Esci

                             

Marco G. Corsini

 

Introduzione all’Iliade e all’Odissea di Omero

 

 

1 -  Terracotta babilonese con figura di arpista (II millennio a. C.) Parigi, Louvre.

 

 

Omero cantò  l’Ira d’Achille per i Consualia del 649 a. C., cioè  le celebrazioni da tenersi ogni secolo,  i ludi saeculares     istituiti da Romolo nel quarto anno dalla fondazione di Roma  con corse equestri dedicate a Poseidone-Vertumno (il Proteo egizio del libro IV dell’Odissea) nel suo santuario federale etrusco del Foro –  per il centenario della fondazione di Roma. Certo sarebbe uno scoop provare che Omero (la cui produzione gli studiosi posdatatano sempre di più ma comunque entro l’VIII secolo) conobbe Romolo, gli parlò faccia a faccia e da lui ricevette l’incarico di dare al mondo un’immagine faraonica di Roma signora del mondo. Disgraziatamente la Roma di Romolo, costituita da un insieme di povere capanne – solo alla metà del VII secolo le  tombe a capanna di Cere (nella vicina  Pyrgi,  che nel secondo quarto  del VII secolo  dipende da Tarquinia,  è ambientato l’incontro fra Odisseo  Alcinoo e Arete)  cominciano a strutturarsi come vere e proprie case principesche – non può costituire la scenografia dell’aristocratica vita dei nobili di cui abbiamo un riflesso nei banchetti olimpici: « Ella [Teti] si assise accanto a Zeus padre, le fece posto Atena: Era le pose in mano una coppa d’oro, bellissima, l’allietò con parole: Teti bevve e le ritese la coppa » (Il. XXIV, 100ss). Come non condividere l’opinione di Lawrence che in simili rappresentazioni (letterarie, pittoriche, coroplastiche poco importa) « gli etruschi hanno davvero il senso del tatto, tutte le persone e le creature hanno un tocco speciale, una loro qualità tattile. Questa qualità è tra le più rare, nella vita come nell’arte…  Qui, in questa sbiadita pittura etrusca, un quieto flusso tattile unisce l’uomo e la donna distesi sul divano, il timido ragazzino là dietro, il cane che annusa l’aria, perfino le ghirlande appese ai muri »? (Paesi etruschi, Nuova immagine editrice, Siena, II edizione, 1989, p. 78). Se riandiamo ai bassorilievi o alle pitture tombali più antiche (dell’Etruria meridionale) con scene di banchetto vi ritroviamo la stessa grazia, la stessa olimpica serenità dei ricchi beati. Omero scrive (probabilmente all’etrusca, su volumi  lintei – opera delle abilissime donne feacie, che tessono tele e girano fusi, sedute, simili a foglie d’altissimi pioppi      col calamo intinto nell’inchiostro nero,  rosso per i titoli e le indicazioni accessorie)  a cavallo del 680-50 a. C. Ancora durante la seconda guerra punica, mentre i Ceriti forniscono  grano e altri viveri a Scipione l’Africano per la sua impresa contro Cartagine, Tarquinia fornisce tela per le vele delle navi (Livio XXVIII, 45). E’ dunque rimasta una città manifatturiera di tessuti come al tempo di Alcinoo, non solo, ma la città marinara dei Feaci, i migliori marinai del mondo.

E’ contrario a quanto documentato nel mio lavoro e anche ad ogni logica ritenere Omero ed Esiodo viventi su un’isola lontana e distaccata dal rimanente della letteratura greca, che ha inizio nel VII secolo a. C. E’ riscontrabile nella loro produzione come un  botta e risposta che  conferma la loro competizione  tramandataci dagli antichi. Poiché Omero è più grande, si deve pensare piuttosto ad un’invidia e rivalità dalla sola parte di Esiodo, che di regola scrive dopo [1]. 

 

Questo lavoro è nato in pochissimo tempo, uno o due anni (mi proponevo la ricerca di tracce di testi letterari d’età micenea da affiancare alla mia decifrazione del Disco di Festo e invece ho scoperto una nuova civiltà) ma è frutto di oltre trent’anni dedicati allo studio delle civiltà, della storia, delle letterature antiche. E’ assolutamente originale e rivoluzionario circa l’identità culturale  di Omero e l’epoca in cui visse e operò e poi circa l’interpretazione dei suoi poemi di cui finora a ben vedere s’era compreso assai poco.

Omero (semitico Omar) intorno al 680 a. C. – a questa data appaiono le prime rappresentazioni  figurate, su vasi, dell’episodio dell’accecamento di Polifemo –  canta il Viaggio d’Odisseo nella spianata del tempio di Leucothea a Pyrgi (odierna Santa Severa; Pyrgi è lo scalo dei metalli che vengono estratti nei Monti della Tolfa e dunque nel 680 ca. è nell’orbita di Tarquinia, mentre alla metà del VII secolo entra nell’orbita di Cere insieme ai Monti della Tolfa), davanti ad una platea costituita dai ceti trainanti di Tarquinia tra cui una nutrita comunità di greci, alla presenza di Demarato, ricco mercante corinzio [2], tra gli artefici del sorprendente decollo minerario  manifatturiero e mercantile   della città-stato etrusca che controlla i Monti della Tolfa e ha soppiantato Ischia e Cuma, colonie euboiche, nel traffico soprattutto del ferro con Cipro e l’oriente, Al-Mina sull’Oronte ecc. (Od. I,180ss). Demarato ha appunto commissionato a Omero il poema con cui celebrare in una lingua internazionale l’inaugurazione del santuario-banca dove i Greci sono invitati a depositare i beni a garanzia degli scambi commerciali con una città che, come s’inventerà  la mitopoietica omerica, nell’età mitica dei Greci – quella del movimento dei popoli del mare e dell’esodo in Anatolia incalzati dai Dori – ha assistito e dato ospitalità (tramite il numen loci  Leucothea stessa e la sua personificazione di Nausicaa figlia del re Alcinoo) a Odisseo naufrago di ritorno dalla guerra di Troia. Nella mitica età della guerra di Troia da tempo l’Egitto non era più il paese dove i faraoni passavano a miglior vita in bare d’oro massiccio. Da poco era tramontata (656 a. C. circa) la    XXV  dinastia che Manetone chiama  etiope, proveniente dall’Etiopia (in realtà  si tratta di faraoni neri della Nubia, da cui il nome di Kuscita dato oggi alla dinastia), sì, proprio là dove Zeus  e Poseidone (all’inizio dell’Ira d’Achille e del Viaggio d’Odisseo) amano passare una dozzina di  giorni a odorare il fumo degli olocausti offerti loro dai pii Egizi. (Nel 661 Assurbanipal scende in Egitto e depreda e distrugge Tebe, la più celebre città del mondo antico, ricordata perfino da Achille:  Tebe egizia, ove son nelle case ricchezze infinite, Tebe che ha cento porte,  e per ognuna duecento armati passano, con i carri e i cavalli)  Gli era subentrata una dinastia saitica  che  si aggrappava  formalisticamente ai ricordi di un Egitto faraonico che non era più, la dinastia XXVI fondata da Psammetico I [3], che si reggeva grazie all’impiego di mercenari stranieri, per lo più greci. Questi gli erano stati  mandati in soccorso dal re  Gige di Lidia che, come prima di lui il re  Mida (676 a. C.) di Frigia, combatté contro il barbaro popolo invasore dei Cimmeri (che abitano nei pressi della porta dell’Ade omerico, Od. XI inizio) e fu da questo sconfitto e ucciso in battaglia (652 a. C.): « degli Ioni e dei Cari, salpati per fare della pirateria furono  gettati sulle coste dell’Egitto; costoro sbarcarono a terra indossando armature di bronzo e qualcuno corse nelle paludi ad avvisare Psammetico: poiché non aveva mai visto prima degli uomini con armature di bronzo, il messaggero riferì che dal mare erano venuti uomini di bronzo a depredare la campagna. » (Erodoto, II, 152; il corsivo sostituisce: fossero) Siamo nell’età del ferro ma le armi, come quelle degli eroi omerici, sono rigorosamente di bronzo. Gli etruscologi imperanti sostengono che i siro-ciprioti non possono aver colonizzato l’Etruria nell’orientalizzante perché a quel tempo i Greci colonizzavano l’Italia meridionale e non avrebbero fatto a meno di informarcene. Il fatto è che  i Greci non avevano alcun interesse a far risalire l’Etruria ai Fenici; inoltre  si avventuravano al di là dello stretto di Messina per fare la guerra piratesca o, come si dice,  di corsa, e difficilmente fra loro c’era uno storico della civiltà etrusca. L’Odissea cade in un momento in cui la colonizzazione greca dell’Italia è cosa fatta da un pezzo ma cerca di vedere le cose in un tempo lontano intorno ai secoli  XII-VIII, e allora descrive la Sicilia solo come luogo in cui i Greci vanno a comprar schiavi (e i principi itacesi come venditori  di schiavi nel mercato siculo).

Omero non è greco, bensì etrusco [4], figlio di etruschi rasenna (da Rasennia, cf. Dionisio d’Alicarnasso, I, 30 e i documenti etruschi: ras(e)n(n)a cioè della casta dominante a Tarquinia Cere e Roma fin dall’VIII secolo, proveniente dal eg. Rtnw o Rsnw cioè dalla costa siriana comprendendo a nord e ad ovest la Cilicia e Cipro, l’Hypereia omerica o Paese Superiore con cui è nota nel Medio Oriente antico fin dal III millennio a. C.  E’ una civiltà mista, soprattutto plurilingue, abbastanza antica e civile da essere all’origine di un documento come il Disco di Festo (metà del XVI sec. a. C.), sopravvissuta alle invasioni dei popoli del mare e alle vicende che posero fine ai grandi imperi orientali  e  che trasferitasi in Etruria (e prima di tutto a Roma  Cere e Tarquinia) fa da ponte fra le grandi civiltà orientali e l’occidente semibarbaro (quando in Etruria abbiamo il ‘villanoviano’). Posso ipotizzare che il padre di Omero fosse cipriota, dunque di lingua greca (dunque da lui Omero apprese la lingua dei suoi poemi), e la signora (pótnia) madre (quella che probabilmente portava i pantaloni in famiglia; peccato non conoscere il gentilizio di Omero nonostante gli Etruschi a questa data avessero inventato il cognome o nome di famiglia) originasse verisimilmente dai Daniti ebrei o Danuna (che diventeranno i Danai di Omero) stabiliti dall’VIII secolo nella pianura di Adana in Cilicia. Dalla cultura materna Omero attinse il meglio della sua poesia, i suoi contenuti fantastici. La Cilicia aveva ispirato  alcuni canti epici che avevano ad oggetto i Danai, la presa di Tebe ipoplacia (in Cilicia) e l’uccisione da parte di Achille del re di questa città, Eezione, padre di Andromaca, moglie di Ettore. Achille  nella sua tenda suona la bellissima cetra di Eezione, bottino di guerra  come bottino di guerra della distruzione della città cilicia di Lirnesso –  menzionata insieme a Tebe ipoplacia: Il. II, 691 – è la bella Briseide figlia del re Minete e concausa dell’Ira d’Achille. E’ di tutta  evidenza che  non aveva alcun senso, al decimo anno di guerra a Troia, disperdere le energie,  attaccare e distruggere due  città cilicie,  all’estremo opposto di Troia. Dobbiamo dedurne che Omero trasfigurava il movimento dei ‘popoli del mare’, avvenuto a cavallo del 1200 a. C.  e antefatto della colonizzazione greca dell’Anatolia e in particolare della Troade (dove dal XIV secolo erano stanziati i circoncisi  Akkhijawa/Achei che daranno il loro nome, solo il nome, ai coloni greci, mentre i Troiani  rappresentano  i circoncisi Turša/Tirreni/Etruschi e ovviamente i Romani [5]), nell’epica impresa dell’invincibile armata achea partita da Aulide; e che, essendo etrusco, adattava alla sua favola della guerra di Troia  tradizioni della sua terra materna e paterna, siro-cilicio-cipriota, cioè del Levante. Il gigante Achille (Achille  non è un bel ragazzo tra il femmineo e l’atletico, ma l’uomo più gigantesco fra quanti andarono a combattere la mai avvenuta guerra di Troia, quindi se si mette a piangere come una femminuccia deve necessariamente suscitare il riso) ‘protagonista’ dell’Ira d’Achille, è figlio di Teti, figlia di Nereo, il dio della Nahrina, la regione dei fiumi siriana. Anche Toosa, madre di Polifemo (che è siriano e non siculo), è figlia di Forchis, figlio di Nereo.

La cultura omerica e gli orientali modelli letterari cui fa riferimento sono dell’area compresa fra Cipro Cilicia e Siria ed è una cultura fortemente influenzata dall’Antico Testamento. Con l’ascesa della monarchia di Davide e Salomone l’influenza della civiltà ebraica fu molto importante. Poi le guerre di invasione assiro-babilonesi portarono la distruzione anche da queste parti. La poesia di Omero può esser compresa in gran parte grazie al confronto con l’Antico Testamento [6]  purché sia ben chiaro che Omero ha di gran lunga superato il suo modello di cui abbiamo testimonianza  indiretta, dato che i poemi omerici sono più antichi della più antica redazione  dell’A. T. di cui disponiamo, che è postesilica (la redazione definitiva è di Esdra, 444 a. C.). Quando Omero scrive, a Samaria  non risuonano più i canti e il suono della cetra, e gli Israeliti del nord sono deportati in Assiria, mentre Gerusalemme è in declino e fra pochi decenni anche i Giudei  del sud saranno deportati a Babilonia. La letteratura e l’arte siro-cipriota (gli  « uomini ritratti sui muri, figure di Caldei disegnati col minio » di Ezechiele 23,14) rivivono dunque sulle sponde dell’Alto Lazio dove i tumuli monumentali di Cere e Palestrina si ergono come piccole piramidi coniche ricche di manufatti d’oro, d’argento, d’avorio, in stile orientalizzante e la cetra di Omero e la sua stessa voce risuona a cavallo del secondo quarto del VII sec. a. C.  davanti al santuario-banca di Leucothea a Pyrgi e di Mater Matuta nel Foro Romano [7]. Lo splendido oriente s’è trasferito fra il Tevere e l’antico fiume, di cui non sappiamo il nome, nel cui alveo gli Etruschi realizzarono il canale d’accesso al porto di Pyrgi e dove Omero immagina che Odisseo approdi nuotando alla terra dei Feaci. Non sarà la prima volta e sentiremo ancora parlarne da Giovenale negativamente e da Petronio, un secolo dopo, positivamente. E la cosa si ripete ai giorni nostri. I Feaci si distinguono appunto fra Feaci siriani, estinti, e Feaci occidentali, gli Etruschi veri e propri. L’ethnos etrusco è schematicamente formato dall’elemento ‘autoctono’ dei Turša/Tirreni che hanno dato il nome internazionalmente noto di Etruschi e che già parlano etrusco (vedi Lemno e Imbro e teoria di Mirsilo di Metimna in Dionisio d’Alicarnasso, criticata dagli etruscologi e invece la sola corretta, secondo cui i Tirreni andarono dall’Etruria all’Egeo e non viceversa, ovviamente al tempo della loro più antica ‘talassocrazia’). Ancora nel villanoviano vige la civiltà dei Tirreni.  Con l’VIII secolo esplode in Etruria la civiltà dei Rasenna e  cambia l’indirizzo politico e culturale del paese. L’orientalizzante dell’Etruria non è una moda ma il manifestarsi di una civiltà orientale trapiantata in occidente, prima di tutto fra Tarquinia e Roma, di una casta dirigente allotria. Da Tarquinia e Roma la civiltà rasenna si imporrà su tutta l’Etruria. Non è la prima volta nello studio delle civiltà antiche (vedi quella ittita) che si chiama col nome del popolo autoctono (Etruschi) anche quello successivo (della minoranza Rasenna) che da finalmente alla civiltà etrusca il suo carattere inconfondibile, e che  si chiama con nome diverso (villanoviano) la civiltà che ha dato nome agli Etruschi. Si tratta solo di non fare inutili guerre terminologiche e comprendere il nocciolo della questione. E’ possibile conciliare la teoria villanoviana con quella rasenna tenendo presente che l’impulso alla nascita ed espansione del villanoviano potrebbe già attribuirsi a prospettori minerari  siro-ciprioti simboleggiati letterariamente dalle navigazioni verso Kittim e Taršiš delle navi di re Salomone. Anche l’Enea italico, da spostare nell’VIII secolo e contemporaneo di Romolo, è visto da Dionisio d’Alicarnasso e Livio come un avventuriero in cerca di ferro e metalli presso il Tevere. La civiltà etrusca durò i dieci saecula pronosticati dai sacerdoti. Il primo iniziò nell’849 a. C. (in base alla scadenza normale dei ludi saeculares da me individuata), nel villanoviano. L’ultimo nel 49 a. C., al tempo di Cesare.

Omero trasfigura le migrazioni e colonizzazioni fra XIII e VIII secolo, che di miceneo non hanno nulla, e di cui ha conoscenza assai indiretta, vedendole attraverso le tradizioni e l’arte visiva etrusco-romana (in particolare dai fregi in  terracotta riproducenti schiere di opliti preceduti dal re sulla biga), i canti rasenni orali o scritti, l’artigianato siro-cipriota, etrusco, egizio (che ripete immutati prototipi antichi, si pensi alla coppa di Nestore, ricalcata da manufatti etruschi e siro-ciprioti in oro e ai manufatti egizi ricevuti in dono da Elena), e antiquariato orientale (l’elmo miceneo ricoperto di zanne indossato da Odisseo). Per tornare all’esempio dei mercenari (soprattutto etruschi –  come quello tarquiniese che si riportò in patria un dono del faraone, una situla con inciso il cartiglio di Bocchoris, 720-715, della XXIV dinastia    le cui tradizioni Omero apprende fin da bambino dalla viva voce dei vecchi lupi di mare e pirati Tirreni – « Non si può certo nascondere il ventre affamato, funesto, che tante pene dà agli uomini, per lui s’allestiscono le navi buoni scalmi sul mare mai stanco, a portar mali ai nemici »    che un tempo avevano attaccato l’Egitto fino a diventare la guardia scelta del corpo dei faraoni  Ramessidi) Omero ne trasferirà le imprese nella sua opera mitopoietica (‘ creatrice di mito ’) della guerra di Troia, ed allora: « all’Egitto bella corrente arrivammo…  [a]i miei fedeli compagni…  alla violenza cedendo, seguendo il loro furore, subito i campi bellissimi degli Egiziani saccheggiarono, le donne e i bambini lattanti rapivano, uccidevano gli uomini; ma presto alla città giunse i grido. E quelli, udito il grido, all’apparire dell’alba arrivarono; s’empì tutta la piana di fanti e cavalli e del lampo del bronzo; e Zeus folgoratore tra i miei gettò mala fuga… Là molti dei miei m’uccisero col bronzo affilato, altri con sé trascinarono vivi a lavorare per forza… » (Od. XIV, 257ss; vedi anche XVII, 426ss).   Il risultato è che generazioni e generazioni di professionisti, crederanno e tuttora credono alla storicità della guerra di Troia (ci ha creduto pure Manetone) e del ritorno di Odisseo,  mentre Omero aveva solo creato una storia pubblicitaria per celebrare Tarquinia signora del mare e Roma signora del mondo attraverso le origini della casta dominante (spostandole dall’originaria Siria all’Anatolia) confondendole con quelle  della nazione greca d’Asia in modo che i Greci, cui i poemi erano destinati, si sentissero coinvolti nel successo di Tarquinia e Roma viste come prodotto della propria civiltà e dunque una cosa sola con questa ed allentassero i cordoni della borsa venendo ad investire in Italia. Ingegnoso, non è vero? Qui c’è tutto il genio italico, popolo industrioso, mercante, esploratore, navigatore… e  poeta.

La genesi del processo mitopoietico nasce con l’Ira d’Achille voluta da Tullo Ostilio. Poi Omero rivedrà il Viaggio d’Odisseo [8] inserendolo nell’Odissea nell’ottica della guerra di Troia. Dunque scopo del latino  Tullo Ostilio, terzo re di Roma e committente dell’Ira d’Achille, era celebrare le origini di Roma e il ratto delle sabine e latine [9] – con cui i Ramnenses/Libanesi di Romolo (cf. egizio Rmnn = Libano) avrebbero formato da stirpi diverse un unico popolo romano –  avvenuto in occasione dei primi Consualia, del 749 a. C. nel santuario federale del Foro Romano dove erano stati invitati i popoli vicini,  e Omero immagina niente di meno che una mai avvenuta  guerra di Troia, causata dal giudizio di Paride principe-pastore (falsa etimologia di Hyksos, i re dei paesi stranieri, per lo più siriani, ma al cui seguito gli indeuropei creano i regni ‘micenei’  dal levante e andando da oriente a occidente, da sud a nord) che giudica più bella fra le dee Afrodite (in origine Afrodite Urania/Atargatis di Ascalona in Siria, dea del matrimonio che avviene tramite il rapimento, cf. anche il ratto delle danzatrici del santuario federale di Silo da parte dei Beniaminiti, Giudici, 21, [10]). Questa gli promette l’amore di Elena (che in realtà è una sua manifestazione, identificabile con Mater Matuta tiberina, con  Ino-Leucothea pirgense e con Aurora, divinità importantissima nell’Odissea: i tre nomi corrispondono alla stessa divinità – identificata nelle lamine auree di Pyrgi con Uni/Giunone-Astarte –  vedi Prisciano: GLK II, 76, 18ss; cf. Cicerone, Tusc. I, 18; da un’iscrizione frammentaria su lamina di bronzo da Pyrgi emerge con verisimiglianza il nome etrusco dell’Aurora, Thesan; ovviamente il padre della storia  Erodoto ci assicura che Elena  a Troia non arrivò mai [11]), la più bella fra le donne, moglie di Menelao di Sparta. Nasce così attraverso il matrimonio di Paride con la rapita Elena il legame di sangue che unisce dai tempi mitici Troiani/Romani e Achei/Greci. I Troiani non c’erano più, annientati dai valorosi guerrieri greci, ma rivivevano grazie a Enea nel popolo romano sulle sponde del Lazio con cui dunque i Greci continuavano ad avere oggi una speciale relazione di legame di sangue intorno al santuario di Mater Matuta/Aurora/Ino Leucothea come ieri intorno ad Elena/Afrodite, per cui i Greci possono venire a Roma sentendosi a casa loro.  Creare belle favole era una pratica millenaria di Israele dove l’Antico Testamento, dal Genesi e via via decrescendo verso gli ultimi lavori, è frutto di una fervida fantasia.

Come conseguenza del depistaggio omerico (ben noto ai greci del VII secolo che però fecero finta di nulla secondo il piano preciso di cancellare tutte le tracce che portavano Omero e i poemi all’Italia; e ciò vale anche per le altre tradizioni etrusche come le Argonautiche) Erodoto e i logografi ionici e poi anche Virgilio (Agylla/Cere « dove un dì lidia gente in guerra illustre si collocò su’ vertici d’Etruria » Eneide, VIII, 479-480)  riferiranno non all’area siro-cipriota, bensì a quella ionico-lidia l’origine degli Etruschi, pur facendo esattamente riferimento alla casta dei giganti guerrieri e a Cere, considerata da Virgilio  la città madre o comunque un’importante città etrusco-rasennia. Così Omero, che non andò mai molto più lontano di Tarquinia o Roma, ci illustra una scena davvero suggestiva (« come innumerevoli schiere d’uccelli alati, d’oche o di gru o di cigni lungo collo, nei prati d’Asia, sulle correnti del Càistro, qua e là volteggiano, sbattendo l’ali con gioia, e mentre con gridi si posano la prateria risuona – così innumerevoli schiere di questi [gli Achei] dalle navi e dalle tende si riversavano nella pianura Scamandria » Il. II, 459ss). Il Caistro è fiume della Lidia. Peccato (o per fortuna) che Omero s’è ispirato alle scene dell’Etruria costiera lagunare dove dai canneti s’alzavano in volo allora come un po’ meno  oggi stormi di fenicotteri e aironi. Ma nonostante il travisamento omerico la civiltà dei poemi omerici rimane fenicia marinara e non greca terriera, come invece ritengono gli studiosi imperanti.

Omero non è meno civile della civiltà che racconta, come sarebbe se Omero agli albori della civiltà greca narrasse della civiltà micenea al suo massimo splendore. Vive nella civiltà che racconta, nel secondo quarto del VII secolo a. C. (e la racconta come vedendola fra presente e passato, ovvero celebrando il presente trasfigurato come se visto nel passato), ed è consapevole che questa civiltà è perfino più civile di quella micenea al suo massimo splendore, che dico micenea, è la più splendida civiltà esistente, erede dei fasti d’Egitto e di Babilonia: « Ma ora ascolta parola mia, ché anche ad altri eroi tu possa narrare, quando là nel palazzo banchetterai vicino alla sposa e ai tuoi figli, le nostre vrtù ricordando, in quali opere Zeus concede anche a noi l’eccellenza, fin dal tempo dei padri… siamo a navigare eccellenti. E sempre il festino c’è caro, la cetra, la danza, vesti mutate, e bagni caldi, e l’amore », dice Alcinoo a Odisseo. Omero  si sforza di ricostruire gli antefatti  (movimento dei ‘popoli del mare’ e poi colonizzazione greca dell’Anatolia), della sua civiltà di VII secolo, e in questo tentativo di ricostruzione storica (per il quale ovviamente Omero non dispone degli strumenti critici a nostra disposizione) l’età micenea tarda (ma Omero ha come modello l’età villanoviana e la più antica storia  siro-cipriota) assume un aspetto a volte primitivo, come quando come ultima arma di offesa i guerrieri si tirano contro  enormi macigni raccolti da terra, reminiscenze dell’età mitica dei Giganti guerrieri e dei Titani re e sacerdoti.

A parte le autocelebrazioni della nazione etrusco-romana  e dei suoi capi, la classe dirigente intende i poemi come celebrazione della cultura e civiltà etrusco-romana faro luminoso di tutto il Mediterraneo. Come Minosse egiziano nel XVI secolo a. C. Tarquinia e Roma alla metà del VII secolo  erano interessate alla regolarità dei commerci nelle acque del ‘Mare Nostrum’, alla civilizzazione del mondo d’allora secondo i principi di un diritto internazionale e una morale laica sottoscrivibili da tutti i popoli del Mediterraneo (una globalizzazione ante litteram; ha ragione il Barbagallo, Roma era un impero prima della caduta dell’ultimo re e con la repubblica dové cominciare tutto daccapo) e ben superiore e più anticamente documentata di quella giudeo-cristiana. Tutto ciò approfondiremo trattando specificamente dei poemi e nell’Appendice, 2. Qui va chiarito una volta per tutte che Omero creò dal nulla il mito (attività mitopoietica) della guerra di Troia e del ritorno di Odisseo  proprio come realizzazione dell’intento pubblicitario e propagandistico di Demarato e Tullo Ostilio che volevano vendere all’estero  il prodotto Italia. L’Odissea e l’Iliade dunque come soap opere o come Aida celebrativa dell’apertura del Canale di Suez. Ciò vuol dire che se, come è verisimile, dei canti sono stati scritti o portati a memoria  prima di quelli omerici  non potevano trattare né della guerra di Troia né del ritorno degli Achei in Grecia e si occupavano di altri argomenti da cui eventualmente Omero può aver tratto ispirazione diretta o indiretta, ma certo, se ve ne furono, dopo la divina creazione d’Omero i vecchi poemi caddero in oblìo  e finirono con l’andare perduti perché di scarsissimo valore. Ci si dovrebbe aspettare che i Greci (se Omero era autenticamente greco) imitassero la tecnica omerica componendo altri poemi impostati allo stesso modo. Invece no. Non impararono nulla dall’arte omerica e continuarono a realizzare poemi di scarsissimo valore che integravano il mito omerico (poemi ciclici, che si occupavano del ciclo della guerra di Troia, degli antefatti e dei postumi,  come il ritorno degli eroi achei e l’esodo di quelli troiani) e finirono ugualmente nell’oblìo oppure si limitarono a scopiazzare Omero (omeridi) manipolando o ampliando i suoi stessi poemi, oppure ancora lasciarono perdere del tutto un genere a loro fondamentalmente estraneo e si dedicarono ad altro, il che non vuol dire che non abbiano raggiunto alte vette poetiche, ad esempio con Saffo.

Omero non ha affatto ideato inizialmente il poema lungo. I suoi poemi (il Viaggio d’Odisseo di  4000 versi e l’Ira d’Achille di 6000) furono scritti e cantati come poemi brevi nella scia eventuale della tradizione, sicuramente  quella orientale. Solo l’Odissea, dopo l’aggiunta finale dell’arrivo a Itaca,  della strage dei pretendenti  fino e non oltre il riconoscimento e ricongiungimento di Odisseo e Penelope (Od. XXIII, 246: qui  Omero  intendeva effettivamente conclusa tutta la sua opera) e dell’inserimento della Telemachia, ha raggiunto gli 11000 versi circa. Se Omero avesse voluto completare l’Ira d’Achille, cosa di cui dubito fortemente, questa avrebbe raggiunto probabilmente gli 11000 versi. L’iliade (che è inglobata nell’Ira d’Achille), attribuibile a un’omerida argolico al servizio di Fidone d’Argo, coi suoi quasi 15700 versi copia il modello del poema lungo creato da Omero.

Possiamo verficare il progressivo perfezionarsi della tecnica omerica confrontando ad esempio la frase che (con minime varianti)  più volte nell’Odissea  Telemaco rivolge alla madre Penelope: « Su, torna alle tue stanze, e pensa all’opere tue, telaio e fuso; e alle ancelle comanda di badare al lavoro; all’arco penserai gli uomini tutti, e io sopra tutti; mio qui in casa è il comando » frase che non solo è pienamente legittima in ambiente greco (dove la donna viene segregata nel gineceo) ma ha una sua giustificazione nel fatto che Telemaco ormai si sente grande e padrone di casa (e nel caso specifico intende allontanare la madre dalla carneficina imminente) e l’identica frase, in bocca ad  Ettore (nell’Ira d’Achille) che incontra per l’ultima volta la moglie prima di essere ammazzato,  che evidentemente è stata qui ideata per la prima volta e  suona assai rozza: « Su, torna a casa, e pensa all’opere tue, telaio e fuso; e alle ancelle comanda di badare al lavoro; alla guerra penseran gli uomini tutti, e io sopra tutti, quanti nacquero ad Ilio ».  Dall’Ira d’Achille  all’Odissea Omero perfeziona una sua espressione, che nella prima  è: « non parlò/rispose », nella seconda: « e a lei/lui senz’ali restò la parola ».

La tesi, in  apparenza acuta,  sostenuta da Bernard Andreae secondo cui l’Iliade è più antica dell’Odissea perché la trama dell’Iliade e dell’Odissea rispecchiano la decorazione  vascolare coeva, prima sequenziale (al tempo dell’Iliade, verso il 730 a. C.) e poi a intreccio (al tempo dell’Odissea, verso il 680 a. C.) è in parte infondata e in parte consente di sostenere il contrario, che l’Odissea è più antica dell’Iliade. Odissea e Iliade sono state realizzate in due tempi e non concepite e realizzate interamente di getto, per cui l’aspetto sequenziale o ad intreccio che offrono alla valutazione complessiva è solo frutto di coincidenza (e questo vale soprattutto per l’Iliade, di due autori differenti). Il nucleo originario, omerico, dei due poemi narrava, concentrandola in pochi giorni, una serie di fatti centrali nel mito globale della guerra di Troia e del ritorno di Odisseo, entrambi inventati di sana pianta da Omero. Dunque né sequenzialità né intreccio. Ma se si guarda più attentamente, mentre il racconto di Odisseo alla corte di Alcinoo è una serie di fatti sequenziali (cioè il racconto alla corte di Alcinoo fatto da Odisseo  della sua  permanenza nell’ordine presso Ciconi, Lotofagi, Ciclopi, Eolo, Lestrigoni, Circe, ecc.), nel libro primo dell’Iliade, sicuramente omerico fino al colloquio di Zeus e Teti compreso (dov’è l’ira d’Achille per eccellenza), c’è una serie di fatti intrecciati l’uno all’altro: dopo la lite con Agamennone Achille se ne va al suo accampamento presso il mare nel mentre che  Agamennone invia Odisseo a restituire Criseide al padre  e manda gli araldi al campo di Achille a prendersi Briseide;  Achille a sua volta piangendo invoca da sua madre Teti vendetta contro gli Achei, mentre Odisseo raggiunge  Crisa con la sacra ecatombe,  restituisce Criseide al padre e fa ritorno al lido di Troia; intanto poiché Zeus è tornato dagli Etiopi Teti gli fa visita e ottiene la promessa che darà la vittoria ai Troiani per vendicare l’affronto ad Achille. Più intreccio di così… Ancora, gran parte dei libri iliadici che attribuisco all’omerida argolide, sia attraverso quella specie di flash back dei libri da II a VII, sia attraverso la missione  di Patroclo alla scoperta dell’eroe greco ferito e raccolto da Nestore [12], sia attraverso le ondate di attacchi alle porte del vallo che protegge le navi (ma qui la moltiplicazione degli eventi è ulteriormente ampliata dal fatto che si inserisce davanti all’attacco al vallo  omerico), dei libri da VIII a XIII, invitano ad elogiare questo imitatore d’Omero per aver osato la  realizzazione di un progetto tanto mirabile nella sua complessità e tanto superiore alle sue forze. Quanto alla iscrizione –  da osteria –  su vaso del 730 a. C. ca. da Ischia che fa semplice riferimento a una coppa da cui si beve bene di un tale Nestore, nulla prova che tragga ispirazione dai versi omerici. Al contrario una tradizione relativa ad un Nestore gran bevitore può essere stata raccolta dall’omerida argolico e trasfusa nel libro XI, 632ss dell’Iliade quando Nestore si trasforma con lui in personaggio comico.

L’omerida argolide al servizio di Fidone d’Argo utilizzò pochi anni dopo il 649 a. C. (a quel tempo non c’era il diritto d’autore, ma è anche vero che l’omerida più che  modificare l’Ira d’Achille vi inseriva materiale nuovo o riciclato dallo stesso Omero e facilmente distinguibile) l’Ira d’Achille come cornice entro cui inserire la bellezza di XII libri che vanno dal verso 539 del libro I al verso 158 del libro XIV. Sono inoltre dell’omerida argolide i libri XVII, XIX, XXI, XXIII dal verso 653 in poi. Poiché chi legge l’Iliade parte sostanzialmente dalla produzione di questo omerida, che occupa la prima parte del poema (ed evidentemente se ne innamora, in quanto  l’Iliade viene ritenuta in genere più bella dell’Odissea; non certo da chi scrive), ritiene magari che la seconda parte (quella omerica) costituisca un ulteriore miglioramento dell’arte del poeta. L’Iliade attuale, manipolata dall’omerida al soldo di Fidone d’Argo, è  diventata filogreca: « si avverte la più attenta cura dell’autore nella gelosa e costante dimostrazione della superiorità militare achea, mentre i Troiani sono tenuti in un limitato grado di dignità e di valore, proprio per lasciare ai Greci integra la gloria di superarli » (W. Gladstone). Non c’è dubbio quindi che l’Iliade come ci appare oggi vada attribuita più all’anonimo omerida argolico che a Omero, mentre solo l’Ira d’Achille rimane attribuibile ad Omero. Chi scrive ritiene bella l’Ira d’Achille, meno l’Iliade, stupenda l’Odissea. L’omerida argolide autore dell’Iliade non è certo bravo quanto Omero (ed è soprattutto per questo motivo che attribuisco a lui e non a Omero l’Iliade, perché per il resto hanno uno stesso fondo culturale semitico [13], uno stesso humour, ecc. che però attribuisco alla buona capacità imitativa dell’omerida)  ma si può dire che ce la mette tutta. E’ un coraggioso costruttore di azioni belliche (le sue scene di battaglia sono migliori di quelle di Omero, uomo di pace) arditamente intrecciate oltre le sue possibilità e da cui i duelli degli eroi si stagliano come  altorilievi su sfondi di  bellezza discontinua. E’ maestro nelle similitudini. Avrebbe realizzato un’opera assai migliore se non avesse seguito Omero in una certa inclinazione al comico nell’Ira d’Achille. Avrebbe dovuto puntare decisamente all’interpretazione e proseguimento dell’Ira d’Achille come opera tragica e in tal caso l’Iliade sarebbe almeno equiparabile all’Odissea, che invece proprio per il contrasto coi pericoli corsi per mare e la lotta contro l’occupante straniero, fa agognare la serenità degli affetti familiari e dell’amicizia (dei marinai uniti contro i pericoli esterni) in borghi di campagna dove la vita scorre tranquilla, e perciò assomiglia più ad una tempera (o ad un arazzo di quelli filati da Andromaca, Elena e Penelope) dai colori tenui, sempre ugualmente bella. L’omerida argolide introduce Diomede come protagonista dell’Iliade (al posto di Aiace Telamonio) durante l’assenza di Achille, il nome di Argivi a fianco di Achei e Danai, parla bene di Eracle (Il. V, 628, 638; ecc.) che invece è considerato da Omero nell’Odissea come ladro di bestiame e assassino dell’ospite sacro. Dunque Omero scrive prima il Viaggio d’Odisseo, poi l’Ira d’Achille e infine completa l’Odissea, mentre l’Iliade è creazione  di un omerida argolico. Omero morì più verisimilmente a Roma dove s’era trasferito qualche anno prima del 649 a. C. per comporre l’Ira d’Achille e dove completò l’Odissea ispirandosi alla vera storia di Romolo. C’è un passo in cui nell’Odissea si accenna al poeta chiamato da un paese straniero e questo potrebbe riferirsi a lui Omero, chiamato a Roma dalla natia Pyrgi, ora dipendente da Cere: « chi uno straniero andrà in persona a invitare, se non si tratta d’artigiani o maestri, o un indovino, o un carpentiere, o un guaritore di mali, o anche un divino cantore, che diletta cantando? » (XVII, 382ss). Omero visse fra  Pyrgi, dove nacque nell’ultimo quarto dell’VIII secolo e dove ebbe l’ispirazione del Viaggio d’Odisseo, e Roma dove visse l’ultima parte della sua vita, da poco prima della metà del VII secolo, chiamato a Roma da Tullo Ostilio al tempo in cui  Pyrgi era entrata nell’orbita di Cere. Morì nel terzo quarto del VII secolo certamente onorato con un bel sepolcro dallo stesso re Tullo o dal successore Anco Marcio. Non ci si chieda come mai di questo sepolcro e di un culto del poeta non vi siano tracce. Se qualcosa rimane del sepolcro non mancherà di essere riportato alla luce un giorno o l’altro. Omero era ben noto e amato a corte ma poco noto e dunque amato in patria a causa della sua poesia in lingua greca, incomprensibile alla stragrande  maggioranza dei Romani. In Grecia Omero non andò mai e nemmeno a Troia e in Asia Minore che aveva reso celebri con i suoi poemi. Se Omero fosse greco e comunque avendo scritto in greco per i Greci di lui dovrebbe essere attestata la tomba o un culto al poeta nazionale, cosa che parimenti non è documentata.

Gli dèi delle comunità coloniali greche in Anatolia sono Apollo (Eoli e Dori) e Poseidone (Ioni) e questi corrispondono agli dèi dell’Etruria e di Roma. Così Apollo (cioè il dio Sole, divinità dell’Asia e d’Egitto) è il dio che scatena la peste nel campo acheo all’inizio dell’Ira d’Achille ascoltando le preghiere del suo sacerdote Crise di cui Agamennone, il capo della coalizione greca, ha fatto prigioniera la figlia Criseide (e allora Achille sollecita l’interrogazione dell’indovino Calcante affinché spieghi perché il dio è adirato con gli Achei e questo incolpa Agamennone, da qui il litigio fra Achille ed Agamennone e la decisione di Agamennone di restituire Criseide ma di rifarsi sulla schiava di Achille Briseide), è il dio che guida la carica dei Troiani contro il vallo e le navi. Apollo, il dio arciere, lo ritroveremo nella prova dell’arco nel libro XXI dell’Odissea. Poseidone è il dio etrusco-romano per eccellenza, corrispondendo a Proteo-Vertumno, il dio del santuario federale etrusco-romano che Romolo inaugurò a Roma con una corsa di bighe o anche quadrighe (Omero conosce le quadrighe) al quarto anno dalla fondazione (749 a. C.), quando questa divenne con lui la principale città della dodecapoli etrusca. Al tempo del Viaggio d’Odisseo, un secolo dopo la fondazione di Roma, Omero colloca a Scheria, nel territorio di Tarquinia, la sede del santuario federale, anche qui incentrato sul santuario di Poseidone (cf. Od. VI, 266). Il dio del mare per Omero è Poseidone, mentre per la leggenda greca era Atena. Atena aveva affondato le navi di molti greci di ritorno dalla guerra di Troia, Atena era irata con Odisseo, e numerosi sono i passi dell’Odissea che ce lo ricordano (Ermete all’inizio dell’ira d’Achille riporta a Calipso pari pari l’ordine ricevuto da Zeus: « Dice dunque che un uomo c’è qui, su tutti infelice, quanti eroi intorno alla rocca di Priamo lottarono nove anni, e al decimo anno, distrutta la rocca, partirono verso la patria: ma nel ritorno offesero Atena, che contro di loro scagliò mal vento e flutti giganti. Poi tutti gli altri perirono, i suoi forti compagni; lui il vento e l’onda, spingendolo, gettarono qui. Questo Zeus ti comanda di far partire al più presto » Od. V, 105ss). Omero le sostituisce la più poetica figura di Poseidone e al contempo  fa una gentilezza ai Greci, cui i poemi sono indirizzati, non offuscando la figura di Atena, loro tipica divinità. La dea protettrice del Viaggio d’Odisseo non è Atena, bensì il numen loci Ino Leucothea-Ilitia iperborea e dunque celtica di Pyrgi (questa componente celto-germanico-pelasgica che richiama la teoria dell’origine nordica, danubiana,  pelasgica, sia  egea che palestinese degli Etruschi si può spiegare unitariamente attribuendola al movimento semitico e contemporaneamente indeuropeo degli Hyksos e dei suoi strascichi; vedi anche La vera storia di Romolo, sul mio sito). Omero introduce Atena per la prima volta nella Telemachia e nella seconda parte dell’Odissea, quando essa emerge come numen loci di  Itaca greca. E’ adesso che Omero deve spiegare come mai Atena, la protettrice di Odisseo, sia stata assente durante le sue peripezie al ritorno dalla guerra di Troia e lo giustifica col fatto che questa temeva di offendere suo zio Poseidone (Od. VI, 328ss; XIII, 339ss).  Però nell’Odissea troviamo anche Atena che parla male dei Feaci (ad es. all’inizio del libro VII) e spinge  Odisseo a diffidare  proprio di coloro che lo hanno aiutato veramente e disinteressatamente (mentre lei era assente quando doveva da solo affrontare Ciconi, Lotofagi, Polifemo, Lestrigoni, Circe, Sirene, Scilla e Cariddi!). Evidentemente qui non è Omero che scrive ma un omerida (un versificatore da quattro soldi) agli ordini di Pisistrato tiranno d’Atene (VI sec. a. C.) che utilizzò propagandisticamente l’Iliade e l’Odissea per celebrare la sua occupazione di Sigeo sull’Ellesponto, l’organizzazione delle grandi Dionisiache (da qui possibilmente l’accenno al culto di Dionisio), la maggiore solennità data alle grandi Panatenee, e più in generale per esaltare la sua politica e l’orgoglio ateniese. Operazione più impossibile che spudorata, in quanto il suo eroe Eracle tebano, è trattato da Omero nell’Odissea come ladro di bestiame e assassino dell’ospite sacro, mentre gli Ateniesi nell’Iliade sono accusati di codardia e gli Ioni sono detti ‘dalla tunica strascicante’. Analogamente nell’Ira d’Achille Omero ha ragionevolmente privilegiato  il valore greco su quello troiano (allo scopo di interessare i mercanti greci cui l’opera era indirizzata), mentre  tutti gli eccessi che fanno  esageratamente grandi i Greci e esageratamente sviliti  i Troiani devono essere attribuiti in primo luogo alle interpolazioni di un omerida argolide  (del VII sec. a. C.) al soldo di Fidone d’Argo, che dominando su tutta l’Argolide ne fece lo stato più potente del Peloponneso e per qualche tempo ebbe la soprintendenza dei giochi olimpici. In più abbiamo delle interpolazioni  pisistratidi ad esempio dove leggiamo che Ettore « era ancora là, dove prima balzò dentro la porta e il muro, dense file di Danai armati di scudo spezzando; là c’erano le navi d’Aiace e Protesìlao, in secco sulla spiaggia del mare canuto, e di fronte il muro fu costruito bassissimo; là soprattutto eran violenti in battaglia essi e i cavalli. Ma allora Beoti e Ioni dalle tuniche lunghe, e Locri e Ftii ed Epei luminosi, a stento lo trattenevano dal balzar sulle navi; e non riuscivano a scacciare Ettore glorioso, simile a fiamma, neppure gli scelti Ateniesi » (Il. XIII, 679ss; la falange oplitica è del tempo di Omero ed è attestata anche e prima di tutto nel libro  XVI, 211ss dell’Ira d’Achille: « Come con pietre fitte rinsalda un uomo il muro dell’alta casa, per difendersi dalla violenza del vento, così s’infittirono gli elmi e gli scudi convessi; scudo a scudo si strinse, elmo a elmo,  uomo a uomo; s’urtavano gli elmi chiomati coi cimieri lucenti al loro chinarsi, tanto densi fra loro si strinsero »). Poseidone è dalla parte degli Achei nell’Iliade (dunque grazie alle manipolazioni dell’omerida argolide) mentre è proprio lui, nell’opera omerica, l’Ira d’Achille, a salvare Enea, l’antenato (secondo  la tradizione accolta dai  Greci) dei Romani, da sicura morte nello scontro con Achille.

 

 

2 – Una delle prime rappresentazioni dell’accecamento di Polifemo su un lato del cratere di Aristonothos, da Cere (secondo quarto del VII sec. a. C.) mentre sull’altro lato compare la scena di battaglia navale (sopra) fra una nave cerite (a destra)  ed una di pirati  euboici.

 

Dobbiamo immaginarci un rapido e dilagante successo dei poemi omerici che venivano declamati in tutto il mondo ellenofono, anche italico,  per singole unità di recitazione o canti, ciascuno dei quali poteva essere agevolmente recitato da un differente attore o autore-attore. E’ probabile che si preferisse portare in scena solo pochi canti, i più significativi, per celebrare questo o quell’avvenimento, o i più graditi al pubblico, e così è possibile che molta parte dei poemi sarebbe andata perduta  se non fosse intervenuta l’interessata redazione di Pisistrato  (tiranno d’Atene dal 561 al 527 a. C.)  « che, si dice, dispose per la prima volta i libri di Omero, per l’innanzi confusi, nel modo come ora li abbiamo » (Cicerone, De oratore III 34, 137). Se si guarda a Era, che è disposta a dare Argo, Sparta e Micene in cambio di Troia (Il. IV, 51ss), si può pensare anche ad una funzione antispartana, e antiromana, dell’Iliade pisistratide come viceversa l’Ira d’Achille avrebbe potuto al limite celebrare con funzione antiateniese un  asse Roma-Sparta – il legame per via matrimoniale fra Paride troiano-romano e Elena spartana – le due città militariste del tempo. Fu con Fidone d’Argo e  con Pisistrato d’Atene che il poema nato per celebrare Roma signora del mondo divenne il poema nazionale greco. L’Odissea invece s’è salvata da manipolazioni nazionalistiche ed è rimasta più vicina al nostro patrimonio culturale. L’interesse degli Ioni per i poemi omerici grazie ai loro intensi rapporti di VI secolo con l’Etruria fu anteriore e indipendente da quello di Pisistrato d’Atene. Omero scrisse lontano dalla Grecia ma per i Greci, cosicché i suoi poemi furono  subito noti in Grecia, al contrario di tutto ciò che riguardava lui, Omero.  I Greci fecero di tutto per mantenere nell’ombra l’origine tirrenica di Omero per raggiungere l’effetto che noi tutti conosciamo, la credenza di un Omero i cui natali sono contesi da più città greche, soprattutto d’Asia, padre della nazione, girovago per tutta la Grecia come a benedirla, mentre egli era soprattutto un etrusco orgoglioso celebratore della civiltà tirrenica, un poeta ricercato e conteso dalle più ricche corti del mondo civile di allora, quelle di Demarato tarquiniate  e Tullo Ostilio romano. Certo in una terra dove si cantava  latino e non greco, e dove soprattutto si pensava alla guerra e non certo al canto, di Omero  perfino il  ricordo doveva sparire assai presto (in Etruria il ricordo sparì con la sottomissione di questo grande paese a Roma e con la perdita del patrimonio letterario e della conoscenza stessa della lingua etrusca), mentre nella Ionia d’Asia, in intensi rapporti culturali ed economici con l’Etruria già dal VII secolo, fiorirono le leggende sulla sua vita e le scuole degli Omeridi, i cantori omerici di Chio e Smirne. Di autenticamente greco nei poemi omerici c’è praticamente solo la lingua, che poi fondamentalmente è o era il dialetto cipriota (arcado-cipriota). A noi i poemi sono giunti nella versione fortemente influenzata dal dialetto ionico-attico degli Omeridi di Chio e Smirne. Omero è il padre di tante cose che sarebbe più facile definirlo negativamente per ciò di cui non è padre. Certamente è anche il fondatore della filosofia greca e in particolare della scuola di Mileto. Il Viaggio d’Odisseo è il poema del mare in cui è protagonista un mercante etrusco (ciò trapela anche quando poi  protagonista è diventato, con lo stesso Omero,  Odisseo il pirata) perché gli Etruschi, a differenza dei Romani, erano un popolo pacifico che pensava ad arricchirsi col genio dell’arte manifatturiera e col commercio: « qui, un uomo senza sonno prenderebbe due paghe, una pascendo bovi, l’altra pecore bianche menando; perché son vicini i sentieri della notte e del giorno » (Od. X, 84ss). Le esperienze geografiche etrusche raggiunsero la Ionia e Mileto anche attraverso i poemi omerici e così Omero si può e si deve definire come il caposcuola (un secolo prima) della scuola filosofica di Mileto. Per Omero Poseidone è il dio del mare della talassocrazia etrusco-rasennia e Poseidone corrisponde a  Oceano, consorte di Teti, la coppia primordiale secondo quelle che erano del resto le concezioni delle religioni orientali (egizia ed assiro-babilonese) la cui cultura affondava nella notte del sorgere dell’umana civiltà. Come per Talete anche per Omero tutto è fatto d’acqua. Omero, che non crede agli dèi, e nemmeno ad un dio,  sa bene che  sono fenomeni naturali concreti quelli che riveste di poesia. Che Zeus mandi il temporale tutte le volte che è scontento delle male azioni degli uomini potrebbe essere segno di credenza nell’esistenza di un dio, ma Omero ci dice che solo in autunno (quando è ovvio che piova, naturalisticamente) Zeus è scontento delle male azioni degli uomini, è come dire che Zeus non esiste: « E come dalla tempesta tutta la terra nera è gravata in un giorno d’autunno, in cui pioggia violenta rovescia Zeus, se adirato con gli umani imperversa perché con prepotenza contorte sentenze sentenziano, e scacciano la giustizia, non curano l’occhio dei numi; ed ecco i loro fiumi si riempiono tutti, scorrendo, e molte pendici i torrenti dilavano, gemono forte, correndo verso il livido mare a capofitto dai monti; devastano le fatiche degli uomini; così le cavalle troiane gemevano forte correndo » (Il. XVI, 384ss). Solo un etruscologo può comprendere quale sorpresa sia Omero in quanto etrusco. E che responsabile del razionalismo omerico possa essere stato il padre cipriota e dunque greco potrebbe essere una falsa, assai falsa pista.

Se aver inquadrato Omero nella sua civiltà d’appartenenza, quella siro-cipriota e etrusca del secondo quarto del VII secolo, nei luoghi dove compose e cantò è importante e fondamentale, con questa  introduzione voglio privilegiare la poesia omerica rispetto alla storia e dunque come fine ultimo intendo trasmettere la mia passione per i due primi e a mio giudizio massimi capolavori della letteratura occidentale e mondiale, e lo stesso piacere che io traggo, ogni volta di più,  dalla loro lettura. Chi può impari a leggerli dal greco. In ogni caso la traduzione  a fronte di Rosa Calzecchi Onesti (Einaudi) è quasi letterale e soprattutto molto poetica  e da me adottata in questo lavoro. L’unico appunto che mi sento di fare a questa traduttrice è il non aver rispettato sistematicamente la traduzione in certi casi (e appunto perciò ho provveduto a correggerla nei brani riportati), come scrivere Danai quando c’è Achei (va meno bene Achivi) e viceversa; o Teucri (che non c’è mai) invece del corretto Troiani, e così via.

Chi ha scritto l’Odissea ha anche scritto l’Ira d’Achille con la stessa tecnica, con la stessa impostazione  di fondo. Le modifiche (il vero problema è costituito dall’Iliade) sono intervenute in un tempo successivo a Omero. Il linguaggio epico (che non è greco ma semmai greco orientale, cipriota, non si dimentichi mai) non sarà certo stato inventato da Omero ma Omero l’ha portato alla perfezione, ad un livello tale che non si ritenne di far sopravvivere la produzione in greco precedente, assai scadente al confronto. Ciò vale anche per la poesia ebraica che è la più vicina cui si possa far riferimento (indiretto, cercando di immaginarla alla luce dell’Antico Testamento) e che se anche fosse sopravvissuta non avrebbe retto il confronto con quella di Omero. La  poesia omerica è  composta da  versi ciascuno dei quali è composto da strutture più piccole che chiamo moduli. Con questi moduli che descrivono (con variabilità di sinonimi e d’espressione) nel modo più sintetico possibile i differenti elementi del mondo poetico,  Omero può comporre qualsiasi cosa. Sottolineo che tutta la poesia omerica è fatta così, anche se un determinato modulo e un determinato verso omerico può comparire anche solo una volta in entrambi i poemi. (Proprio ciò distingue soprattutto nell’Ira d’Achille la poesia omerica da quella dei suoi imitatori e interpolatori, che fanno assolutamente della prosa e cattiva, anche quando inseriscono, ovviamente male, moduli o versi omerici) E’ sempre un modulo, un verso che racchiude un concetto nel miglior modo possibile ed è dunque suscettibile di essere ripreso in altro passo del poema. Tutta la poesia omerica è costituita da moduli e quelli più ripetuti non sono nemmeno  i più belli (le concave navi; Achille piede veloce; sul dorso ampio del mare, sul mare colore del vino; navigavano sentieri d’acqua; la terra dono di biade, ecc.), costituenti la minima unità poetica, componibili con altri moduli o semplicemente ampliati da parole non costituenti unità poetica, che in tal modo compongono un verso (Ma quando, figlia di luce, brillò l’Aurora dita rosate;  poi quando la voglia di vino e di cibo cacciarono; calò il sole, tutte le vie s’oscuravano; Tutta la notte corse la nave e all’alba compiva il cammino, ecc.), mentre più versi sono componibili a formare un insieme coordinato  (« Tutto quel giorno, fino al calare del sole, / sedemmo a goderci carni infinite e buon vino. / Come il sole andò sotto e venne la tenebra, / allora dormimmo sul frangente del mare », « Subito quelli salivano e sui banchi sedevano, / e in fila seduti battevano il mare schiumoso coi remi », ecc.). Voglio sottolineare che Omero è capace di esprimere questi stessi concetti con moduli e versi totalmente differenti o anche solo con variazione sul tema degli stessi. Ripeto che moduli e versi che compaiono poche o una sola volta potrebbero essere suscettibili di un impiego maggiore in altre circostanze. Sono tutti della medesima efficacia e sintesi espressiva. Si può affermare che Omero riesce sempre e in qualsiasi circostanza ad esprimersi poeticamente con la sapiente miscela di quelli che sono sempre moduli e versi, infinitamente variati, di straordinaria efficacia poetica. E’ come se avesse a disposizione un sofisticatissimo  gioco ad incastro costituito da pezzi di diversa forma e colore, e questi pezzi non fossero determinati nel numero, nella forma e nel colore ma Omero riuscisse a crearne in continuazione sempre diversi ed originali eppur sempre mattoni essenziali di una costruzione unica ed inimitabile.

Se a volte la fraseologia omerica stanca perché troppo ripetitiva si rifletta se per caso ciò non dipenda dall’abuso che ne hanno fatto i continuatori e interpolatori d’Omero, in particolare l’omerida al servizio di Fidone d’Argo. Omero dosa sempre sapientemente la sua fraseologia mantenendosi nei limiti del buon gusto. Il problema comunque non si pone tanto per l’Odissea, opera compiuta, praticamente totalmente omerica, quanto per l’Iliade, che è stata manomessa nel tempo e che contiene ampi brani non omerici. Pur riconoscendo che l’Iliade è un poema di più difficile realizzazione e contiene dei bei momenti di poesia sublime, tuttavia preferisco l’Odissea con cui Omero raggiunge la vetta della sua arte. La similitudine in Omero fa la sua prima timida comparsa nel Viaggio d’Odisseo (e non colpisce il lettore neppure nell’Odissea, dove si fonde così bene col testo da passare inosservata) e raggiunge l’apice nell’Iliade, di cui è parte integrante, ad opera dell’omerida argolico, confermandoci l’ordine in cui vennero composti i poemi, prima il Viaggio d’Odisseo, poi l’Ira d’Achille, l’Odissea, l’Iliade. Ancora una volta la realtà è diversa da quanto sostenuto dagli accademici.

Entrambi i poemi si svolgono in tre parti cruciali. Nel  libro VII dell’Odissea Odisseo si presenta alla corte di Alcinoo re dei Feaci chiedendo di essere riaccompagnato a Itaca; nel libro XVI  si fa riconoscere dal figlio Telemaco  con cui prepara la vendetta sui pretendenti e nel libro XXIII si ricongiunge con  Penelope. Nel libro VIII dell’Iliade  Zeus decide di dar la vittoria ai Troiani per compiacere Teti madre di Achille offeso da Agamennone, nel libro XVI muore Patroclo da cui deriva il rientro in battaglia di Achille e la morte di Ettore, con la  riconsegna del cui cadavere a Priamo si chiude il poema al libro XXIV. Forse  Omero aveva in mente qualcosa sull’ampliamento  dell’Iliade affinché raggiungesse le dimensioni dell’Odissea ma è certo che  l’omerida argolico, da  grande conoscitore dell’Odissea, ne attuò la tripartizione anche nell’Iliade.

Secondo l’opinione unanime di antichi e moderni Omero è il maestro dei Greci, e questo era infatti il  principale compito che Omero (e i suoi committenti con lui) s’era prefisso, educare i Greci, o meglio, tutti coloro che parlavano o comprendevano il greco, e tramite essi tutti i popoli del mondo di allora: con il Viaggio d’Odisseo (e poi l’Odissea) a cessare la pirateria marittima (particolarmente contro le coste tirreniche) e osservare le norme del buon commercio, con l’Ira d’Achille (l’Iliade –  a riprova che i Greci non hanno capito Omero –  con la sua violenza gratuita e barbarica mortifica gli intenti omerici) a seguire le norme della cavalleria e combattere le guerre secondo norme di giustizia che avrebbero dovuto costituire il patrimonio comune dell’umanità civile. Più in generale Omero insegnava il galateo, le norme di civile convivenza, la fratellanza fra gli uomini senza distinzione di razza, religione, ceto sociale, e ciò mettendo per scritto assai prima e meglio della civiltà giudeo-cristiana: « L’ospite, il supplice, è come un fratello per l’uomo che abbia anche solo un poco di senno », dice Alcinoo, capo della lega etrusca con sede Tarquinia-Pyrgi a Odisseo nel libro VIII dell’Odissea:« Dodici re gloriosissimi fra il popolo nostro governan sovrani, e io tredicesimo » Od. VIII, 390-391). Tarquinia secondo le fonti (Verrio Flacco, Strabone, Licofrone, ecc.) fu la più antica città etrusca, e città-madre delle altre undici della lega dell’Etruria propria, fondata da Tarconte. Qui fu fondata l’aruspicina da Tagete, in rapporto con Tarconte. Tarconte è troppo affine a Tarkhund/ta ittito-siriano (assimilabile a Zeus folgoratore, il dio dei Feaci) per poterne ignorare l’origine alto-siriana. Qui furono tenacemente conservate le tradizioni del rituale etrusco.

In una parola, Omero ha insegnato a tutti  la civiltà. Ma l’occidente non ha recepito immediatamente Omero. Sono prevalsi gli insegnamenti giudeo-cristiani da Esiodo in poi, fino alla Rivoluzione Francese, da cui data la civiltà occidentale e mondiale attuale. Da allora Omero è amato e studiato con sempre maggiore interesse. Per quel che mi riguarda, in quanto  etrusco, sono orgoglioso di aver riguadagnato alla mia nazione il massimo poeta mondiale.

 

 

 

 

 

Il Viaggio d’Odisseo, il poema divino dell’aristocratica

Tarquinia ‘Signora del Mare’

 

 

L’Odissea, il poema di Odisseo, in latino Ulisse, racconta il ritorno del più importante eroe greco a Troia, quello che con l’inganno del cavallo di legno –  nella cui pancia s’era nascosto coi più valorosi  guerrieri achei –  riuscì a penetrare nelle mura imprendibili di Troia, a spalancarne le porte all’esercito acheo che la saccheggiò e incendiò ponendo fine alla guerra decennale. Conclusa la guerra di Troia gli Achei riprendono  la via del ritorno a casa sulle loro navi cariche di schiavi e oggetti preziosi. L’ultimo a tornare in patria è Odisseo, che dopo due anni di peregrinazioni finisce naufrago nell’isola Ogigia (Sardegna) dove rimane sette anni, fino a che Zeus e gli altri dèi ne decidono il ritorno. Su una zattera riprende il mare e naufraga per volere di Poseidone che l’ha in odio perché ha accecato l’unico occhio a suo figlio Polifemo. Si risveglia nella Scheria dei Feaci (Etruria) che lo riportano a Itaca. Qui i più influenti principi del regno d’Odisseo, in coincidenza con la dichiarabilità di morte presunta  del re, da tre anni dissipano i beni di Odisseo e tengono sotto sequestro la regina Penelope chiedendo che sposi uno di loro trasmettendogli il regno. Questa  li ha ingannati ritardando le nozze col pretesto di tessere il sudario per il re Laerte, ma adesso è messa alle strette e deve decidersi. Odisseo, ormai a Itaca, fingendosi un mendicante, si presenta prima al porcile del fedele  Eumeo, dove si fa riconoscere da Telemaco che era andato a Pilo e Sparta per cercare notizie di suo padre, quindi prepara la strage dei pretendenti, alla latina Proci. Penelope intanto riceve da tutti i pretendenti i doni per le nozze, ma evidentemente questi non sono tali da indurla a scegliere fra loro il suo sposo. Così decide la prova dell’arco di Odisseo. I pretendenti falliscono la prova e ritengono che ciò sia dovuto al fatto che quel giorno era dedicato alla festa di Apollo arciere, per cui  rimandano la prova al giorno successivo. Odisseo con la scusa di voler verificare se ancora le forze gli consentono di tendere l’arco riesce ad averlo in mano. Vince la prova facendo passare la freccia attraverso l’anello di dodici scuri  e uccide i pretendenti con l’aiuto di Telemaco, del porcaro Eumeo e del bovaro Filezio. Si fa poi riconoscere da Penelope grazie alla conoscenza del segreto che circondava la costruzione del loro letto nuziale.

L’Odissea è chiaramente ispirata alla vera storia di Romolo (vedi sul mio sito), principe ereditario di Laurolavinio che, nato e vissuto in clandestinità nei boschi del Palatino con sua madre Lavinia/Rea Silvia e suo padre Tirreno, principe etrusco nascosto sotto la falsa identità  di  Faustolo il porcaro, una volta divenuto maggiorenne diede  con questo e gli altri esuli l’assalto al palazzo di Lavinio, cacciando e uccidendo gli usurpatori stranieri che si rifugiarono ad Alba Longa e laggiù crearono la falsa tradizione dell’origine di Roma da Alba Longa. Anche  Odisseo si nascose presso il fedele porcaro Eumeo prima di uscire allo scoperto uccidendo tutti gli usurpatori.

Omero può aver concepito l’Odissea interamente, ma l’ha realizzata  in due tempi. Scrisse il  Viaggio d’Odisseo, di 4000 versi ca., su commissione del ricco mercante corinzio Demarato della famiglia dei Bacchiadi di Corinto,  stabilitosi a Tarquinia, con cui commerciava,  dopo l’instaurazione della tirannide di Cipselo, nel 657 a. C. (ma probabilmente Demarato dev’essersi stabilito a Tarquinia abbastanza prima di questa data) e fra i responsabili del decollo manifatturiero e commerciale della antica città-stato attraverso il suo porto di Pyrgi. Il mecenate Demarato si autocelebra  dietro al personaggio di re Alcinoo, e celebra suo figlio Lucumone, ovvero, Tarquinio Prisco, quinto re  di Roma (Dion. Hal. III, 46ss), dietro all’amato figlio di Alcinoo Laodamante. Si trattava di celebrare l’inaugurazione del santuario-banca di Ino Leucothea-Ilitia iperborea e celtica a Pyrgi con un poema di levatura internazionale e  di   celebrare la civiltà della ricca Signora dei Mari, Tarquinia, che s’era data un cerimoniale (le cerimonie sono  gli ‘ammaestramenti di Cere’, i rituali) di corte e  un codice di deontologia del mercante – che metteva ovviamente  al bando la pirateria (che un tempo era stata anche degli Etruschi, o meglio dei Protoetruschi, mentre ora era dei Greci, che violavano gli spazi commerciali tirreni)     da cui derivava a sua volta  un  codice umano e morale (vedi Appendice - 2) che andava  al di là della carità nei confronti del prossimo in difficoltà anche solo momentanea, fino a proclamare la fratellanza umana assai prima e meglio di quanto non sia stato lasciato scritto dalla civiltà giudeo-cristiana.

Le Argonautiche di Apollonio Rodio, pur collocando  la capitale di Scheria a Corfù (nella fase di sistematica distruzione dei legami fra i cicli epici etruschi e l’Etruria), vi associano la famiglia dei Bacchiadi (IV, 1206ss). Proprio partendo dalle tradizioni di Efira/Corinto Omero ha individuato il protagonista, il furbo Odisseo, tanto furbo da andare all’Inferno e farvi ritorno, figlio (per alcune tradizioni unico, come tutti i discendenti di Laerte, per altre no, perché il porcaro Eumeo  era stato allevato da Anticlea  insieme alla figlia Ctimène « che ultima partorì tra i suoi figli » Od. XV, 564)  del furbo dei furbi Sisifo (Laerte è un’invenzione posticcia), anch’egli fuggito dall’Ade. Una volta pensato ad Odisseo corinzio era facile riandare ai pirati del continente (Epiro) e delle isole ionie, Tesproti e Tafi, che tagliavano la strada del golfo di Corinto taglieggiando i mercanti che commerciavano con l’Etruria e l’occidente, e dunque collocare fittiziamente Odisseo a Itaca. Come si può immaginare la pacifica e defilata civiltà divina dei Feaci in un ambiente così degradato, dove sul continente (Epiro) vive un re crudele di nome Echeto che ama amputare tutte le sporgenze  alle sue vittime e cui i Proci minacciano di portare Odisseo e Iro? Secondo Omero già Nausitoo, padre di Alcinoo, avrebbe prestabilito l’impianto urbanistico dello scalo di Pyrgi: « di mura circondò la città, fabbricò case, e fece templi ai numi e divise le terre » (Od. VI, 9-10; che la città portuale sia descritta da  Omero nella sua fase di passaggio dal villanoviano all’orientalizzante è evidente da quanto appare a Odisseo: « le lunghe mura, eccelse, munite di palizzata, meraviglia a vederle » Od. VII, 44-45; il porto etrusco di Pyrgi è realizzato all’interno di un canale che lo collega col mare, canale realizzato nell’alveo del fiume cui Odisseo, entrato nelle sue acque, si rivolge pregandolo di portarlo in salvo, Od. V, 441ss), mentre una generazione dopo, intorno al 680 a. C. il personaggio che si nasconde dietro ad Alcinoo inaugurò il santuario di Ino Leucotea (ai margini dell’abitato) e una via Tarquinia-Pyrgi (analoga a quella che alla metà del secolo unirà  Cere-Pyrgi, larga m. 10,80 e percorribile nei due sensi di marcia) percorsa sul “ carro alto, buone ruote, munito di sponde,  tirato da mule ” da Nausicaa e a piedi dallo stesso Odisseo. Ed è certo al momento della sistemazione del porto e  della via Tarquinia-Pyrgi che fu realizzato il primo impianto del santuario di Leucothea. Il  Viaggio d’Odisseo, composto in onore della dea Ino Leucothea, fu cantato da Omero verso il 680 a. C. nella spianata del santuario pirgense. Qui gli archeologi hanno riportato alla luce due santuari dedicati alla dea, il più antico dei quali risale al 500 a. C. ca. ed è affiancato da un edificio di venti cellette che, almeno in origine, può essere stato un thesauròs (deposito di valori) con decorazione acroteriale raffigurante emblemi che in direzione (N)E – (S)O procedevano dal Sole alla Notte, da oriente a occidente, quasi un invito da cartellonistica pubblicitaria (un secolo e mezzo dopo il Viaggio d’Odisseo) ad investire in occidente rivolto ai mercanti orientali.

Intorno al 680 a. C. i corinzi di Tarquinia  tolgono  agli euboici di Ischia il monopolio dei mercati etruschi con l’oriente, provocandone il risentimento e  atti di pirateria in ritorsione di cui abbiamo una eco nel celebre vaso del secondo quarto del VII sec. a.  C. ca. da Cere, con battaglia navale, del ceramografo Aristonothos, e  anche nei poemi omerici, dove  l’ultimo assalto di Poseidone a Odisseo davanti alle acque di Pyrgi parte dal santuario di Ege in Eubea dove fa ritorno subito dopo (Od. V, 365-381) o dove si rammentano attriti di lunga data con gli Euboici, risalenti a quando Radamanto con una nave dei Feaci orientali si recò in Eubea a catturarvi il gigante  Tizio  che aveva offeso Latona madre del Sole e dunque del re Radamanto (Od.  VII, 321-324; XI, 576-581), che in realtà –  vedi l’Apoteosi di Radamanto, sul mio sito –  è un faraone della XVII dinastia tebana, Seqenenra Ta’o II. Di queste battaglie navali (e Omero fu certo anche un uomo di mare – forse perché pur di famiglia nobile per parte di madre dové cercare fortuna come tutti i figli cadetti – e nei suoi poemi sono molteplici le similitudini legate alla vita di mare e ai viaggi: « la dea Era braccio bianco… mosse dalle cime dell’Ida verso l’Olimpo vasto. Come quando si slancia la mente d’un uomo, che molta terra percorse, e pensa nei suoi pensieri sottili “ qui sono stato e qui! ” e molte cose ricorda, così velocemente volò bramosa Era augusta » Il. XV, 78ss) è una eco nella stessa Iliade nello scontro alle navi fra Ettore e Aiace Telamonio dell’omerico libro XV: « marciava a gran passi pei banchi delle navi, brandiva in pugno una pertica enorme, da lotta navale, di ventidue cubiti, fatta di pezzi uniti da anelli » (676ss; vedi ancora i « lunghi pali: ce n’erano pronti sopra le navi, armi navali ben commesse, vestite in cima di bronzo » Il. XV, 388-389). Tarquinia è l’opulenta città mercantile del Tirreno per eccellenza, signora dei traffici con l’oriente come più tardi Venezia sull’Adriatico. La sua talassocrazia nel Mediterraneo (dal Nord-Europa  di cui era intermediaria dell’ambra e dello stagno all’estremo oriente cipriota e siriano dove, ad Al Mina, giungevano i suoi metalli e in particolare il ferro) nel secondo quarto del  VII secolo  è confermata dall’Odissea. Dunque Tarquinia, come a suo tempo Minosse signore dell’Egeo, si propose di sconfiggere la pirateria (cui si aggiungeva ora quella euboica) per rendere sicuri i commerci, e l’Odissea serve anche a questa propaganda (rivolta ai pirati greci; tramontati gli Etruschi, obliato Omero, la storia scritta dai Greci vincitori ha tramandato l’accusa di pirateria rivolta dai Greci agli Etruschi, accusa inconsistente, dato che veniva lanciata dai Greci mentre entravano a commerciare e poi anche a rapinare  nelle acque sotto influenza etrusca) rappresentando la civilizzazione sui mari, come  parallelamente l’Iliade mirava alla civilizzazione sulla terraferma.

Con  l’inaugurazione del santuario-banca di Ino Leucotea a Pyrgi intorno al 680 a. C.,  Tarquinia, a guida corinzia, entra direttamente nella gestione dei traffici mercantili  con Cipro (cf. Od. I, 180ss) e l’oriente, prima monopolizzati dagli Eubei, che evidentemente non la presero bene (iniziando da questo momento una feroce concorrenza sfociante in azioni di pirateria), e nemmeno il  vate di questa terra in declino, il pessimista e bigotto Esiodo (che, forse con la Teogonia,  vinse un tripode nelle commemorazioni di un re di Calcide in Eubea), cui le Muse hanno parlato dicendo: « O pastori, cui la campagna è casa, mala genìa, solo ventre; noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare » (Teogonia, 26ss), in evidente polemica con Omero, il creativo pubblicitario al servizio delle grandi imprese  politico-economiche. Omero non fa storia ma poesia e creazione fantastica seppur verisimile, mentre per il lontano mille miglia  Esiodo la poesia deve avere ad oggetto la verità,  la Teogonia,  la celebrazione (che è anche del libro di Giobbe, il pessimista) del Moloch della religione, che annienta l’uomo più di quanto non lo faccia la difficile età presente del ferro. Anche Omero vive nell’età di Esiodo ma da ottimista che vive nella ricca e in continuo sviluppo Tarquinia fa leva sulle potenzialità umane e canta la libertà e il divino dell’uomo. Se perfino Odisseo, seppur tardi, è tornato a Itaca, una volontà forte consentirà a tutti di raggiungere lo scopo (nell’Ira d’Achille il messaggio è ancora positivo: Ettore è morto ma Achille è diventato un guerriero civile come Ettore; Troia è caduta, ma al suo posto sorgerà l’immortale Roma). Gli dèi contano quanto l’ombra che segue gli uomini; gli uomini attribuiscono loro le proprie debolezze e i propri fallimenti. Qui c’è il pensiero di Marx a proposito della religione.

 

 

3 -  La coppia reale di Tarquinia Alcinoo e Arete sarà stata più o meno simile ai due Sposi  dell’omonimo ‘Sarcofago’,  un’urna  cineraria cerite della seconda metà del VI secolo al Museo di Villa Giulia a Roma.

 

Il Viaggio d’Odisseo viene ritenuto un’appendice dell’Odissea, un momento di riposo nel piano generale del poema, mentre ne costituisce il nucleo centrale. L’azione si concentra nei pochi giorni che Odisseo passa alla corte di Alcinoo e Arete raccontando le sue peripezie da Troia a Scheria. Solo successivamente Omero inserisce la Telemachia nello spazio costituito dai dodici giorni in cui Poseidone, avversario del ritorno d’Odisseo, è assente presso gli Etiopi che gli celebrano dei sacrifici. E’ possibile che questo spazio non sia stato pensato apposta. Certo poi lo ritroveremo nell’Ira d’Achille pari pari con la sostituzione di Zeus a Poseidone. Forse Omero immaginava di inserire qualcosa in questo spazio (gli episodi attuali e antichi che servivano a fare il riepilogo dei precedenti nove anni di guerra?)  analogamente a quello che aveva fatto nell’Odissea (tanto da portare l’Ira d’Achille a 11000 versi come l’Odissea?). In ogni caso l’omerida argolico che ha finito col diventare autore dell’Iliade trovò una soluzione diversa e non ne fece uso.

Dalle prime battute della  Telemachia l’uditorio viene a conoscenza della situazione di estremo disagio in cui versano Telemaco e Penelope sia per l’assenza di Odisseo sia per i soprusi dei pretendenti al matrimonio con Penelope, alla latina Proci; e poi  attraverso la narrazione fatta ai sovrani dei Feaci delle sue disavventure da Odisseo, cosicché all’inizio del libro XIII l’uditorio s’è compenetrato totalmente nella causa di Odisseo e può felicitarsi poi della eliminazione dei Proci. Analogamente all’Ira d’Achille (dove abbiamo l’uccisione di Ettore da parte di Achille finalmente tornato a combattere, dimessa l’ira),  l’uditorio è in continua e ansiosa attesa del protagonista e dell’azione annunciata come principale, lo sterminio dei Proci, e questo è l’unico legame fra due storie  che altrimenti, anche per la tecnica con cui sono narrate, di scorcio il Viaggio e cronachisticamente le vicende a Itaca, rischierebbero di rimanere come due parti separate che  l’unicità del protagonista non sarebbe sufficiente ad unire. L’Odissea è un poema perfettamente riuscito, compiuto e praticamente tutto omerico. E’ anche superiore all’Iliade per l’idea straordinaria che ne è all’origine di un uomo che dall’al di là vien fatto tornare a casa sua per difendere figlio e moglie da una masnada di stranieri invasori. L’idea come vedremo rimane leggibile anche attraverso quello che è stato poi da Omero stesso narrato come un ritorno normale. Attraverso la creazione del mito verisimile (ma mai realmente avvenuto) del Viaggio  d’Odisseo, che era un racconto piacevole  e non un’opera storica, è chiaro, Omero si riprometteva di far risalire ad età eroica la relazione di ospitalità fra Tarquiniati e Greci, quando già Ino Leucothea aveva salvato Odisseo dal naufragio prima in forma di folaga poi nelle vesti di  Nausicaa figlia d’Alcinoo e Arete coppia reale di Tarquinia-Pyrgi che lo avevano fatto ricondurre in patria da una nave feacia. I mercanti greci erano così chiamati a commerciare con l’Etruria ponendo il controvalore sotto la protezione del santuario-banca pirgense di Ino Leucothea, di cui Odisseo aveva già sperimentato la protezione, come della casa regnante tarquiniate che lo aveva ricondotto in patria più carico di ricchezze di quante ne aveva prese a Troia e perdute in mare con nave e compagni. Da questo punto di vista il nocciolo del Viaggio d’Odisseo è l’antica relazione di ospitalità (xeinosúnēs proskēdéos): « Ma prima il nome dirò, ché anche voi lo sappiate, e, finalmente sfuggito al giorno fatale, io sia ospite (xeînos) vostro, pur abitando casa lontano » (Od. IX, 16ss), cui si aggiunge l’offerta, assai discreta, di Alcinoo a Odisseo di dargli in moglie Nausicaa con ricca dote qualora volesse rimanere nella Scheria/Etruria. Alcinoo sa bene che Odisseo non può e non vuole accettare perché la prima cosa che ha chiesto presentandosi a corte (umiliandosi in mezzo alla polvere e alla cenere come Giobbe di fronte a Jahvè, cf. Od. VII, 153-154; Giobbe 42,6) è stata di essere  riaccompagnato a Itaca dove c’è una moglie che lo aspetta da vent’anni. Ma ciò che conta è il pensiero, in quanto i Tarquiniati d’età eroica stabilirono con Odisseo un rapporto di ospitalità tanto forte da corrispondere ad un legame di sangue per via matrimoniale.  I moderni non hanno compreso il nocciolo dell’Iliade e dell’Odissea. Per quanto riguarda l’Odissea, il greco Zoilo di Anfipoli, il più celebre detrattore d’Omero, addirittura si scandalizzava per il fatto che Alcinoo offriva sua figlia Nausicaa  al primo straniero naufragato nudo su una spiaggia del suo regno. Poiché il Viaggio d’Odisseo era scritto – e dunque doveva essere comprensibile –  per i Greci  appare  strano che Zoilo non afferrasse un’idea così semplice come quella dei legami di sangue stretti per via matrimoniale, messaggio ben noto  dalla decorazione fittile del palazzo del tiranno di Murlo (Siena), d’origine siriana e risalente  alla metà del VII sec. a. C. La dea dell’amore e del matrimonio in Grecia era Afrodite e avatara di Afrodite  era Elena –  sposa di Paride troiano e dunque antenato dei Romani – che nell’Odissea dona a Telemaco in visita a Sparta  un peplo da lei stessa ricamato da donare alla sua sposa nel giorno delle nozze (XV, 125ss) e nell’Iliade è definita dea dell’ « opere amabili delle nozze » (V, 429).

Il Viaggio d’Odisseo era composto da circa 4000 versi e comprendeva, grosso modo,  i versi 1-79 del libro I con la dea  Ino Leucothea-Ilitia iperborea (poi sostituita da Atena) che perorava il ritorno di Odisseo nel concilio degli dèi in cui Zeus, approfittando dell’assenza di Poseidone (il Signore della Terra, Potis + Da, che  cinge la terra, Od. IX, 528; III, 55, come Oceano,  principio dei mumi, Il.  XIV, ed è definito dallo stesso Zeus come il dio  più vecchio e  più forte, Od.  XIII, 142; è il siriano Dagan, dio dell’Occidente e del Paese Superiore), contrario perché Odisseo aveva accecato l’unico occhio a suo figlio Polifemo, decideva il ritorno di Odisseo e nel libro V, dal verso 28 in poi, inviava Ermete all’isola Ogigia di Calipso con l’ordine di lasciarlo libero di tornare a Itaca (Ermete ricordava secondo tradizione che Atena era la nemica del ritorno degli Achei e di quello di Odisseo), la partenza  di Odisseo su una zattera e il suo naufragio a Pyrgi,  dove, libro VI, incontrava Nausicaa che lo guidava alla città dei Feaci dove, libri VII e VIII, ospite di Alcinoo (a metà fra il dio del Paradiso e il committente corinzio del Viaggio d’Odisseo) e Arete stabiliva per la prima volta le relazioni di xenìa fra Greci ed Etruschi anticipando quelle attuali  intorno al santuario-banca pirgense di Ino Leucotea e raccontava, libri IX-XII, le sue disavventure marine (frutto di almeno due  tradizioni del viaggio del defunto agli Inferi fuse insieme: c’è la duplicazione di  Polifemo/Lestrigoni, Calipso/Circe); seguiva, vv. 1-187 fino ad ‘altare’ del libro XIII, il suo riaccompagno a Itaca con « quanta ricchezza da Troia mai Odisseo avrebbe preso, se incolume fosse tornato, con la sua parte di preda »  (V, 39-40, XIII, 137ss),  il compimento della profezia di Nausitoo (originario dell’alta Siria e dunque della casta regale dei giganti guerrieri) padre di Alcinoo ed ecista di Pyrgi, secondo cui Poseidone irato coi Feaci perché avevano ricondotto a casa sano e salvo Odisseo, trasforma in scoglio la nave dei Feaci che ritorna ed è già in vista  di Pyrgi « e poi coprirà la nostra città d’un gran monte. Così parlava il vecchio; e questo il dio compirà o lascerà incompiuto, come piace al suo cuore » (Od. VIII, 569ss), tutto ciò per rivelare il nome della città dei Feaci, « il monte Perge dei Tirreni » dove sarebbe sepolto Odisseo (Licofrone, Alexandra, 805; Licofrone, dalla lettura di Omero,  aveva ben chiara la relazione fra Odisseo e Pyrgi). Nausicaa dice che la città è circondata da un muro (pýrgos) alto (Od. VI, 262; ed era questa delle « lunghe mura, eccelse, munite di palizzata, meraviglia a vederle », Od. VII, 44ss, una delle maggiori particolarità di Pyrgi appunto, ‘le Mura’).  La Piccola Odissea terminava dunque  con le « suppliche al sire Poseidone »   dei « principi e i capi della città dei Feaci, ritti intorno all’altare »  dei vv. 185-187 del libro XIII. Scheria non è un’isola, è solo isolata, come emerge dalle parole di Nausicaa: « Viviamo in disparte, nel mare flutti infiniti, lontani… » (Od. VI, 204-205) « dai popoli industri » (completa Omero, Od. VI, 8). M. Pallottino descrive analogamente l’Etruria senza rendersene conto:  L’Etruria fiorisce « in un’area periferica rispetto ai grandi centri di sviluppo di civiltà del Mediterraneo orientale » (Etruscologia, 1985, p. 29), o ancora, « in una zona alquanto appartata dalle grandi rotte dei traffici marittimi mediterranei » (Gli Etruschi, Edizione CDE spa, Milano su licenza RCS Libri spa, 1998, p. 18).

L’Odissea, per quanto unitaria, non è stata composta di getto così com’è da Omero, ma in due momenti, e cioè dapprima il Viaggio d’Odisseo e poi il rimanente. Ancora oggi il Proemio indica  il suo oggetto originario, e cioè il  Viaggio d’Odisseo: « L’uomo ricco d’astuzie raccontami, o Musa, che a lungo errò dopo ch’ebbe distrutto la rocca sacra di Troia; di molti uomini le città vide e conobbe la mente, molti dolori patì in cuore sul mare, lottando per la sua vita e pel ritorno dei suoi. Ma non li salvò, benché tanto volesse, per loro propria follìa si perdettero, pazzi! Che mangiarono i bovi del Sole Iperìone, e il Sole distrusse il giorno del loro ritorno. Anche a noi di’, da un punto qualsiasi, di queste avventure, o dea, figlia di Zeus ».  Nessun cenno alla Telemachia né alla Vendetta sui pretendenti. 

L’Odissea omerica inizia  con un’invocazione alla Musa, ma è evidente dalla lettura del Viaggio  che la vera musa ispiratrice di Omero è Nausicaa  manifestazione della dea  Ino Leucotea/Ilitia del santuario di Pyrgi (Santa Severa), guida e protettrice del Viaggio di Odisseo. La dea s’è dapprima materializzata sotto forma di folaga che  salva Odisseo dal naufragio in vista del santuario, dandogli un magico velo salvagente. Il primo essere umano che Odisseo, nudo, pieno di graffi e sporco di alghe e salsedine, vede al suo risveglio è la giovane bella  e spensierata Nausicaa, la figlia di Alcinoo (figlio di Nausitoo, della casta dei  giganti re e guerrieri della Siria settentrionale ed ecista di Pyrgi)  re attuale di Tarquinia-Pyrgi (e al momento capo della lega etrusca, che periodicamente si spostava nella sede dell’Etruria meridionale di cui era originario il sacerdos – analogo al giudice israelita –  eletto: « Dodici re gloriosissimi fra il popolo nostro governan sovrani, e io tredicesimo » Od. VIII, 390-391) che con le sue ancelle sul ‘carro alto, buone ruote, munito di sponde, tirato da mule’  percorrendo  la  via Tarquinia-Pyrgi, s’è  recata su suggerimento onirico del numen loci  Ino Leucothea (non  Atena, sostituitale in età pisistratide) ai lavatoi presso il fiume a lavare i panni, con la speranza  d’incontrare marito,  ovviamente greco.  La più incantevole figura femminile di Omero è senza alcun dubbio l’etrusca Nausicaa,  in cui il poeta vede la stessa incarnazione del numen loci Ino Leucothea che Omero e Odisseo identificano con Artemide   (che  con Latona è nutrice  di Apollo/Dioniso  e dunque identificabile  con  Ilitia e Juno Lucina; la comune invocazione omerica, ad es. Od. VII, 311, comprende tre divinità, Zeus, Atena, Apollo, che sono le tre divinità greche corrispondenti a quelle del santuario pirgense, Tinia, Uni/Astarte e, secondo le fonti, Apollo): « ella e le ancelle giocarono a palla… e fra loro Nausicàa braccio bianco [leukòlenos, ciò che richiama Leukothèa] il canto intonava. Come va per i monti Artemide urlatrice… godendo di rapide cerve o cinghiali, con lei le ninfe, figlie di Zeus egioco, abitatrici dei campi, scherzano; gode in cuore Letò… così tra le ancelle si distingueva la giovane vergine » (Od. VI, 99ss); « Io mi t’inchino, signora: sei dea o sei mortale? Se dea tu sei, di quelli che il cielo vasto possiedono, Artemide, certo, la figlia del massimo Zeus, per bellezza e grandezza e figura mi sembri… riverenza a guardarti mi vince. In Delo una volta, così, presso l’ara d’Apollo, vidi levarsi un fusto nuovo di palma » (VI, 149ss). Il Cantico dei Cantici (attribuito dalla tradizione a re Salomone), la cui redazione attuale è del V o IV sec. a. C.,  ci offre un verso affine: « La tua statura rassomiglia a una palma » (7,8). Al momento degli addii Nausicaa dice a Odisseo-Omero: « Sii felice, straniero: tornato alla terra dei padri, non scordarti di me, perché a me per prima devi la vita » (VIII, 461ss).  Ciò potrebbe essere un omaggio alla figlia del suo sponsor, la cui gloria,   grazie all’opera di Omero sarà « inestinguibile sopra la terra dono di biade » (VII, 332-333), ma è più probabile che di vera e propria salvezza della vita si tratti, di resurrezione, se poi Odisseo nel giorno di Halloween torna sulla terra fra i vivi a compiere la sua vendetta e a rivedere, foss’anche per l’ultima volta, il figlio e la moglie.  Odisseo le risponde come a dea: « Nausicàa, figlia del magnanimo Alcìnoo, così faccia Zeus, lo sposo tonante d’Era, ch’io arrivi a casa e veda il ritorno. E anche laggiù, come a un dio, a te farò voti, sempre ogni giorno: tu m’hai salvato, fanciulla » (VIII, 464ss). Omero fa di Nausicaa, incarnazione  di Ino Leucothea,  una ben più credibile Musa ispiratrice  di quella probabilmente sostituitale in età postomerica.

 

 

 

L’Odissea, il poema che s’ispirò alla vera storia di Romolo fondatore di Roma

 

 

Il viaggio d’Odisseo nasce non come viaggio vero e proprio ma come viaggio nell’al di là dopo la morte di Odisseo a Troia o da qualche parte durante il viaggio di ritorno a casa. Il cavallo di legno è un’invenzione come tutta la guerra di Troia. Lo stesso Dionisio d’Alicarnasso scrive: « Allorché Ilio fu presa dagli Achei, sia con l’inganno del cavallo di legno, come narra Omero, sia per il tradimento degli Antenoridi, sia anche per un’altra causa… » (I, 46,1) Omero stesso ci dice chiaramente che il cavallo di legno non era affatto indispensabile a Odisseo per entrare a Troia e spalancare nottetempo le porte della città agli Achei: « Maltrattato se stesso con brutte ferite, di vili stracci coperto le spalle, sembrando uno schiavo, nell’ampia città dei nemici riuscì a penetrare, e un altro sembrava, ché aveva nascosto se stesso; sembrava un mendico… io sola lo riconobbi [Elena], anche così conciato, e l’interrogai molte volte: e con astuzia eludeva. Ma quando io lo lavavo e l’ungevo con l’olio, e vesti gli posi addosso e giurai gran giuramento, che non avrei scoperto ai Troiani Odisseo prima che fosse tornato all’agili navi e alle tende, allora tutto il piano degli Achei mi narrò. Poi, dopo ch’ebbe ucciso molti dei Teucri col bronzo affilato, tornò fra gli Argivi e molte  notizie portò » (Od. IV, 244ss). Nel mondo dei morti e degli dèi Odisseo viene a sapere che la madre s’è lasciata morire per il dolore, il padre, più del dovuto invecchiato dalle pene s’è ritirato in campagna, la moglie e il figlio subiscono giorno dopo giorno da quattro anni le angherie dei pretendenti, in casa sua  i suoi beni sono depredati,  la servitù angariata e stuprata, l’ospite e il supplice maltrattati. I pretendenti sono verisimilmente i  Dori o i  ‘popoli del mare’, non certo i principi del regno di Odisseo, che si sarebbero preoccupati di governare l’isola e non di depredarla, come afferma la stessa Penelope: « pretendenti alteri, che su questa casa d’un uomo da tanto tempo lontano piombate a mangiare e bere continuamente, e non poteste trovare nessun pretesto di finte parole, ma solo perché mi fate la corte e mi volete sposare » (XXI, 68ss). Noi troviamo Odisseo nell’isola di Ogigia (Sardegna), regno della ninfa Calipso, sulla riva del mare a piangere e sospirare il ritorno. Ma la preoccupazione vera e propria la troviamo espressa da Telemaco, suo figlio (il che dimostra che la Telemachia si integra perfettamente, forse  fin dall’inizio, nel progetto dell’Odissea) e dagli dèi riuniti a concilio e in particolare dalla dea Atena che fa preciso riferimento all’oppressione dei Proci. Esiste e ancor più esisteva nell’idea omerica originaria un nesso di causalità fra i tormenti di Odisseo e soprattutto  di Telemaco e la decisione degli dèi di intervenire per consentire al morto Odisseo di tornare sulla terra e liberare i familiari dall’oppressione degli usurpatori. E’ in questo stato di fatto che dura da quattro anni che Telemaco –  che ormai più che ventenne, comincia a rendersi conto della gravità delle circostanze ma è ancor giovane e incapace di ribellarsi ai soprusi, circondato da nemici e da qualche amico privo di autorità –  è angosciato di non poter proteggere la madre, la casa e i beni, e si trova in questo stato di intensa eccitazione emotiva prossima allo svenimento da dolore intenso e dunque al sonno e alla morte, più esattamente allo stato di trance, quando  si accorge della presenza di Atena: « La vide per primo Telemaco simile a un dio; sedeva tra i pretendenti, crucciato nell’anima,  sognando il nobile padre nel cuore, se  a un tratto venisse e liberasse da tutti i pretendenti la casa, e riavesse il suo onore e sopra i suoi beni regnasse. Questo, seduto fra i pretendenti, sognava; e vide Atena. Le mosse incontro… » Od. I, 113ss. Rosa Calzecchi Onesti ha tradotto sognando e sognava e ciò rende bene l’idea del desiderio, perché Telemaco non sta di certo dormendo,  estraniato dalla stupida baldoria che lo circonda, concentrato sul suo dolore. Telemaco non ha i poteri straordinari di Odisseo e dei cani, che si accorgono della presenza della dea Atena, Od. XVI, 159ss, il primo  perché è un morto reincarnato, e dunque partecipa dell’essenza divina, i secondi perché hanno particolari poteri paranormali (non è stato il cane Argo il solo ad accorgersi del ritorno  d’Odisseo, pur nelle vesti di vecchio mendicante? Od. XVII, 291ss, mentre non lo riconosce, pulito e rimesso a nuovo, nemmeno sua moglie Penelope?) E’ dunque sostenibile che Telemaco si accorge della dea Atena solo perché il suo stato d’animo è fortemente alterato ed eccitato nello stato più vicino allo svenimento e alla morte, laddove lo spirito, libero dai vincoli della materia, può entrare in contatto con altri spiriti. E’ tale la forza psicologica dell’angoscia di Telemaco da mettere in moto il Cielo affinché Odisseo trattenuto nell’Altro Mondo (in quella  specie di purgatorio diretto da Calipso, dove Odisseo sconta la pena per la sua attività di pirata che ha distrutto città e razziato tesori perdendo alla fine tutto, come Giobbe, gli uomini su cui aveva la responsabilità del comando e i tesori mal guadagnati, affondati a Scilla e Cariddi, e naufragando ad Ogigia nudo come un verme), possa, attraverso il paradiso della terra dei Feaci, ritornare in carne ed ossa per l’ultima volta a Itaca e rendere  giustizia alla moglie e al figlio inermi, violentati per quattro anni da una cricca di predoni. Così la sofferenza intensa di Telemaco coincide con la decisione degli dèi di decidere il ritorno di Odisseo. Per intercessione di Atena nell’Odissea (e di Ino Leucotea-Ilitia iperborea e dunque celtica nel nucleo più antico, sempre omerico, del Viaggio d’Odisseo) Odisseo avrà la possibilità di materializzarsi, al crepuscolo della  magica Halloween, a Itaca, per quel tanto che sarà necessario (cinque giorni, sono stati calcolati dagli esperti di simili questioni) fino  all’eliminazione dei Proci e all’abbraccio con la sposa Penelope, un attimo che forse (ed è qui l’attenuazione del poema triste, come nell’Iliade la riconsegna del cadavere di Ettore da parte di un Achille che da belva umana è diventato finalmente un uomo sensibile e civile come propugnato dalla classe dirigente romana) viene fermato da Atena  nell’eternità.

Odisseo su una zattera parte da Ogigia/Sardegna di Calipso. Ogigia e la Colchide di Circe sono terre magiche (come il Paradiso di Scheria), abitate da  dee che cantano « con bella voce e percorrendo il telaio con spola d’oro », o piuttosto suonano  la cetra? ed hanno come messaggeri gli uccelli, nel mondo celtico i cigni o, se vogliamo, le oche che compaiono in sogno a Penelope, Od. XIX, 535ss, imparentata con Elena, la dea nata dall’uovo di cigno. Ogigia è un omphalòs (Od. I, 50), luogo particolarmente carico di potenziale e di energia sacra, da cui si entra in contatto con i Campi Elisi. Omero l’ha immaginata pensando al giardino dell’Eden con quattro fiumi, con l’albero della scienza del bene e del male e quello dell’immortalità, dove vivono solo Adamo ed Eva e ha creato un’isola Ogigia dal  paesaggio meraviglioso, con quattro fonti, dove vivono solo Odisseo e Calipso, la dea che gli offre l’immortalità tema caro agli orientali fin da Gilgameš (Od. V, 63ss). Siamo ovviamente a dicembre. Fa dunque freddo e nella grotta di Calipso è acceso il fuoco. Il mare è livido e nebbioso. Sarà capitato a molti di notare che quando un grande dolore ci serra la bocca dello stomaco, anche il mondo esterno, foss’anche una splendida giornata di primavera, ci appare triste e buio. La malinconia di Odisseo che vuole tornare a Itaca ma non può che sognarla al di là del lontano orizzonte dalla riva del mare è in perfetta sintonia con questa fredda giornata di dicembre che appunto per questo ci appare ancora più fredda e triste, nonostante il paesaggio sia bellissimo e perfino un dio frettoloso e olimpico come Ermete « a venir qui… doveva incantarsi guardando, e godere nel cuore. Fermo, dunque, ammirava il messaggero Argheifonte » (Od. V, 73ss).

Ma quando Odisseo dopo diciotto giorni di navigazione ed ormai in vista della Scheria, viene investito dalla  tempesta scagliatagli contro da Poseidone (che Omero ha sostituito alla poco poetica Atena), allora dalla malinconia si passa alla tragedia e la morte per annegamento incombe sul protagonista che per qualche giorno se la vede davvero brutta, fino che prende terra miracolosamente alle foci del fiume di Pyrgi, dopo aver  superato l’ « immane scogliera, in un luogo pauroso ».

Odisseo naufraga di notte e si sveglia di giorno sulla spiaggia di Pyrgi (Santa Severa) la città portuale  della  Scheria/Etruria e tramite Ino Leucothea che lo salva dall’acqua e poi la sua incarnazione Nausicaa viene portato di fronte  a quelle divinità che si chiamano Alcinoo e Arete: « appena t’avranno accolto casa e cortile, traversa subito la grande sala e avvicinati alla madre: al focolare siede, nella luce del fuoco, girando il fuso purpureo, meraviglia a vederla, a una colonna appoggiata: dietro le ancelle siedono. Qui, accanto a lei, s’appoggia il trono del padre, che beve il vino seduto, e pare un nume immortale » (Od. VI, 303ss). In realtà i Feaci sono imparentati con gli dèi come i principi della casta dei giganti guerrieri siriani cui si devono i tumuli monumentali dell’orientalizzante etrusco di VIII-VII secolo ricchi di manufatti siro-ciprioti. Qui c’è tutta l’ideologia di origine alto-siriana degli dèi che seguono come ombre, stando poco al di sopra,  i loro regali figli proteggendoli (e a volte perseguitandoli come l’occhio di Jahvè scruta Giobbe o Poseidone  perseguita Odisseo) come le statue acroteriali dai tetti dei palazzi-santuario tipo quello di Murlo, arrivando a vivere solo di vita riflessa, la vita che si svolge sulla terra e che anima la corte olimpica, la cui vita altrimenti sarebbe altrettanto monotona del Paradiso cristiano. Gli dèi omerici in definitiva sono impotenti di fronte a tutto, di fronte al destino  che sono incapaci di mutare e che li sovrasta, di uccidersi fra loro perché sono immortali e dunque le loro baruffe sono sempre ridicole e inutili. Secondo l’occidentale  Omero (« Ah quante colpe fanno i mortali agli dèi! Da noi dicon essi che vengono i mali, ma invece pei loro folli delitti contro il dovuto han dolori » Od. I, 32ss) gli uomini attribuiscono agli dèi solo i propri errori e le proprie colpe, mentre quando agiscono bene imputano ciò solo a sé stessi. Se l’occidente avesse preso fin da subito le orme di Omero (greco-etrusco! E gli etruscologi possono comprendere meglio di tutti quale sorpresa sia Omero in quanto etrusco) e non quelle di Esiodo (greco) o Giobbe (ebraico), la nostra sarebbe oggi una civiltà estremamente più evoluta e civile.  Ad Alcinoo e Arete Odisseo racconta il suo viaggio di ritorno da Troia ad Ogigia. Odisseo ha incontrato nel Mediterraneo orientale popoli antropofagi come Polifemo (che non appartiene in realtà alla casta dei Ciclopi artigiani e metallurgi siriani, anche se dobbiamo situarlo in Siria, bensì a quella dei Centimani agricoltori e allevatori) ingannato dall’astuzia compresa in quel « Nessuno è il mio nome » e i Lestrigoni,  i Lotofagi, che dandoti da mangiare il loro frutto ti fanno dimenticare chi sei, da dove vieni e dove vai,  e animali marini, le Sirene, dai poteri analoghi esercitati attraverso una voce melodiosa e seducente che  ti fanno naufragare fra gli scogli dove le tue ossa si sbiancano al sole (Poteri analoghi ha la maga Circe che con le sue pozioni e la bacchetta magica trasforma i marinai in porci, incanta lupi e orsi e li ammansisce come cagnolini domestici, e che ha un potente avversario nel mago Ermete con la sua erba moly; ma Circe è più assimilabile per la sua funzione alla ninfa Calipso), giganteschi serpenti marini come quello che avvolge con le sue spire Laocoonte e i suoi figli trascinandoli nelle profondità delle acque antistanti Troia, presagio che convince definitivamente i Troiani a far entrare in città l’ex voto come perorato dall’igannatore Sinone, o Scilla e Cariddi/Stretto di Messina, che divora sei compagni di Odisseo, venti cattivi di nome Arpie e venti buoni come Zefiro lasciato libero da Eolo per portare Odisseo in patria,  tutti gli altri  racchiusi in un otre di pecora,  aperto, mentre Odisseo dorme stremato, dai compagni curiosi e irresponsabili,  i prodigi manifestatisi dopo l’uccisione (da parte dei soliti compagni irresponsabili) delle vacche del  Sole di Trinachia/Sicilia (storia originariamente ambientata in Egitto, a Eliopoli nel  Tridente, cioè il delta egizio): « si movevan le pelli, muggivano intorno agli spiedi le carni cotte e crude: come di vacche s’udiva voce » (l’idea di questo episodio proviene forse a Omero da Genesi 15, 9-17), tutte favole  comuni ai popoli dell’antico Mediterraneo, che Omero aveva udito centinaia di  volte da bambino e ha riportato o  creato per analogia da grande, come quella della tela di Penelope, che poi  è il sudario per Laerte, tessuto di giorno e disfatto di notte per ben tre anni e il bello è che c’è voluta la spiata di un’ancella infedele per far capire l’inganno a quelle teste dure di Proci, o quella del Cavallo dentro la cui pancia si nascondono tanti guerrieri, che devono stare zitti perché Elena da fuori, sospettando l’inganno, li invita a rispondere, imitando la voce delle rispettive mogli, e dunque a tradirsi.

 

 

4 - Il cavallo di Troia, dall’Odissea di Franco Rossi per la RAI.

 

 

Ma il Cavallo di Troia non è mai esistito (come Elena, che era un aspetto della dea Afrodite Urania di Ascalona) se non come sepoltura di Odisseo. Secondo Omero Odisseo era stato il vero artefice della caduta dell’imprendibile Troia con il suo stratagemma del Cavallo di legno che aveva posto fine a dieci anni di guerra stremante. Chiunque al posto suo sarebbe andato orgoglioso della sua impresa, che salvò la vita a tanti Achei che viceversa avrebbero ancora bagnato col loro sangue la pianura di Troia per chissà quanto ancora. Mentre ascolta l’aedo tarquiniate, che lui stesso ha invitato a cantare l’impresa del Cavallo, Odisseo scoppia in lacrime « Come donna » che pianga il marito morto per difendere la città, « così Odisseo sotto le ciglia pianto angoscioso versava » Od. VIII, 523ss. Il Cavallo è un sarcofago a forma di cavallo, emblema del re etrusco (animale sacro a Poseidone, alto-siriano Dagan, dio del mare romano, etrusco e troiano: cf. le corse dei cavalli nei ludi saeculares in onore di Poseidone che circonda la Terra -  Consualia - istituiti da Romolo al quarto anno dalla fondazione di Roma nel 753 a. C.,  cui rinviano quelle nei giochi funebri in onore di Patroclo del libro XXIII dell’Iliade; il  santuario di Poseidone  a Pyrgi, la città portuale di Tarquinia e dei Feaci, Od. VI, 266; è infine Poseidone che nel libro XX dell’Iliade salva Enea destinato a regnare sui Troiani nel Lazio), dentro cui vengono poste le ceneri di Odisseo (gli Etruschi praticavano l’incinerazione, al contrario degli Italici e dei Greci che in età omerica praticavano l’inumazione). Il Cavallo sarcofago-navetta, è il veicolo che nella fase del riflusso di marea mette in comunicazione il re druida, frequentatore del santuario pelasgico-celtico di Dodona, con l’Altro Mondo.

Il  viaggio  all’Altro Mondo celtico avviene « sul mare, tranne poche tappe sulla terraferma, tappe che sfidano il buon senso geografico. Per andare all’Altro Mondo e per tornare da esso si segue sempre una rotta marittima. Il passaggio dell’acqua, la lotta contro i marosi, secondo molte testimonianze antiche, sono connessi con tale concezione, che rappresenta la giustificazione mitica del potere dei druidi sull’acqua » (Françoise Le Roux, Christian-J. Guyonvarc’h, I Druidi, ECIG, II Edizione 2000, p. 395). Una lotta di questo tipo è quella di Odisseo contro le forze del mare materializzate nel mostro Scilla e Cariddi, contro cui egli si arma e combatte inutilmente (« vestite l’armi gloriose e due lunghe aste impugnando, sul ponte della nave salii, a prora: di qui m’aspettavo che dovesse mostrarsi Scilla petrosa, prima di massacrarmi i compagni » Od. XII, 228ss). Da Troia a Scilla e Cariddi e isola di Trinacria si ha l’impressione che Odisseo tocchi le tappe successive o i gironi di una specie di Inferno, per poi passare al Purgatorio di Ogigia e al Paradiso di Scheria, concezione diversa  da quella celtica medievale dove « Nessun testo, di nessun tipo, sottende un binomio cielo/inferno secondo cui le anime si dividono seguendo una sorte postuma determinata in base ai meriti o alle colpe della loro esistenza terrena. La nozione di peccato, con il suo retaggio di premi e di punizioni, di perdono e di pentimento, di paradiso e d’inferno, è totalmente ignota: i demoni dell’epoca precristiana, cioè i Fomoire, non compaiono mai nel sid – se non  per una confusione di epoca tarda – donde è bandita ogni bruttura. Non c’è che piacere, gioia e giovinezza senza la minima restrizione. E non c’è nemmeno un purgatorio: il peccato veniale, al pari dell’empietà o del delitto, non esiste. E gli abitanti del sid, anch’essi  divinità, non si preoccupano dell’intercessione dei santi e non hanno mai conosciuto il Diavolo… Nei fatti, non esiste traccia attendibile di un ‘giudizio’ divino nelle credenze celtiche » (Françoise Le Roux, Christian-J. Guyonvarc’h, op. cit., p. 377). Che il Viaggio d’Odisseo, il primo nucleo di 4000 versi, della futura Odissea avvenga nei tre stadi dell’al di là noto alla  tradizione dantesca è confermato dal fatto che servì a inaugurare il santuario-banca di Ino Leucotea-Ilitia iperborea e celtica a Pyrgi e dunque costituì una specie di soap opera per divertire ed invitare i capitalisti ellenofoni a depositare tranquillamente i loro valori a garanzia degli scambi con l’Etruria e Tarquinia in particolare, dato che, scherzosamente, Omero poneva nel Mediterraneo orientale tutti i pericoli per la navigazione mentre superato lo Stretto di Messina a occidente v’erano solo i miti buoi del Sole di Sicilia da lasciar pascolare in pace, la bella ninfa Calipso di Sardegna che voleva sposare il marinaio dandogli in cambio l’immortalità e, dulcis in fundo, il re Alcinoo d’Etruria che gli offriva sua figlia in sposa con la dote o, a scelta, lo riaccompagnava foss’anche agli estremi confini del mondo carico di ricchezze.

Dopo la cena di Resurrezione (prototipo  alto siriano dell’affine cristiano), ad Halloween, la Samain celtica (« Per loro immolò un bove la sacra forza d’Alcìnoo a Zeus nube nera Cronide, che di tutti è signore; e bruciate le cosce, banchettarono glorioso banchetto, giocondi » Od. XIII, 24ss), Odisseo  di notte sale  sulla nave dei Feaci (e le navi dei Feaci sono « rapide come l’ala e il pensiero » Od. VII, 36, « guidate dal pensiero », « sanno da sole il pensiero e l’intendimento degli uomini, e san le città e i pingui campi di tutti, e l’abisso del mare velocissime passano, di nebbia e nube fasciate; mai hanno paura di subir danno o d’andare perdute » Od. VIII, 556ss; si noti la nebbia druidica) che ovviamente sfrutta il riflusso di marea, come le consimili navi della tradizione celtica dirette all’Altro Mondo. Secondo i commenti ad Esiodo di Tzetzes in Procopio Goth. IV, 20: « Sul litorale oceanico che circonda la Bretagna abitano pescatori sudditi dei Franchi… Nel sonno, essi odono attorno alle loro case una voce che li chiama e hanno l’impressione che qualcuno bussi alla loro porta. Si alzano, trovano imbarcazioni straniere piene di passeggeri, salgono a bordo e, in un baleno, giungono in Bretagna con un solo colpo di timone… Laggiù fanno sbarcare gli ignoti passeggeri da loro trasportati. Senza vedere nessuno, odono le voci di coloro che li accolgono… Poi, con un unico slancio, ritornano al loro paese e si accorgono che il loro vascello è alleggerito dal peso di coloro che essi hanno condotto », e ancora Claudiano, In Rufinum I, 123-128: « Là dove si stende la spiaggia più remota della Gallia, c’è un luogo circondato dalle acque dell’Oceano; laggiù – si narra – Ulisse animò con libagioni di sangue il popolo dei morti. Laggiù si ode il tenue soffio delle ombre che volano lamentose. La gente del posto vede partire le pallide schiere dei morti ». Omero aveva ben chiara questa collocazione dell’Altro Mondo. Odisseo da Circe, nella Colchide, sul Mar Nero, si imbarca e navigando a occidente, presumibilmente come gli Argonauti lungo il Danubio e il Reno, « ai confini arrivò dell’Oceano corrente profonda. Là dei Cimmèrii è il popolo e la città, di nebbia avvolti; mai su di loro il sole splendente guarda coi raggi, né quando sale verso il cielo stellato, né quando verso la terra ridiscende dal cielo; ma notte tremenda grava sui mortali infelici » (Od. XI, 13ss), dove entra in comunicazione coi defunti. In Il. VIII, 478ss viene meglio identificato il luogo: gli « estremi confini della terra e del mare, dove Crono e Giapeto, seduti, non dai raggi dell’altissimo Sole, non godono dei venti, ma intorno è il Tartaro fondo ». Secondo Plutarco: « Ogigia è un’isola remota in alto mare, dista dalla Britannia cinque giorni di navigazione, a ovest. Altre tre isole, lontane da tale isola tanto quanto distano l’una dall’altra, sorgono oltre, proprio a nord-ovest. Su una di esse, secondo le leggende dei Barbari, Saturno sarebbe stato imprigionato da Zeus. Sorvegliato da suo figlio, egli dimorava nella più remota, oltre il mare chiamato mare di Crono o di Saturno. I Barbari aggiungono che il grande continente che circoscrive il grande mare dista un po’ meno delle altre isole, è a circa cinquemila stadi da Ogigia; e non vi si può sbarcare se non su imbarcazioni a remi. Nei fatti, le acque consentono soltanto una navigazione lenta » (De facie in orbe Lunae, 26).

Comunque Omero colloca Ogigia in Sardegna e l’Altro Mondo in Etruria (che del resto Esiodo chiama isole sacre  degli illustri Tirreni, Teogonia, 1015-1016; dunque Scheria non è un’isola ma è isolata, eppure nei testi antichi, vedi le isole di Kittim nei testi veterotestamentari più recenti, l’Etruria, la Sardegna e la Sicilia sono tutte insieme considerate le isole dove vivono i popoli italici o i Romani) perché vuole celebrare il santuario pirgense e la dinastia dei mecenati  corinzi di questa città.

Sulla nave dei Feaci che lo riporta a casa nel viaggio notturno « a lui dolce sonno sulle ciglia cadeva, un sonno profondo simile in tutto alla morte » (Od. XIII, 79-80), ciò che appare adatto ad entrare in comunicazione con le divinità e il mondo dei morti. All’alba Odisseo si risveglia a Itaca, dove la seconda parte dell’Odissea comincia con le parole: « E intanto si svegliava Odisseo luminoso, addormentato sopra la terra dei padri » (Od. XIII, 187-188).  L’Odissea è il poema dell’incontro fra il divino e l’umano, dell’invisibile e del  visibile, della notte e del giorno, della tenebra e della luce, del sogno e della veglia. Odisseo viaggia nell’Altro Mondo nel brevissimo tempo che intercorre fra la notte che non è più notte e il giorno che non è ancora giorno. Si incontra con  Penelope a notte fonda e nel breve sonno che si concedono Penelope  ha la sensazione di aver dormito con accanto Odisseo (XX, 88ss) e questo ha avuto l’impressione di udire le parole di Penelope (XX, 92ss) là dove dorme sotto il portico su  rozze pelli di animale: « “ Sì, con me questa notte ha dormito qualcuno identico a lui, qual era quando andò con l’esercito: e dunque il mio cuore godeva, perché non pensavo che fosse un sogno, ma il vero ”. Così diceva, e a un tratto l’Aurora trono d’oro arrivò, e la sua voce piangente sentì Odisseo luminoso; e fu in dubbio un momento, gli sembrò in cuore che lei, già sapendo, accanto al capezzale gli fosse ». E’ in questo momento magico in cui non è più notte e non è ancora giorno che i  morti come Odisseo possono incontrarsi coi vivi come Penelope tanto più quando intenso è il desiderio di comunicare attraverso il pensiero da svegli o il sogno da dormienti. Con l’aiuto soprannaturale degli dèi che lo hanno rimandato sulla terra, Odisseo fa giustizia sui Proci  e libera moglie e figlio dalle loro angherie. Da quando è approdato, di giorno, a Itaca all’abbraccio con Penelope sono trascorsi cinque giorni, come ci informano coloro che hanno studiato a fondo il succedersi dei giorni nei poemi. Quando v’è l’intervento divino sulla terra il tempo non scorre più normalmente e un attimo equivale all’eternità. Ciò è lo stesso per la festa di Samain celtica, che dunque va considerata come un tempo magico al di fuori del tempo umano.  L’abbraccio fra Penelope e Odisseo è struggente, tanto più se si colloca nel contesto da me sostenuto di un incontro che si suppone dovrà avere lo spazio di qualche minuto e l’intensità di un’eternità. Ci aspettiamo infatti che al primo canto del gallo e cioè col sorgere dell’alba come dileguano i fantasmi così Odisseo dovrà tornare per sempre nel Mondo dei Morti. Per scongiurare questa evenienza  non è sufficiente che Atena cerchi di allungare il più possibile l’incontro fra Penelope e Odisseo fermando il carro dell’Aurora, ma il  poema si chiude al verso 246 del libro XXIII lasciandoci la  speranza che per Odisseo e Penelope l’Aurora fermi il suo corso per l’eternità: « basta che il momento preso in esame, all’occorrenza Samain, sia un «periodo concluso», non appartenendo né all’anno che finisce né a quello che inizia, perché gli avvenimenti che vi si verificano sfuggano alle contingenze delle due dimensioni » (Françoise Le Roux, Christian-J. Guyonvarc’h, op. cit., p. 322); a Samain « il contatto tra umano e divino è possibile anzitutto in virtù di una sospensione o di una interruzione del corso del tempo umano » (Françoise Le Roux, Christian-J. Guyonvarc’h, op. cit., p. 324). In ogni caso una conclusione triste è sempre vincente: « e a lui venne più grande la voglia del pianto; piangeva, tenendosi stretta la sposa dolce al cuore, fedele. Come bramata la terra ai naufraghi appare, a cui Poseidone la ben fatta nave nel mare ha spezzato, travolta dal vento e dalle grandi onde; pochi si salvano dal bianco mare sopra la spiaggia nuotando, grossa salsedine incrosta la pelle; bramosi risalgono a terra, fuggendo la morte; così bramato era per lei lo sposo a guardarlo, dal collo non gli staccava le candide braccia. E certo sul loro pianto sorgeva l’Aurora dita rosate, se non pensava altra cosa la dea Atena occhio azzurro: la notte sull’orizzonte allungò, trattenne sopra l’Oceano l’Aurora aureo trono; i cavalli rapido piede non le lasciava aggiogare, che la luce agli uomini portano, Lampo e Faètonte, i due cavalli che l’Aurora trasportano » Od. XXIII, 231-246.

L’Odissea è una favola triste, appena appena temperata da un finale che lascia una via d’uscita alla speranza che l’incontro fra Odisseo e Penelope rimanga fissato nell’eternità. L’idea del poema  Omero l’aveva avuta, io credo, a Pyrgi, dov’era il santuario della dea Iperborea e celtica, ma anche  dov’era un  tumulo che la voce popolare e la tradizione attribuivano a qualche capo pirata etrusco di quelli che erano andati a depredare il delta egizio, che aveva molto viaggiato e conosciuto popoli diversi raccontando poi  le sue avventure al re una volta tornato; o ancora un principe guerriero  straniero quali erano all’inizio gli immigrati orientali siriani anche di lingua greca (cipriota) della casta dei giganti venuto in Etruria e qui rimasto mentre la sposa lo attendeva nella terra d’origine. Ad Omero giovanetto non andava giù che questo straniero fosse morto lontano dalla sua patria e dalla sposa e dal figlio e da ciò gli venne l’idea di ricongiungere i due anche se attraverso l’intervento divino e in via trascendentale. Come che sia  Licofrone mostra di aver compreso più o meno quel che affermo quando localizza la tomba di Odisseo a Pyrgi.  Io credo che  mai Omero avrebbe potuto immaginare una storia più commovente e fantastica di questa sulla base di quel povero tumulo di ‘eroe ignoto’ ai piedi del quale fanciullo si sedè e si addormentò tante volte sognando nella sua Pyrgi.

 

Una scelta dei passi più belli.    Quando ero ragazzo preferivo l’Iliade e ora  che  sono adulto  stravedo   per l’Odissea, anche se l’Iliade rimane bella nella parte direttamente o indirettamente riconducibile a Omero e cioè soprattutto nell’Ira d’Achille. L’Odissea è tutta bella, ma se ne possono ugualmente sottolineare i passi più belli fra i belli. Il libro V  contiene il volo di Ermete all’isola Ogigia di Calipso con l’ordine di Zeus di lasciar partire Odisseo: « non fu sordo il messaggero Argheifonte. Subito sotto i piedi legò i sandali belli, ambrosii, d’oro, che lo portavan sul mare e sulla terra infinita, insieme col soffio del vento. E prese la verga con cui gli occhi degli uomini affascina, di quelli che vuole, e può svegliare chi dorme. Questa tenendo in mano, volò il potente Argheifonte. Sulla Pieria balzato, piombò dal cielo sul mare; e si slanciò sull’onde, come il gabbiano, che negli abissi paurosi del mare instancabile, i pesci cacciando, fitte l’ali bagna nell’acqua salata; simile a questo, sui flutti infiniti Ermete correva. Ma quando arrivò nell’isola lontana, allora, dal livido mare balzato sul lido, andava, finché fu alla grande spelonca, dove la ninfa trecce belle abitava; e la trovò ch’era in casa. Gran fuoco nel focolare bruciava e lontano un odore di cedro e di fissile tuia odorava per l’isola, ardenti; lei dentro, cantando con bella voce e percorrendo il telaio con spola d’oro, tesseva. Un bosco intorno alla grotta cresceva, lussureggiante: ontano, pioppo e cipresso odoroso. Qui uccelli dall’ampie ali facevano il nido, ghiandaie, sparvieri, cornacchie che gracchiano a lingua distesa, le cornacchie marine, cui piace la vita del mare. Si distendeva intorno alla grotta profonda una vite domestica, florida, feconda di grappoli. Quattro polle sgorgavano in fila, di limpida acqua, una vicina all’altra ma in parti opposte volgendosi [qui c’è sicuramente una reminiscenza dell’Eden da cui partono quattro fiumi fra cui il Tigri e l’Eufrate]. Intorno molli prati di viola e di sedano erano in fiore; a venir qui anche un nume immortale doveva incantarsi guardando, e godere nel cuore. Fermo, dunque, ammirava il messaggero Argheifonte » (V, 43ss), alcuni passi riguardanti Calipso: « Maligni siete, o dèi, e invidiosi oltre modo, voi che invidiate alle dee di stendersi accanto ai mortali palesemente, se una si trova un caro marito… Così con me v’adirate ora, o dèi, che mi sia accanto un mortale. Ma io lo salvai, ch’era solo, aggrappato alla chiglia, perché l’agile nave col fulmine abbagliante Zeus gli aveva colpita e infranta nel livido mare. E tutti gli altri perirono, i suoi forti compagni, lui il vento e l’onda spingendolo, gettarono qui. E io lo raccolsi, lo nutrii, e promettevo di farlo immortale e senza vecchiezza per sempre. Ma certo il volere di Zeus egioco non può un altro dio trascurare o far vano: e dunque andrà, se Zeus l’ordine e m’obbliga » (Od. V, 118ss); « Infelice, non starmi più a piangere qui, non sciuparti la vita: ormai di cuore ti lascio partire » (Od. V, 160-161); « Laerzìade divino, accorto Odisseo, dunque alla casa, alla terra dei padri subito andrai? Ebbene, che tu sia felice! » (Od. V, 203ss); Poseidone « Per diciassette giorni navigò traversando l’abisso, al diciottesimo apparvero i monti ombrosi della terra feacia: era già vicinissima, sembrava uno scudo, là nel mare nebbioso. Ma dagli Etìopi tornando il potente Enosìctono, di lontano lo scorse, dai monti Sòlimi: di là lo vide che navigava pel mare, e s’infuriò orrendamente; scotendo la testa, disse al suo cuore: “ Ecco là, certo i numi han cambiato pensiero per Odisseo, mentr’ero in mezzo agli Etiopi: Già s’avvicina alla terra Feacia, dove gli è fato sfuggire al termine grande di pianto che lo minaccia: ma voglio spingerlo ancora a saziarsi di mali ”. Così dicendo radunò i nembi, sconvolse il mare brandendo il tridente, tutti scatenò i tutbini di tutti i venti, e coperse di nubi la terra e il mare; notte venne dal cielo… Allora si sciolsero petto e ginocchia a Odisseo, e disse irato al suo cuore magnanimo: “ O me infelice! Che  ancora mi capita? Temo che tutto vero m’abbia detto la dea, quando diceva che in mare, prima di giungere in patria, il colmo avrei dei dolori: e ora tutto si compie, di tali nembi il cielo ampio incorona Zeus, e il mare ha sconvolto e galoppano i turbini di tutti i venti: ora l’abisso di morte è sicuro per me. O tre e quattro volte beati quei Danai, che allora perirono nell’ampia Troade, in grazia degli Atridi! Così anch’io fossi morto, avessi seguito il destino, il giorno che in folla le lance di bronzo mi scagliavano i Teucri intorno al morto Pelide. Avrei avuto gli onori dei morti e la mia gloria gli Achei vanterebbero. Invece m’era destino di misera morte esser preda ”. Mentre diceva così, gli s’avventò un’onda altissima, con terribile impeto, e fece girare la zattera. Lontano, fuori dalla zattera fu sbalzato e il timone  lasciò andare di mano: in mezzo si spezzò l’albero sotto l’orrenda raffica dei venti lottanti, lontano la vela e l’antenna caddero in mare » (Od. V, 278ss); « Mentre così meditava nell’animo e in cuore, alzò un’onda immane Poseidone Enosìctono, un’onda inarcata, travolgente, terribile, e in pieno lo colse. Come un vento gagliardo disperde un mucchio di pula secca, e quella si sparpaglia qua e là, così si dispersero i tronchi; allora Odisseo montò su un tronco, come chi guida un cavallo da corsa, spogliò le vesti che la lucente Calipso gli diede, il velo rapidamente intorno al petto si stese, e prono in mare saltò, allargando le braccia a nuotare: lo vide il possente Enosìctono, e scosse la testa e disse al suo cuore: “ Adesso erra pel mare così, molte pene soffrendo, finché verrai tra uomini alunni di Zeus. Spero che non potrai lamentarti della tua parte di mali ”. Così dicendo frustò i cavalli belle criniere, e venne ad Ege, dov’è il suo nobile tempio » (Od. V, 365ss). Il libro VI contiene il sogno di Nausicaa mandatole nel Viaggio d’Odisseo verisimilmente dal numen loci Ino Leucotea poi sostituita nell’Odissea da Atena: « Al suo palazzo andò la dea Atena occhio azzurro, a preparare il ritorno per Odisseo magnanimo: e mosse verso la stanza ornata, in cui una fanciulla dormiva, alle immortali simile per aspetto e bellezza, Nausicàa, la figlia del magnanimo Alcìnoo; e vicino due ancelle, che delle Càriti avevan bellezza, di qua e di là dagli stipiti; le porte splendenti eran chiuse. Come un soffio di vento balzò al letto della fanciulla, le stette sopra la testa e le disse parola, sembrando la figlia di Dìmante, nocchiero famoso, che le era coetanea e molto cara al cuore. Quella sembrando, parlò Atena occhio azzurro: “ Nausicàa, così trascurata t’ha fatto la madre? Le vesti vivaci son là in abbandono, e a te le nozze s’appressano, quando bisogna che belle tu stessa ne vesta e n’offra a quelli che devon condurti: per queste cose corre tra gli uomini fama gloriosa, godono il padre e la madre sovrana (pòtnia). Su, andiamo a lavare appena spunta l’aurora; anch’io verrò ad aiutarti; perché tu l’abbia pronte al più presto: non per molto sarai vergine ancora, già ti domandano qui nel paese i migliori di tutti i Feaci, dove tu pure hai stirpe. Ma tu sollecita il padre glorioso, avanti l’aurora, a prepararti le mule e il carro ” » (Od. VI, 13ss). Libro VII: « Cinquanta ancelle erano in casa d’Alcìnoo: alcune con mole poliscono giallo frumento, altre tessono tele e girano i fusi, sedut, simili a foglie d’altissimi pioppi: dalle tele in lavoro goccia limpido l’olio » (Od. VII, 103ss). Libro VIII, il congedo di Nausicaa: « ma Nausicàa, che aveva bellezza per dono dei numi, s’arrestò accanto al pilastro del solido tetto, e stupì d’Odisseo, a vederlo con gli occhi, e gli si volse e disse parole fugaci: “ Sii felice, straniero: tornato alla terra dei padri, non scordarti di me, perché a me per prima devi la vita ”. E rispondendole disse l’accorto Odisseo: “ Nausicàa, figlia del magnanimo Alcìnoo, così faccia Zeus, lo sposo tonante d’Era, ch’io arrivi a casa e veda il ritorno. E anche laggiù. Come a un dio, a te farò voti, sempre ogni giorno: tu m’hai salvato, fanciulla ” » (Od. VIII, 457ss). Libro IX, Polifemo il pastore antropofago. Qui più che il soliloquio fra Polifemo e il suo ariete è bella la descrizione notturna dell’approdo all’isola: « A questo porto arrivammo, e un dio ci guidava, in una notte scura, non c’era un filo di luce; c’era una nebbia fonda intorno alle navi, e la luna non brillava nel cielo, era coperta di nuvole. Nessuno l’isola poteva vedere con gli occhi, nemmeno la lunga risacca frangentesi al lido vedemmo, prima che vi s’appoggiassero le navi bei banchi » (Od. IX, 142ss). Libro XII: Circe indica a Odisseo il percorso per tornare in patria: « Di qua rupi altissime, a picco; battendole, immane strepita il flutto dell’azzurra Anfitrite: “ Rupi erranti ” gli dèi beati le chiamano. Qui neppure gli alati si salvano, non le colombe trepide, che ambrosia a Zeus padre portano, ma sempre anche di quelle una la nuda rupe ne afferra: un’altra il padre ne manda a compiere il numero. Mai scampò nave d’uomini che qui capitasse, ma tutto insieme, carcasse di navi e corpi d’uomini l’onde del mare e la furia d’un fuoco mortale travolgono. Sola riuscì a passarvi una nave marina, quell’Argo che tutti cantano, tornando dal regno d’Eèta: e quella pure il flutto contro le immani rocce scagliava, ma Era la spinse oltre, perché l’era caro Giàsone. E poi i due Scogli: uno l’ampio cielo raggiunge con la cima puntuta: e l’avviluppa una nube livida; e questa mai cede, mai lume sereno la sua vetta circonda, né autunno né estate; né potrebbe mortale scalarlo, né in vetta salire, quand’anche i suoi piedi fossero venti e venti le mani: perché nuda è la roccia, che par levigata. A metà dello Scoglio c’è una buia spelonca, volta verso la notte, all’Erebo: e qui voi dovete drizzare la concava nave, splendido Odisseo. Ma da concava nave un uomo nel fior delle forze con l’arco mirando la grotta cupa, non la potrebbe raggiungere. Là dentro Scilla vive, orrendamente latrando: la voce è come quella di una cagna neonata, ma essa è mostro pauroso, nessuno potrebbe aver gioia a vederla, nemmeno un dio, se l’incontra. I piedi son dodici, tutti invisibili: e sei colli ha, lunghissimi: e su ciascuno una testa da fare spavento; in bocca su tre file i denti, fitti e serrati, pieni di nera morte. Per metà nella grotta profonda è nascosta, ma spinge le teste fuori dal baratro orribile, e lì pesca, e lo scoglio intorno intorno frugando delfini e cani di mare e a volta anche mostri più grandi afferra, di quelli che a mille nutre l’urlante Anfitrite. Mai naviganti si vantano d’averla potuta fuggire indenni sulla nave: ghermisce con ogni testa un uomo, afferrandolo dalla nave prua azzurra. L’altro scoglio, più basso tu lo vedrai, Odisseo, vicini uno all’altro, dall’uno potresti colpir l’altro di freccia. Su questo c’è un fico grande, ricco di foglie: e sotto Cariddi gloriosa l’acqua livida assorbe. Tre volte al giorno la vomita e tre la riassorbe paurosamente. Ah che tu non sia là quando assorbe! Non ti salverebbe dalla rovina neppur l’Enosìctono. Piuttosto lungo lo scoglio di Scilla navigando veloce fa passare la nave, perché è molto meglio piangere sulla nave sei uomini che tutti quanti » (Od. XII, 59ss). Libro XII: Odisseo passa con la sua nave fra Scilla e cariddi: « sul ponte della nave salii, a prora: di qui m’aspettavo che dovesse mostrarsi Scilla petrosa, prima di massacrarmi i compagni: ma in nessun luogo potevo scorgerla, e mi si stancavano gli occhi a scrutare da tutte le parti lo scoglio nebbioso. Così per lo stretto navigavamo gemendo. Da una parte era Scilla, dall’altra la divina Cariddi paurosamente ingoiava l’acqua salsa del mare; ma quando la vomitava, come su grande fuoco caldaia, tutta rigorgogliava sconvolta: dall’alto la schiuma pioveva giù, sulle cime d’entrambi gli scogli. E quando ancora ingoiava l’acqua salsa del mare, tutta sembrava rimescolarsi di dentro, e la roccia rombava terribile; in fondo la terra s’apriva, nereggiante di sabbia. Verde spavento prese i compagni. Guardavamo Cariddi, paventando la fine. E proprio in quel punto Scilla ghermì dalla concava nave sei compagni, i più vigorosi per la forza del braccio. Mi volsi all’agile nave e ai compagni, ma potei solo scorgere braccia e gambe lassù, sollevate nell’aria: mi chiamavan gridando invocando il mio nome – per l’ultima volta –  angosciati. Così il pescatore su un picco, con la lenza lunghissima insidia i piccoli pesci l’esca gettando, butta nel mare il corno di bove selvatico, poi, preso un pesce, lo scaglia fuori guizzante; come guizzavano quelli, tratti su per le rocce. E sulla bocca dell’antro se li divorò, che gridavano e mi tendevan le mani nell’orrendo macello: fu quella la cosa più atroce ch’io vidi con gli occhi, fra quanti orrori ho affrontato, le vie del mare cercando » (Od. XII, 229ss).  Libro XIII: il congedo dalla regina  Arete: « in piedi sorse Odisseo luminoso, e nelle mani d’Arète pose la duplice coppa, e a lei rivolto parole fuggenti parlava: “ Siimi felice, o sovrana, per sempre, finché la vecchiaia venga e la morte, che agli uomini sono comuni. Io me ne vado: e tu, in questo palazzo, godi dei figli, del popolo e d’Alcìnoo sovrano ” » (Od. XIII, 56ss). Il viaggio notturno dei Feaci che riportano Odisseo a Itaca: « come alla nave giunsero e al mare, subito nella concava nave la scorta gloriosa accolse e ripose vesti, cibo e vivanda. E poi per Odisseo stesero panni e lini sul ponte della concava nave, ché dormisse tranquillo, a poppa; allora lui pure salì, e si stendeva in silenzio; essi sedevano sui banchi, a uno a uno, in ordine, e la gomena sciolsero dalla pietra forata: poi piegandosi in avanti, presero a rovesciare il mare col remo; intanto a lui dolce sonno sulle ciglia cadeva, un sonno profondo simile in tutto alla morte. Come nella pianura quattro cavalli maschi balzano tutti insieme a un colpo di frusta, alti rampando, e in fretta compion la via, così della nave s’alzava la poppa, e dietro l’onda del mare urlante spumeggiava sconvolta. Essa correva sicura, diritta; neppur lo sparviero, il nibbio, l’avrebbe seguita, tra i volanti il più rapido. Così correndo veloce, l’onda del mare solcava, portando un uomo che aveva saggezza simile ai numi…  Come la lucentissima stella brillò, che più di tutte annuncia il raggio dell’alba nata di luce, ecco che all’isola già s’accostava la nave marina. C’è un porto, sacro a Forchis, il Vecchio del mare, nell’isola d’Itaca; due punte s’avanzano sporgendo a picco, e la baia proteggono, fuori ne chiudono l’onde immani dei venti violenti; e dentro senza ormeggio rimangono le navi buoni scalmi, quando alla fonda sian giunte. In capo alla baia c’è un olivo frondoso, e lì vicino un antro amabile, oscuro, sacro alle ninfe che si chiamano Naiadi. Dentro anfore stanno e crateri di pietra; e là fanno il miele le api. Telai di pietra vi sono, dove le ninfe tessono manti di porpora, stupore a vederli; e vi sono acque perenni… Qui essi entrarono, ché già sapevan la baia; e la nave corse sopra la spiaggia per metà della chiglia, rapidamente, tanto dal braccio dei rematori gagliardi era spinta. Essi dalla nave bei banchi a terra scendendo, prima Odisseo portarono fuori dalla concava nave… e lo adagiarono sopra la rena, vinto dal sonno: poi le ricchezze sbarcarono, che i Feaci splendidi gli offersero al suo partire… e in mucchio al piede dell’olivo le posero, fuori strada, perché, passando, un viandante non le rubasse, prima che fosse desto Odisseo » (Od. XIII, 70ss). Il Viaggio d’Odisseo termina al verso 187 con ‘altare’. Dell’Odissea è bello quasi tutto. Per quanto riguarda la Telegonia citerei dapprima il seguente passo del libro III: « e quello, in pace, nella vallata d’Argo che nutre cavalli, molto la donna d’Agamennone con parole incantava. E lei prima rifiutava l’orribile azione, Clitemnestra gloriosa: aveva buon sentimento. E l’era vicino il cantore, a cui molto raccomandò, andando a Troia, l’Atride di sorvegliargli la sposa. Ma quando la Moira dei numi irretì Egisto per perderlo, allora condusse il cantore sopra uno scoglio deserto e l’abbandonò, che fosse preda e cibo d’uccelli. E lei volente, volendolo, si portò a casa sua » (Od. III, 263ss). Poi è bello tutto l’episodio di Menelao e Proteo nel libro IV. L’Odissea prosegue dal verso 187 del libro XIII con  Odisseo che si domanda dove sia capitato e dubita dell’onestà dei Feaci: « E intanto si svegliava Odisseo luminoso, addormentato sopra la terra dei padri; e non la conobbe, da tanto era lontano… Per questo tutte le cose sembravano estranee al sire, i lunghi sentieri, i comodi porti, le rocce inaccessibili e gli alberi floridi. Balzò in piedi e là fermo guardava la patria, e ruppe in un gemito e si batteva la coscia a mano aperta, e singhiozzava e diceva: “ O povero me, di che uomini ancora arrivo alla terra? Forse violenti, selvaggi, senza giustizia, oppure ospitali, e hano mente pia verso i numi? E tutte queste ricchezze dove le porto? Dove io stesso andrò errando? Era meglio restar tra i Feaci, laggiù; forse a un altro dei potenti signori sarei venuto. Che m’ospitasse e mi desse accompagno. Ora non so dove mettere i beni, ma certo qui non posso lasciarli, ché d’altri non diventino preda. Ahi, non del tutto giusti e sapienti erano i principi e i capi feaci, che in altra terra m’han fatto condurre: dicevano di volermi guidare a Itaca ben visibile, e non l’han fatto. Ma li punisca Zeus supplice, che tutti vede i mortali dall’alto, e castiga chi pecca. Almeno voglio contare le mie ricchezze e vedere che non sian partiti portandomi via qualcosa nella concava nave ”. Così dicendo, i lebeti e i bellissimi tripodi contava, e l’oro e le belle vesti tessute: ma nulla ebbe a rimpiangere. Solo la patria piangeva, trascinandosi lungo la riva del mare urlante, con molti singhiozzi ». Falso racconto di Odisseo a Eumeo: « [la nave] filava  con vento di Borea bello e gagliardo in alto mare su Creta; ma Zeus a loro preparava rovina. Quando Creta avevamo lasciato, e ormai nessun’altra delle terre appariva, ma solo cielo e mare, ecco livido nembo distese il Cronide sopra la concava nave: s’abbuiò sotto il mare. E Zeus tutt’insieme tuonò e scagliò sulla nave la folgore, tutta girò su se stessa, colpita da Zeus con la folgore; e fu piena di fumo sulfureo: tutti caddero fuori. Quelli come cornacchie in giro alla nave nera furono preda dell’onda, un dio negò a loro il ritorno » (Od. XIV, 299ss).  Il cane Argo: « tali parole fra loro dicevano: e un cane, sdraiato là, rizzò muso e orecchie, Argo, il cane del costante Odisseo, che un giorno lo nutrì di sua mano (ma non doveva goderne), prima che per Ilio sacra partisse, e in passato lo conducevano i giovani a caccia di capre selvatiche, di cervi, di lepri; ma ora giaceva là, trascurato, partito il padrone, sul molto letame di muli e di buoi, che davanti alle porte ammucchiavano, perché poi lo portassero i servi a concimare il grande terreno (témenos méga) d’Odisseo; là giaceva il cane Argo, pieno di zecche. E allora, come sentì vicino Odisseo, mosse la coda, abbassò le due orecchie, ma non poté correre incontro al padrone. E il padrone, voltandosi, si terse una lagrima, facilmente sfuggendo a Eumeo; e subito con parole chiedeva: “ Eumeo, che meraviglia quel cane là sul letame! Bello di corpo, ma non posso capire se fu anche rapido a correre con questa bellezza, oppure se fu soltanto come i cani da mensa dei principi, per splendidezza i padroni li allevano ”. E tu rispondendogli, Eumeo porcaio, dicevi: “ Purtroppo è il cane d’un uomo morto lontano. Se per bellezza e vigore fosse rimasto come partendo per Troia lo lasciava Odisseo, t’incanteresti a vederne la snellezza e la forza. Non gli sfuggiva, anche nel cupo di folta boscaglia, qualunque animale vedesse, era bravissimo all’usta. Ora è malconcio, sfinito: il suo padrone è morto lontano dalla patria e le ancelle, infingarde, non se ne curano. Perché i servi, quando i padroni non li governano, non hanno volgia di far le cose a dovere; metà del valore di un uomo distrugge il tonante Aeus, allorché schiavo giorno l’afferra ”. Così detto, entrò nella comoda casa, diritto andò per la sala fra i nobili pretendenti. E Argo la Moira di nera morte afferrò appena rivisto Odisseo, dopo vent’anni » (Od. XVII, 290ss). I colloqui di Odisseo con Eumeo e Penelope: « Diceva parlando molte menzogne simili al vero e a lei, sentendo, scorrevano lacrime, si scioglieva il suo viso. Come la neve si scioglie su cime di  monti, Euro l’ha sciolta, Zefiro l’aveva ammucchiata; e della neve sciolta, correndo, s’empiono i fiumi: così si scioglievano le sue belle guance nel piangere, nel lacrimare lo sposo, che le era accanto seduto. Odisseo nel cuore aveva pietà della sua donna gemente, ma i suoi occhi eran fermi come il corno e l’acciaio, immoti fra le palpebre: ad arte tratteneva le lacrime » (Od. XIX, 203ss). Il riconoscimento di Odisseo da parte di Anticlea: « intanto la vecchia aveva preso il lebete lucente, per lavare i suoi piedi, e in abbondanza versava acqua fredda, poi aggiunse la calda; Odisseo al focolare sedeva, ma verso il buio si volse di scatto; d’un tratto in cuore gli venne paura che ella toccandolo la cicatrice riconoscesse, e tutto fosse scoperto. Lei, dunque, lavava il suo re, standogli accanto; e davvero la cicatrice conobbe, che gli fece un cinghiale con la candida zanna… Ora la vecchia, toccando la cicatrice con le due mani aperte, la riconobbe palpandola, e lasciò andare il piede. Dentro il lebete cadde la gamba, risomò il bronzo e s’inclinò da una parte. In terra si sparse l’acqua. A lèi gioia e angoscia insieme presero il cuore, i suoi occhi s’empiron di lacrime, la florida voce era stretta. Carezzandogli il mento, disse a Odisseo: “ Oh sì, Odisseo tu sei, cara creatura! E non ti ho conosciuto prima d’aver ttutto palpato il mio re!… ” » (Od. XIX, 386ss e 467ss). L’usignolo: « Come la figlia di Pandareo, il bruno usignolo, soave gorgheggia, al principio di primavera, degli alberi stando tra il denso fogliame; e ogni poco girandosi, versa voce armoniosa, piangendo il figlio, Itilo amato, che un giorno col bronzo uccise, pazza! Itilo, stirpe del sire Zeto; così pure il mio cuore con moti opposti s’agita di qua e di là » (Od. XIX, 518ss). Due similitudini: « Come una cagna, che i teneri cuccioli bada, se non riconosce l’uomo, latra e si tien pronta a combattere, così dentro latrava il suo cuore, sdegnato dalle azioni malvage » (Od. XX, 14ss); « ma lui si voltava da una parte e dall’altra. Come su un gran fuoco ardente un ventriglio ripieno di grasso e sangue di qua e di là gira un uomo e, impaziente, vorrebbe che molto in fretta arrostisse; così da una parte e dall’altra Odisseo si voltava, pensando come poteva gettare le mani sui pretendenti sfrontati, solo fra molti » (Od. XX, 25ss). Le parole rivolte dal  finto accattone Odisseo ai Proci. L’episodio paranormale (uno dei tanti dell’Odissea e del Viaggio) del sangue e del terrore che già aleggia intorno ai pretendenti che ridono avendo gli occhi pieni di lacrime: « Così parlò Telemaco: e fra i pretendenti Pallade Atena inestinguibile riso eccitò, travolse loro la mente. Ridevano allora d’un riso involontario, inconsulto, mangiavano carni insanguinate; ma i loro occhi erano pieni di lacrime, l’animo pianto voleva. Ed ecco tra loro parlò il divino Teoclìmeno: “ Ah sciagurati, che rovina vi tocca? Di tenebra avete fasciate le teste e le facce e, sotto, i ginocchi, il singhiozzo vi brucia, son lacrimose le guance, di sangue sono spruzzati i muri e i begli architravi; d’ombre è pieno il portico, pieno il cortile, che scendono all’Erebo, sotto la tenebra; il sole del cielo s’è spento, fatale è scesa una notte di morte ” » (Od. XX, 345ss; un episodio analogo è il riso, il ghigno degli dèi che combattono nel libro XX dell’Iliade).  Penelope prende l’arco dall’armadio, Od. XXI, 42ss: « come arrivò alla stanza la donna bellissima, e la soglia di quercia salì, che l’artefice levigò ad arte, e la squadrava a livella, e sopra drizzò gli stipiti, vi adattò porte splendenti, subito sciolse rapida la cinghia dell’anello, spinse dentro la chiave e dei battenti allontanò i chiavistelli con un colpo; i battenti muggirono come toro, che pasce nel prato; così sonoro muggirono le porte belle al colpo di chiave, e le si aprirono subito. Allora sull’alto palco salì, dove l’arche stavano, e dentro l’arche vesti odorose. Di lì protendendosi, dal chiodo staccava l’arco con la custodia, che lo fasciava splendente. E seduta per terra, sulle ginocchia tenendolo, piangeva forte, togliendo dalla custodia l’arco del re ». La scenetta comica di  Eumeo che avendo paura non sa a chi deve dare l’arco: « Intanto, preso l’arco ricurvo, già lo portava il porcaio glorioso: e i pretendenti urlavano tutti dentro la sala, e così ripeteva qualcuno dei giovani alteri: “ Dove lo porti l’arco ricurvo, porcaio vigliacco, pazzo? Presto fra le tue scrofe i cani rapidi han da sbranarti, lontano dagli uomini, i cani da te nutriti, se Apollo ci vuol esser benigno, e gli altri numi immortali ”. Così urlavano: e allora posandolo lo lasciò dove stava, atterrito, perché gridavano molti dentro la sala. Ma anche Telemaco dall’altra parte minaccioso gridava: “ Vecchio, portagli subito l’arco: non puoi obbedir bene a tutti. Bada che io non ti cacci in campagna a sassate, pure essendo più giovane: ma sono  anche più forte. Fossi, di quanti pretendenti vi sono in sala, altrettanto più forte di vigore e di braccia; subito malamente ne farei uscir qualcuno di casa nostra, perché male azioni commettono ”. Così diceva; e tutti scoppiarono a ridere forte di lui, i pretendenti, e smisero l’ira violenta contro Telemaco; ma l’arco portando attraverso la sala, il porcaio lo mise in mano al forte Odisseo, standogli accanto » (Od. XXI, 359ss). La prova dell’arco: « già aveva preso l’arco Odisseo, e lo girava da tutte le parti, lo tentava qua e là, se avessero i tarli roso il corno, mentre il padrone non c’era. Allora qualcuno guardando diceva a un altro vicino: “ Certo costui era un esperto, un uomo pratico d’archi. E forse anche lui possiede archi simili in casa, o sta pensando di farsene uno, tanto fra mano sopra e sotto lo gira, il randagio esperto di mali ”. E un altro dei giovani alteri diceva: “ Oh se potessi incontrare altrettanta fortuna quant’è vero che quello riesce a tendere l’arco! ” Così dicevano i pretendenti; e l’accorto Odisseo, all’improvviso, dopo che il grande arco palpò e osservò da ogni parte, come un uomo che è esperto della cetra e del canto, senza fatica tende le corde sui bischeri nuovi, fissando ai due estremi il budello ben torto di pecora, così senza sforzo tese il grande arco Odisseo. Poi con la mano destra pizzicò e provò il nervo, che bene gli cantò sotto, simile a grido di rondine. Ma ai pretendenti strazio grande ne venne, a tutti il colore cambiò. E Zeus tuonò forte per dare il segno; e godette Odisseo costante, glorioso, che gli mandasse un segno il figlio di Crono pensiero complesso. Prese la freccia rapida, ch’era davanti a lui sulla mensa, nuda, l’altre nella faretra capace stavano, e presto gli Achei le dovevan provare; l’arco nel mezzo afferrò, tirò nervo e cocca, dal suo posto, seduto sul seggio, e lasciò andare la freccia mirando dritto: non fallì di tutte le scuri l’anello alto, ma li traversò e ne uscì fuori il dardo greve di bronzo » (Od. XXI, 393ss). Quattro similitudini: « Ma gli altri, come avvoltoi unghie adunche, becchi rapaci, che piombano dai monti, sugli uccelli si abbattono; questi nella pianura si lascian cadere, fuggendo le nuvole, ma gli avvoltoi li assalgono e fanno strage; non c’è riparo ne fuga; godono della caccia anche gli uomini; così quelli sui pretendenti gettandosi in sala, colpivano in cerchio; gemito orrendo saliva dei colpiti nel capo, il suolo fumava tutto di sangue » (Od. XXII, 302ss), « Ma tutti li vide fra il sangue e la polvere, riversi i più, come pesci, che i pescatori in un seno del lido, fuori dal mare canuto hanno tratto con rete dai mille buchi: e là tutti, l’onda del mare bramando, stan sulla sabbia riversi: il sole raggiante toglie loro la vita; così i pretendenti stavano uno sull’altro riversi » (Od. XXII, 283ss), « Trovò dunque Odisseo tra i corpi dei massacrati, sporco di sangue e fango, come leone che torna dall’aver divorato un bove selvatico: tutto il petto e le ganasce da una parte e dall’altra ha insanguinate, è spaventoso a vedersi. Così era sporco Odisseo, le gambe e, sopra, le braccia » (Od. XXII, 401), « e un cavo di nave prua azzurra a una colonna attaccò, lo stese intorno alla grande rotonda, alto tendendolo, perché nessuna coi piedi toccasse la terra. Come quando o tordelle dalle larghe ali o colombe s’impigliano nella rete, che è tesa nella macchia, tornando al nido, e invece orrido amplesso le accoglie; così quelle avevano le teste in fila, al collo di tutte era un laccio, perché nel modo più tristo morissero. E coi piedi scalciavano; per poco, però, non a lungo » (Od. XXII, 465ss). Altra scena comica è quella di cui è protagonista l’araldo Medonte: « “ Fermati, questo innocente non ferirlo col bronzo; anche l’araldo Mèdonte salveremo, che sempre nel nostro palazzo mi proteggeva da piccolo… ” Così diceva, e l’udì Mèdonte dai pensieri sapienti: stava nascosto dietro un seggio e d’una pelle di bove appena scuoiato s’era coperto per sfuggire alla Chera. Subito da dietro il seggio s’alzò, si liberò della pelle, e con un balzo strinse alle ginocchia Telemaco » (Od. XXII, 361ss). L’abbraccio fra Odisseo e Penelope: « scendeva dal piano alto; e il suo cuore molto esitava, se di lontano al caro sposo parlasse, o gli corresse vicino a baciargli il capo e le mani, stringendolo. Ma come entrò, com’ebbe passato la soglia di pietra, si mise a sedere in faccia a Odisseo, nel chiarore del fuoco, presso l’alta parete: lui contro un’alta colonna sedeva, guardando in giù, aspettando se gli direbbe qualcosa la forte compagna, appena lo vedesse con gli occhi. Ma lei muta a lungo sedeva, stupore il petto le empiva; guardandolo, a volte lo conosceva in modo evidente, a volte non lo conosceva, così coperto di cenci » (Od. XXIII, 85ss), « e a lui venne più grande la voglia del pianto; piangeva, tenendosi stretta la sposa dolce al cuore, fedele. Come bramata la terra ai naufraghi appare, a cui Poseidone la ben fatta nave nel mare ha spezzato, talvolta dal vento e dalle grandi onde; pochi si salvano dal bianco mare sopra la spiaggia nuotando, grossa salsedine incrosta la pelle; bramosi risalgono a terra, fuggendo la morte; così bramato era per lei lo sposo a guardarlo, dal collo non gli staccava le candide braccia. E certo sul loro pianto sorgeva l’Aurora dita rosate, se non pensava altra cosa la dea Atena occhio azzurro: la notte sull’orizzonte allungò, trattenne sopra l’Oceano l’Aurora aureo trono; i cavalli rapido piede non le lasciava aggiogare, che la luce agli uomini portano, Lampo e Faètonte, i due cavalli che l’Aurora trasportano » (Od. XXIII, 231ss). Qui, al verso 246, doveva terminare l’Odissea omerica, di circa 11.000 versi (al massimo 11.500 ca.), mentre l’Odissea attuale conta 12.110 versi.

Qualsiasi aggiunta è superflua e qualsiasi finale diverso da questo è un regresso. Per quanto in un contesto probabilmente non omerico è però omericamente riuscito il trasporto delle anime dei Proci all’Ade da parte di Ermete all’inizio del libro XXIV: « Ma Ermete Cillenio chiamava le ombre dei pretendenti; aveva in mano la verga bella, d’oro, con cui gli occhi degli uomini affascina, di quelli che vuole e può svegliare chi dorme; le guidava movendola, e quelle gli andavano dietro squittendo. Come le nottole nel cupo d’un antro divino squittendo svolazzano, quando una cade dal grappolo appeso alla roccia; poi si riattaccano una all’altra; così squittendo l’ombre andavano insieme; le conduceva l’astuto Ermete per putridi sentieri. Giunsero alle correnti d’Oceano e alla Rupe Bianca; e alle Porte del Sole e tra il popolo dei Sogni arrivarono; e presto furono nel prato asfodelo, dove abitan l’ombre, parvenze di morti ». Stesso dicasi del passo seguente: « Poi, quando t’ebbe consumato la fiamma d’Efesto, all’alba raccoglievamo le bianche ossa tue, Achille, in puro vino e unguento: e ci diede la madre un’anfora d’oro… In essa riposano le bianche ossa tue, splendido Achille, miste con quelle del morto Patroclo Menezìade… Sopra quell’ossa, poi, grande e glorioso tumulo versammo, noi sacro esercito dei bellicosi Argivi, su una lingua di spiaggia, verso il largo Ellesponto, perché di lontano fosse visibile, dal mare, agli uomini, quelli che ora vivono e che in futuro saranno » (Od. XXIV, 71ss).

 

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