buchi: e là tutti, l’onda del
mare bramando, stan sulla sabbia riversi: il sole raggiante toglie loro la
vita; così i pretendenti stavano uno sull’altro riversi » (Od. XXII,
283ss), « Trovò dunque Odisseo tra i corpi dei massacrati, sporco di sangue
e fango, come leone che torna dall’aver divorato un bove selvatico: tutto il
petto e le ganasce da una parte e dall’altra ha insanguinate, è spaventoso
a vedersi. Così era sporco Odisseo, le gambe e, sopra, le braccia » (Od.
XXII, 401), « e un cavo di nave prua azzurra a una colonna attaccò, lo stese
intorno alla grande rotonda, alto tendendolo, perché nessuna coi piedi
toccasse la terra. Come quando o tordelle dalle larghe ali o colombe s’impigliano
nella rete, che è tesa nella macchia, tornando al nido, e invece orrido
amplesso le accoglie; così quelle avevano le teste in fila, al collo di tutte
era un laccio, perché nel modo più tristo morissero. E coi piedi
scalciavano; per poco, però, non a lungo » (Od. XXII, 465ss). Altra
scena comica è quella di cui è protagonista l’araldo Medonte: « “
Fermati, questo innocente non ferirlo col bronzo; anche l’araldo Mèdonte
salveremo, che sempre nel nostro palazzo mi proteggeva da piccolo… ” Così
diceva, e l’udì Mèdonte dai pensieri sapienti: stava nascosto dietro un
seggio e d’una pelle di bove appena scuoiato s’era coperto per sfuggire
alla Chera. Subito da dietro il seggio s’alzò, si liberò della pelle, e
con un balzo strinse alle ginocchia Telemaco » (Od. XXII, 361ss). L’abbraccio
fra Odisseo e Penelope: « scendeva dal piano alto; e il suo cuore molto
esitava, se di lontano al caro sposo parlasse, o gli corresse vicino a
baciargli il capo e le mani, stringendolo. Ma come entrò, com’ebbe passato
la soglia di pietra, si mise a sedere in faccia a Odisseo, nel chiarore del
fuoco, presso l’alta parete: lui contro un’alta colonna sedeva, guardando
in giù, aspettando se gli direbbe qualcosa la forte compagna, appena lo
vedesse con gli occhi. Ma lei muta a lungo sedeva, stupore il petto le empiva;
guardandolo, a volte lo conosceva in modo evidente, a volte non lo conosceva,
così coperto di cenci » (Od. XXIII, 85ss), « e a lui venne più grande la
voglia del pianto; piangeva, tenendosi stretta la sposa dolce al cuore,
fedele. Come bramata la terra ai naufraghi appare, a cui Poseidone la ben
fatta nave nel mare ha spezzato, talvolta dal vento e dalle grandi onde; pochi
si salvano dal bianco mare sopra la spiaggia nuotando, grossa salsedine
incrosta la pelle; bramosi risalgono a terra, fuggendo la morte; così bramato
era per lei lo sposo a guardarlo, dal collo non gli staccava le candide
braccia. E certo sul loro pianto sorgeva l’Aurora dita rosate, se non
pensava altra cosa la dea Atena occhio azzurro: la notte sull’orizzonte
allungò, trattenne sopra l’Oceano l’Aurora aureo trono; i cavalli rapido
piede non le lasciava aggiogare, che la luce agli uomini portano, Lampo e
Faètonte, i due cavalli che l’Aurora trasportano » (Od. XXIII, 231ss).
Qui, al verso 246, doveva terminare l’Odissea omerica, di circa 11.000 versi
(al massimo 11.500 ca.), mentre l’Odissea attuale conta 12.110 versi.
Qualsiasi
aggiunta è superflua e qualsiasi finale diverso da questo è un regresso. Per
quanto in un contesto probabilmente non omerico è però omericamente riuscito
il trasporto delle anime dei Proci all’Ade da parte di Ermete all’inizio
del libro XXIV: « Ma Ermete Cillenio chiamava le ombre dei pretendenti;
aveva in mano la verga bella, d’oro, con cui gli occhi degli uomini
affascina, di quelli che vuole e può svegliare chi dorme; le guidava
movendola, e quelle gli andavano dietro squittendo. Come le nottole nel cupo d’un
antro divino squittendo svolazzano, quando una cade dal grappolo appeso alla
roccia; poi si riattaccano una all’altra; così squittendo l’ombre
andavano insieme; le conduceva l’astuto Ermete per putridi sentieri.
Giunsero alle correnti d’Oceano e alla Rupe Bianca; e alle Porte del Sole e
tra il popolo dei Sogni arrivarono; e presto furono nel prato asfodelo, dove
abitan l’ombre, parvenze di morti ». Stesso dicasi del passo seguente: «
Poi, quando t’ebbe consumato la fiamma d’Efesto, all’alba raccoglievamo
le bianche ossa tue, Achille, in puro vino e unguento: e ci diede la madre un’anfora
d’oro… In essa riposano le bianche ossa tue, splendido Achille, miste con
quelle del morto Patroclo Menezìade… Sopra quell’ossa, poi, grande e
glorioso tumulo versammo, noi sacro esercito dei bellicosi Argivi, su una
lingua di spiaggia, verso il largo Ellesponto, perché di lontano fosse
visibile, dal mare, agli uomini, quelli che ora vivono e che in futuro saranno
» (Od. XXIV, 71ss).
Fine