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Sovrappopolazione e sottosviluppo.

La Conferenza del Cairo

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Comandè Marco

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Capitolo 4

Quale futuro

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t) L'immigrazione

 

Il passato: il marchio di Caino

"Disse Caino al Signore: "Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono! Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere". Ma il Signore gli disse: "Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!". Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato. Caino si allontanò dal Signore e abitò nel paese di Nod, ad oriente di Eden". (Bibbia (la), Genesi 4,13-16)
Fin dalla comparsa della nostra prima progenitrice battezzata Eva, l'umanità ha sempre migrato da un luogo all'altro per un qualsiasi motivo. Il percorso delle migrazioni lo abbiamo già seguito in alcuni paragrafi. Riportiamo qui un'informazione enciclopedica dei vari tipi di migrazioni dalla preistoria ad oggi.
Sul quotidiano La Repubblica è riportata l'ultima ipotesi formulata sulle prime migrazioni, formulata da due studiosi Stephen Oppenheimer, pediatra tropicale dell'università di Oxford, e Martin Richards, esperto di genetica evolutiva dell'università di Huddersfield. (Repubblica)
Secondo i due studiosi, la partenza dalla culla della nostra specie (i ritrovamenti dei primi resti umani si concentrano in Africa, specialmente nella Rift Valley) sarebbe avvenuta 80 mila anni fa. I pionieri preistorici, spinti dalla carestia, avrebbero attraversato tutti insieme il Mar Rosso in corrispondenza di quello che oggi è Bab al-Mandeb e sarebbero approdati nello Yemen. Da qui, anziché risalire verso nord fino al Medio Oriente - come ipotizzato fino ad oggi - avrebbero compiuto un percorso molto più lungo e tortuoso. In quell'epoca era infatti in atto una glaciazione e difficilmente i nostri antenati avrebbero potuto attraversare l'arido territorio che divide lo Yemen dal Mediterraneo.
La loro rotta avrebbe puntato piuttosto ad est, in direzione di India e Malesia, dove effettivamente sono stati ritrovati alcuni manufatti risalenti a 74 mila anni fa. Da Timor, fra 70 mila e 60 mila anni fa, gli antichi uomini d'Africa avrebbero compiuto il balzo verso l'Australia. L'ultima tappa, quella verso l'Europa, sarebbe avvenuta solo 50 mila anni fa quando, al termine della glaciazione, Asia e Turchia sarebbero state di nuovo ricoperte di prati e alberi. Anche questa volta la datazione coincide con l'età dei reperti dissotterrati nel nostro continente.
Naturalmente implicito in quest'analisi è il discorso sul nomadismo, necessario per seguire le prede da cacciare. Con l'avvento dell'agricoltura, 12 mila anni fa, i movimenti migratori avrebbero mutato forma. L'agricoltura richiede una vita stanziale nel suolo coltivato, almeno dal periodo della semina fino a quello del raccolto, e pertanto il nomadismo non avrebbe avuto molto senso (ma non sarebbe scomparso del tutto). Sono stati almeno sei i motivi delle migrazioni sotto i vari regimi patriarcali: la desertificazione del suolo (in conseguenza dei metodi agricoli antiquati, "taglia e brucia": par. c), le carestie (il ciclo demografico: par. e), l'aumento della popolazione (Marx: par. e), le guerre (in particolare l'Europa orientale: par. l), la "tratta degli schiavi" (par. o, p), le persecuzioni delle minoranze (l'Irlanda: par. h) e i flussi città-campagna (par. f). Un caso particolare di migrazione è stato quello delle tribù asiatiche verso il continente americano (par. p).
Dalla rivoluzione industriale al 1945 hanno prevalso altri tipi di migrazioni: l'urbanizzazione delle masse contadine (Marx: par. h), l'eccessiva offerta di lavoro in Europa per via del boom demografico ("transizione demografica": par. g, p), gli scambi di popolazioni - manodopera indigena nei Paesi ricchi, imprenditori, burocrati e soldati nelle colonie - in seguito alle conquiste coloniali da parte dell'Occidente bianco e del Giappone (par. g e cap. 3), ancora le guerre moderne (par. g).
Dal 1945 al 1990, le migrazioni sarebbero state molto ridotte per via della Guerra fredda e della crisi petrolifera degli anni '70 (par. h), e sarebbero limitate al solo settore dei rifugiati in seguito alle guerre (cap. 3). L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), organismo fondato nel 1950 allo scopo di gestire la faccenda (a cominciare dai profughi del conflitto mondiale), ha pubblicato, in occasione dei cinquant'anni di attività, un libro che ne ripercorre l'evoluzione attraverso alcuni dei suoi episodi più significativi.
Il mandato fondamentale dell'Unhcr non è mutato dal 1950: gli obiettivi preminenti dell'organizzazione rimangono la protezione dei rifugiati e la ricerca di soluzioni ai loro problemi. Il contesto operativo, però, e il tipo di attività svolta sono molto cambiati in questi 50 anni.
Innanzitutto, sono notevolmente aumentate le dimensioni delle operazioni dell'Unhcr. All'inizio, l'organizzazione si è concentrata sulla ricerca di soluzioni per qualcosa come 400 mila profughi, ancora esuli nei postumi della seconda guerra mondiale. Nel 1996, ha assistito all'incirca 26 milioni di persone. Anche il bilancio e l'organico dell'Unhcr sono considerevolmente aumentati: nel 1951 la dotazione è stata di 300 mila dollari e 33 funzionari; nel 1999, i finanziamenti hanno superato il miliardo di dollari e i dipendenti sono oltre 5 mila. Inoltre, l'Unhcr ha continuamente esteso la dimensione geografica delle proprie attività: nel periodo iniziale, ha operato solo in Europa; alla fine del 1999 ha uffici in 120 Paesi in tutto il mondo. (Unhcr, p. 3)

La situazione attuale e le prospettive per il futuro

All'inizio del nuovo secolo, più di 150 milioni di persone - vale a dire quasi tre esseri umani su cento - vivono in un Paese diverso da quello d'origine; se a queste si aggiungono i "migranti interni", ossia coloro che, all'interno della propria nazione, si sono spostati dalle aree rurali a quelle urbane, il numero complessivo delle "persone in movimento" arriva rapidamente ad un miliardo. Osserviamo queste due tabelle (fonti varie):
Movimenti di persone: alcuni esempi di aree interessate e cause degli spostamenti
 Afghanistan Approssimativamente si ritiene che i rifugiati afgani all'estero siano 2,5 milioni, e i rifugiati interni da 500 mila a 750 mila (le cifre sono precedenti la conquista americana)
 Africa  Circa 5,9 milioni di africani (in Sudan, Ruanda, Sierra Leone, Somalia, Kenya e Liberia) sono rifugiati interni a causa di guerre civili e conflitti etnici.
 Europa orientale Il numero degli immigrati nel resto del continente aumenterà, nei prossimi anni, di 350 mila unità l'anno, per poi scendere a 150 mila nel giro di un decennio.
 Cina Oltre 400 mila persone partono ogni anno per un'altra nazione, mentre la fluttuazione della popolazione dalle aree rurali a quelle urbane è stimata tra i 100 e i 200 milioni.
 India Quasi 50 mila indiani partono ogni anno per andare a vivere, lavorare o studiare in Usa, Canada, Australia o Regno Unito.
 Medio Oriente I 4 milioni di palestinesi costituiscono il gruppo più numeroso di rifugiati.
 Asia orientale 250 mila abitanti di Timor est sono stati costretti ad abbandonare la propria nazione per ragioni politiche; nel 1999 meno della metà ha potuto tornare a casa.
 Stati Uniti e Canada Ogni anno in Nordamerica arrivano circa 1,2 milioni di immigrati nuovi e regolarmente registrati, oltre a migliaia di illegali non documentati.


 Area geografica  Immigrati residenti  Incidenza sulla
popolazione

Unione Europea

di cui Italia

19.351.000

1.250.000

 5,2%

2,2%

Stati Uniti  26.300.000  9,8%
Canada  4.971.000  16,8%
Australia  3.908.000  21,5%
Giappone  1.512.000 1,2%

Sebbene non si tratti di un fenomeno nuovo, l'attuale movimento di persone (volontario o forzato, legale o illegale, all'interno o al di là delle frontiere) non ha precedenti nella storia più recente ed influenza le economie, le culture e l'ambiente tanto nelle nazioni di provenienza quanto in quelle di destinazione. I rifugiati, stimati una cifra intorno ai 50 milioni, sono tra i più motivati a superare le frontiere internazionali, anche se si limitano perlopiù a raggiungere le nazioni confinanti. Nel 1998, secondo la Banca mondiale, 25 milioni di persone hanno dovuto migrare a causa del degrado ambientale, cifra che per la prima volta nella storia supera quella dei rifugiati per motivi di guerra.
I rifugiati costituiscono una minaccia per le aree dove si stabiliscono. La crisi del Ruanda nel 1994, con l'afflusso di oltre 600 mila persone nel nord-ovest della Tanzania, ha causato rilevanti danni ambientali: disboscamento per il rifornimento di legna da ardere e per costruire un riparo, e sconfinamento nelle riserve naturali e avvio di coltivazioni. (Unfpa, p. 36)
Su scala mondiale, ogni anno tra i 700 mila e i 2 milioni di donne e bambini vengono deportati illegalmente in altre nazioni a fini di sfruttamento sessuale; all'interno del crimine organizzato il contrabbando di esseri umani è diventato un'attività altamente professionale, che frutta 7 miliardi di dollari l'anno. I trafficanti forniscono i vari servizi: trasporto, documenti e qualche volta anche il lavoro nel Paese d'ingresso.
Da un punto di vista economico, le migrazioni possono contribuire ad innalzare il tenore di vita non solo per i migranti stessi, ma anche per i familiari rimasti nel Paese d'origine. Le rimesse in denaro, cioè i guadagni che i lavoratori emigrati spediscono a casa alle loro famiglie, sono una parte sempre più importante delle economie delle nazioni in via di sviluppo. Nonostante questi vantaggi, però, le nazioni abbandonate dagli emigranti soffrono una "fuga di cervelli" causata dalla partenza degli elementi migliori della popolazione che vanno a cercare istruzione o lavoro all'estero. (Bologna, p. 88-89)
Le principali caratteristiche della nuova immigrazione verso i Paesi ricchi, non possono venire spiegate adeguatamente sulla scorta degli attuali assunti sulle cause dell'emigrazione. La pressione demografica segnala certamente la possibilità di un aumento dell'emigrazione. Eppure molti Paesi dell'Africa centrale, che sono caratterizzati da una rapida crescita demografica, fanno registrare bassi tassi migratori, mentre altri con tassi di crescita demografica molto più bassi (come la Corea del Sud), o con una densità demografica relativamente modesta (come la Repubblica Dominicana) danno luogo ad ampi flussi migratori.
Neppure la povertà sembra, di per se stessa, una variabile esplicativa molto attendibile. Non tutti i Paesi molto poveri divengono terre d'esodo, e non tutti quelli d'invio sono poveri, come dimostrano i casi della Corea del Sud e di Taiwan. I movimenti su vasta scala in uscita dai Paesi asiatici sono, perlopiù, iniziati soltanto negli anni '60, nonostante molti di questi fossero da tempo afflitti dalla povertà. (Sassen, p. 67)
Altrettanto problematica è la presunta relazione fra stagnazione economica ed emigrazione. L'aumento complessivo dei livelli migratori ha avuto luogo in un periodo in cui quasi tutti i Paesi godevano di una crescita economica piuttosto sostenuta. Durante gli anni '70, i tassi di crescita annua del PNL variavano fra il 5 e l'8 per cento nella maggior parte dei principali Paesi d'emigrazione. (Sassen, p. 68)
Evidentemente bisogna aggiungere altre variabili: la meccanizzazione del sistema agricolo, che spinge molti contadini a fuggire dalla propria terra; la crescente femminizzazione del lavoro industriale (par. r), che aumenta la disoccupazione maschile; i licenziamenti di lavoratori ipersfruttati, che non riescono più a lavorare perché hanno consumato tutte le loro energie; l'investimento estero nella produzione per l'esportazione, che contribuisce allo sviluppo di legami economici, culturali ed ideologici con i Paesi industrializzati (specialmente con gli Stati Uniti).
Molti Stati hanno adottato leggi e politiche specifiche in materia d'immigrazione, in base alle quali gli immigrati sono ammessi attraverso tre "canali" diversi: per il ricongiungimento familiare; per finalità riguardanti l'occupazione, l'istruzione o gli investimenti; per motivi umanitari. Se queste categorie sono chiaramente distinte sulla carta, in realtà le delimitazioni sono tutt'altro che chiare, e le interrelazioni molteplici.
Una donna che fa parte di una minoranza perseguitata, avendo preso la dolorosa decisione di abbandonare la propria casa, opta per l'asilo in un Paese prospero, in cui avrebbe migliori possibilità di mantenersi da sola. Ciò fa di lei una migrante economica? In un Paese dal regime autoritario, un dissidente politico riceve minacce di morte e cerca allora di raggiungere il fratello, emigrato in Canada. È un caso di reinsediamento di un rifugiato o di ricongiungimento familiare? In uno Stato islamico integralista, un programmatore informatico aderisce a una setta considerata eretica, e poi accetta un'offerta di lavoro in Europa. è rifugiato o emigrante a scopo di lavoro? Dopo che il suo villaggio è stato attaccato per la terza volta da una milizia di destra, un piccolo agricoltore indigeno, che produce solo per il consumo familiare, attraversa clandestinamente la più vicina frontiera e trova lavoro in agricoltura. È rifugiato o immigrante illegale?
Nell'esercizio del loro diritto sovrano, difeso a spada tratta, di decidere chi può o non può entrare nel loro territorio, gli Stati moderni sono chiamati ogni giorno a pronunciare simili giudizi. L'unica parte del flusso migratorio sulla quale i governi hanno rinunciato a parte della loro discrezionalità è quella umanitaria, in quanto le parti firmatarie della Convenzione Onu del 1951 sui rifugiati, e/o del Protocollo aggiuntivo del 1967, s'impegnano a non rimandare i rifugiati in un Paese dove rischiano di subire persecuzioni.
Nei Paesi industrializzati, la pressione esercitata sul regime dell'asilo è aumentata a mano a mano che alcuni di loro limitavano o chiudevano completamente gli altri canali di immigrazione legale. Gli Stati europei, per esempio, hanno praticamente posto fine ai regimi ufficiali d'immigrazione a scopo di lavoro, malgrado un netto calo della forza lavoro nata in quei Paesi. I tentativi fatti dai non rifugiati per utilizzare il canale dell'asilo per metter piede legalmente nei Paesi industrializzati sono un fatto reale, ma spesso esagerato. (Unhcr, p. 280-281)
Per il futuro, i flussi migratori dovrebbero seguire lo stesso destino dell'aumento della popolazione: siccome l'aumento è sempre più decrescente, anche i flussi dovrebbero esaurirsi a poco a poco, almeno finché i Paesi di provenienza non avranno completato il processo di modernizzazione politica, economica e culturale.
Nell'Africa subsahariana, come abbiamo visto, il problema dell'emigrazione finora non si è posto a causa della situazione di assoluta povertà e di scarsa formazione educativo-professionale. Ma quando queste popolazioni usciranno dalla morsa della povertà, acquisiranno anche la consapevolezza che "l'emigrazione costituisce una delle poche, se non l'unica speranza di sopravvivenza o di promozione professionale e sociale".
L'influenza dei flussi migratori sui numeri della demografia dovrebbe essere a saldo zero, per il semplice fatto che se la popolazione dei Paesi di provenienza diminuisce, quella dei Paesi d'arrivo aumenta. Però c'è da considerare una serie di fattori che modificano qualitativamente, e per questa via anche quantitativamente, la variabile popolazione.
Un immigrato che si sposta con la moglie, o che si sposa lì con una compaesana o con una del luogo (ad esempio un'italiana), fa più figli rispetto alla media locale (ad es. rispetto agli altri italiani), svolge i lavori umili che nessun italiano accetterebbe, paga la pensione ai tanti anziani (altrimenti il sistema pensionistico sarebbe più deficitario), spedisce parte del proprio salario ai familiari rimasti in patria, i quali vedranno aumentare il proprio benessere e - di conseguenza - faranno più figli, i quali figli - meglio educati - tenderanno a raggiungere il parente in Italia. A poco a poco i figli dell'immigrato riempiranno le scuole italiane impedendo che molte di queste chiudano mandando in prepensione i dipendenti scolastici, assorbiranno la cultura italiana e tenderanno di conseguenza a fare meno figli.
Questa dovrebbe essere la normalità del fenomeno migratorio contemporaneo. Eppure nei Paesi industrializzati si stanno sollevando una serie di obiezioni:
1) Per rimediare all'invecchiamento della popolazione, perché dovremmo rivolgerci agli immigrati? Semmai dovremmo essere noi a fare più figli.
2) Se vengono gli immigrati, sottraggono il lavoro ai giovani disoccupati.
3) Gli immigrati sono degli individui su cui è meglio non fare affidamento, perché la propensione al crimine è per loro una cosa naturale.
4) La cultura di cui questi immigrati sono portatori è incompatibile con la nostra, e può sfociare in scaramucce violente come nel caso della Palestina, oppure può portare alla scomparsa della nostra cultura.
Vediamo di confutare le quattro obiezioni cui sopra:
1) Per un cittadino qualunque, sarebbe normale esprimere preoccupazioni di questo genere, per quanto più o meno infondate possano essere, ma gli imprenditori che sostengono queste opinioni si rivelano ipocriti ed opportunisti. Da un lato questi, in veste di cittadini, vorrebbero che lo Stato arginasse il flusso di immigrati, cosa che provoca un aumento del numero degli immigrati clandestini; dall'altro lato, in veste di imprenditori, assumono questi clandestini (che costano la metà di un immigrato, e quindi i tre quarti in meno di un lavoratore occidentale), incoraggiando così altri stranieri a venire in patria clandestinamente.
2) Gli economisti dovrebbero sapere benissimo, se sono degni del loro mestiere, che fare più figli oggi significa avere più anziani in futuro (stiamo parlando di figli in più rispetto alla norma, e pertanto di pensionati in più rispetto alla norma). Questi anziani incideranno sulle spese pensionistiche e sanitarie, facendo ritardare il rapporto di equilibrio - definito quando ogni lavoratore paga un solo pensionato, e non i 4 attuali. Guarda caso, se nei prossimi decenni dovremo pagare questi quattro pensionati, non è perché facciamo pochi figli oggi, ma perché questi pensionati sono figli della generazione del "baby boom". L'immigrato non crea questi problemi: a lui basterebbe guadagnare il minimo necessario per ritornare in patria in condizioni migliori. La sua pensione sarebbe bassa, e le spese sanitarie a carico dello Stato d'origine che riaccoglierà l'immigrato. Certo, non tutti torneranno in patria, ma curiosamente questo dovrebbe presupporre che la maggioranza degli immigrati non rimpianga il territorio e la famiglia d'origine, al contrario dei nostri emigrati.
3) È strano che se vengono qua gli immigrati non ci sarà lavoro per i giovani, mentre se facciamo più figli il lavoro c'è. In termini numerici, non ha senso: la quota dei giovani in cerca di lavoro è fissa, se fosse fissa anche l'offerta di lavoro, allora nessun eccesso dovrebbe essere sopportato, che siano immigrati o più figli. Ma se l'offerta di lavoro fosse variabile in termini qualitativi, allora dovremmo fare più figli, educarli ad avere ambizioni e poi rimproverarli perché si rifiutano di fare lavori umili, e anche nocivi per giunta.
4) Abbiamo già cercato di dimostrare che non è la cultura in sé a causare problemi, ma solo se questa si associa al altri fattori: altrimenti come farebbero in Sudamerica a coabitare così tante etnie, così tante razze? La cultura è identità di un individuo, di un popolo: se niente e nessuno ostacola la sopravvivenza dell'individuo e del popolo, allora non ci sono motivi per cui quell'individuo diventi autolesionista andando a minacciare gli altri, e subendone le rimostranze. Ma se l'immigrato è fedele alla sua "tradizione" e non alla sua "cultura" - come nel caso di molti musulmani -, allora il problema diventa come convertire questa tradizione in cultura. Correttamente, convincere un immigrato ad accettare i nostri valori significa che anche l'immigrato dovrà fondare le proprie scelte sul denaro e non sulla fede. Eppure, qualcuno osa dire che bisogna "farlo diventare cristiano", "costringerlo a mangiare carne di maiale o di mucca", "pensare solo a lavorare e non a divertirsi". Se davvero "cultura occidentale" fosse sinonimo di "cultura cristiana" e non di "cultura capitalista", allora che staremmo a fare a modernizzare il Terzo mondo quando questo poi ci si rivolterà contro in nome della "cultura araba", della "cultura confuciana", della "cultura tribale"?
5) È vero che gli immigrati sono maggiormente propensi al crimine, ma la causa non è una presunta "predisposizione ereditaria" quanto, più correttamente, una pura necessità di sopravvivenza. Non ha senso che, prima, si rifiuti di aiutare un soggetto che versa in una situazione di grave emergenza e, dopo, ci si lamenti se quel soggetto non trovi altra via che il crimine. E siamo davvero sicuri che sia colpa della modernità se alcuni occidentali preferiscono mangiare a sbafo anziché lavorare produttivamente, e non sia piuttosto una loro libera scelta?
6) Anziché usare il bastone contro l'immigrazione clandestina e la carota degli ingressi temporanei, non sarebbe meglio basarsi sul principio di "buona fede", e permettere così all'immigrato di entrare clandestinamente, di iscriversi ad un ufficio apposito e di soggiornare finché non commette qualche reato (come più o meno accade in Inghilterra), o incentivarlo a tornare in patria quando avrà guadagnato abbastanza? E perché non cercare di ridurre la crescita della popolazione nei Paesi in via di sviluppo, anziché lamentarsi dopo se "fanno figli che non vogliono mantenere"?

Bibliografia:
Bibbia (la), il testo ufficiale della Chiesa cattolica.
Bologna Gianfranco (a cura di), I trend globali 2001, Edizioni Ambiente '01.
Repubblica del 12 aprile 2002, "I nipoti di Eva sbagliarono strada".
Sassen Saskia, Globalizzati e scontenti, Il Saggiatore '02.
Unfpa, Lo stato della popolazione nel mondo 2001, edizione italiana a cura di AIDOS
Unhcr, I rifugiati nel mondo, edizione italiana del 2000.

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