Alcuni motivi di riflessione

Se chiedessi ad un mio interlocutore di indicarmi quali siano, secondo lui, i pregi della flora ligure, immagino che, per rispondermi, egli ricercherebbe nel suo bagaglio di esperienze visioni di corolle vivacemente colorate, dalle fogge inconsuete o di grandi dimensioni, oppure ricordi di penetranti effluvi, muti evocatori di piccoli lembi nascosti di natura incontaminata.                                                                                    La realtà è ben più complessa. Certo la flora ligure offre mirabili esempi di fiori di elevato pregio estetico: basta osservare l'immagine della peonia, corolle di 10- 12 centimetri di diametro, di un colore variabile dal rosa più tenero al rosso intenso, cui fa riscontro, all'interno, il giallo vivacissimo degli stami. Conosciamo bene, ad esempio, il penetrante odore dell'elicriso, tenace abitatore delle rupi marittime, una miriade di capolini giallicci all'apice di fusti ricoperti da una fitta peluria bianca, un aroma pungente, che ci parla di sole, di mare, di salsedine, di rocce riarse, del caldo rigoglio della natura mediterranea.

Pregi facilmente percepibili da ognuno. Non sempre è così: certi fiori, pur essendo sotto gli occhi di tutti, inviano messaggi troppo sommessi ed oscuri perché chiunque li possa avvertire e decifrare. Presenze discrete ma significative: analizziamone insieme alcune.                                                                                                                            Un ponte ideale, un'unica immensa arcata, lega la Liguria all'Africa del Nord. Trasferiamoci con la mente a Capo Noli, in maggio, ai bordi dell'Aurelia, sfiorati da automobilisti stizziti perché le curve impongono di rallentare l'andatura. Tra i sassi, nelle fessure delle rocce, ed anche in mezzo alla spazzatura abbandonata da persone incivili, decine e decine di fiori blu-violetti, Un convolvolo, una pianta comune e una corolla banale, direbbe un esteta frettoloso: in realtà una tra le presenze più significative nella flora ligure. Il suo nome è vilucchio di Capo Noli; ha un pregio tutto legato alla peculiarità della distribuzione: Marocco, Algeria, Tunisia, Capo Noli, Perché questo abisso di chilometri tra un gruppetto di fiori ed i loro simili? Come è possibile che una piantina nana abbia potuto varcare il Mediterraneo? L'enigma può essere risolto con l'aiuto degli studiosi di paleogeografia.                                            Tra 10 e 7 milioni di anni fa la genesi di una catena montuosa destinata a raccordare tra loro la penisola iberica e l'Africa settentrionale occidentale, isola il Mediterraneo di allora dall'Atlantico. Il nostro mare ha un bilancio idrico passivo (l'evaporazione è più cospicua dell'apporto delle piogge e dei fiumi); lentamente le acque scomparvero: una lunga ghirlanda di terre consentì al nostro convolvolo di sostituire un viaggio di piccolo cabotaggio ad un lunghissimo balzo senza scalo. In seguito, incisa la soglia di Gibilterra dalle onde atlantiche, il ritorno del mare isola la località ligure da quelle nordafricane. La causa di tanta solitudine è tutta qui: le terre emerse che in tempi lontani formavano un ponte lunghissimo ma dalle brevi arcate tra la Liguria e l'Africa del Nord giacciono nuovamente, da qualche milione di anni, sotto le acque indifferenti del Mediterraneo.  La ricerca dei lontani «messaggi dal passato» che alcune piante liguri trasmettono agli osservatori attenti, capaci di recepirne il silenzioso linguaggio, è un impegno affascinante per lo studioso di di fitogeografia ed anche ritengo una meta attraente per gli escursionisti sensibili. 

Osserviamo ora il fiore dell'ofride di Bertoloni, un'orchidea spontanea che vive sugli aridi colli marittimi della regione mediterranea occidentale. Messi sull'avviso, potremmo supporre che questo fiore, con la sua foggia inconsueta, intenda inviarci un messaggio particolare.                                                                                                      In effetti è così. Il «labello», cioé quella sorta di petalo scuro, peloso, che porta incastonata una superficie lucida e riflettente, è un raffinato meccanismo di seduzione, volto a raggirare i maschi di insetti appartenenti al gruppo delle api, delle vespe, dei bombi: certi Imenotteri, insomma.                                                                                  Di fronte a questa apprezzabile imitazione del corpo delle femmine, molti «viveurs» in cerca di avventure galanti non restano indifferenti: giudicando di trovarsi di fronte all'anima gemella anche perché colpiti dalla loro stessa immagine, riflessa dalla parte lucida del labello, essi si posano su quest'ultimo; dopo aver tentato... dì convolare a giuste nozze, si rialzano delusi (e impollinati per bene), pronti a ricascare nell'inganno non appena scoprano nei dintorni un'altra trappola simile: in tal modo trasportano a destinazione il polline, con precisione millimetrica: un servizio postale... a prova di sciopero.                                                                                                                           Il fiore di un'ofride: un concentrato di adattamenti, affinato da una selezione naturale che ha agito, per chissà quante migliaia di generazioni, su esseri oltre a tutto privi di cervello e di organi di senso, e quindi neppure in grado di percepire le fattezze degli insetti da ingannare.                                                                                                         Si potrà obiettare che in fondo questi Imenotteri sono proprio dei semplicioni; ebbene, gli esperti in fitochimica hanno scoperto che le ofridi diffondono nell'ambiente le stesse sostanze chimiche - chiamate «feromoni» - cui fanno ricorso le femmine degli insetti per attirare i maschi: uno straordinario ponte tra il regno vegetale e quello animale, ed un inganno che giunge a livelli inauditi di efficienza e di efferatezza! 

E adesso prepariamoci ad un coinvolgimento emotivo. Bighellonando per paludi e pantani, molto rari, a dire il vero, sui nostri monti, non dovrebbe essere difficile imbattersi in una serie di piantine, le drosére, all'apparenza insignificanti: alte pochi centimetri, sono semplici ciuffi di foglioline trasformate, dette «ascidi», sorta di racchette da pingpong provviste di lunghi manici. La parte slargata di un ascidio appare rivestita da una serie di peduncoli slanciati, provvisti all'apice di una gocciolina simile a nettare gustoso. Si tratta di infide trappole adesive, idonee a catturare piccole ignare prede animali e a digerirle lentamente.

Anche la Liguria ospita piante carnivore: la meno rara è appunto la drosera. Il colore rossiccio assunto dagli esemplari, specie a stagione inoltrata, non deve trarre in inganno: la drosera possiede la clorofilla e si nutre mediante il processo fotosintetico; dato che vive su suoli poverissimi di azoto, è riuscita a elaborare una serie di adattamenti idonei ad utilizzare le carni di vittime animali come fonte per produrre le proprie proteine.                                                                                                           

Una brutta fine, quella delle prede: bloccate senza pietà dal secreto vischioso, vengono digerite lentamente da enzimi che ne sciolgono le membra. Un minuscolo, tacito dramma che si consuma nella totale indifferenza dell'ambiente circostante.

Passiamo ora ad un'immagine lieta: il tripudio della fioritura di una minuscola specie di alta montagna: la sassìfraga a foglie opposte. Per ammirarla dobbiamo trasferirci sulle vette più elevate dell'Imperiese. Una piantina così, per lo specialista, è una sorta di interessante «libro aperto». Valutiamo innanzitutto la sproporzione tra le dimensioni dei fiori e quelle dei fusti e delle foglie, vere miniature. Pensiamo per un momento, in antitesi col gelido mondo delle vette, ad un caldo deserto, arcigno tutore di una flora rada e specializzatissima. Anche qui fiori giganti! Il mondo dell'estremo freddo e quello dell'estremo caldo si toccano, inducendo gli stessi adattamenti.

La spiegazione è semplice: gli ambienti severissimi per la vita tendono ad ospitare ben pochi insetti: le piante hanno l'imperiosa esigenza di attirarli per favorire il trasporto del polline da un fiore all'altro; nel corso dei millenni gli ambienti impietosi hanno operato drastiche selezioni, privilegiando le forme che nel tempo sono giunte a sviluppare apparati fioralí più vistosi. Ecco perché ad esempio la flora alpina pullula di piante che ad un dato momento diventano «tutto fiore»,

Osserviamo quel poco che si puo' notare dei fusticini della sassifraga: un insieme «a pulvino», cioé a cuscinetto, molto aderente al suolo: forma e dimensioni idonee ad assicura re la migliore difesa dalle perdite di acqua e di calore, dall'impeto del vento, dal peso del ghiaccio; un minuscolo concentrato di adattamenti ad alta efficienza contro i rigori di un clima articoalpino. La nostra sassifraga, in effetti, sale sulle Alpi fino a quasi 4000 metri, mentre a nord riesce a spingersi nelle plaghe più settentrionali: Siberia, Alaska, Canada, Scandinavia; sulle estreme coste della Groenlandia giunge addirittura ad appena 7 gradi dal Polo.

A questo punto una domanda è d'obbligo: come ha fatto a finire in Liguria questa sorta di «orso bianco»?

Gli studiosi di paleoclimatologia ci insegnano che nell'ultimo milione di anni per quattro volte regnarono su buona parte della Terra lunghe fasi di gelo, designate col termine di «glaciazioni»; nel nostro emisfero esse imposero a piante ed animali cospicue migrazioni verso sud e verso quote minori. Tra una glaciazione e l'altra l'innalzamento della temperatura porta alla genesi di migrazioni inverse, da parte di forme amanti del caldo. In questo via vai la Liguria costituì un punto di transito obbligato per un gran numero di animali e di vegetali.

Ancora un 20.000 anni fa, era tale la massa d'acqua bloccata sotto forma di ghiaccio sui mari freddi e sulle terre emerse, che il livello del Mar Ligure era allora inferiore di circa 115 metri a quello attuale. Oggi il clima è ben più mite; di conseguenza solo pochi discendenti degli esemplari respinti un tempo verso sud dai ghiacci sopravvivono ancora nella nostra regione: li chiamiamo «relitti glaciali» e ai nostri occhi assumono un significato tutto particolare, come ultime, sperdute vestigia di eventi lontani e drammatici, Il relitto glaciale più significativo della nostra flora è proprio la sassifraga a foglie opposte.Non abbiamo ancora accennato al pregio intrinseco della rarità, cui a volte si somma quello della bellezza. Gli esseri viventi, animali o piante, che sulla Terra si rinvengano solo in un territorio ristretto, vengono chiamati «endemismi» dagli studiosi, Il più prezioso endemismo della nostra flora è una campanula, la campanula a foglie uguali, localizzata nelle immediate adiacenze di Finale Ligure, per lo più sulle rocce di una formazione calcarea chiamata appunto «Pietra di Finale». Inutilmente cercheremmo questa specie in tutto il resto del mondo!

La campanula a foglie uguali deriva da un lontano progenitore, comparso nell'Era Cenozoica, localizzato in un complesso di terre, oggi scomparse nel mare, intermedie tra la Liguria e l'Italia centro-meridionale: lo possiamo dedurre dalla distribuzione dell'unica campanula che risulti imparentata con il nostro endemismo, la Campanula fragilis, diffusa dal Circeo alla Calabria e in Abruzzo. La sommersione di questo territorio porta all'isolamento dei due ceppi estremi e alla nascita di due specie distinte.

Un altro esempio: la presenza di certe piante puo' configurarsi come un pregio nella misura in cui la Liguria sia l'amica regione italiana ad ospitarle. E il caso dell'orchidea aperta, piantina diffusa nelle regioni che delimitano ad occidente il bacino mediterraneo: Francia meridionale, Spagna, Africa del Nord. 1 suoi fiori, fortemente ingranditi, mostrano di non avere nulla da invidiare nell'armonia delle forme - alle pregiate orchidee esotiche, ormai ben note perché coltivate con rara perizia dai floricoltori liguri.

Abbiamo analizzato insieme un piccolo campionario di pregi insiti nella flora ligure e qualcuno avrà forse scoperto realtà insospettate, A quanti approfondimenti del genere puo' fornire lo spunto la nostra flora? Non lo sappiamo e difficilmente potremo essere esaurienti in futuro, dato che il numero dei motivi di interesse è sicuramente assai alto: basta pensare alla cospicua schiera di adattamenti all'ambiente che piante anche comuni presentano.

In pericolo questo patrimonio? Certamente sì, quanto meno in alcune sue componenti. L'uomo ha alterato in modo evidente il manto vegetale della Liguria, soprattutto lungo la fascia costiera, determinando la rarefazione o la scomparsa di singole specie e di intere comunità vegetali. Non è certo questa la sede per analizzare le scelte territoriali del passato: molti «mugugni» sono leciti; si tratta pero' di un tema complesso, che andrebbe sviluppato a fondo, con uno spirito critico ma anche con obiettività ed equilibrio; esso comunque esula dalle finalità di questo libretto,lasciamo al pianificatori territoriali il compito di operare,in futuro scelte lungimiranti in campo ambientale ed affrontiamo argomenti che siano di nostra pertinenza.

Potremmo innanzitutto chiederci quali siano le componenti più pregíate della flora ligure e dove si rinvengano.

Per rispondere a questa domanda trasferiamoci idealmente in una ridente località alpestre, su un verde praticello sovrastato da una rupe verticale: il tappeto erboso è allietato da una miriade di steli fioriti, mentre dalle fessure della roccia si protendono altre piantine, destinate a far cadere in basso i loro semi. Un quadro che induce nel nostro animo una sensazione di pace e di serenità. Se a questo punto ci mettessimo a cercare tra l'erbetta esemplari della sovrastante flora rupestre, non ne troveremmo nemmeno uno. Eppure, ogni anno, i semi di queste piantine cadono nel prato sottostante...

Tanti documentari e film di avventure ci hanno insegnato che nel mondo degli animali pause di tranquillità e di riposo si alternano a combattimenti, violenze e drammi. E tra le piante? Molti avranno un'immagine serena del silenzioso e discreto mondo vegetale: è facile identificare come nemici il clima avverso, la mancanza di acqua, gli animali erbivori, l'uomo stesso. La realtà è più complessa: tra i vegetali esiste una competizione per la luce, lo spazio, l'acqua, che inevitabilmente si conclude con la vittoria delle specie meglio dotate e con la loro espansione progressiva in tutti gli ambienti in cui la vita sia agevole. E le piante «deboli»? Per loro la prospettiva è poco allegra: rassegnarsi a scomparire oppure imparare a sopravvivere in ambienti severissimi, preclusi alle specie «prepotenti», idonei quindi a svolgere un importante ruolo di asilo per forme dotate di modestissime capacità competitive.

Quali sono questi ambienti? In primo luogo le rupi, e poi ghiaioni, pietraie, certe spiagge sabbiose lungo la linea di

costa, certe paludi... Le piante che vi troviamo sono interessanti per due motivi: per il possesso di sofisticati adattamenti, che rendono loro possibile la vita in condizioni estreme, e perché, trattandosi di forme altrove eliminate dalla concorrenza, acquistano inevitabilmente il pregio della rarità o quanto meno quello di una distribuzione molto localizzata.

Concludendo, possiamo dire che gli ambienti severissimi per la vita hanno un grande significato sotto l'aspetto scientifico e culturale e meritano di essere salvaguardati dai rischi di alterazione e di scomparsa.

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